Religione

MIO ZIO ATTILIO E LA SANTA PASQUA

Silvano, autore di questo piacevole e sorridente dialoghetto con lo zio Attilio, non si smentisce: nel suo scrivere c’è sempre il gusto raffinato di chi dipinge caratteri e paesaggi umani e sociali con la maestria raffinata del pittore sulla sua tela (infatti egli è anche pittore) ma inoltre c’è sempre, ed a volte è la vera sostanza dominante del suo scrivere, un pensiero che pone quesiti e ipotizza strade, evidenzia strettoie  e prospetta orizzonti, e soprattutto richiama coerenze. Questa volta la proposta di riflessione mette in contatto, sorridendo ma con consapevole profondità di intenzione, alcuni rischi di superficialità tipici dell’epoca che viviamo con valori religiosi che meriterebbero più attento, rispettoso e meditativo approccio.
 
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Ho trovato lo zio impegnatissimo in una telefonata, col vivavoce inserito.

“Aspetta, aspetta, se no perdo la priorità: è parecchio tempo che tento di capire quale tasto premere…”

E’ in linea con il centralino della Parrocchia.

“Sai, Il parroco ha scritto sul sito web della chiesa che quest’anno le benedizioni si fanno non più casa per casa”

Se desidera informazioni sulle attività della Parrocchia, prema il tasto 1.

“ma cumulativamente, secondo la suddivisione per vie (ha allegato l’elenco), nelle messe delle ore 19: bisogna consultare l’elenco e non dimenticare la data per presentarsi in chiesa.”

Se desidera informazioni su battesimi, prime comunioni e cresime, prema il tasto 2

“Tutti coloro che invece vogliono la benedizione presso la propria casa possono contattare il parroco per concordare la data. Siccome sono amante delle tradizioni, sto cercando di chiamare il prete”

Se desidera informazioni sui corsi di preparazione al matrimonio, prema il tasto 3

“ma come vedi è una cosa difficilissima, peggio che telefonare per informazioni a qualche ente pubblico!”

Se desidera una benedizione, prema il tasto 4.

“Ecco deve essere questo, vediamo se ci ho azzeccato!”

Se desidera una benedizione in latino, prema il tasto 1
Se desidera una benedizione in italiano, prema il tasto 2
Se desidera una benedizione in altra lingua, prema il tasto 3.
 
“Mah, proviamo in italiano”
 
Se desidera la benedizione della persona, prema il tasto 1
Se desidera la benedizione dell’anziano, prema il tasto 2
Se desidera la benedizione del bambino, prema il tasto 3
Se desidera la benedizione del malato, prema il tasto 4
Se desidera la benedizione dell’auto, prema il tasto 5
Per tornare al menu principale, prema il tasto 9
 
“Ma no, non è questa… io non voglio una benedizione registrata al telefono… va be’, visto che sei qui, meglio riprovare un’altra volta”.

Ed ha chiuso la telefonata.

“Certo che le cose stanno cambiando sempre più velocemente, in omaggio ad una modernità che non so quanto sia piacevole. Adesso neanche il prete si sposta, bisogna prenotare per tempo, nemmeno fosse uno spettacolo o una cena al ristorante… Penso che prossimamente le benedizioni le farà via whatsapp, o via facebook solo per chi si è iscritto al gruppo!… A proposito, tu pensi che bisognerà pagare per la prestazione?”

“E’ il progresso, zio, e bisogna stare al passo con i tempi”, ho detto io.

Macché progresso e progresso, ma che soddisfazione ti danno più queste cose, ci manca solo che la Pasqua diventi un videogioco e si debba festeggiare con una ‘app’!

Una volta, e fino a nemmeno tanti anni fa, il parroco passava a benedire le case e noi bambini aspettavamo l’evento con una sorta di timore reverenziale. Il prete, casa per casa, benediva le varie stanze e poi anche le persone e tutti eravamo contenti e ci sentivamo più buoni… almeno per quel giorno!

Questo accadeva nelle città, nelle campagne invece il prete veniva con l’auto e girava tutte le case, anche quelle isolate, si fermava spesso a bere il bicchiere di vino che veniva sempre offerto e certe volte succedeva che alla fine del giro era assai brillo, tanto che una volta a mia madre si dimenticò di dare la benedizione e se ne andò via tutto bello rosso in viso… solo che il cane di casa, evidentemente infastidito da tutta quella scena, corse appresso al prete e lo azzannò ad un polpaccio, niente di grave ma che ridere!

Ora le cose - come vedi - le fanno online, fra poco le faranno con la realtà virtuale. Mah, che vuoi che ti dica, è la modernità… ma io ricordo con una certa nostalgia quando la Pasqua si festeggiava in un modo diverso, molto più - come dire - solenne e sentito. E c’era anche una sorta di rispetto religioso.

Mi ricordo che a partire dal mezzogiorno di Venerdì Santo (ora della morte di Cristo) i programmi radio e tv trasmettevano solo musica sacra e notiziari, non venivano trasmesse musiche ”allegre” o programmi spensierati, pensa che non si trasmetteva neanche Carosello! E in casa noi bambini dovevamo fare silenzio e non fare chiasso. Poi c’era l’attesa dello scioglimento delle campane, sabato a mezzanotte, e la domenica c’era il pranzo pasquale, rigorosamente preparato da mia nonna con le immancabili uova sode e salame e la colomba pasquale (che, detto fra noi, non mi è mai piaciuta).

La Pasquetta, poi, era l’occasione - se possibile - di una scampagnata per i prati e giocare a pallone sull’erba.
Per l’occasione a mia nonna regalavo una pecorella di zucchero, lei era felice, si accontentava di poco, e ne faceva collezione. Oramai non se ne trovano più.

Che differenza rispetto ad oggi, era un’altra atmosfera! Oggi, per omaggio a quale idea che non ho ben capito, la Pasqua si è ridotta solo ad una grande festa commerciale, con la corsa agli acquisti di cose mangerecce… come se non si mangiasse tutto il resto dell’anno… a comprare colombe e uova di cioccolato, che poi in gran parte vanno buttate dopo aver preso il regalo di plastica, e poi domenica e lunedì tutti a mangiare nei parchi, cercando di sporcare il più possibile, e siccome non c’è posto per tutti, chi tardi arriva…, una volta ho visto addirittura persone che si erano accampate in una aiuola spartitraffico! Di rispetto per il Cristo risorto mi sembra non ce ne sia più”.
 
“Bene zio, vedrò di trovarti una pecorella di zucchero”, gli ho risposto pensando di fare lo spiritoso.

Zio Attilio mi ha guardato con una sorta di sogghigno: “Vedi piuttosto di non portarmi il solito uovo di cioccolato al latte, lo sai che preferisco soltanto il fondente!”

Ed è tornato a telefonare al parroco.
                                   
(Silas)
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MM
 

Esperienze

ERA UN UFO

L’anziana autrice del racconto ci conferma ancora oggi che la vicenda andò proprio così, come lei la rivive  in questo ricordo del 1993.

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Dopo aver visitato la stupenda distesa archeologica dove riposa il gigante di Tolomei e dopo aver visitato la tomba di Terone, si andò verso la Valle dei Templi, dove si ergevano il tempio di Giunone, il tempio di Castore e Polluce, il tempio di Ercole; e mentre si andava i mandorli del viale scintillavano di frutti e di fiori  delicatissimi che inebriavano l’aria con il loro profumo di primavera precoce. A febbraio la primavera splendeva infatti già prepotentemente su quelle ondulate e folte chiome di alberi che sembravano prendere per mano i turisti, ammirati come davanti a un’incantevole processione fuori del tempo moderno.

Il Tempio della Concordia stava lì, in fondo al viale, maestoso nella sua fierezza, e mostrava a tutti la regalità della sua nobile mole vecchia di secoli. Un gruppo di turisti si sbizzarriva ad ammirare e fotografare i resti di quei templi con le loro sgretolature rose dai secoli, resti fascinosi nell’accogliere la folla dei visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Mi ero innamorata di quei luoghi di pace e di bellezza: gli spettri degli “dei” mi avevano affascinata al punto d’infondermi il desiderio di trascorrere la notte lì da sola, magari abbracciata ad una colonna, ad ammirare la maestosità del cielo che trapunto di stelle costituiva in quel luogo incantato uno spettacolo unico al mondo. Mi nascosi dietro una colonna e quando tutti i mormorii intorno a me sparirono mi sedetti su di un gradino ad aspettare il tramonto. Il Tempio della Concordia mi sembrava ora ancora più grande e le sue colonne, che svettavano verso il cielo blu cupo, davano la sensazione che volassero portandomi con loro verso tutto quel paradiso siciliano”, paradiso in ogni stagione dell’anno.

Guardavo intorno affascinata mentre pian piano, all’orizzonte, calava un manto rosso-fuoco che incendiava le colline di mille colori intorno ai Templi, i quali tingendosi di scuro sembrava mi venissero incontro. Abbracciai una colonna e il suo tocco m’invase l’animo di un tenue tepore facendomi pensare che gli dei l’avevano accarezzata tanto tempo fa e avevano lasciata la loro indelebile impronta in ogni angolo di quella valle meravigliosa. Godevo il tramonto infuocato mentre le stelle cominciavano il loro ingresso nella distesa infinita. Pian piano il cielo si popolò delle più belle stelle del firmamento e il loro luccichio illuminò lo scenario irripetibile.

Ad un tratto m’accorsi che nel cielo una luce molto grande mi fissava, cambiando di tonalità. Un po’ impaurita cercai di guardare altrove, ma gli occhi mi andavano sempre lì e quella luce mi accecava con i suoi riflessi diretti proprio a me. Non sapevo cosa fare ed ero impaurita: mi misi a correre oltrepassando tutti i Templi e finalmente uscii dalla Valle finendo nel grande parcheggio sottostante, dove speravo di trovare un taxi che mi portasse in albergo. In un angolo vicino ad un chiosco già chiuso intravidi qualcuno che si muoveva: poi un’ombra mi venne incontro dicendomi: “Dove scappa, signorina! Guardi che andare in giro di notte ad Agrigento è pericoloso, potrebbero rubarle la borsetta e magari violentarLa…”.

Mi accorsi che parlava un uomo di pelle nera, che si esprimeva bene in italiano ed era molto gentile; egli  proseguì dicendo che dormiva accanto ai chioschi, così al mattino era pronto e il primo chiosco che apriva gli consegnava dei souvenir da vendere ai turisti che visitavano la Valle dei Templi e i dintorni: e questo lavoro gli permetteva di comprarsi da mangiare. Gli chiesi se poteva accompagnarmi all’albergo perché, ancora più dopo il suo avvertimento, avevo paura ad andare da sola. Fu tanto gentile e chiacchierando ci avviammo verso il mio albergo, che non era molto distante. Nel salutarlo gli regalai 50.000 lire. Era così felice che mi prese fra le braccia e mi baciò, poi scappò via stringendo forte il pugno che forse non aveva mai stretto tutti quei soldi in una sola volta. In albergo feci una doccia, andai a letto e mi addormentai subito. Ma sognai che quella luce abbagliante mi aveva seguito ed ora stava dietro i vetri della mia finestra a guardarmi: mi svegliai di colpo, smarrita e madida di sudore, andai diritta alla finestra e scostai piano le taparelle; era buio fitto e nel cielo non c’era neanche una stella: ma quella luce grande era lì a fissarmi davvero e cambiava riflessi come per dirmi: “Ti abbiamo vista!”.

Percepivo ora un’intesa perfetta: appena io guardavo cambiavano i toni di luce e sapevo che i suoi misteriosi abitatori mi avevano vista. Dopo una mezzora di smarrimento chiusi le tende e andai a dormire cercando di levarmi dalla testa la luce e il suo strano movimento; erano le quattro del mattino e avevo bisogno di dormire per riprendere il mio giro turistico l’indomani. Alle otto del mattino ero infatti già fuori con il gruppo, composto di quarantatrè persone italo-australiane, e ci recammo verso gli antichi resti di Selinunte. Quanti campi enormi di limoni, aranci e mandarini splendevano al caldo sole primaverile e correvano veloci di fianco a noi! Poi il bus si inoltrava in distese gigantesche di carciofi e grano verdissimo che si piegava al  venticello creando onde sfumate di verde vibrante. Era bellissimo rivedere la mia Sicilia dopo venticinque anni e ritrovarla ancora più maestosa di prima! La Conca d’Oro era una delle meraviglie del mondo, con tutte quelle montagne intorno che la proteggevano da ogni intemperia e calamità.

Selinunte aveva subito la distruzione per mano dei cartaginesi, che vi avevano lasciato le loro orme nei secoli. Io guardavo estasiata il tempio G, il tempio F, la grandiosità del tempio E ricostruito con materiali preesistenti e riordinati da mani esperte. Sull’Acropoli , seduta tra le colonne, vidi di nuovo Abdul, il ragazzo africano che avevo conosciuto prima: “Ciao, come mai sei qui e non nella Valle dei Templi?”. “Ciao, Jenny: sono stato licenziato perché negli ultimi giorni ho venduto troppo poco; mi hanno cacciato dicendomi che sono un buono a nulla; sono venuto qui per parlarti. Ieri mi hai detto che saresti venuta a Selinunte e ti ho seguita: dove sei tu ci sarò anch’io, se vuoi”. “Senti, Abdul: io devo girare ancora tutta la Sicilia e non posso portarti con me. Tieni centomila lire e cercati un altro lavoro!”. Si sedette sopra la grande rotonda di pietra giallastra, rimasta affondata per metà nella terra perché impossibile alzarla e rimetterla al suo posto sul tempio ricostruito. E rimase lì a guardarmi, triste, mentre si passava dall’Acropoli al tempio D. e al tempio M. e poi al santuario di Malophoros.  

Lasciai Selinunte e tutto il suo fascino dorico. Per gli altri quindici giorni che rimasi in giro per la mia splendida Sicilia non vidi più il mio giovane amico africano. Lo rividi però a Vizzini, la mia stupenda cittadina, famosa per aver dato al mondo il grande scrittore Giovanni Verga, autore della Cavalleria Rusticana, di Mastro don Gesualdo, Jeli il Pastore, L’Amante di Gramigna, Pentolaccia, Libertà, Don Licciu Papa, La Roba, Il Mistero, Rosso Malpelo, Il Reverendo, Pane Nero, La Lupa... tutte opere  scritte appunto nei luoghi di Vizzini e rappresentate anche come opere teatrali nei posti dove sono immaginate le storie.

Mi trovavo in piazza Umberto I per visitare appunto i luoghi che parlano dello scrittore: il suo palazzo, che si erge maestoso in un angolo della piazza e che sul retro si affaccia nella piazzetta di Santa Teresa; la chiesa della Cavalleria Rusticana, la locanda di compare Turiddu, la casa di Santuzza e più in là la casa di Lola… Ma  davanti alla locanda di compare Turiddu c’era ancora Abdul, che appena mi vide corse ad abbracciarmi dicendo che aveva girato tanto per trovarmi, poi aveva ricordato che Vizzini era la mia ultima tappa e vi si era recato. Aveva cambiato tanti lavori e sempre li perdeva per futili motivi: ora era lì per la festa della ricotta e vendeva papiri provenienti dall’Egitto e non dal “Centro del Papiro” di Siracusa, dove pure si fabbricano i migliori papiri del mondo, provenienti dalla folta vegetazione curata lungo il fiume Ciane nei dintorni di Siracusa: ma nessuno comprava i suoi papiri. Quella enorme folla era attratta soltanto dal veder fare la ricotta e mangiarla. La sagra della ricotta a Vizzini si fa il 25 aprile e attira gente da ogni parte della Sicilia, con una manifestazione folcloristica dove centinaia di pentoloni, in piazza Marconi, nel piazzale di Santa Maria di Gesù e anche in viale Margherita, fanno bollire enormi quantità di latte da dove esce ricotta gustosissima e caldissima per tutti. Si mangia all’aperto e la folla enorme si accalca felice a mangiare, guardare e divertirsi mentre teorie di carretti siciliani stupendamente addobbati sfilano per il viale Marconi e il viale Margherita alternandosi a cortei d’auto d’epoca, a sbandieratori e a spettacoli dei Pupi siciliani, e mentre nelle sale, nella pace che qualcuno sogna dopo tutta quella baraonda, si rappresentano le opere teatrali del nostro Giovanni Verga. 

“Abdul – gli dissi – i papiri li compro tutti io, me li porto in Australia: faranno bella mostra nel mio salotto e nel mio studio, ma tu rimarrai a Vizzini, nel mio meraviglioso paese, dove sono nata e dove sono i miei cari. Te lo cerco io un lavoro sicuro”. Lo Lasciai allibito e andai da mio fratello, ragioniere commercialista, un bellissimo giovane che ha lo studio in piazza Marconi, mentre mia mamma e l’altro fratello anch’egli più giovane di me  abitano in Santa Maria di Gesù: tutte le feste si svolgono lì. Che meraviglia assistere anche ai fuochi d’artificio da una delle bellissime terrazze in casa di mia mamma! Mio fratello, ragioniere commercialista e revisore dei conti di parecchi comuni della Sicilia, ha un grande edificio tutto per sé, con uno stanzone dove c’è lo studio condiviso con sua moglie, anch’essa ragioniera, un altro studio in comune con sua moglie e con la sua segretaria, un ulteriore studio solo per mio fratello, una grande sala d’attesa, una stanza per l’archivio, una stanza vuota, una simpatica stanza da cucina e un bagno completo di ogni comfort, una bellissima terrazza affacciante su piazza Marconi con una vista stupenda su un panorama magnifico e in lontananza  la vista del monte Lauro e i boschi verdeggianti. Loro se volevano potevano abitare nello studio ma avevano anche una bellissima casa in fondo al viale Margherita, che non potevano lasciare inabitata: lo studio rimaneva perciò abitualmente vuoto alla sera e nei giorni festivi, con tutti gli impegni che mio fratello aveva in altre città, e i tantissimi clienti. Pensai che una persona che tenesse in ordine lo studio stesso e lo sorvegliasse di notte non sarebbe dispiaciuta a mio fratello. Chiesi allora  a lui e a mia cognata se volessero un ragazzo che tenesse in ordine lo studio e stesse attento di notte dormendo lì. Dapprima mio fratello credette che scherzassi, ma quando gli raccontai di quel ragazzo marocchino accettarono la mia idea: lo avrebbero aiutato mentre lui poteva aiutare loro, in uno scambio reciproco di cui peraltro avevano tanto bisogno; ci voleva davvero qualcuno che si prendesse cura della pulizia dello studio e vigilasse su eventuali ladri e vandali. Accettarono, dunque, e io mi recai a dare la bella notizia ad Abdul che ne fu felice e mi abbracciò dicendomi: “Tu sei il mio angelo italo-australiano!”.

Abdul cominciò la sera stessa. Non avrei più permesso che si coricasse sui marciapiedi o nelle rovine delle case diroccate. Portammo un lettino nella stanza vuota dello studio e lì avrebbe dormito da quella sera in poi. Era così contento che ci baciava tutti con tanta riconoscenza, specialmente quando mio fratello gli portò anche due paia di pantaloni con due camicie e un paio di scarpe nuove. Abdul, oltre a pulire, teneva in ordine e sistemava tutto con grande entusiasmo. Abitava lì e si prendeva anche una piccola paga mensile; era un tipo simpatico e intelligente, aveva anche un buon [G1] grado di cultura: era scappato dal suo paese solo perché non c’era lavoro e gli piaceva troppo l’Italia. Avrebbe fatto sacrifici di ogni genere pur di rimanerci. Ora il suo sogno finalmente si avverava.

Dopo un paio di settimane rientrai in Australia,  e lasciare i miei fu ancora una volta terribile: ma la speranza che sarei tornata in Sicilia mi dava ora il coraggio di partire. L’Australia era la mia seconda patria e l’amavo, era un paese stupendo, ma pensavo sempre anche ai meravigliosi  giorni trascorsi in Italia tra i miei cari che non vedevo da venticinque anni; e pensavo ad Abdul finalmente felice nel mio favoloso paese, il paese che avevo lasciato a vent’anni. Eravamo partiti con mio marito per un secondo viaggio di nozze in Australia e ci eravamo innamorati di quelle distese immense di verde, di quelle case tutte con splendidi giardini di fiori colorati, delle vastissime praterie e dei deserti immensi, delle strade larghissime e pulite e dei sontuosi grattacieli di Melbourne, che si specchiavano maestosi nel fiume Yarra, il quale divideva la città in due e ne disegnava un panorama da favola: meraviglie che ci avevano incantato al punto di farci decidere a rimanere. La facilità di trovare un lavoro, la fortuna inaspettata di poterci comprare una casa circondata da un giardino bellissimo, l’agiatezza della vita di tutti i giorni, hanno fatto il resto. Poi due bambini: e le loro esigenze dello studio ci hanno fatto decidere ancora più solidamente di restare per donare loro un avvenire sicuro in una terra in continuo sviluppo ed evoluzione.

Dopo parecchie settimane dal mio rientro in Australia ricevetti una lettera da Abdul, in cui mi diceva che fra pochi mesi si sarebbe sposato con la segretaria di mio fratello, una bella ragazza che si era innamorata subito di lui e l’aveva incoraggiato a coltivare quel loro bellissimo amore nato in uno studio di ragioniere commercialista fra scartoffie e computer, iva e faccende tributarie; un amore romantico tra una ragazza color di pesca, piccola e molto magra, e un ragazzo alto con tanti muscoli e color caffelatte.

Un mattino, dopo ore insonni, pensando ai miei cari lontani non riuscivo più a stare a letto e, sentendo il rientro di mio figlio che era stato al disco-night (erano le due del mattino del periodo pasquale del 1993) mi alzo e chissà perché scosto le persiane della mia finestra della camera da letto; c’era tanto buio, un cielo plumbeo, senza stelle nell’immenso firmamento sopra di me: ma una luce grande mi fissava cambiando toni; e io la fissavo stupita. Quella luce era stata tra i Templi di Agrigento: cosa ci faceva ora di rimpetto alla mia casa in Australia, altissima in cielo, bella in mostra, in un punto dove mi riusciva naturale portare il mio sguardo, proprio qui a Melbourne e precisamente nella mia città di Avondale Heights?

Chiamai mio figlio e anche lui rimase a fissarla stupito, mentre la luce continuava a sua volta a fissarci e cambiava riflessi. Non ci dicemmo niente, con mio figlio, ma entrambi sapevamo cos’era quella strana luce. Uscimmo in giardino davanti alla nostra casa ed essa ci fissava ancora di tra le folte chiome degli alberi. Rientrammo e aprimmo le persiane della finestra del salotto: essa era sempre lì, ombrata dagli alberi. Tornammo nella mia stanza da letto parlando dello strano avvenimento. Cosa più strana, mio marito con tutto quel nostro chiacchierio continuava a dormire placidamente senza sentire niente di tutto il rumore che noi due facevamo mentre continuavamo a fissare la luce da dietro le persiane aperte della mia finestra, perché  sapevo che solo da lì si poteva vedere chiara e precisa, in un continuo scambio telepatico intenso fra me e i suoi abitatori. Ad un tratto chiesi a mio figlio di telefonare alla polizia; ma lui non volle. Gli dissi allora di telefonare all’aeroporto domandando se il radar avesse avvistato una luce grande e strana nel bel mezzo del cielo buio di Keilor Avondale Heights, vicinissima all’aeroporto, ma lui mi disse di non pensarci più e di andare a dormire. Però a sua volta non andò a dormire: si mise a guardare la televisione e ogni tanto scostava le taparelle e sbirciava nel cielo e attraverso le fronde degli alberi la luce penetrava ancora i suoi potenti riflessi dorati anche su di lui!

Dalla mia camera continuai a guardare la mia sfera di luce stravagante, che mi fissava come corteggiandomi. Ora, guardandola, non avevo più paura: mi sentivo protetta e subentravano in me una forza ed un coraggio mai avuti prima, e mi prendeva una sicurezza inaspettata, guardavo estasiata e sentivo un’intesa perfetta da entrambe le parti. Tranquilla m’infilai allora nel letto, ma la mia mente mi chiedeva sempre di tornare ad alzarmi e scostare le persiane per guardare nel cielo buio la mia splendida stella luminosa e scintillante di luce fosforescente, con i raggi che mi entravano diritti al cuore e lo scaldavano come un sole d’estate, tanto erano diretti a me e solo a me.

Tutto questo durò fino alle quattro e trenta: col chiarore dell’alba i miei amici scomparvero, ma lasciarono in me un ricordo indelebile e la speranza che sarebbero tornati ancora. Sì, li aspetterò e ancora li aspetto,  ogni sera e ogni mattina, ed è diventato un rito per me spostare le persiane e fissare quel punto fantastico dove la mia grande sfera splendente ha lasciato la sua luce. La mia grande stella con gli occhi invisibili fissati su di me verrà.

Nessuno dei due, fra me e mio figlio, ha mai nominato la parola Ufo. Ma sappiamo che era un ufo, un extraterrestre venuto da lontano per manifestarsi a me, ed io sono qui che lo aspetto sempre; quell’intesa perfetta era nata a poco a poco e la cosa più strana è che la desidero tuttora e vivo nell’attesa di vederla ancora nel mio cielo di Avondale Heights Keylor per proteggermi e farmi diventare più coraggiosa.

Nei giornali del mattino, comunque, appariva un articolo in cui spiccava a grandi caratteri il titolo “Stanotte una strana, grande sfera di luce ha sostato per ore nel cielo di Avondale Heights Keylor”.

L’Ufo l’ho veramente visto, era la notte di Pasqua del 1993 e non dimentico mai la sua visione abbagliante di luce.

 
(Anonimo PremiopratoRaccontiamoci)
 
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Sanremo

LO ZIO ATTILIO E IL FESTIVAL

Da quando lo conosco, Silvano ha forbitissima penna, pensiero chiaro e opinioni che non temono di dichiararsi. Tre ingredienti che egli conferma in questo piccolo scritto a firma Silas, esprimendo una preoccupazione diffusa sulla dubitabile qualità educativa e culturale di musica e testi in corso di presentazione al festival di Sanremo.

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Dopo tanto tempo che non mi ero fatto più vivo, un po’ a causa del Covid, un po’ per pura pigrizia, sono riuscito ad andare a trovare mio zio Attilio.

Lo zio si è trasferito in un villino nella periferia sud di Roma, con un bel terreno dove lui riesce a coltivare una delle sue passioni preferite: il giardinaggio. E lì appunto l’ho trovato, seduto nel suo giardino ben esposto al sole, dove noncurante del freddo stava esaminando una scatola piena di vecchie musicassette, roba che andava per la maggiore neali anni settanta dello scorso secolo.

“Sai - mi ha detto -  nel fare il trasloco in questa nuova casa ho ritrovato tutte queste canzoni che erano successi di molti anni fa. Avranno un certo valore, visto che già da diverso tempo sono tornati di moda cantanti degli anni sessanta. Guarda il Festival di Sanremo, ormai – come parecchie trasmissioni – sembra un programma della terza e quarta età: vi sono cantanti che già erano famosi quando ero ancora un ragazzino, e sono passati più di sessanta anni, ormai la loro età arriva a settanta, ottanta, novanta anni!

Ti dico la verità, la cosa mi mette un po’ di tristezza: tutto ha una fine e c’è un tempo per tutte le cose. A cosa è dovuto questo eterno revival, a nostalgia, a rispetto per il passato, o piuttosto al fatto che ormai di giovani talenti non ne esistono più e dobbiamo riesumare i fantasmi del passato… con tutto rispetto per i fantasmi! Forse questo è dovuto anche ai testi e ai motivi delle canzoni di oggi: a parte qualche rara eccezione, spesso le parole non si capiscono, cantate o meglio sparate quasi con violenza, e la musica non rimane nemmeno impressa nella mente, c’è qualche motivo che riusciresti a canticchiare magari sotto la doccia, come si faceva una volta?

D’accordo, ormai deve essere tutto spettacolo e bisogna trovare qualsiasi cosa per attirare il pubblico ma… siamo sicuri che il pubblico gradisca veramente queste esibizioni e non vi sia invece costretto e ipnotizzato dallo strumento televisivo?”

“Beh, zio – gli ho risposto – questi spettacoli sono l’occasione per dare un po’ di leggerezza agli italiani, dopo tutte le notizie che ci danno i telegiornali!”

“Guarda, tu sai la mia opinione sui telegiornali, e in altra occasione te ne riparlerò, ma che insegnamento ci danno spettacoli come Sanremo? A parte l’esibizione di persone anziane, guarda anche l’abbigliamento dei cantanti,  va bene che bisogna attirare l’attenzione ma c’è un limite di buon gusto: non capisco perché per entrare in teatro – almeno negli spettacoli serali – bisogna indossare un abbigliamento adeguato e invece i protagonisti cercano di essere più straccioni possibile, in alcuni casi essendo addirittura di una volgarità eccessiva.

E guarda anche alcune signore che si qualificano come presentatrici… le donne si lamentano di essere viste come oggetti sessuali e poi si presentano, come è successo l’altra sera con quella blogger, vestita di una calzamaglia con disegnati i suoi attributi sessuali. Bontà sua, ha detto che non era nuda, come al principio sembrava, era solo un disegno, anzi una riproduzione fotografica del suo corpo al naturale… a me è sembrata solo una volgarità – e tu sai che io sono un amante delle donne e del corpo femminile ma in ben altre occasioni! A questo punto mi aspetto che anche il presentatore maschile si presenti con una calzamaglia con disegnato o fotografato il suo membro maschile, magari ben eretto, con la giustificazione che bisogna rendere omaggio alla Bandiera! Ma siamo seri!!!

Avrai notato anche l’esibizione di quel cantante rap o trap o come diavolo si definiscono oggi, che ha preso a calci tutto l’addobbo floreale del palco e poi con violenza l’ha distrutto scagliandosi contro le piante esposte. La motivazione? Non si è ben capita, ha tentato di giustificarsi farfugliando qualcosa, ma quello che mi ha colpito è stato l’atteggiamento del presentatore che quasi ha tentato di consolarlo, poverino, proponendogli di riesibirsi più tardi, magari allestendogli un altro addobbo da distruggere. Almeno il pubblico, stavolta l’ha fischiato!

Ma che insegnamento diamo ai bambini e ai giovani di oggi? Che tutto è permesso, tutto è dovuto, bisogna essere liberi di fare tutto quello che si vuole, di essere prepotenti e maleducati, anzi viva la trasgressione! D’altra parte questo è un paese dove il buonismo impera sovrano, vedi anche la delinquenza: cosa rischi oggi se compi un delitto? Potrei tranquillamente uccidere mia moglie, specie alla mia età e non rischiare praticamente nulla, magari gli arresti domiciliari, sai che bello! Potrei starmene tranquillamente in casa mia a fare giardinaggio senza uscire di casa per qualche tempo, e dovrebbero pure procurarmi l’alimentazione e badare al mio benessere: non esiste il Garante dei detenuti a questo scopo? Peccato che non esista il Garante delle Vittime che dovrebbe preoccuparsi dei diritti loro e dei loro familiari! Per fortuna che non sono sposato!

Ma ora entriamo in casa a gustarci un bel tè… e attenzione a non passare sopra quelle aiuole che ho appena allestito: non si sa mai, per sentirti come quello pseudocantante potresti pensare di calpestare qualche mia piantina fiorita ma stai attento che nonostante la mia età potrei sempre rincorrerti e affibbiarti qualche pedatona nel sedere…”

Entrando in casa l’ho sentito canticchiare un motivetto di Ornella Vanoni di sessanta anni fa...
                                                                                                                                             
                                                                                                                                              (Silas)
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MM
 
 

Il fascino della montagna

IL FASCINO DELLA MONTAGNA

Sono nato in un paese di mezza montagna della Sardegna e mio padre, contadino e pastore, mi ha fatto apprezzare la montagna con le sue foreste ed i suoi animali, il fascino di paesaggi incredibili, la salubrità di fonti d’acqua millenarie ed intatte, la solidarietà forte e poco ciarliera di chi nella montagna vive, e anche le fatiche che la montagna impone. Da grande ho conosciuto poi le Dolomiti, la superba bellezza delle loro altezze, lo stupore incredibile delle nevi a perdita d’occhio, l’essenzialità senza fronzoli delle comunità che ci vivono. Sono sensazioni forti ma a volte anche sfuggenti: per capirne il fascino nascosto e duraturo possiamo ascoltare chi della montagna ha fatto la sua casa stabile e, insieme, il suo lavoro e la sua passione. Come l’autore della testimonianza che segue.

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Da metà dicembre fin quasi a tutto gennaio il sole illumina il piazzale, a lato della diga, giusto per pochi minuti intorno a mezzogiorno. E questo grazie al colle che separa le due cime – la centrale e l’orientale – del Pizzo Tiranno; due cime angoscianti di ombre veloci anche nei pomeriggi estivi; e solo se il cielo invernale regala giornate serene: altrimenti, nella valle si susseguono lunghe  ore di ombra o di neve e bufera, o vento da restare tappati in casa a studiare da dietro i vetri il profilo arcuato della diga e saperci al di sotto il lago, gelato come un immenso campo di pattinaggio.

Sarà solo da febbraio che, nell’indugiare ogni giorno qualche minuto in più sul candore sconfinato, la luce animerà improvvise emozioni. Intanto, secondo gli anni e secondo le nevicate, i versanti ripidi avranno “scaricato”, e coi tuoni delle valanghe saranno esplose nuvole di polvere bianca; da altri pendii, meno inclinati, scivoleranno masse compatte nei giorni a venire: ma sarà solitamente verso metà marzo che i guardiani saliti alla diga del Pizzo Tiranno cominceranno a sentire crocchiare meno dura la neve sotto i loro scarponi. Sul piazzale il mezzogiorno accenderà temperature tiepide, il sole raggiungendo la casa riscalderà le stanze di un calore buono; sopra il davanzale ben esposto il ciclamino occhieggerà gemme minute, giù dal tetto i ghiaccioli perderanno dimensione e profondità, nell’aria qualche insetto ancora stordito affannerà i primi voli. Da allora i giorni alla diga scorreranno nuovi, più vivi.
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E’ pur vero che nel periodo freddo il bacino viene riempito d’acqua per meno di un terzo della sua portata, ed è pur vero che la centralina segnala e regola tutto: ma l’uomo ci deve essere sempre, non fosse altro che per verificare sul posto eventuali malfunzionamenti degli strumenti. Quest’inverno, caso non così raro durante la stagione, sono stato io il guardiano rimasto bloccato alla diga per più di tre settimane filate; con me era di turno Nestino.

Tutto è cominciato il sabato dell’Epifania, quando, subito dopo pranzo, nel cielo lattiginoso hanno cominciato a ondeggiare i primi fiocchi morbidi. Per il cambio mi sarebbe toccato rientrare in paese il giorno successivo, ma la domenica l’elicottero non ha volato; durante la notte sul piazzale della diga era sceso circa un metro di neve: e non sembrava proprio voler smettere.

Cristalli candidi, ossessivi, dondolavano nell’aria gelatinosa, fitti come un disturbo sugli occhi. Non riconoscevo più il parapetto, distante pochi metri da casa. Un silenzio ovattato avvolgeva la conca del Pizzo Tiranno; dentro i canaloni la coltre bianca gonfiava minacciosa fino a raggiungere spessori notevoli e sembrava bastasse un soffio per staccare valanghe: magari anche solo qualche grado in più di temperatura. Immensa, la quiete rivestiva l’immobilità precaria sulle montagne.

In questa calma carica di tensione, e a volte anche il silenzio è tensione, si aspetta quello che sai che deve succedere. Seduto in cucina davanti a un the caldo – Nestino, se non ci sono lavori, sta in camera sua a leggere – seguivo le previsioni meteo e intanto pensavo al bivacco artigliato alle rocce sopra la morena del ghiacciaio. Forse era già scomparso, sepolto dalla neve. Quattro ragazzi, con sci, piccozza e ramponi, c’erano saliti il giorno dopo capodanno: batteva traccia Marco, aspirante guida alpina, un armadio alto due metri e conosciuto da tutti in valle. Erano scesi prima che nevicasse, sapevano di quella perturbazione spessa. Avevamo bevuto insieme un vinbrulè, poi li avevo salutati fermandomi sul parapetto a seguire le loro serpentine sugli sci.
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In casa, alla diga, ci sono sempre scorte anche per una permanenza non prevista; così, quando dopo dieci giorni il caposquadra aveva urlato nella radio che il mio sostituto si era ferito a un piede spaccando legna, io gli avevo risposto che sarei rimasto su senza problemi: lui doveva solo ricordarsi di caricare le bottiglie di genepy – quello giusto – con il primo giro dell’elicottero. La domenica, in ogni caso, nessuno sarebbe potuto salire a causa di un’altra nevicata continuata copiosa fino a metà settimana.
Per Nestino, il mio socio, non era segnato il cambio: spesso lui rimane su anche tre turni di fila: in valle lo chiamano lupo bianco per via dei suoi trascorsi di bracconiere e per i capelli, velati d’argento da quando aveva trent’anni. Sono i suoi ultimi mesi di lavoro, vive solo, l’anno scorso ha perso il fratello in un brutto incidente che non è mai stato chiarito; al bar in piazza qualcuno, sottovoce, fa riferimento a parole forti e a minacce scambiate con la gente alla quale ha venduto la baita, pare costretto dai debiti. Beveva e giocava, il fratello, e la pensione era poca.

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Per necessità, dopo le notizie del mezzogiorno e la chiamata del caposquadra, un’occhiata ai sistemi di sicurezza o un giro con binocolo nei rari squarci di visibilità, tutti i giorni si usciva a spalare neve; con Nestino faticavamo quel tanto da permetterci di raggiungere, senza sprofondare fino al ginocchio, il piazzale dove si posa l’elicottero. Ripetevamo questa ginnastica ogni pomeriggio ma la mattina successiva puntualmente la traccia era già scomparsa. Allora toccava cominciare daccapo: infilavo i guanti e uscivo per primo, con la pala, e ben presto sudavo sotto il cappello e la maglia di lana, e il sudore si gelava alla barba. Una volta aperto il passaggio, Nestino mi offriva da fumare. Era uno dei rari momenti, ad eccezione dei pasti, in cui riuscivamo a scambiare quattro parole. Dopo la sigaretta rientravo e mi rilassavo a lungo nella doccia bollente, piacevolissima. Finalmente la terza domenica di gennaio, una giornata molto fredda e limpida, qualcuno salì per darmi il cambio.

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Sono anni che faccio il guardiano alla diga – quasi sempre in coppia con Nestino – e so convivere con i silenzi e la solitudine: ma a volte, durante la breve luce invernale, certi pensieri danzano sopra equilibri smarriti. Ho imparato a seguirli con razionalità, li raggiungo e li intontisco in una boccata d’aria gelida o nel privilegio di trascorrere momenti unici fuori dal mondo, e li fisso in appunti sulla mia agenda segreta. Così tratteggio disegni, improvviso canzoni che stonano metriche e rime, abbozzo paesaggi estranei a tutto quel candore, addormento desideri su spiagge coralline. Mi allontano nel sogno, cullato dal sole che filtra tra le palme. Vivo fughe rapide, necessarie, fughe in cui lascio sfumare  giornate eterne di nebbia, di vento e gelate, di confessioni profonde. La solitudine, accettata in una scelta, non è pazzia.

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Quando e dove la montagna lo permette, anche in pieno inverno c’è chi la sale calzando gli sci o le racchette da neve. Tuttavia è soprattutto in primavera che gli appassionati puntano al Pizzo Tiranno o ai colli aperti verso nord, terreni e passaggi che Nestino conosce come le sue tasche. I più preparati affrontano un percorso impegnativo che supera una seraccata, passa sotto il bivacco e s’impenna verso il passo di confine con la Svizzera; la scorsa primavera, solo a metà maggio le guide sono scese da lassù con i clienti. All’epoca la neve a copertura uniforme terminava cento metri sopra la diga; dopo, si camminava calpestando terra fin sotto il muraglione, e da lì, quelli abili, sfruttando la copiosa e puntuale colata della valanga nera saltavano e curvavano ancora con gli sci giù per il canale, incrociando al fondo il sentiero che porta in paese.
Per tutta la stagione della neve, però, quando il canale è pericoloso perché dai lati oltre la valanga nera staccano altre slavine, il collegamento da e verso il fondovalle avviene seguendo una via alternativa, che compie un dolce semicerchio. A fine settimana io la scelgo spesso: se ci sono buone condizioni significa una sciata lunga e piacevole. A inizio turno, invece, siccome non voglio perdere quel po’ di allenamento in salita, se il tempo è bello rifiuto il passaggio in elicottero e mi avvio con le pelli di foca sotto gli sci. Ho per me la mattina intera: studio le tracce degli uomini e degli animali, fotografo alberi in controluce e malghe abbandonate, fermo le nuvole che dissolvono sfilacciate. Con amore e gelosia penetro l’intimità della montagna, o almeno così credo. Ed è per questo che quei momenti, unitamente a quelli di altre gite, li voglio rivedere da solo, sfogliando le immagini nel mio egoismo silenzioso; a casa,  in paese, ho tappezzato una parete con ingrandimenti di particolari o di paesaggi in cui io non compaio mai, e non compare mai nulla di mio, a eccezione del primo piano scattato ai miei sci piantati nella neve in cima al Pizzo Tiranno. Sotto tutte le foto ho indicato la data e il luogo, e tutte mi appagano con sensazioni di libertà.

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Anche quest’anno, come gli altri da quando lavoro alla diga, il tempo è passato lento fino ai giorni di carnevale. Ora è primavera inoltrata, una primavera splendida, con il termometro costantemente sopra la media stagionale. Ed è nuovamente il mio turno alla diga. I crocus ravvivano i pendii bassi esposti a sud, la strada che arriva al muraglione è quasi tutta senza neve. L’inverno si sta allontanando: guardo indietro e mi sembra impossibile aver superato la sua immensità con la mia presenza adattata. Già s’avvicina maggio e, a seguire, la sempre troppo rapida estate. Certe sere senza vento potrò uscire in maglietta sui camminamenti della diga a riscoprire la luna piena specchiata nel lago, come una pallida chiazza tremolante. Durante il giorno lo scoiattolo verrà di nuovo a saltare invisibile tra i rami del pino in fondo al piazzale e sui prati in fioritura sgargianti si ubriacheranno le api. Sarà bellissimo vivere quella stagione fuggevole. Rifiuto il pensiero che accenna all’autunno, anche se so che tornerà inesorabile con le nuvole basse e le bufere ostinate sopra il ghiacciaio.  

Ora è primavera e la primavera è attesa, è un’esclusiva che m’illude. E’ primavera, la luce e i colori sono primavera. Otto giorni fa, giovedì della settimana santa, per la strada della diga è salita una famigliola: padre, madre e una bambina. Tutti e tre vestivano maglioni colorati e pedule nuove. Davanti a loro correva una cagna, una giovane lupa appena più grande di un cucciolo; l’ho seguita, balzava instancabilmente su e giù, drizzava le orecchie pronta a lanciarsi dietro al fischio d’una marmotta, o annusava eccitata la neve residua sotto i larici. Al sole, nella radura vicina al piazzale, l’uomo ha posato lo zaino e la donna ha disteso una coperta e preparato i panini. Dopo mangiato mi hanno chiesto una fotografia, li ho fissati che ridevano e la bambina inginocchiata abbracciava il cane.

Prima di scendere sono passai a salutarmi; sedevo davanti a casa e controllavo gli attacchi degli sci: l’uomo mi ha confessato di aver goduto ore serene e nelle sue parole ho colto la stessa forza che spinge l’erba fuori dal terreno. Mentre rientravano – e la bambina correva e chiamava la lupa – la donna ringraziava l’uomo per la giornata trascorsa insieme. Spero che conservino altri ricordi felici di questa primavera.

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Il fine settimana che viene – il tempo è previsto bello – certamente le guide svizzere caleranno dal passo con gli sci insieme ai loro clienti. Peccato che dalla diga in giù toccherà andare a piedi; il canale colmato dalla valanga nera comincia a bucarsi pericolosamente e l’acqua che corre sotto cresce ogni giorno più prepotente. Ma in alto, tra i seracchi, già m’immagino le curve pulite sulla neve assestata, già vedo il sole scintillare riflessi che illuminano vertiginose pareti di ghiaccio, già sento la montagna liberare il suo respiro nel mio respiro. Magari domenica, anziché tornare subito a casa per il turno di riposo, salgo al bivacco e il giorno dopo punto verso il colle. Sono sicuro: troverò la gita tracciata.
                                                                                                                   
                                                                                                                  (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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Famiglia

I NONNI: UNA PRESENZA PER SEMPRE

Famiglia

I NONNI: UNA PRESENZA PER SEMPRE
 
Ancora una storia di vita: affinchè impariamo sempre meglio a dare alla vita un valore profondo anche nei suoi aspetti più umili e intimi.

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L’estate era trascorsa e le prime foglie ingiallite cominciavano a cadere dagli alberi, addormentati dal sonno dell’autunno. Da due mesi mia nonna si era adagiata sul letto matrimoniale della sua camera, e coperta da una trapunta attendeva pazientemente che il velo del riposo eterno si posasse sul viso sereno. In alto, sopra la spalliera del letto, il Bambinello in braccio alla Madonna la guardava languidamente, quasi per rassicurarla che presto li avrebbe raggiunti in cielo. Il cancro accompagnato dalla senilità aveva assorbito tutte le sue energie vitali, lasciandola in una quiete apparente mentre interiormente compiva il suo sviluppo. In quel periodo avevo ricevuto una proposta di lavoro importante, da uno studio legale. Laureatomi in giurisprudenza a primavera, ero impaziente di avviare la professione d’avvocato ma sapendo che la nonna stava molto male decisi di prendermi cura di lei. Una nonna è troppo preziosa per essere sostituita con un impiego lavorativo.
Il comò appesantito dai tanti medicinali sembrava una farmacia ambulante, e dove un tempo lei si specchiava vanitosamente pettinandosi i lunghi capelli castani, la polvere si era posata lasciando un sottile strato. La sola traccia, presente nella stanza, della sua giovinezza, era una foto fatta insieme al nonno, prima di sposarsi. Spesso la guardava sospirando, come fosse una finestra che si affacciava sul passato, immortalando la bellezza di una volta, ormai perduta.

Il nonno amava moltissimo la fotografia, fin da giovane, e aveva coltivato per l’immagine in bianco e nero un profondo senso artistico. “Nelle foto – diceva – è possibile compiere un miracolo: fermare il tempo, strappando all’oblio i momenti più belli, e non invecchiare mai”. Fotografava tutto ciò che lo affascinava, dalle persone alla natura ogni soggetto era buono per essere immortalato. La sua cantina era un vero laboratorio fotografico, l’ordine e la cura con cui usava il materiale fotosensibile erano assoluti. Ricordo ancora le volte che mi prendeva in braccio e mi spiegava come avveniva il processo di sviluppo del negativo; mio nonno era insomma una vera risorsa, un concentrato di creatività e conoscenze, e grazie a lui ho scelto di andare all’università. “La sapienza – diceva – è la sola cosa in grado di rendere liberi, ma soprattutto consapevoli di chi siamo e cosa vogliamo essere”.

Nonna lo amava anche per questo suo talento, per questa capacità di vedere e percepire la bellezza nelle cose che, viste di sfuggita, ad occhio nudo, spesso non esprimono nulla se non ciò che sono materialmente, ma, se le si osserva con maggiore attenzione, in esse è possibile vedere la vita ed il tutto perfetto. Solo allora si capisce che meraviglia sono il mondo e l’esistenza, con le loro forme.

Una mattina mi avvicinai al letto per misurarle la pressione e le chiesi come si sentiva. Lo sguardo era immobile verso il soffitto, freddo come quello di una statua, e sembrava non aver ascoltato le mie parole.”Nonna, mi hai sentit…”: non feci in tempo a terminare la frase che lei scoppiò a piangere. “Voglio andarmene”, mi disse con voce commossa. In vita sua solo due volte l’avevo vista piangere: il giorno del funerale del nonno, e una sera dopo avere litigato con mia madre al telefono. E’ stata sempre molto orgogliosa e il pianto per lei era autocommiserazione. L’abbracciai trattenendo la forza per paura di stringerla troppo; il dolore l’aveva affranta. Sentivo le ossa fragili del suo corpo delicato e magro, rivestito da un pigiama di cotone, e in quel momento avrei dato la mia vita per salvare la sua. Si asciugò le lacrime con il lenzuolo e mi porse lentamente il braccio. Le inserii lo sfigmanometro elettronico: la pressione sanguigna e le pulsazioni erano regolari. L’aiutai a sollevarsi dal letto e sistemandole i cuscini dietro la schiena le feci appoggiare la testa accuratamente, accarezzandole la fronte. Tra le pieghe delle rughe era ancora possibile scorgere il fascino celato di una donna stupenda. Gli occhi azzurri e luminosi lasciavano trasparire una forza interiore particolare e il suo sguardo penetrava dentro il mio, riuscendo a cogliere ogni mia preoccupazione. Alzando il mento mi disse: “Sei stanco, dovresti riposarti”. Sorridendo le risposi: “Non ti preoccupare, sto bene”. In realtà ero quasi distrutto e assisterla significava dedicarle tutto me stesso non facendole mancare mai nulla.

Un giorno mi chiamò, dicendomi che doveva parlarmi. “Michele, devi andare via!”, esclamò con un’espressione seria. Non puoi rinunciare alla tua vita per me, io sono vecchia e tra breve lascerò questo mondo; ho realizzato le mie scelte, ora devi compiere le tue”. La guardai per un istante, poi uscii senza dire nulla. Mia nonna è stata per me come una seconda madre: fin da bambino sono cresciuto con il timore che i miei genitori divorziassero, in famiglia i litigi erano all’ordine del giorno, e così più di una volta sono fuggito di casa andando a stare da lei. Dopo cena ci sedevamo sul divano, in salotto, e insieme al nonno vedevamo la tv; prima di metterci a letto pregavamo e delle volte, quando non avevo sonno, mi raccontava una favola. Standomi vicino nei momenti difficili m’infondeva quel senso di coraggio necessario per andare avanti: la nonna aveva tutto quello che mancava a mia madre. Con affetto mi ha cresciuto amorevolmente, e accompagnarla nell’ultimo periodo della sua esistenza significava per me contraccambiare l’amore che mi aveva donato. Le nonne sono delle sante, perché compiono un doppio miracolo: prima mettono al mondo i loro figli, poi crescono i nipoti, con maggiore affetto.

L’assistetti per un mese; morì un tardo pomeriggio di novembre, quando gli ultimi raggi del sole stavano svanendo nel crepuscolo della sera e nel giardino la natura ormai spenta si lasciava bagnare dalla pioggia e il suo leggero e dolce suono aveva accompagnato ogni istante della giornata, rendendo ovattate le ore passate insieme. Come di consueto doveva prendere le medicine: aprii la porta della camera, accesi l’abatjour sopra il comodino e delicatamente provai a svegliarla. “Nonna… nonna, svegliati… devi prendere la medicina”. Nessun movimento né risposta seguì la mia incitazione. Alzai il tono della voce: “Nonna, sono Michele…la medicina… ti prego, apri gli occhi…”. Respirava a fatica. Il cuore batteva fiaccamente e le labbra avevano assunto un colorito violaceo. Iniziai a sudare; un nervoso improvviso mi fece tremare le gambe salendo fino alle mani. Provai a rianimarla, ma i miei sforzi furono inutili. Precipitandomi nel corridoio alzai la cornetta del telefono e chiamai il pronto soccorso. Rispose un’operatrice dalla voce squillante e metallica dicendomi: “Si calmi, mi dica dove abita e cosa le è successo”.

Non riuscivo a frenare la mia agitazione, sapevo che era troppo tardi e che stavo compiendo una corsa contro il tempo ma già persa in principio. Balbettando le lasciai l’indirizzo dell’abitazione, riattaccai il telefono e tornai nella camera. Inginocchiandomi accanto al suo letto e stringendole le mani pregai come quando ero bambino, come una povera anima in pena che dopo tanti anni ritorna alle sue origini cristiane, abbandonate dall’indifferenza dell’età adulta. Come un fiume in piena, le lacrime no riuscivano a smettere di inondare le palpebre e, scivolando fino alle labbra, con il loro sapore salato spegnevano l’amaro che avevo in bocca. Il silenzio glaciale che avvolgeva la stanza era rotto dal tichettio costante della sveglia, la sola a ricordarmi che il tempo non si era fermato. Davanti all’impossibilità di agire mi sentivo debole, bloccato in un limbo tra realtà e irrealtà. La vita continuava il suo corso, impassibile, e intanto in lontananza sentivo la sirena dei soccorsi che stavano arrivando. Sarei rimasto immobile al suo fianco, se non fosse stato per loro, e forse mi sarei lasciato morire, avrei condiviso anche quel momento della sua esistenza. Fino all’ultimo sperai che potesse farcela, ma quando il medico le coprì il viso con il lenzuolo e si fece il segno della croce, capii che non l’avrei mai più rivista.

Il giorno dopo, uscendo dalla casa in cui ero stato per molti giorni, andai in giardino e sedendomi ai piedi della grande quercia appoggiai la testa al tronco. Respirando profondamente chiusi le palpebre addormentandomi in quella pace naturale. Al risveglio ebbi l’impressione che fosse passata un’eternità, nel cielo plumbeo uno spiraglio di sole splendeva lontano e un arcobaleno di colori vivaci nasceva trafiggendo il mantello delle nuvole. Osservandolo mi tornarono in mente tante cose della nonna: per ogni colore un ricordo, un’emozione preziosa. Il rosso porpora del roseto che amava curare con tanta passione, l’arancione del suo grembiule da cucina, il giallo del buonissimo biscotto preparato la domenica per colazione, il verde smeraldo dell’anello regalatole dal nonno per i cinquant’anni di matrimonio, il celeste della sua vestaglia da notte vellutata, il viola del fermaglio tra i suoi capelli, il blu del maglione che ricamò a mano per il mio compleanno, l’azzurro intenso dei suoi occhi ed il rosa delicato e  morbido della sua carnagione.

Non so perché, ma da quel giorno ogni volta che mi capita di osservare l’arcobaleno ripenso a lei e alla sua infinita bontà di nonna. Credo che tutte le nonne ne abbiano una particolare, rara e unica. Come delle madri ci crescono, ci sono vicine, fanno sacrifici per noi, donandoci tanto affetto, poi quando muoiono, dopo tanto amore donato, si accontentano di un semplice fiore lasciato sulla loro tomba. La vita è proprio strana, non c’è quasi mai la giusta proporzione tra il dare e il ricevere, anche se, in cuor mio, sento di averle dato tutto me stesso per aiutarla e per vederla ancora una volta sorridere.

Oggi, dopo un anno dalla sua morte, i miei sentimenti sono rimasti immutati. Delle volte la nostalgia viene a trovarmi, ma è sufficiente che ripensi ai momenti belli trascorsi insieme e subito svanisce. Una persona cara che si spegne è come una stella cadente che smette di brillare in cielo e il desiderio più grande è che possa esserti vicina in ogni momento, mantenendo quel rapporto d’amore che va oltre la vita.
                                                                                                       
                                                                                                                        (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
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