Scuola e vita

LETTERA DI SALUTO AI MIEI STUDENTI

Adele è una cara amica che da poco ha deciso di lasciare il mondo della scuola per raggiunte condizioni previdenziali: la inattesa dura esperienza personale legata al covid le ha suggerito di non attendere oltre per la sua quiescenza  ma non le ha scalfito lo spirito di missione con cui ha sempre vissuto il suo lavoro: spirito che dedica ora con uguale intensità alle attività che svolgerà fuori della scuola. Lo spiega nella “lettera di saluto agli alunni” facendone la sua ultima lezione preziosa e coerente di vita.

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La vita ci riserva tante sorprese, a volte belle ed a volte brutte. Il Covid mi ha colpita molto duramente al punto di essere in pericolo di vita e dover andare in pensione prima. Non avrei potuto lasciare tutto così, i miei alunni mi hanno vista l’ultima volta il 23 dicembre 2021. Ho affidato alla docente che mi ha sostituita la “lettera di saluto ai miei studenti”. La riporto di seguito così come l’ho fatta avere a loro.

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Carissime Alunne e carissimi Alunni,
 
non ci vediamo da quasi 6 mesi ormai. Il mio ultimo giorno a scuola è stato il 23 dicembre 2021. Molti di voi sapranno cosa mi è successo. Vi accenno solo qualcosa, che ha segnato completamente la mia esistenza.

Ho contratto il covid, anzi a detta dei medici ne ho contratte più varianti insieme.  Beh, mi devo distinguere sempre…perché contrarne solo una? Meglio di più!

Pur senza avere febbre e sembrando quella che in famiglia l’avesse preso in forma più leggera il 10 gennaio 2022 sono stata portata in ospedale in ambulanza per crisi respiratoria.

Tutto ciò che è successo durante il ricovero lo salto volutamente, vi dico solo che sono stata anche in rianimazione e mi avevano comunicato che stavo per morire, e stessa cosa avevano già detto, prima che a me, a mio marito.

I miei polmoni non funzionavano più, respiravo solo attaccata alle macchine e cosciente della mia prossima morte ho rifiutato l’intubazione ed ho chiesto un sacerdote per ricevere la Comunione e l’Unzione degli Infermi.

Mi sono ritrovata ad un certo punto, proprio mentre ero sul lettino della Rianimazione, sul “confine” fra questa vita e l’Altra. Ero di qua ma stavo per passare di là.

Ma il Signore ha voluto poi diversamente per me. Infatti sto qui a scrivervi.

La convalescenza ancora continua, non ho camminato per due mesi

Questa esperienza mi ha portato a fare scelte particolari e a farmi apprezzare maggiormente la mia stessa vita, la mia famiglia, tutto ciò che ogni giorno possiamo vedere e di cui spesso, per correre fra una cosa e l’altra, non ci accorgiamo di quanto sia bello e meraviglioso.

Vi raccomando di vivere la vostra vita in maniera piena, di apprezzare ogni piccola cosa che vedete o che avete, anche quelle che vi sembrano più banali. Dall’altra parte non ci portiamo nulla dietro se non l’Amore che abbiamo dato agli altri e ciò che di bello e buono abbiamo fatto.

Un pensiero in più a chi sta per affrontare gli esami di maturità. Vivete questa esperienza con serenità ma anche con senso del dovere: è un trampolino di lancio verso il futuro, il primo vero trampolino.

Ed arrivo alla fine. L’esperienza della Rianimazione mi ha spinta a fare una scelta ben precisa: ho chiesto di andare in pensione, prima del previsto. Voglio dedicare ciò che resta della mia vita alla mia famiglia, agli affetti miei più cari; voglio dedicarla ad aiutare il prossimo e a chi è nella sofferenza. Lo facevo già prima….ma quando davanti ti trovi il termine della tua vita sembra sempre che sia arrivato troppo presto ed allora, avendo avuta la grazia di poter vivere ancora, ho fatto questa scelta.

Vi lascio il mio account personale adele.caramico@gmail.com perché andando in pensione verrà disabilitato quello del Pininfarina.
Per chi volesse scrivermi io ci sono sempre. Vi ho portato sempre nel mio cuore e vi ho pensato spesso, tutte e tutti, indistintamente.
Vi auguro che possiate realizzare quanto più i vostri cuori desiderano.

Ed ora smetto di scrivere…..perché anche una prof si commuove, lo sapete?

Un abbraccio a tutte e a tutti voi.
                                                                                                                   (Adele Caramico)
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Racconti di vita

CAFFE' FELICITA'?

Vite perdute? Povera umanità che non ha trovato chi la illuminasse e riscaldasse nello spirito? Un filo di malinconia prende l'anima quando si segue un racconto dal vivo, come questo, che propone anche una riflessione di possibile nostra eccessiva “distrazione” quotidiana per tante situazioni di autoabbandono umano e sociale presenti intorno a noi, spesso non rumorose. Valutate voi. Il racconto è comunque vero, come al solito è per i nostri.
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Non è buona cosa passare molte ore al caffè a giocare a carte. Si beve per forza e quando mi rendo conto che ho esagerato è sempre troppo tardi; e capita quasi tutte le sere. Me lo diceva sempre Teresa, la mia povera moglie (pace alla sua anima brontolona!). Del resto non rimane che questo, dopo il tramonto, ed io il mio tramonto di vita l’ho passato da un pezzo: sarei già dovuto essere morto da tempo, oramai, ma non mi decido; e poi cos’è il tempo? Forse della sabbia che precipita da un vetro strozzato e qualcuno ad un certo punto capovolge l’attrezzo e tu hai chiuso, e qualcun altro prenderà il tuo posto al tavolo, comprese le tue carte, fino al compimento del suo turno. Per quello che ne so, potrei anzi essere già trapassato e non essermi accorto di niente, senza dolore, magari nel sonno, ed ora forse sto vivendo nello specchio di un cosmo parallelo, insieme con gli altri tre ubriaconi con i quali solitamente mi gioco una bottiglia o due fumando sigarette scadenti senza filtro.
Giacomo, il gestore del caffè, che tutti chiamano Giacomino, quello sì che è morto: o almeno pare. E’ piccolo, pallido, piegato, per la sua spina dorsale malata, in un umiliante perenne inchino. In bocca gli mancano parecchi denti e quando parla sputacchia dappertutto. Ma è buono come il pane e se fossimo davvero in paradiso certamente sarebbe un angelo. Chi ha mai detto che gli angeli sono accecanti di bellezza celeste? Giacomino è orribile come una macchia di vomito sul marciapiede, come quelle che ogni tanto lascio anch’io sulla via di casa; ma è buono, parla sempre a voce bassa e le bottiglie da litro le riempie sempre più del necessario.

Il suo locale per il vero è uno schifo, in via Gasparo da Salò (quello del violino). Sulla strada si apre una piccola vetrina con due ripiani d’alluminio; vi sono tre ceste di caramelle scartate, un poco di liquirizia in forma di omino od arrotolata come una stringa attorno ad una pallina di zucchero rosso, poi bustine di figurine sparpagliate a caso; e nient’altro. Accanto alla vetrina, una porta di vetro e di ferro scuro, che, aprendosi, fa tintinnare una campanella come quella dei chierichetti in chiesa: ma è inutile, la porta cigola da sempre sui cardini e, quando qualcuno entra, lo si sente inevitabilmente, anche per il freddo che penetra. Dalla porta si scendono quattro gradini di pietra e il caffè non è che uno stanzone: a destra il banco e in mezzo, sul pavimento di vecchie piastrelle di cotto, cinque o sei tavoli (non li ho mai contati). Tavoli di legno sudicio, impregnato di vino disegnato in cerchi spezzati. Sulle pareti gialle, due calendari di anni passati, dai quali ci guardano belle donne fetenti, felici di vederci bere da tanto lontano.

Giacomino spunta appena da dietro il bancone, con le spallucce rachitiche e la testa dai capelli corti e ricci color sale e pepe. Ha il viso segnato da rughe profonde sulla fronte e tutto intorno alla bocca: la vita deve averlo castigato, quel pover’uomo. Prende le ordinazioni con garbo, scoprendo i suoi denti disordinati, e in silenzio porta le bevande ai tavoli, su vassoi di latta. Non credo di averlo mai visto arrabbiato o semplicemente inquieto; la settimana scorsa mi ha fatto anche credito e devo ancora pagarlo. Con tutta la cagnara che facciamo dalla mattina fino a notte inoltrata, avrebbe potuto mandarci al diavolo almeno una volta, invece niente! C’è quel Lofaro, ad esempio, che gioca al tavolo vicino al nostro, con altri del suo paese, e urla come un maiale dalle giugulari recise quando perde anche pochi centesimi; o, se vince, canta canzonette in un dialetto che non mi sono mai preoccupato di capire. Giacomino lascia fare. Ogni tanto, se non è preso dalle sue faccende, afferra uno sgabello e vi sale sopra per aprire una finestrella, protetta da due sbarre incrociate, che dà sul retro, in un cortile umido: così esce dalla stanza un po’ di fumo e di quel fetore di caffè e vino appena infiascato che ristagna nel locale. Mi rendo conto che non è cosa da signori ma molti di questi rottami umani, me compreso, bestemmiano.  Certo il buon Dio mi chiederà, arcigno in volto, di riparare un giorno. Se avrò tempo e voglia lo confesserò al prete quando porterà l’olio santo vicino al mio letto di morte, quello bello, appartenuto al mio nonno garibaldino, una delle poche cose che non mi sono ancora venduto. Giacomino non approva che noi si maledica tutta la sacra famiglia e, quando ne sente una grossa, inarca le sopraciglia scuotendo la testa mentre continua ad asciugare bicchieri.

Talvolta, quando le sere invernali sono particolarmente fredde e piovose, Giacomino tollera che io ceni lì con lui. Dietro il bancone si apre una porticina che un tempo doveva essere stata dipinta di bianco: da lì si scende ad un altro buio stanzone dove l’omino conserva le damigiane pronte per essere infiascate, un fornello a gas e un tavolo. Si mangiano soltanto uova sode con il sale, qualche fetta di salame e, quando va bene, polenta abbrustolita. Per me è un lusso, perchè poi mi viene una sete tremenda e posso ricominciare a bere alla faccia della mia coscienza. E’ una delle rare occasioni che mi capitano di parlare con lui, anche se, in verità, lui parla poco dei fatti suoi.

Racconta episodi minimi, piccole tessere di un’esistenza che mi sforzo di collegare con le altre, ma sono ben lontano dall’avere anche una mezza idea di quello che è stata la sua vita. E’ abile, ma non certo con malizia, ad ottenere confidenze che peraltro non mi risulta faccia trapelare ad alcuno. Gli ho raccontato almeno tre volte le cose importanti della mia vita: la mia infanzia in campagna quando, come un cane sciolto, marinavo la scuola ma riconoscevo il proprietario di un nido a trenta metri, poi la guerra, i rastrellamenti, quindi, strano a dirsi, l’università a Padova e la fatica dello studio, gli anni di insegnamento di greco e di latino in un ginnasio di provincia, e poi Teresa e come l’ho perduta per una bastarda malattia polmonare. E infine la nausea, la voglia di lasciarsi vivere così come viene, fino ad ora, fino alle scodelle di minestrone che l’ente comunale di assistenza mi elargisce alle dodici di ogni giorno. Faccio la fila con altri poveracci che puzzano di letame, rosi dalle tarme dei ricordi, e sono convinto che non gliene importi niente se domani è giovedì o domenica. Quasi nessuno parla o saluta, beccano il dovuto e arrivederci. Fanno schifo anche loro e questa volta non frega niente a me.

Ho scoperto che anche Giacomino ha moglie, o l’ha avuta. Una donna alta, non bella ma con molte pretese. Credo che si sia vergognata di un marito mal riuscito che s’andava ogni giorno stropicciando di più. Qualcun altro mi ha detto che ha pure una figlia, alta come la madre e brutta come lui, certamente andata a vivere altrove. Non è una gran compagnia, Giacomino, ma non bestemmia, beve e fuma con moderazione e non sparla di clienti e di compaesani. Quanto alle donne mi sento di escludere che ce ne sia una, oltre alla fantasmatica moglie. Tuttavia con lui sto bene, ho cominciato a pensare che potrebbe essere un buon amico. L’ho creduto del vino e delle femmine sudaticce dei bordelli, ma sono tutte balle da mentecatti. Giacomino invece è proprio un angelo, se è di buon umore è capace anche di offrirti da bere.
Da qualche settimana capita che la domenica pomeriggio passi nella via un bambino, che avrà sette od otto anni. Si ferma davanti alla vetrina, guarda quel che c’è, sempre le stesse cose, poi si ficca le mani in tasca e se ne va di buon passo. Porta i pantaloni grigi fino al ginocchio, calzettoni candidi e giacca blu sempre a misura: deve per forza avere una nonna che fa la sarta, o una zia. Da queste parti infatti non abbiamo famiglie ricche. L’ho notato un giorno mentre stavo calando un re di bastoni (perdevo, come al solito). Il ragazzino si era fermato a guardare nella vetrina, ma non sembrava avere interesse per caramelle o liquirizie; piuttosto osservava le bustine di figurine e pareva almanaccare qualcosa tra sé. Non credo che gli altri disgraziati ci abbiano fatto caso ma, se l’avessero osservato, avrebbero notato i suoi occhi scuri e vivaci e i suoi capelli a spazzola rossicci.

Certo era gracilino, uno di quelli che, nel campetto dei preti, sta da solo a guardare gli altri che giocano al pallone o si scazzottano lordandosi i vestiti. Quanto alle figurine, ne sono sicuro, non le comprava perché non aveva un soldo. Mi sembra di vederlo, là nel prato vicino alla chiesa, con il libro del catechismo in tasca, uno di quei libri che rappresentano i peccati mortali come macchie d’inchiostro sul cuore e quelli veniali come puntolini. Non ho mai saputo come si chiamasse quel bambino ma, in cuor mio, spero si chiami Gianni, non perché mi ricordi qualcuno ma perché è un nome semplice, facile da appiccicare a chiunque. Anche Giacomino lo ha notato. La domenica, verso le due, pare lo aspetti. A quell’ora non siamo mai in molti nel locale, i più fortunati fra noi infatti hanno uno straccio di famiglia e fanno tardi a tavola, epicurei come sono. Talvolta siamo solo io e quel brutto angelo. Di solito leggo il giornale, quell’altro non so neppure se sappia scrivere. Gianni arriva puntuale alle due meno dieci, guarda oltre il vetro e si mangia con gli occhi qualche bustina odorosa di caolino. Poi se ne va, e mi pare sereno.
Domenica scorsa Giacomino ha aperto la porta e lo ha chiamato dentro. Gianni è sceso dalla scaletta soltanto per due gradini, aveva certo timore e doveva essere nauseato dal fetore del locale. I bambini vanno protetti, finchè si può, dalla vita; non gli si fa vedere quanto ci si può putrefare! Giacomino ha afferrato dalla vetrina un mazzetto di bustine e gliele ha regalate. Il bambino ha sorriso felice e anche noi eravamo felici. Si può per un attimo far felice qualcuno ed essere felici.
                                                                                                     
                                                                                                                   (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)

 
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Religione

MIO ZIO ATTILIO E LA SANTA PASQUA

Silvano, autore di questo piacevole e sorridente dialoghetto con lo zio Attilio, non si smentisce: nel suo scrivere c’è sempre il gusto raffinato di chi dipinge caratteri e paesaggi umani e sociali con la maestria raffinata del pittore sulla sua tela (infatti egli è anche pittore) ma inoltre c’è sempre, ed a volte è la vera sostanza dominante del suo scrivere, un pensiero che pone quesiti e ipotizza strade, evidenzia strettoie  e prospetta orizzonti, e soprattutto richiama coerenze. Questa volta la proposta di riflessione mette in contatto, sorridendo ma con consapevole profondità di intenzione, alcuni rischi di superficialità tipici dell’epoca che viviamo con valori religiosi che meriterebbero più attento, rispettoso e meditativo approccio.
 
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Ho trovato lo zio impegnatissimo in una telefonata, col vivavoce inserito.

“Aspetta, aspetta, se no perdo la priorità: è parecchio tempo che tento di capire quale tasto premere…”

E’ in linea con il centralino della Parrocchia.

“Sai, Il parroco ha scritto sul sito web della chiesa che quest’anno le benedizioni si fanno non più casa per casa”

Se desidera informazioni sulle attività della Parrocchia, prema il tasto 1.

“ma cumulativamente, secondo la suddivisione per vie (ha allegato l’elenco), nelle messe delle ore 19: bisogna consultare l’elenco e non dimenticare la data per presentarsi in chiesa.”

Se desidera informazioni su battesimi, prime comunioni e cresime, prema il tasto 2

“Tutti coloro che invece vogliono la benedizione presso la propria casa possono contattare il parroco per concordare la data. Siccome sono amante delle tradizioni, sto cercando di chiamare il prete”

Se desidera informazioni sui corsi di preparazione al matrimonio, prema il tasto 3

“ma come vedi è una cosa difficilissima, peggio che telefonare per informazioni a qualche ente pubblico!”

Se desidera una benedizione, prema il tasto 4.

“Ecco deve essere questo, vediamo se ci ho azzeccato!”

Se desidera una benedizione in latino, prema il tasto 1
Se desidera una benedizione in italiano, prema il tasto 2
Se desidera una benedizione in altra lingua, prema il tasto 3.
 
“Mah, proviamo in italiano”
 
Se desidera la benedizione della persona, prema il tasto 1
Se desidera la benedizione dell’anziano, prema il tasto 2
Se desidera la benedizione del bambino, prema il tasto 3
Se desidera la benedizione del malato, prema il tasto 4
Se desidera la benedizione dell’auto, prema il tasto 5
Per tornare al menu principale, prema il tasto 9
 
“Ma no, non è questa… io non voglio una benedizione registrata al telefono… va be’, visto che sei qui, meglio riprovare un’altra volta”.

Ed ha chiuso la telefonata.

“Certo che le cose stanno cambiando sempre più velocemente, in omaggio ad una modernità che non so quanto sia piacevole. Adesso neanche il prete si sposta, bisogna prenotare per tempo, nemmeno fosse uno spettacolo o una cena al ristorante… Penso che prossimamente le benedizioni le farà via whatsapp, o via facebook solo per chi si è iscritto al gruppo!… A proposito, tu pensi che bisognerà pagare per la prestazione?”

“E’ il progresso, zio, e bisogna stare al passo con i tempi”, ho detto io.

Macché progresso e progresso, ma che soddisfazione ti danno più queste cose, ci manca solo che la Pasqua diventi un videogioco e si debba festeggiare con una ‘app’!

Una volta, e fino a nemmeno tanti anni fa, il parroco passava a benedire le case e noi bambini aspettavamo l’evento con una sorta di timore reverenziale. Il prete, casa per casa, benediva le varie stanze e poi anche le persone e tutti eravamo contenti e ci sentivamo più buoni… almeno per quel giorno!

Questo accadeva nelle città, nelle campagne invece il prete veniva con l’auto e girava tutte le case, anche quelle isolate, si fermava spesso a bere il bicchiere di vino che veniva sempre offerto e certe volte succedeva che alla fine del giro era assai brillo, tanto che una volta a mia madre si dimenticò di dare la benedizione e se ne andò via tutto bello rosso in viso… solo che il cane di casa, evidentemente infastidito da tutta quella scena, corse appresso al prete e lo azzannò ad un polpaccio, niente di grave ma che ridere!

Ora le cose - come vedi - le fanno online, fra poco le faranno con la realtà virtuale. Mah, che vuoi che ti dica, è la modernità… ma io ricordo con una certa nostalgia quando la Pasqua si festeggiava in un modo diverso, molto più - come dire - solenne e sentito. E c’era anche una sorta di rispetto religioso.

Mi ricordo che a partire dal mezzogiorno di Venerdì Santo (ora della morte di Cristo) i programmi radio e tv trasmettevano solo musica sacra e notiziari, non venivano trasmesse musiche ”allegre” o programmi spensierati, pensa che non si trasmetteva neanche Carosello! E in casa noi bambini dovevamo fare silenzio e non fare chiasso. Poi c’era l’attesa dello scioglimento delle campane, sabato a mezzanotte, e la domenica c’era il pranzo pasquale, rigorosamente preparato da mia nonna con le immancabili uova sode e salame e la colomba pasquale (che, detto fra noi, non mi è mai piaciuta).

La Pasquetta, poi, era l’occasione - se possibile - di una scampagnata per i prati e giocare a pallone sull’erba.
Per l’occasione a mia nonna regalavo una pecorella di zucchero, lei era felice, si accontentava di poco, e ne faceva collezione. Oramai non se ne trovano più.

Che differenza rispetto ad oggi, era un’altra atmosfera! Oggi, per omaggio a quale idea che non ho ben capito, la Pasqua si è ridotta solo ad una grande festa commerciale, con la corsa agli acquisti di cose mangerecce… come se non si mangiasse tutto il resto dell’anno… a comprare colombe e uova di cioccolato, che poi in gran parte vanno buttate dopo aver preso il regalo di plastica, e poi domenica e lunedì tutti a mangiare nei parchi, cercando di sporcare il più possibile, e siccome non c’è posto per tutti, chi tardi arriva…, una volta ho visto addirittura persone che si erano accampate in una aiuola spartitraffico! Di rispetto per il Cristo risorto mi sembra non ce ne sia più”.
 
“Bene zio, vedrò di trovarti una pecorella di zucchero”, gli ho risposto pensando di fare lo spiritoso.

Zio Attilio mi ha guardato con una sorta di sogghigno: “Vedi piuttosto di non portarmi il solito uovo di cioccolato al latte, lo sai che preferisco soltanto il fondente!”

Ed è tornato a telefonare al parroco.
                                   
(Silas)
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Esperienze

ERA UN UFO

L’anziana autrice del racconto ci conferma ancora oggi che la vicenda andò proprio così, come lei la rivive  in questo ricordo del 1993.

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Dopo aver visitato la stupenda distesa archeologica dove riposa il gigante di Tolomei e dopo aver visitato la tomba di Terone, si andò verso la Valle dei Templi, dove si ergevano il tempio di Giunone, il tempio di Castore e Polluce, il tempio di Ercole; e mentre si andava i mandorli del viale scintillavano di frutti e di fiori  delicatissimi che inebriavano l’aria con il loro profumo di primavera precoce. A febbraio la primavera splendeva infatti già prepotentemente su quelle ondulate e folte chiome di alberi che sembravano prendere per mano i turisti, ammirati come davanti a un’incantevole processione fuori del tempo moderno.

Il Tempio della Concordia stava lì, in fondo al viale, maestoso nella sua fierezza, e mostrava a tutti la regalità della sua nobile mole vecchia di secoli. Un gruppo di turisti si sbizzarriva ad ammirare e fotografare i resti di quei templi con le loro sgretolature rose dai secoli, resti fascinosi nell’accogliere la folla dei visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Mi ero innamorata di quei luoghi di pace e di bellezza: gli spettri degli “dei” mi avevano affascinata al punto d’infondermi il desiderio di trascorrere la notte lì da sola, magari abbracciata ad una colonna, ad ammirare la maestosità del cielo che trapunto di stelle costituiva in quel luogo incantato uno spettacolo unico al mondo. Mi nascosi dietro una colonna e quando tutti i mormorii intorno a me sparirono mi sedetti su di un gradino ad aspettare il tramonto. Il Tempio della Concordia mi sembrava ora ancora più grande e le sue colonne, che svettavano verso il cielo blu cupo, davano la sensazione che volassero portandomi con loro verso tutto quel paradiso siciliano”, paradiso in ogni stagione dell’anno.

Guardavo intorno affascinata mentre pian piano, all’orizzonte, calava un manto rosso-fuoco che incendiava le colline di mille colori intorno ai Templi, i quali tingendosi di scuro sembrava mi venissero incontro. Abbracciai una colonna e il suo tocco m’invase l’animo di un tenue tepore facendomi pensare che gli dei l’avevano accarezzata tanto tempo fa e avevano lasciata la loro indelebile impronta in ogni angolo di quella valle meravigliosa. Godevo il tramonto infuocato mentre le stelle cominciavano il loro ingresso nella distesa infinita. Pian piano il cielo si popolò delle più belle stelle del firmamento e il loro luccichio illuminò lo scenario irripetibile.

Ad un tratto m’accorsi che nel cielo una luce molto grande mi fissava, cambiando di tonalità. Un po’ impaurita cercai di guardare altrove, ma gli occhi mi andavano sempre lì e quella luce mi accecava con i suoi riflessi diretti proprio a me. Non sapevo cosa fare ed ero impaurita: mi misi a correre oltrepassando tutti i Templi e finalmente uscii dalla Valle finendo nel grande parcheggio sottostante, dove speravo di trovare un taxi che mi portasse in albergo. In un angolo vicino ad un chiosco già chiuso intravidi qualcuno che si muoveva: poi un’ombra mi venne incontro dicendomi: “Dove scappa, signorina! Guardi che andare in giro di notte ad Agrigento è pericoloso, potrebbero rubarle la borsetta e magari violentarLa…”.

Mi accorsi che parlava un uomo di pelle nera, che si esprimeva bene in italiano ed era molto gentile; egli  proseguì dicendo che dormiva accanto ai chioschi, così al mattino era pronto e il primo chiosco che apriva gli consegnava dei souvenir da vendere ai turisti che visitavano la Valle dei Templi e i dintorni: e questo lavoro gli permetteva di comprarsi da mangiare. Gli chiesi se poteva accompagnarmi all’albergo perché, ancora più dopo il suo avvertimento, avevo paura ad andare da sola. Fu tanto gentile e chiacchierando ci avviammo verso il mio albergo, che non era molto distante. Nel salutarlo gli regalai 50.000 lire. Era così felice che mi prese fra le braccia e mi baciò, poi scappò via stringendo forte il pugno che forse non aveva mai stretto tutti quei soldi in una sola volta. In albergo feci una doccia, andai a letto e mi addormentai subito. Ma sognai che quella luce abbagliante mi aveva seguito ed ora stava dietro i vetri della mia finestra a guardarmi: mi svegliai di colpo, smarrita e madida di sudore, andai diritta alla finestra e scostai piano le taparelle; era buio fitto e nel cielo non c’era neanche una stella: ma quella luce grande era lì a fissarmi davvero e cambiava riflessi come per dirmi: “Ti abbiamo vista!”.

Percepivo ora un’intesa perfetta: appena io guardavo cambiavano i toni di luce e sapevo che i suoi misteriosi abitatori mi avevano vista. Dopo una mezzora di smarrimento chiusi le tende e andai a dormire cercando di levarmi dalla testa la luce e il suo strano movimento; erano le quattro del mattino e avevo bisogno di dormire per riprendere il mio giro turistico l’indomani. Alle otto del mattino ero infatti già fuori con il gruppo, composto di quarantatrè persone italo-australiane, e ci recammo verso gli antichi resti di Selinunte. Quanti campi enormi di limoni, aranci e mandarini splendevano al caldo sole primaverile e correvano veloci di fianco a noi! Poi il bus si inoltrava in distese gigantesche di carciofi e grano verdissimo che si piegava al  venticello creando onde sfumate di verde vibrante. Era bellissimo rivedere la mia Sicilia dopo venticinque anni e ritrovarla ancora più maestosa di prima! La Conca d’Oro era una delle meraviglie del mondo, con tutte quelle montagne intorno che la proteggevano da ogni intemperia e calamità.

Selinunte aveva subito la distruzione per mano dei cartaginesi, che vi avevano lasciato le loro orme nei secoli. Io guardavo estasiata il tempio G, il tempio F, la grandiosità del tempio E ricostruito con materiali preesistenti e riordinati da mani esperte. Sull’Acropoli , seduta tra le colonne, vidi di nuovo Abdul, il ragazzo africano che avevo conosciuto prima: “Ciao, come mai sei qui e non nella Valle dei Templi?”. “Ciao, Jenny: sono stato licenziato perché negli ultimi giorni ho venduto troppo poco; mi hanno cacciato dicendomi che sono un buono a nulla; sono venuto qui per parlarti. Ieri mi hai detto che saresti venuta a Selinunte e ti ho seguita: dove sei tu ci sarò anch’io, se vuoi”. “Senti, Abdul: io devo girare ancora tutta la Sicilia e non posso portarti con me. Tieni centomila lire e cercati un altro lavoro!”. Si sedette sopra la grande rotonda di pietra giallastra, rimasta affondata per metà nella terra perché impossibile alzarla e rimetterla al suo posto sul tempio ricostruito. E rimase lì a guardarmi, triste, mentre si passava dall’Acropoli al tempio D. e al tempio M. e poi al santuario di Malophoros.  

Lasciai Selinunte e tutto il suo fascino dorico. Per gli altri quindici giorni che rimasi in giro per la mia splendida Sicilia non vidi più il mio giovane amico africano. Lo rividi però a Vizzini, la mia stupenda cittadina, famosa per aver dato al mondo il grande scrittore Giovanni Verga, autore della Cavalleria Rusticana, di Mastro don Gesualdo, Jeli il Pastore, L’Amante di Gramigna, Pentolaccia, Libertà, Don Licciu Papa, La Roba, Il Mistero, Rosso Malpelo, Il Reverendo, Pane Nero, La Lupa... tutte opere  scritte appunto nei luoghi di Vizzini e rappresentate anche come opere teatrali nei posti dove sono immaginate le storie.

Mi trovavo in piazza Umberto I per visitare appunto i luoghi che parlano dello scrittore: il suo palazzo, che si erge maestoso in un angolo della piazza e che sul retro si affaccia nella piazzetta di Santa Teresa; la chiesa della Cavalleria Rusticana, la locanda di compare Turiddu, la casa di Santuzza e più in là la casa di Lola… Ma  davanti alla locanda di compare Turiddu c’era ancora Abdul, che appena mi vide corse ad abbracciarmi dicendo che aveva girato tanto per trovarmi, poi aveva ricordato che Vizzini era la mia ultima tappa e vi si era recato. Aveva cambiato tanti lavori e sempre li perdeva per futili motivi: ora era lì per la festa della ricotta e vendeva papiri provenienti dall’Egitto e non dal “Centro del Papiro” di Siracusa, dove pure si fabbricano i migliori papiri del mondo, provenienti dalla folta vegetazione curata lungo il fiume Ciane nei dintorni di Siracusa: ma nessuno comprava i suoi papiri. Quella enorme folla era attratta soltanto dal veder fare la ricotta e mangiarla. La sagra della ricotta a Vizzini si fa il 25 aprile e attira gente da ogni parte della Sicilia, con una manifestazione folcloristica dove centinaia di pentoloni, in piazza Marconi, nel piazzale di Santa Maria di Gesù e anche in viale Margherita, fanno bollire enormi quantità di latte da dove esce ricotta gustosissima e caldissima per tutti. Si mangia all’aperto e la folla enorme si accalca felice a mangiare, guardare e divertirsi mentre teorie di carretti siciliani stupendamente addobbati sfilano per il viale Marconi e il viale Margherita alternandosi a cortei d’auto d’epoca, a sbandieratori e a spettacoli dei Pupi siciliani, e mentre nelle sale, nella pace che qualcuno sogna dopo tutta quella baraonda, si rappresentano le opere teatrali del nostro Giovanni Verga. 

“Abdul – gli dissi – i papiri li compro tutti io, me li porto in Australia: faranno bella mostra nel mio salotto e nel mio studio, ma tu rimarrai a Vizzini, nel mio meraviglioso paese, dove sono nata e dove sono i miei cari. Te lo cerco io un lavoro sicuro”. Lo Lasciai allibito e andai da mio fratello, ragioniere commercialista, un bellissimo giovane che ha lo studio in piazza Marconi, mentre mia mamma e l’altro fratello anch’egli più giovane di me  abitano in Santa Maria di Gesù: tutte le feste si svolgono lì. Che meraviglia assistere anche ai fuochi d’artificio da una delle bellissime terrazze in casa di mia mamma! Mio fratello, ragioniere commercialista e revisore dei conti di parecchi comuni della Sicilia, ha un grande edificio tutto per sé, con uno stanzone dove c’è lo studio condiviso con sua moglie, anch’essa ragioniera, un altro studio in comune con sua moglie e con la sua segretaria, un ulteriore studio solo per mio fratello, una grande sala d’attesa, una stanza per l’archivio, una stanza vuota, una simpatica stanza da cucina e un bagno completo di ogni comfort, una bellissima terrazza affacciante su piazza Marconi con una vista stupenda su un panorama magnifico e in lontananza  la vista del monte Lauro e i boschi verdeggianti. Loro se volevano potevano abitare nello studio ma avevano anche una bellissima casa in fondo al viale Margherita, che non potevano lasciare inabitata: lo studio rimaneva perciò abitualmente vuoto alla sera e nei giorni festivi, con tutti gli impegni che mio fratello aveva in altre città, e i tantissimi clienti. Pensai che una persona che tenesse in ordine lo studio stesso e lo sorvegliasse di notte non sarebbe dispiaciuta a mio fratello. Chiesi allora  a lui e a mia cognata se volessero un ragazzo che tenesse in ordine lo studio e stesse attento di notte dormendo lì. Dapprima mio fratello credette che scherzassi, ma quando gli raccontai di quel ragazzo marocchino accettarono la mia idea: lo avrebbero aiutato mentre lui poteva aiutare loro, in uno scambio reciproco di cui peraltro avevano tanto bisogno; ci voleva davvero qualcuno che si prendesse cura della pulizia dello studio e vigilasse su eventuali ladri e vandali. Accettarono, dunque, e io mi recai a dare la bella notizia ad Abdul che ne fu felice e mi abbracciò dicendomi: “Tu sei il mio angelo italo-australiano!”.

Abdul cominciò la sera stessa. Non avrei più permesso che si coricasse sui marciapiedi o nelle rovine delle case diroccate. Portammo un lettino nella stanza vuota dello studio e lì avrebbe dormito da quella sera in poi. Era così contento che ci baciava tutti con tanta riconoscenza, specialmente quando mio fratello gli portò anche due paia di pantaloni con due camicie e un paio di scarpe nuove. Abdul, oltre a pulire, teneva in ordine e sistemava tutto con grande entusiasmo. Abitava lì e si prendeva anche una piccola paga mensile; era un tipo simpatico e intelligente, aveva anche un buon [G1] grado di cultura: era scappato dal suo paese solo perché non c’era lavoro e gli piaceva troppo l’Italia. Avrebbe fatto sacrifici di ogni genere pur di rimanerci. Ora il suo sogno finalmente si avverava.

Dopo un paio di settimane rientrai in Australia,  e lasciare i miei fu ancora una volta terribile: ma la speranza che sarei tornata in Sicilia mi dava ora il coraggio di partire. L’Australia era la mia seconda patria e l’amavo, era un paese stupendo, ma pensavo sempre anche ai meravigliosi  giorni trascorsi in Italia tra i miei cari che non vedevo da venticinque anni; e pensavo ad Abdul finalmente felice nel mio favoloso paese, il paese che avevo lasciato a vent’anni. Eravamo partiti con mio marito per un secondo viaggio di nozze in Australia e ci eravamo innamorati di quelle distese immense di verde, di quelle case tutte con splendidi giardini di fiori colorati, delle vastissime praterie e dei deserti immensi, delle strade larghissime e pulite e dei sontuosi grattacieli di Melbourne, che si specchiavano maestosi nel fiume Yarra, il quale divideva la città in due e ne disegnava un panorama da favola: meraviglie che ci avevano incantato al punto di farci decidere a rimanere. La facilità di trovare un lavoro, la fortuna inaspettata di poterci comprare una casa circondata da un giardino bellissimo, l’agiatezza della vita di tutti i giorni, hanno fatto il resto. Poi due bambini: e le loro esigenze dello studio ci hanno fatto decidere ancora più solidamente di restare per donare loro un avvenire sicuro in una terra in continuo sviluppo ed evoluzione.

Dopo parecchie settimane dal mio rientro in Australia ricevetti una lettera da Abdul, in cui mi diceva che fra pochi mesi si sarebbe sposato con la segretaria di mio fratello, una bella ragazza che si era innamorata subito di lui e l’aveva incoraggiato a coltivare quel loro bellissimo amore nato in uno studio di ragioniere commercialista fra scartoffie e computer, iva e faccende tributarie; un amore romantico tra una ragazza color di pesca, piccola e molto magra, e un ragazzo alto con tanti muscoli e color caffelatte.

Un mattino, dopo ore insonni, pensando ai miei cari lontani non riuscivo più a stare a letto e, sentendo il rientro di mio figlio che era stato al disco-night (erano le due del mattino del periodo pasquale del 1993) mi alzo e chissà perché scosto le persiane della mia finestra della camera da letto; c’era tanto buio, un cielo plumbeo, senza stelle nell’immenso firmamento sopra di me: ma una luce grande mi fissava cambiando toni; e io la fissavo stupita. Quella luce era stata tra i Templi di Agrigento: cosa ci faceva ora di rimpetto alla mia casa in Australia, altissima in cielo, bella in mostra, in un punto dove mi riusciva naturale portare il mio sguardo, proprio qui a Melbourne e precisamente nella mia città di Avondale Heights?

Chiamai mio figlio e anche lui rimase a fissarla stupito, mentre la luce continuava a sua volta a fissarci e cambiava riflessi. Non ci dicemmo niente, con mio figlio, ma entrambi sapevamo cos’era quella strana luce. Uscimmo in giardino davanti alla nostra casa ed essa ci fissava ancora di tra le folte chiome degli alberi. Rientrammo e aprimmo le persiane della finestra del salotto: essa era sempre lì, ombrata dagli alberi. Tornammo nella mia stanza da letto parlando dello strano avvenimento. Cosa più strana, mio marito con tutto quel nostro chiacchierio continuava a dormire placidamente senza sentire niente di tutto il rumore che noi due facevamo mentre continuavamo a fissare la luce da dietro le persiane aperte della mia finestra, perché  sapevo che solo da lì si poteva vedere chiara e precisa, in un continuo scambio telepatico intenso fra me e i suoi abitatori. Ad un tratto chiesi a mio figlio di telefonare alla polizia; ma lui non volle. Gli dissi allora di telefonare all’aeroporto domandando se il radar avesse avvistato una luce grande e strana nel bel mezzo del cielo buio di Keilor Avondale Heights, vicinissima all’aeroporto, ma lui mi disse di non pensarci più e di andare a dormire. Però a sua volta non andò a dormire: si mise a guardare la televisione e ogni tanto scostava le taparelle e sbirciava nel cielo e attraverso le fronde degli alberi la luce penetrava ancora i suoi potenti riflessi dorati anche su di lui!

Dalla mia camera continuai a guardare la mia sfera di luce stravagante, che mi fissava come corteggiandomi. Ora, guardandola, non avevo più paura: mi sentivo protetta e subentravano in me una forza ed un coraggio mai avuti prima, e mi prendeva una sicurezza inaspettata, guardavo estasiata e sentivo un’intesa perfetta da entrambe le parti. Tranquilla m’infilai allora nel letto, ma la mia mente mi chiedeva sempre di tornare ad alzarmi e scostare le persiane per guardare nel cielo buio la mia splendida stella luminosa e scintillante di luce fosforescente, con i raggi che mi entravano diritti al cuore e lo scaldavano come un sole d’estate, tanto erano diretti a me e solo a me.

Tutto questo durò fino alle quattro e trenta: col chiarore dell’alba i miei amici scomparvero, ma lasciarono in me un ricordo indelebile e la speranza che sarebbero tornati ancora. Sì, li aspetterò e ancora li aspetto,  ogni sera e ogni mattina, ed è diventato un rito per me spostare le persiane e fissare quel punto fantastico dove la mia grande sfera splendente ha lasciato la sua luce. La mia grande stella con gli occhi invisibili fissati su di me verrà.

Nessuno dei due, fra me e mio figlio, ha mai nominato la parola Ufo. Ma sappiamo che era un ufo, un extraterrestre venuto da lontano per manifestarsi a me, ed io sono qui che lo aspetto sempre; quell’intesa perfetta era nata a poco a poco e la cosa più strana è che la desidero tuttora e vivo nell’attesa di vederla ancora nel mio cielo di Avondale Heights Keylor per proteggermi e farmi diventare più coraggiosa.

Nei giornali del mattino, comunque, appariva un articolo in cui spiccava a grandi caratteri il titolo “Stanotte una strana, grande sfera di luce ha sostato per ore nel cielo di Avondale Heights Keylor”.

L’Ufo l’ho veramente visto, era la notte di Pasqua del 1993 e non dimentico mai la sua visione abbagliante di luce.

 
(Anonimo PremiopratoRaccontiamoci)
 
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Sanremo

LO ZIO ATTILIO E IL FESTIVAL

Da quando lo conosco, Silvano ha forbitissima penna, pensiero chiaro e opinioni che non temono di dichiararsi. Tre ingredienti che egli conferma in questo piccolo scritto a firma Silas, esprimendo una preoccupazione diffusa sulla dubitabile qualità educativa e culturale di musica e testi in corso di presentazione al festival di Sanremo.

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Dopo tanto tempo che non mi ero fatto più vivo, un po’ a causa del Covid, un po’ per pura pigrizia, sono riuscito ad andare a trovare mio zio Attilio.

Lo zio si è trasferito in un villino nella periferia sud di Roma, con un bel terreno dove lui riesce a coltivare una delle sue passioni preferite: il giardinaggio. E lì appunto l’ho trovato, seduto nel suo giardino ben esposto al sole, dove noncurante del freddo stava esaminando una scatola piena di vecchie musicassette, roba che andava per la maggiore neali anni settanta dello scorso secolo.

“Sai - mi ha detto -  nel fare il trasloco in questa nuova casa ho ritrovato tutte queste canzoni che erano successi di molti anni fa. Avranno un certo valore, visto che già da diverso tempo sono tornati di moda cantanti degli anni sessanta. Guarda il Festival di Sanremo, ormai – come parecchie trasmissioni – sembra un programma della terza e quarta età: vi sono cantanti che già erano famosi quando ero ancora un ragazzino, e sono passati più di sessanta anni, ormai la loro età arriva a settanta, ottanta, novanta anni!

Ti dico la verità, la cosa mi mette un po’ di tristezza: tutto ha una fine e c’è un tempo per tutte le cose. A cosa è dovuto questo eterno revival, a nostalgia, a rispetto per il passato, o piuttosto al fatto che ormai di giovani talenti non ne esistono più e dobbiamo riesumare i fantasmi del passato… con tutto rispetto per i fantasmi! Forse questo è dovuto anche ai testi e ai motivi delle canzoni di oggi: a parte qualche rara eccezione, spesso le parole non si capiscono, cantate o meglio sparate quasi con violenza, e la musica non rimane nemmeno impressa nella mente, c’è qualche motivo che riusciresti a canticchiare magari sotto la doccia, come si faceva una volta?

D’accordo, ormai deve essere tutto spettacolo e bisogna trovare qualsiasi cosa per attirare il pubblico ma… siamo sicuri che il pubblico gradisca veramente queste esibizioni e non vi sia invece costretto e ipnotizzato dallo strumento televisivo?”

“Beh, zio – gli ho risposto – questi spettacoli sono l’occasione per dare un po’ di leggerezza agli italiani, dopo tutte le notizie che ci danno i telegiornali!”

“Guarda, tu sai la mia opinione sui telegiornali, e in altra occasione te ne riparlerò, ma che insegnamento ci danno spettacoli come Sanremo? A parte l’esibizione di persone anziane, guarda anche l’abbigliamento dei cantanti,  va bene che bisogna attirare l’attenzione ma c’è un limite di buon gusto: non capisco perché per entrare in teatro – almeno negli spettacoli serali – bisogna indossare un abbigliamento adeguato e invece i protagonisti cercano di essere più straccioni possibile, in alcuni casi essendo addirittura di una volgarità eccessiva.

E guarda anche alcune signore che si qualificano come presentatrici… le donne si lamentano di essere viste come oggetti sessuali e poi si presentano, come è successo l’altra sera con quella blogger, vestita di una calzamaglia con disegnati i suoi attributi sessuali. Bontà sua, ha detto che non era nuda, come al principio sembrava, era solo un disegno, anzi una riproduzione fotografica del suo corpo al naturale… a me è sembrata solo una volgarità – e tu sai che io sono un amante delle donne e del corpo femminile ma in ben altre occasioni! A questo punto mi aspetto che anche il presentatore maschile si presenti con una calzamaglia con disegnato o fotografato il suo membro maschile, magari ben eretto, con la giustificazione che bisogna rendere omaggio alla Bandiera! Ma siamo seri!!!

Avrai notato anche l’esibizione di quel cantante rap o trap o come diavolo si definiscono oggi, che ha preso a calci tutto l’addobbo floreale del palco e poi con violenza l’ha distrutto scagliandosi contro le piante esposte. La motivazione? Non si è ben capita, ha tentato di giustificarsi farfugliando qualcosa, ma quello che mi ha colpito è stato l’atteggiamento del presentatore che quasi ha tentato di consolarlo, poverino, proponendogli di riesibirsi più tardi, magari allestendogli un altro addobbo da distruggere. Almeno il pubblico, stavolta l’ha fischiato!

Ma che insegnamento diamo ai bambini e ai giovani di oggi? Che tutto è permesso, tutto è dovuto, bisogna essere liberi di fare tutto quello che si vuole, di essere prepotenti e maleducati, anzi viva la trasgressione! D’altra parte questo è un paese dove il buonismo impera sovrano, vedi anche la delinquenza: cosa rischi oggi se compi un delitto? Potrei tranquillamente uccidere mia moglie, specie alla mia età e non rischiare praticamente nulla, magari gli arresti domiciliari, sai che bello! Potrei starmene tranquillamente in casa mia a fare giardinaggio senza uscire di casa per qualche tempo, e dovrebbero pure procurarmi l’alimentazione e badare al mio benessere: non esiste il Garante dei detenuti a questo scopo? Peccato che non esista il Garante delle Vittime che dovrebbe preoccuparsi dei diritti loro e dei loro familiari! Per fortuna che non sono sposato!

Ma ora entriamo in casa a gustarci un bel tè… e attenzione a non passare sopra quelle aiuole che ho appena allestito: non si sa mai, per sentirti come quello pseudocantante potresti pensare di calpestare qualche mia piantina fiorita ma stai attento che nonostante la mia età potrei sempre rincorrerti e affibbiarti qualche pedatona nel sedere…”

Entrando in casa l’ho sentito canticchiare un motivetto di Ornella Vanoni di sessanta anni fa...
                                                                                                                                             
                                                                                                                                              (Silas)
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