Raccontiamoci

IL FASCINO DEL SACRO E DELLA CONOSCENZA

Dalla torre del campanile della Badia erano appena battute le ore quattro di uno dei tanti caldi pomeriggi d’estate. Suor Maria, poco più di un metro e mezzo di altezza, dalla sua cattedra del laboratorio di ricamo rompeva il silenzio su una cinquantina di bambine ricamatrici concentrate sui loro telai, tese per timore che la burbera suora chiamasse una di loro per controllarle il lavoro e, puntualmente, trovasse qualche difetto per disfarlo. Io, una delle sue preferite forse perché nipote della cara zia Anna, stavo lì dalla mattina e le suore mi davano anche la colazione poiché mia mamma, lavorando dieci ore al giorno alla roccatrice, dove talvolta mi portava, non aveva il tempo di prepararmela.
Mi piaceva trascorrere le giornate “fra le monache”, come mi sottolineava spesso una mia amica ogni volta che non le piaceva qualche mio comportamento poco altruista: “E meno male, cara Monica, che sei cresciuta fra le monache…”. Questa frase mi metteva a disagio, ma quand’ero in quegli “ambienti di chiesa” stavo in pace e mi sentivo bene. 

Mia zia Anna, che abitava con noi e si nutriva anche di stampa cattolica, Bibbia ed esercizi spirituali, decise a un certo punto di entrare nel convento di Santa Caterina dei Ricci, a Prato. Un giorno (io avevo solo sei anni e con la zia dividevo una camera adorna di rosari, crocifissi e santini) lei riunì tutta la nostra famiglia e comunicò la sua scelta ascetica: “Voglio fare la suora di clausura”. Ricordo ancora le reazioni di mia mamma e dell’altra mia zia, che si ritrovarono sole, con la nonna Emilia seminferma da accudire e con un duro lavoro da mandare avanti per dieci ore al giorno. Comunque la scelta della zia Anna venne rispettata, da buona famiglia cattolica praticante quale eravamo. E ogni tanto andavamo a trovarla in convento.

La grande accoglienza delle monache, il mio visino angelico con il vestito da prima comunione che venne appeso in refettorio, il profumo e il fresco delle grandi stanze del convento, l’arredamento austero, i canti delle suore, il colore del rosolio, fecero del monastero uno dei luoghi preferiti della mia infanzia. Il mio nome, Monica, datomi da mio padre, ex seminarista, in onore della madre di Sant’Agostino, divenne un altro buon appiglio alla mia presunta vocazione monastica.

La zia Anna, dal canto suo, tornò ben presto a casa su consiglio dei medici, i quali non ritenevano salutare per lei, figura sempre allegra, esuberante e piena di energie e di appetito, la vita rigida di clausura. Tornò a lavorare alla roccatrice con mia mamma, ma il suo fervore di praticante instancabile aumentò: io la seguivo nelle sue missioni di diffusione della stampa cattolica, nella recita del rosario, nell’andare a trovare i malati, e tutti ammiravano il mio lasciarmi travolgere da questi interessi.

A questa educazione, che il mio animo accolse volentieri anche perché mi metteva su un piedistallo rispetto alle cugine e alle amiche, si mescolava però un’inquietudine di fondo che mi sono portata dietro, con molto orgoglio, per tutta la vita. Le famose domande esistenziali, la tendenza alla riflessione, la sensazione di stare scomoda in tante situazioni, mi hanno accompagnato fin dalle elementari, quando scappavo dalla classe perché non mi piaceva il maestro, oppure scrivevo poesie che neanche i grandi riuscivano a interpretare e le ritrovavo pubblicate a volte sui giornalini della scuola, e soffrivo ad ogni allontanamento da casa soprattutto verso la colonia marina di Calambrone, dove ogni agosto mi mandavano per venti giorni.

Per quattro anni sono andata in quella colonia senza mai fare il bagno: mi vergognavo a spogliarmi sulla spiaggia davanti a tutti gli altri bambini, odiavo il numero che mia zia aveva cucito su mutandine e camiciole, odiavo le divise troppo grandi per me, le camerate, le docce, le zanzare che la notte combattevamo con gli zampironi a spirale, i pomodori e i piselli, la polvere che alzavamo per andare sulla spiaggia, le file per due…Praticamente tutto della colonia mi metteva in uno stato di ansia che ancora oggi provo quando resto al mare per più di qualche giorno. Ma anche nella colonia tutti mi volevano bene e diventai fra l’altro protagonista nella recita della “Carica dei 101”: diventai la Peggy di Calambrone.
Presto scoprii che anche la montagna era un’altra mia passione, come lo erano la corsa e lo studio. Dobbiaco mi ospitò per un “Campo Cresima” a soli nove anni e lì, nonostante la lontananza da casa, mi trovai in un altro ambiente dove ero coccolata e apprezzata. Dobbiaco divenne l’intermezzo di vacanza estiva fra una classe magistrale e l’altra, un periodo in cui mi dedicavo più al corpo che alla mente, e in particolare alle gare podistiche che volevo vincere a tutti i costi. In montagna riscoprivo quel senso di libertà che durante l’anno mi mancava, lo riscoprivo correndo in quelle stradine la mattina presto, quando il sole non aveva ancora diradato la nebbia dei campi e io inzuppavo di guazza scarpe e calzini. Poi mi piaceva tornare a casa o in albergo quando ancora nessuno si era alzato, e sentire il profumo delle brioches e del caffelatte.
Nell’estate del 1981, a soli 16 anni, vinsi la corsa notturna di Dobbiaco. Fu un grande successo e mi fecero festa sia gli italiani sia gli austriaci, Ma, arrivato settembre, lo studio riprendeva a tempo pieno e la scuola dove mi trovavo sembrava fatta su misura per conciliare la mia predisposizione all’introversione. A San Nicolò ritrovavo i sapori del convento conciliati all’attività scolastica, un connubio che accentuò le mie inclinazioni al pensare e ad una vita concentrata. Le suore, nonostante la mia personalità ombrosa e scostante, mi volevano un gran bene. Di amiche invece ne avevo poche, anche perché mi piacevano quelle scapestrate…

Ancora oggi quando passo davanti alla piazzetta di San Nicolò non posso fare a meno di sedermi su una panchina davanti al piccolo cancello, guardare i tigli e pensare a quante volte sono entrata attraverso quel portone, a come sono stati forti e densi quei quattro anni là dentro. Talvolta sono anche entrata dentro il convento e ho ripercorso l’imponente scalinata che porta alle aule, dove lo stesso profumo di antico e di eterno pervade gli immensi corridoi dal pavimento un po’ avvallato ma lucidissimo, le stesse porte, con lo stesso silenzio in cui mi trovavo quando rimanevo a studiare da sola nell’aula di scienze. Nella stanza c’erano allora barattoli con vipere sotto spirito, uno scheletro umano, delle vetrine, e l’enorme cattedra con piano di marmo bianco, freddo come lo sguardo di suor Angela davanti alle versioni di latino.

Dall’apice di sicurezza nelle mie capacità intellettuali passai poi al completo smarrimento nella vita pratica, intervallato da qualche esame universitario in cui potevo riacquistare un po’ di fiducia in me stessa: ma il mondo del lavoro, e in particolare l’insegnamento a scuola, mi facevano ripiombare nell’insicurezza, nell’incapacità di gestire tutte le situazioni. Ero in bilico fra il mio buonismo e il non accettare la mancanza di rispetto da parte dei miei alunni. Vedere dall’altra parte della cattedra mi faceva stare a disagio, invidiavo quelli seduti al banco che potevano permettersi di scegliere se seguire la lezione o fantasticare ancora nei loro universi paralleli: a me era permesso solo fare lezione e stare attenta a che i bambini non si facessero del male.

Ormai insegno[G1]  da venti anni e scopro quanto sia privilegiata nel poter osservare l’evoluzione dell’essere umano, e specialmente le reazioni spesso inaspettate che hanno i bambini ai nostri inputs….Per quanto le elementari mi abbiano costretto a rimanere con i piedi per terra, manco ancora di capacità organizzative: eppure so che la vita senza un orario o un programma da rispettare mi è più pesante. In estate, tempo di vacanza, arrivo spesso alla sera con un senso di vuoto che invece non ho quando vado a lavorare: allora mi butto nella lettura, nello scrivere qualcosa, nello studio di qualche filosofia che mi affascina e mi riporta ai tempi migliori.  Ritorno alle mie origini e mi ritrovo ad ammirare la vita di sant’Agostino, cercando di immaginare chi fosse veramente quella santa Monica che ha inciso tanto nella vita di un grande uomo. Non è difficile capire il successo che ha riscosso in me l’autore delle “Confessioni”: dietro alla mia facciata di combattente stava anche la Monica dei forti sentimenti e delle passioni che cercava di trovare un equilibrio.

Sono arrivata al matrimonio a trentadue anni. Volevo far viaggiare su due binari paralleli le mie passioni e l’idea di una famiglia. Presto ho capito che non ce la potevo fare e a darmi l’allarme sono stati i miei attacchi di panico. Sono arrivata così alla separazione, della quale ancora soffro. Ma, soprattutto dopo la morte di mia madre, mi sono sentita investita di una forza che mi ha fatto tornare la protagonista della mia vita. Mia madre era stata spesso la spalla su cui preferivo piangere ma, inconsapevolmente, le avevo rinfacciato di avermi dato la vita, quella vita che adesso mi ritengo invece fortunata di portare avanti, e che vorrei dedicare più agli altri che a me stessa. Arrivata infatti al mezzo secolo di vita mi sono accorta che nel panorama della esistenza più matura si mettono a fuoco cose che precedentemente apparivano di minor rilievo.
Sacrificare l’amore e la dedizione completa ai figli e agli altri nella rincorsa alla propria realizzazione è stato un errore, ma sono riuscita a riacquistare il senso della vita che tutti cerchiamo, e che per alcuni passa attraverso trame intricate che spesso la ragione non può capire del tutto. Allora mi risiedo e, dalla collina del mio mezzo secolo di vita, ammiro l’orizzonte più terso e oltre le nuvole voglio sperare che domani sia un giorno migliore di oggi.
                                                                                                                                                         (Anonima)
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 [G1]Ai i


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