Raccontiamoci

C'ERA LA GUERRA...

Sono nata il 28 dicembre 1944 a Bressa di Campoformido, in provincia di Udine: un comune noto per il trattato di pace del 17 ottobre 1797 tra Napoleone Bonaparte e l’Austria, come testimonia una lapide murata in onore di “Napoleone Magnus”. E’ un paesino di campagna, dove tutti ci si conosceva e ci si aiutava. Vi abito ancora. Quest’anno l’inverno è arrivato piovoso più che mai e la gente se ne sta in prevalenza chiusa intorno al calore del focolare: cosicchè, seduta davanti alla porta d’entrata di casa mia, riscopro pian piano lontane immagini della mia infanzia.

Ricordo il tempo della grande povertà agricola friulana, e dei mestieri, usanze e abitudini di allora. Per ore, a quel tempo, scrutavo il nonno intento a eliminare i parassiti delle piantine di tabacco, affioranti dal terriccio nel semenzaio situato nell’orto a due passi dalla nostra casa; guardavo il nonno con un istintivo bisogno di sapere e d’imparare. Erano tempi di guerra, mancavano due giorni alla mia nascita e mio padre, alpino del III corpo d’artiglieria da montagna in servizio per la patria, grazie ad una licenza di poche ore potè fare una scappata da mia madre. Mentre era in casa, la radio, l’allora famosa Radio Londra, in uno dei brevi intervalli tra un bollettino di guerra e l’altro trasmise una canzone che diceva “Fior d’ogni fiore, Fiorentina mia…”. Non avendo al momento altri nomi per la testa, perché a quel tempo la paura non concedeva nemmeno il tempo di pensare con calma al nome di un figlio, d’accordo con mia madre decisero di chiamarmi Fiorentina. Vi aggiunsero poi Paola, come i discendenti Paolo di famiglia Zuliani.

Purtroppo mio padre, dopo avermi visto solo per pochi giorni a causa dell’incalzare della guerra, dovette ripartire per il fronte lasciando a mia madre il delicato compito di allevarmi. E avevo appena cinque giorni quando divenni protagonista di un episodio davvero emozionante: dopo il primo bombardamento che rase al suolo la città di Udine, le autorità avevano imposto il coprifuoco ed al minimo segnale di pericolo la gente scappava cercando riparo nei rifugi sotterranei. Le grandi bombe lanciate dagli aerei nemici per un raggio di molti chilometri distruggevano tutto. Siccome il mio paese dista solo sei chilometri da Udine, i miei parenti mi misero al riparo nel seminterrato di casa nostra, considerato il più sicuro per la discreta profondità: ma un giorno, mentre i bombardamenti infuriavano con devastante frequenza, i miei parenti, per la fretta in quel momento di confuso fuggi fuggi, si dimenticarono per qualche istante di me e mi lasciarono giù in cantina. Immagino come si sentì mia madre appena se ne accorse, non potendo più venire a prendermi… Mio zio Mario, fratello di mio padre, in servizio anche lui per la patria in quanto a quel tempo tutti gli uomini abili all’arruolamento venivano chiamati, trovandosi al ritorno da una lunga prigionia, appena  affacciatosi sull’uscio di casa si trovò davanti un raccapricciante scenario: il tavolo apparecchiato con la pasta ancora fumante nei piatti ma condita da vetri rotti, pezzi di soffitto e quant’altro si possa immaginare in momenti del genere. Il primo pensiero passatogli per la mente fu che fosse successo qualcosa di terribile proprio alla famiglia poiché una bomba era caduta vicinissimo a casa. Era immerso in questo pensiero quando gli parve di sentire un flebile lamento. Non sapendo di cosa si trattasse, si lasciò guidare da questo richiamo e lo seguì: sbalordito si trovò davanti una gracile bambina; ero io. Mi avvolse in un brandello di coperta e proteggendomi col suo corpo, sotto l’incombere delle bombe mi portò al rifugio, da mia madre a dal resto della mia famiglia.

Come mio padre, anche mio zio Mario era stato reclutato negli alpini a servire la patria e mandato al fronte in prima linea, dove venne fatto prigioniero a Tirana, capitale dell’Albania. Dopo un periodo di permanenza in quel luogo venne trasferito in Germania, nel campo di concentramento di Dachau. I prigionieri venivano messi a dura prova in lavori tanto pesanti che molti vi morivano. Zio Mario, molto bravo e robusto, si accollava parecchi lavori aiutando i suoi compagni e salvandoli a volte da morte sicura. Per la sua bravura fu premiato: il premio consisteva nel fargli indossare il costume dello scià di Persia, e così riuscì a salvarsi dai forni crematori. Scampato al pericolo dei forni fuggì e s’incamminò verso casa percorrendo a piedi e di nascosto chilometri di ferrovia e montagne, nutrendosi con radici e patate selvatiche che raccoglieva strada facendo, e dissetandosi a volte con la sua stessa pipì. Arrivato vicino a Durazzo, una persona, all’apparenza buona, gli mostrò una casa dove restare a riposarsi per la notte dicendogli di non preoccuparsi perché avevano già nascosto altri soldati che erano nei guai. Ma lo zio Mario, reso esperto dalla guerra, non si fidò e prima di coricarsi, senza farsi accorgere, cominciò a curiosare intorno: e sotto il letto dove si doveva coricare vide dei cadaveri. Questo significava che i proprietari della casa erano in realtà nemici; e senza pensarci su, nella notte si calò dalla finestra e fuggì salvandosi ancora una volta.

La guerra era alla fine ma la ritirata non era ancora ultimata, per cui restava molto pericoloso farsi vedere in giro o rispondere a richiami, e ogni persona pensava a salvarsi la vita. Ognuno cercava anche di avere un’arma a portata di mano, come accette, forche e bastoni, per potersi difendere all’occorrenza. Anche la nonna mi raccontò che tenevano in terrazza un grosso sasso che poteva servire contro gli eventuali saccheggiatori. Fu allora che nella notte profonda, quando tutti dormivano si avvertì una strana voce chiamare: “Padrone! Padrone!”. Il nonno si alzò, andò alla finestra e da una piccola fessura vide una persona vestita in strano modo. A quel punto uscì sul terrazzo a prendere quel sasso che sarebbe servito per una eventuale difesa, si guardò intorno e stava per scagliarlo quando lo sconosciuto si fece riconoscere gridando: “Pai! Pai! Papà! Papà! Sono io! Mario!”. Svegliata tutta la famiglia, i nonni increduli scesero per accertare che quell’uomo fosse davvero lo zio, perché ormai lo consideravano disperso. Riconoscendolo, lo strinsero fra le braccia con un pianto liberatorio e fecero festa per tutta la sera.
Lo zio Mario mi voleva molto bene, gli piacevano i bambini e di figli ne ha avuti quattro, che sono i miei attuali cugini. Nel lavoro dei campi andavo con lui e lui diceva che ero il suo “Gastaldo”, cioè il suo paggio. Quando mi succedeva di ferirmi lavorando nei campi o portando a pascolare gli animali, e perdevo sangue, lui mi diceva: “Stringi i denti, vai sotto l’acqua fredda, che ti passa. Cosa vuoi che sia quella cosa lì?”. Credo che il carattere che mi ritrovo e la capacità di sopportare il dolore li devo molto alla sua personalità. Ora egli purtroppo non c’è più.  

A quel tempo comunque imperversava soprattutto una malattia contagiosa: la miseria. Miseria di cibo, di vestiti ed anche di giocattoli. Sì, perché oltre la fame, che ci costringeva a frequente dieta, per noi bambini imperversava pure la miseria di giocattoli: non se ne parlava nemmeno; i miei primi giocattoli furono le bambole di stracci e cartocci sgusciati di pannocchie, e quelle confezionate dalle nonne con vecchi cenci ricavati dai vestiti ormai logorati dal troppo uso perché allora era impossibile comprarli con la stessa facilità d’oggi. Inoltre, c’era il topolino ricavato con fantasia dal fazzoletto, che mi divertivo ad animare immaginandolo correre accanto al focolare, unica fonte di calore attorno alla quale in inverno si riuniva la famiglia. Chi potrà mai dimenticare tutto questo?

Nonostante tanta indigenza era tutto anche molto bello: i bambini giocavano, i grandi parlavano e si raccontavano gli episodi accaduti durante la giornata di lavoro, e impostavano il lavoro per il giorno successivo, oltre a elaborare progetti per la primavera. Parlando di tutto questo riaffiora anche il meraviglioso ricordo di un gioco che mi divertiva moltissimo: sveglia ed attenta osservavo il nonno che, con le canne del granturco, mi costruiva dei bellissimi cavallini. Con i resti di pannocchie, i tutoli (in friulano “çoncui”) m’insegnava a costruire i castelli sovrapponendoli uno sull’altro, ma quando cadevano mi inducevano a sconsolato pianto.  Finalmente un bel giorno, riuscendo a farli star ritti, nei fui tanto orgogliosa da costruirne moltissimi per diversi giorni.

Ma, come tutte le belle cose, anche quest’innocente divertimento non durò molto. A quel tempo il lavoro era tanto importante da non potercisi concedere il lusso di trascurarlo neppure per breve tempo. Era impossibile non lavorare e festeggiare, come oggi, ad ogni piè sospinto: chi non lavorava non mangiava. Quindi anche il contributo dei bambini della mia età era determinante. Fin dall’infanzia ci insegnavano comunque il galateo ed il rispetto per gli anziani della famiglia. Nella mia, si viveva in undici persone, dedite al lavoro, all’onestà ed all’aiuto reciproco. I compaesani soprannominavano “Manzan” la mia famiglia perché il mio trisnonno Giovanni Zuliani sposò Rosa di San Giovanni al Natisone, parrocchia di Manzano. Allora le famiglie si distinguevano anche attraverso i soprannomi, essendo frequenti i matrimoni tra parenti con lo stesso cognome.

In campagna si seguivano naturalmente le stagioni per alternare le diverse colture. Come accennato, il focolare e la stalla erano l’unica fonte di calore nei gelidi e lunghi inverni. La stalla era calda per il semplice fatto che gli animali insieme emanavano tepore, e per lo stallatico che fermentando produceva calore: perciò lì si stava sempre al calduccio.

Nelle case contadine si preparava un dolce particolare: la focaccia (“fujace”), con farina di segale, semi di finocchio, fichi secchi, uva sultanina e farina di mais (“cinquantin”). La nonna lavorava anche il pane con le patate impastate insieme alla farina, che poi versava in stampi a forma di filoni: non vi dico il profumo mentre la pagnotta cuoceva... Nel periodo di Pasqua anche mia madre preparava per la famiglia le buonissime focacce e il saporito pane all’olio. Durante la Settimana Santa e specialmente il venerdì santo non si andava a lavorare in campagna: così la mamma disponeva di tutto il giovedì per preparare dei dolci. Impastava in una grossa terrina gli ingredienti con aggiunta di qualche goccia di alchermes e ne ricavava una pasta solida. Poi con le mani modellava delle palline non eccessivamente grandi, una per ogni componente della famiglia, le copriva bene in uno strofinaccio e le lasciava per delle ore accanto al focolare a lievitare. Quando il lievito aveva esaurito il suo compito, dava forma alle focacce e le infornava. E, quando non bastava per tutte il forno di casa, portava le rimanenti a quello del paese.
In casa avevamo un lungo tavolo e il giorno di Pasqua, quando lo si preparava, come segnaposto per ogni componente della famiglia io mettevo questa focaccia, che era personale e che ognuno poteva quindi portar via per mangiarla quando voleva. Ricordo anche che a casa la mamma preparava dei bianchi d’uovo montati a neve con lo zucchero, raccomandandomi di spennellare queste focacce con una piuma d’oca perché rimanessero lucide e dolci. Ma non era finita: con un cucchiaio, per la troppa golosità, io rastrellavo tutte le terrine impiastricciate dalla preparazione. Che tempi, a pensarci…
                                                                                                                                      (Anonimo)
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