Racconti di vita

PICCOLOBLU

A volte, come nel caso del racconto che pubblichiamo oggi, non correggiamo neanche la lingua italiana laddove essa può essere formalmente meno perfetta: perché chi ci regala queste esperienze di vita ci mette spontaneamente a disposizione la sua vicenda di umanità senza altre pretese che quella di testimoniare con onestà, e questo è un merito pieno, che non ha bisogno neppure della perfezione espressiva della lingua italiana (a volte si tratta di persone che, semplicemente, non hanno potuto compiere un completo corso di studi perché la vita le ha portate per ben più stringenti sentieri da affrontare).  

Ci si potrà rimproverare il fatto che, con il racconto odierno, per la seconda volta ci soffermiamo su una piccola vicenda di legame fra una persona e un animaletto, e ciò può sembrare un attaccamento eccessivo a una sorta di causa animalista: ma non è così. Raccontiamo tutta la vita e tutte le vite che ci capita di incontrare, nelle loro piccole e grandi dimensioni, invitando noi stessi e tutti a considerarle così come ci vengono incontro, semplicemente, nei significati piccoli e grandi che possono rivestire, e in ogni insegnamento che se ne possa trarre.

°°°°°
 
Spesso i ricordi ci riportano indietro negli anni e i frammenti di emozioni ronzano all’orecchio della mente come api nell’alveare, e la mente continua aleggiando nel mare del passato, a volte senza trovare la fondamentale risposta ai quesiti che pone.

Scrivo questo episodio, vissuto con tristezza nella mia giovane età, quando negli anni del dopoguerra la vita era dura, la gente per sopravvivere era pronta a qualsiasi sacrificio, le famiglie erano numerose ed in ogni casa c’era solo il necessario per vivere.

Nella via in cui la mia famiglia abitava, al lato opposto della mia casa sorgeva un vecchio palazzo antico, che apparteneva ad una grande famiglia benestante, aristocratica, antica: i Medici, che del vecchio palazzo non facevano nessun conto; ma la gente del paese lo usava per gettarvi i rifiuti, e spesso per qualcosa di più doloroso. Quando nelle loro case avevano degli animaletti, soprattutto cani e gatti, e questi davano alla luce cagnetti e gattini, questi per mancanza di cibo venivano buttati vivi, senza rimorso, lì nel palazzo, e il pianto di questi esserini giorno e notte mi tormentava il cuore; spesso andavo, li raccoglievo nel mio grembiulino, li portavo a casa chiedendo a mamma di dare loro il mio cibo per sfamarli, e così mi sentivo felice.

Vedendomi tanto sensibile, mia madre mi accontentava e tutto ciò durava due, tre giorni; ma quando il terzo o quarto giorno tornavo da scuola e subito andavo al cesto e lo trovavo vuoto, allora chiamavo la nonna e la mamma e domandavo: “Dove sono gli animaletti?”. Loro, in sintonia, mi rispondevano che dai paesini di montagna era scesa gente per vendere i suoi prodotti, gente che stava bene, padroni di mandrie e di tante cose da mangiare; e li avevano regalati a loro, con loro sarebbero stati bene, avendo cibo in abbondanza, e sarebbero cresciuti da gran signori. Io nella mia innocenza ero felice. E ancora oggi non so se tutto questo era vero: ma non sentendo il loro pianto cessavo di essere triste. Mamma faceva del suo meglio per me, diceva che ero il suo piccolo uccellino spennato: “Se viene una ventata di vento ti porta via...”. Ero esile e lei mi abbracciava fortemente al cuore e faceva quanto poteva per me.

Ma l’episodio che segnò la mia anima fu quando, a quattordici anni, mi regalarono un cagnolino dagli occhi blu, bianco come la neve, di una bellezza straordinaria, il cui epilogo si immortalò nella mente mia segnandovi una storia particolare che ha messo un punto fermo nella mia vita.

Sono sempre stata innamorata dei fiori, ma le circostanze della vita non davano quello che desideravamo;                                                                                      c’era un limite in tutte le cose. Nella mia famiglia eravamo cinque bambini e, quando il Natale arrivava, per ognuno di noi il regalo più bello era un vestitino; succedeva due volte l’anno, il Natale per l’inverno e Pasqua per l’estate; con i tempi che correvano, questo per noi era una grande cosa,  un privilegio, pensando ai bimbi che avevano poco o niente; ma la bellezza era che chi aveva divideva tutto: specialmente pane, scarpe e vestiti; nei piccoli paesi si era una grande famiglia, amandoci e rispettandoci a vicenda.

Così arrivò il fatidico giorno; mamma e papà ci portarono a Bovalino, un paese vicino al nostro; Bovalino era un paese commerciale con tantissimi negozi di ogni genere, e mentre camminavo i miei occhi si posarono su un fioraio: aveva fiori bellissimi e io ammiravo una pianta di bellezza spettacolare, una pianta colma di bianche gardenie; mi sembrò che tutta la neve del mondo fosse caduta su quei petali ed il profumo inondava l’aria: mi fermai, mamma mi chiamava ma io non mi muovevo, qualcosa dentro me cambiò, volevo la pianta. Lei disse: ”La pianta costa quanto la stoffa del vestitino, non si possono comprare tutte e due”; ma io dolcemente e con perseveranza la convinsi, e così ebbi la mia splendida pianta. La curavo ed ogni giorno diventava più bella, ricca nella corona delle sue gardenie, attraverso i vetri della mia finestra l’ammiravo e mi sentivo felice.  

Accadeva anche che ogni giorno da casa mia passava un dottore veterinario  con la moglie: erano amici di famiglia; a quei tempi i dottori erano gente importante e di grande rispetto, e  successe che la signora moglie s’innamorò della mia pianta e venendo a trovarci diceva che non aveva visto mai una così bella e viva pianta; io sentivo che la voleva a tutti i costi, e lei mi offriva quello che desideravo: ma io dissi sempre di no. “E’ la mia pianta e non la do a nessuno”. Mamma mi suggeriva di darla al dottore e alla signora, perché “sono gente che… abbiamo sempre bisogno di loro”. Ferma, io dicevo sempre di no. Ma un giorno dovetti cedere: e pagai a caro prezzo.

Il dottore si presentò con un grande cesto adorno di fiocchetti e nastri blu e dentro il bianco cagnolino, il mio Blu dagli occhi color del cielo. M’innamorai subito di lui, lo presi in braccio, e lui cominciò a leccarmi con il suo musetto rosa. E’ stato un amore a prima vista; più cresceva, più si attaccava a me ed io la lui, era il bene dell’anima mia ed io gli detti quel nome con amore: Blu.

Se ben ricordo, a quei tempi in ogni paese le macchine si contavano sulle dita delle mani, erano pochi i privilegiati ad averne una, e per mia fortuna un giorno al palazzo dei grandi signori c’era festa, parteciparono persone di paesi lontani, arrivati da ogni dove proprio in macchina, ed io in quel giorno andai in negozio per far delle compere, attraversando la strada da casa mia. Il negozio distava pochi metri e mi avviai credendo che il mio piccolo Blu non mi avesse visto andare, ma lui mi aveva seguito a distanza e mentre attraversava la strada una macchina lo investì, sfortunatamente, travolgendolo e ferendolo gravemente; e così ferito, per amor mio si trascinò fino al negozio dove ero. Arrivò ai miei piedi, mi si buttò sopra lamentandosi, guardai cos’era e il battito del mio cuore si fermò, le lacrime scorrevano come un temporale vedendo il mio Blu colmo di sangue; lo presi fra le braccia e me lo strinsi al cuore, piansi: lui mi guardò con quegli occhioni colmi di lacrime e con un lieve sospiro morì fra le mie braccia.

Tornai a casa con il mio fagottino; il suo sangue bagnò il mio viso, le braccia, il vestito; il mio cuore sanguinava dal dolore, e lì finì quel grande bene. In tutta la mia esistenza non ho avuto più il coraggio di prendere un altro animaletto. E’ rimasto lui solo, nella mia vita e per sempre: il mio piccolo Blu.

Così finì pure la mia bella e bianca gardenia: nella vita niente è nostro, bisogna godere quello che si ha al momento e stringerlo nelle mani e nel cuore; solo i ricordi sono nostri, non ce li fa dimenticare nessuno, sono una proprietà nostra assoluta: ed oggi mi rivedo una bimba che stringeva fra le sue braccia anche la sua pianta di gardenia con occhi sorridenti e la felicità nel cuore.

Questa storia l’ho scritta per ognuno che sia padrone di un animaletto, affinchè lo ami, lo accudisca e gli voglia bene: perché sono degli esserini che hanno bisogno di tanto affetto e di tanto amore, e li ricambiano.
                                                                                                             
                                                                                                               (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)

 
°°°°°
MM
 
 

Storie di vita

PIPPO L'ARISTOGATTO

6 gennaio 1943, festa dell’Epifania. Per noi bambini era la festa della Befana, la simpatica vecchina che nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, a cavallo di una scopa e con una gerla sulla schiena portava regali a tutti i bambini. In quel lontano 1943 io vivevo l’attesa della Befana in modo insolito: questa volta svegliandomi non avrei trovato vicino al letto il babbo e non avrei condiviso con lui, come sempre avevo fatto, la gioia e lo stupore per i regali ricevuti. Questa volta egli non poteva essermi vicino: era lontano per la guerra.
 
Quel mattino, quando mi sono svegliata, ho trovato come ogni anno, appesa alla spalliera del letto, una calza piena di dolcetti e sul comodino una sagoma della befana fatta con della pasta dolce. Sul letto, al posto dei giocattoli, un cestino legato con un nastro azzurro e, appeso, un biglietto dove era scritto: Ecco Pippo, un amico per sempre. Incuriosita mi sono affrettata ad aprire il cestino e dentro c’era un piccolo gatto, un bastardino con un mantello peloso bicolore, sopra maculato come un soriano e sotto, pancia e zampette, bianche: sembrava un comune gattino e non sapevamo quanto sarebbe stato speciale.
 
In quel periodo passavo molto tempo da sola, mentre mia madre continuava a lavorare in una grande fabbrica laniera. Il tessile era la caratteristica di Prato, la nostra città. Producendo soprattutto tessuti e coperte per militari, le aziende laniere lavoravano ancora a pieno ritmo: tutto si sarebbe fermato più tardi, con l’arrivo dei bombardamenti. Anch’io conti[G1] nuavo ad andare a scuola: frequentavo la seconda elementare; ma anche la scuola a breve si sarebbe fermata. Il peggio, purtroppo, doveva arrivare.
 
Sentivo molto la mancanza di mio padre, particolarmente la sera, quando mia madre aveva il turno serale e sarebbe rientrata dal lavoro alle 22,30. Il pomeriggio passava presto: noi bambini andavamo sempre all’aperto per i nostri giochi di gruppo, eravamo liberi e indipendenti, forse anche troppo indipendenti. A volte avevamo l’impressione di essere orfani: gli adulti erano distratti e affaccendati in altro di più urgente. All’ora di cena però dovevo andare nella casa di mia zia Umiltà, la sorella maggiore di mio padre, la quale abitava vicino a noi. I miei zii avevano una famiglia numerosa, cinque figli, e l’ultimo era affetto da una pesante poliomielite che lo costringeva in una sgangherata carrozzella donatagli dall’Ospedale Palagi. La loro casa era piccola, la loro miseria era grande. Lo zio Tito faceva di mestiere il muratore e in quel periodo, causa la guerra, era quasi senza lavoro. Per la preoccupazione e l’umiliazione di non riuscire a sfamare i suoi figli, egli, che era un omone buono e dolce, aveva avuto un crollo fisico (era dimagrito di 30 chili) e psicologico. La sera, invece di mettersi al tavolo con noi per la cena, si metteva in disparte seduto su una sedia e con la testa fra le mani piangeva. L’atmosfera in casa degli zii era molto pesante, troppo diversa dalle serate passate con mio padre prima della partenza per la guerra.
 
Il babbo, che prima della guerra lavorava nell’azienda del gas, aveva un turno di lavoro unico, diurno, e all’ora di cena era sempre con me e quando mia madre aveva il turno serale lui mi organizzava delle serate speciali. Forse perché ero figlia unica o forse per una sua grande sensibilità al riguardo (aveva perduto la mamma da piccolo) faceva tutto il possibile per non farmi sentire la mancanza della mamma. Le nostre serate speciali erano di due tipi: quelle “musicali” e quelle “imitative”.
 
Per le serate dedicate alla musica lui toglieva dal suo piedistallo il grammofono, un oggetto bellissimo marcato “La Voce del Padrone”, e me lo piazzava sul grande tavolo centrale; e io fin da piccolissima avevo imparato ad usarlo. In piedi su una sedia sapevo cambiare i dischi, cambiare le puntine e girare la manovella per ricaricarlo.
 
Per le serate “imitative”, in cui volevo giocare alla “mamma”, chiedevo a mio padre di togliere dalla vetrinetta i servizi di porcellana, regali di nozze che mamma aveva ricevuto dai suoi compagni di lavoro e a cui teneva moltissimo: e lui con grande azzardo me li affidava per farmi giocare a fare la padrona di casa. Fortunatamente tutto è andato sempre a buon fine e prima che lei rientrasse dal lavoro rimettevamo le cose a posto. Tutto questo ora non c’era più a causa della guerra. Io ero sempre più triste e malinconica.
 
Un maestro di vita
 
Pippo, il gattino, cresceva in fretta e ben presto cominciammo a capire che aveva qualcosa di particolare. Non miagolava quasi mai: non gli piaceva quel mezzo di comunicazione, preferiva esprimersi con gli occhi, i quali diventavano sempre più attenti ed espressivi.
 
Oggetto particolare della sua attenzione ero io: non mi perdeva mai di vista. Più cresceva e più avevo la sensazione di avere vicino qualcosa di speciale. Facendomi coraggio chiesi a mia madre di non mandarmi più dagli zii per l’ora di cena: preferivo rimanere nella nostra casa in compagnia di Pippo. All’inizio la mamma era un po’ perplessa, poi capì questa mia necessità e trovando un aggiustamento (facendo venire le mie due cugine più grandi a “darmi un’occhiata”) acconsentì a questo mio desiderio.
 
Pippo era sempre con me, era come se mi avesse preso in affidamento e, particolarmente nelle sere in cui ero sola, non usciva mai di casa. In quel tempo lontano la vita era molto diversa da quella che siamo abituati a vivere oggi. Nei paesi come il mio le case erano tutte singole, con la porta d’ingresso a pian terreno e sempre aperta. I bambini e gli animali domestici vivevano molto all’aperto, nella strada o nei campi vicini. La scelta di Pippo, di non uscire di casa la sera, lo rendeva diverso dai suoi simili: lui era sempre diverso. Tutto quello che faceva o che non voleva fare era caratterizzato da una scelta precisa sempre pensata, consapevole. Dopo ogni sua azione mi guardava e con quegli occhi intelligenti sembrava volesse dirmi: “Osserva, rifletti, usa la testa”. Oltre a darmi lezioni di consapevolezza mi faceva apprezzare anche la diversità. La vicinanza del gatto mi tranquillizzava e rendeva meno acuta la mancanza di mio padre, anche se era tanta la voglia di rivederlo!
 
La storia comunque mi stava aiutando, dato che si avvicinava una data importantissima per noi italiani: l’8 settembre del 1943, firma dell’armistizio con gli angloamericani. Circa un mese e mezzo prima, il 25 luglio, era caduto Mussolini con il suo governo e il generale Badoglio aveva preso momentaneamente il controllo del paese. Molti ingenuamente pensavano che con la firma dell’armistizio la guerra sarebbe finita. I militari che erano sui fronti di guerra cercarono di tornare a casa. Anche mio padre, che in quei giorni difficili era ricoverato a San Gallo, nell’ospedale militare di Firenze, per curarsi una ferita ad un ginocchio, riuscì con una fuga rocambolesca a tornare a casa. Anche lui, come molti, pensava che il peggio fosse passato e non poteva immaginare cosa ci aspettava. Mussolini riuscì ben presto a ricostruire il partito fascista creando la Repubblica di Salò, i tedeschi che erano sul suolo italiano occuparono le nostre città e insieme cominciarono a dare la caccia ai soldati che avevano disertato la guerra. Mio padre dovette nascondersi nella casa del nonno, ritenuta più sicura avendo delle vie di fuga.
 
Mia madre, a causa dei bombardamenti e dei sabotaggi fatti dai tedeschi alle fabbriche laniere, perse il suo lavoro. Mio padre improvvisamente si trovò dodici bocche da sfamare: gli zii con i loro cinque figli, il nonno con la seconda moglie, più noi tre. Nessuno poteva far fronte a tutte le necessità: chi era troppo vecchio, chi era troppo giovane, chi era malato. E mio padre di notte, come un animale selvatico, mettendo ogni volta a rischio la sua vita, andava a piedi attraverso i campi, da una casa all’altra dei contadini, a volte fino alla zona pistoiese: comprava qualcosa da mangiare e qualcosa da rivendere per poter assicurare la nostra sussistenza. La mamma ed io ogni sera nel tardo pomeriggio ci incamminavamo verso la casa del nonno per portare la cena al babbo. Pippo, percependo che i tempi erano cambiati e che i rischi erano aumentati, estese la sua protezione anche all’esterno e ogni sera si univa a noi formando con noi uno strano trio: faceva questo da par suo, non ci seguiva ma ci precedeva e con le sue lunghe zampe e con il suo incedere elegante, la testa fieramente eretta, guardava in faccia i rari passanti come volendo dire: “Guai a chi me le tocca!”.
 
Questa storia è andata avanti per un anno intero. Finalmente è arrivato il 6 settembre 1944, giorno della liberazione di Prato dai nazifascisti. Era il momento di riprendersi la vita; le distruzioni erano tante e tutti cercavano di tornare alla normalità, anche se i tempi erano difficili: mancava lavoro, mancavano servizi, i generi alimentari scarseggiavano ed erano molto cari. Il babbo però fortunatamente era tornato a casa e ben presto aveva ripreso a lavorare nell’Azienda del gas.
 
Ma dopo un po’ di tempo, un mattino, mi sono svegliata e non ho più trovato Pippo. Disperata ho iniziato a cercarlo e in questa mia ricerca si è unito tutto il paese, sparpagliandosi anche nei campi vicini; lo abbiamo cercato in ogni anfratto, in ogni dove, ma di Pippo nessuna traccia: sembrava svanito nel nulla.
 
I cattivi ragazzi
 
Dopo qualche tempo dalla scomparsa di Pippo mio padre una sera mi diede una bellissima notizia: casualmente, andando al lavoro, in una pasticceria aveva ritrovato il nostro gatto. Pippo si trovava in una pasticceria del centro di Prato, la Pasticceria Lai, che aveva ripreso da poco la sua attività. Dopo la chiusura a causa della guerra, i proprietari riaprendo avevano trovato la cantina, dove tenevano la farina, completamente infestata dai topi e per questo avevano chiesto al garzone di bottega di procurare un gatto. Immediatamente abbiamo capito: il garzone in questione era un ragazzo che abitava di fronte alla nostra casa.
 
Questo ragazzo era il minore di due fratelli, due ragazzi strani, asociali: non frequentavano mai nessuno, stavano sempre fra loro. Il minore era affetto da un’agitazione motoria notevole, si arrampicava sugli alberi come uno scoiattolo, e nel cortiletto a fianco della loro abitazione, con i pattini ai piedi, faceva delle piroette altissime. Il maggiore, più cupo, con gli occhi bassi, camminava vicino ai muri e sembrava voler nascondersi agli occhi altrui. Da poco qualcuno lo aveva fermato, sparandogli con una mitragliatrice ad una gamba, che poi gli avevano tagliato fino all’inguine. Qualcuno diceva che gli avevano sparato perché aveva assaltato un treno che trasportava merci alimentari. Altri dicevano che era stata una vendetta perché era stato in combutta con i repubblichini. Forse era vera la seconda versione. Pochi giorni prima di questo incidente anche un altro giovane del paese, non ancora ventenne, ea stato ucciso, colpevole di essere entrato negli ultimi mesi di guerra fra i repubblichini. Nell’immediato dopoguerra,  per una strisciante guerra civile non dichiarata, si verificarono numerosi episodi di rancori e vendette.
 
In famiglia eravamo comunque intenti a preparare al meglio la cesta per il recupero del nostro gatto. E la domenica mattina mio padre ed io con le nostre biciclette andammo alla pasticceria Lai. Entrando all’interno vidi Pippo su un alto sgabello; stava dormendo. Mio padre si diresse al banco delle proprietarie, io mi avvicinai al gatto e lui svegliandosi mi  guardò e capì tutto. Velocemente si mise seduto con il busto eretto, esprimendo il massimo della regalità: sembrava un’autentica divinità egizia. Con gli occhi socchiusi, sornioni, cercava di mettermi in soggezione per dirmi qualcosa che di regale non aveva niente. Mi stava dicendo: “Ti prego, lasciami, non portarmi via, in questa toperia mi sto divertendo da matti!”.
 
Sconcertata sono rimasta ferma per un attimo, poi mi sono voltata verso il babbo dicendogli: “Andiamo via, Pippo rimane qui”. Mestamente, a mani vuote, siamo tornati a casa. Amareggiata, delusa, non capivo come a causa del rapimento il gatto fosse caduto in un mondo di ratti. Ero troppo bambina per capire che con il ritorno a casa di mio padre e il ricomporsi della nostra famiglia forse la missione dell’animaletto era terminata. In seguito, da grande, pensando a quei giorni difficili, cruciali, ho capito che la vita mi aveva fatto un grande regalo mettendomi vicino quell’essere speciale: un angelo col mantello peloso. Indimenticabile!
                                                                      
                                                                                                      (Autrice anonima, “Premio Prato Raccontiamoci”)
 
*****
 

Saper vivere

LA MORTE COME CRITERIO DELLA VITA

Un testo inconsueto, un tema inconsueto. Ma riteniamo, decisamente, che sia tempo che nella nostra società opulenta  e disorientata venga rimesso l’accento sul tema del significato totale della vita umana, da cui scuola, famiglia, sistemi educativi, scienza ufficiale, economia, pubblicità, sono di fatto assenti pressochè del tutto. Gravemente e colpevolmente. No, non sono riflessioni da confinare nella coscienza individuale di ogni cittadino, come generalmente si dice e si pensa. Sono riflessioni che devono essere fatte proprie anche dai contesti sociali e comunitari. La riflessione è di Carlo Molari.
°°°°°

Dovremmo riflettere insieme sulla preparazione alla morte, su quale significato ha per una vita autentica il riferimento alla morte. Voglio farvi prima alcune premesse.
Prima premessa: la finalità pratica di questa riflessione. Questa riflessione non è tanto finalizzata a rispondere alla domanda “cos’è la morte” o “come dobbiamo vivere per prepararci alla morte”; ma a prendere coscienza della responsabilità che abbiamo del tempo. Nella prospettiva evolutiva la morte non è un evento accidentale, secondario, introdotto successivamente: non c’è stata mai una umanità perfetta e la morte è costituita dal nostro esistere come creature. Credo che oggi almeno tra noi non ci sono difficoltà a capire questo: noi siamo nati per morire.
Seconda premessa: la morte sarà come noi la prepariamo. Credo che sia pacifico anche che noi vivremo la morte come la stiamo preparando: se per esempio pensiamo che la morte sia la fine di tutto, noi la vedremo come tale e certamente essa segnerà l’esaurimento della nostra vita. Se noi la viviamo come un passaggio a una vita successiva, noi renderemo possibile il passaggio alla vita successiva, perché nel frattempo maturiamo le strutture che sono necessarie per la vita successiva. Per cui è importante che ci chiediamo: come sto vivendo la morte nelle sue anticipazioni e quindi come sto preparandomi a morire? Perché noi faremo della morte quello che abbiamo deciso. Nella prospettiva evolutiva questa è una conseguenza molto chiara: noi vivremo la morte che abbiamo preparato, corrispondente al contenuto introdotto nella nostra vita.
Terza premessa: il carattere temporale della nostra esistenza. Noi come creature siamo tempo e ciascuno ha il ritmo del tempo proprio, non c’è un tempo universale. Sulla natura del tempo si sta discutendo più intensamente da un secolo almeno ed esistono molte opinioni. Adesso non possiamo esaminare questo problema, però almeno una cosa deve essere pacifica: non esiste un tempo assoluto e ciascuno di noi ha il suo tempo. Noi pensiamo al tempo come a un ritmo comune a tutte le cose, che precede la stessa realtà; ci pensiamo inseriti nel tempo come in un grande contenitore che procede e si sviluppa a ritmo costante e identico per tutte le creature. Questa visione intuitiva e immediata è infondata: in sé questo tempo assoluto non esiste. In realtà noi siamo tempo come creature perché non possiamo accogliere il dono della vita in un istante, tutta completamente.
Il fisico Carlo Rovelli in un libro intitolato “La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose” (Cortina, Milano) ha un capitolo, il settimo, intitolato proprio così: “Il tempo non esiste”. Si riferisce alla visione assoluta del tempo e sostiene appunto che il tempo è il ritmo che è legato alle singole creature, al luogo dove sono, per cui per esempio essere in montagna od essere in pianura comporta il vivere a ritmi diversi, perché il tempo scorre diversamente. Sono differenze di miliardesimi di secondo, ma il concetto è fondamentale per capire la natura del tempo e quindi la nostra condizione di creature, e per vivere pienamente.
Noi di fatto in realtà rischiamo di vivere sempre il passato. Solo nell’ambito spirituale possiamo pervenire a un presente vissuto come presente. Voglio chiarire brevemente questo punto: sono cose note ma sulle quali non riflettiamo. Per esempio, la luce del sole che ci perviene adesso non è come è il sole in questo momento, ma come era otto minuti fa. Se in questo istante il sole scomparisse noi continueremmo ancora a vederlo per diversi minuti. Così le stelle o gli eventi straordinari che capitano nel cosmo, di cui i satelliti lanciati nello spazio stanno trasmettendo foto meravigliose, noi li vediamo non come sono in questo momento ma come erano milioni o miliardi di anni fa, secondo la loro distanza.
Ma anche all’interno della nostra vita interiore noi viviamo sempre leggermente sfasati, rispetto al presente, di qualche frazione di secondo, benchè abbiamo la convinzione che sia il nostro presente. Per esempio, quando sentiamo che si avvicina una zanzara in realtà la zanzara ci ha già punto. Noi non l’avvertiamo nello stesso istante perché lo stimolo ci mette un po’ di tempo ad arrivare al cervello, che deve elaborarlo, deve capire che si tratta di una zanzara, poi mettere in moto il muscolo del nostro braccio per colpire la zanzara, ma quando noi arriviamo la zanzara non c’è più. Siamo sempre un po’ sfasati rispetto al presente perché ci vuole sempre un po’ di tempo per trasmettere il messaggio, per elaborarlo e per agire.
Ho poi sottolineato più volte che la parte del cervello istintiva precede sempre la parte del cervello relativa alla consapevolezza, c’è una differenza di un mezzo secondo e quindi c’è già un piccolo spazio. Per cui dobbiamo renderci conto del fatto che noi siamo quasi sempre nel passato: anche se si presenta come presente in realtà siamo leggermente in ritardo.
Nell’ambito spirituale questo non avviene, nel senso che se Dio è, se la forza creatrice ci alimenta e noi viviamo consapevolmente questa condizione, noi determiniamo l’istante della nostra accoglienza dell’azione di Dio. Cioè se noi viviamo consapevolmente la nostra relazione con Dio, quello è l’istante in cui l’azione ci perviene, in cui l’azione di Dio ci arricchisce. Quello è il presente che noi determiniamo ed è realmente in quell’istante che il dono di Dio ci perviene.
In questo senso l’ambito spirituale può essere – se lo viviamo e se Dio è – l’unico momento presente reale. In questo senso credo che l’esperienza spirituale sia molto significativa per cogliere il presente che ci invade, la forza creatrice che qui, ora, ci è offerta.
Quarta premessa: modelli antropologici. Le riflessioni che sto per proporvi non sono cose definitive ma vogliono essere degli stimoli; non utilizzano il modello corpo-anima. Sapete che questa concezione dell’anima e del corpo che si combinano insieme (nell’antichità c’erano diversi modi di pensare questa combinazione) è fondamentalmente di origine greca e anche di altre culture orientali, è stata molto diffusa prima nel mondo mediterraneo e poi nel nostro mondo occidentale, e ha avuto un’influenza notevole  anche nella formulazione della dottrina cristiana così come si è sviluppata lungo i secoli. Ma di per sé non è un modello assoluto. Fra l’altro non corrisponde neppure al modello biblico più diffuso. Il mondo ebraico, semita in genere, aveva una concezione più unitaria della persona, anche se distingueva nella realtà umana diversi aspetti mediante tre termini fondamentali: basar, nefesh e ruah, tradotti in italiano come ”carne” (basar), “anima” (nefesh), “spirito” (ruah), in greco con “sarx” (basar), “psichè” (nefesh), “pneuma” (ruah) e in latino con “caro” (basar), “anima” ( nefesh) e “spiritus” (ruah). Schematizzando:
  • “Basar” indica l’uomo nella sua debolezza.  Quindi non è una parte dell’uomo, è una caratteristica della sua esistenza.
  • “Nefesh” indica l’uomo in quanto vivente. Il termine indicava di per sé il collo, da cui si capiva che la persona viveva perché il sangue scorreva (noi sentiamo il polso per capire se una persona vive o no). Nella traduzione greca dell’Antico Testamento (detta dei Settanta) nefesh veniva tradotto “psichè”, che corrisponde al latino “anima”. Il Nuovo Testamento ci è pervenuto in greco ma il riferimento per tradurlo esattamente deve rimanere il mondo semita, per cui psichè deve essere tradotto con “vita” anche se a volte traduciamo “anima” (per esempio “che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde l’anima?”: riferivano l’anima precisamente al dopo morte perché nella concezione greca l’anima era immortale – anzi, secondo alcuni (ad esempio Platone e molti suoi seguaci) l’anima già esisteva prima della sua venuta sulla terra - .
  • “Ruah” indicava il respiro fisico, il soffio, che pensavano essere introdotto da Dio nell’uomo. Infatti nella Genesi si dice che Dio insufflò lo spirito di vita nel corpo modellato con fango. Il respiro veniva considerato come il mezzo con cui Dio dona la vita. Noi non dobbiamo pensare come gli antichi: ho richiamato questa terminologia per far capire le formule tradizionali.
 
Nella prospettiva evolutiva non utilizziamo questo modello, non parliamo dell’anima e del corpo, ma del divenire della persona, che crescendo sviluppa una dimensione spirituale. Secondo la fede cristiana e molte altre religioni la dimensione spirituale è in funzione della vita successiva e rende capaci di attraversare la morte da vivi. Se c’è una vita successiva occorre sviluppare le strutture necessarie per esercitarla, perché altrimenti non siamo in grado di sopravvivere e la morte rappresenterebbe la fine del tentativo che la vita ha fatto per svilupparsi in noi.
 
Portiamo l’esempio molto semplice del feto nell’utero materno: sviluppa organi e strutture (come polmoni, occhi e orecchi) che in quel momento non servono. Se il feto ragionasse pensando: “A che mi servono adesso i polmoni?”, per cui decidesse di non sviluppare i polmoni, la sua nascita corrisponderebbe all’esaurirsi della possibilità di vivere; non avrebbe creato le strutture necessarie per vivere in un’altra dimensione, per respirare all’aria aperta. Analogamente, se noi non sviluppiamo ora le strutture spirituali ci rendiamo impossibile l’attraversare la morte da vivi, perché non abbiamo le strutture necessarie per una modalità diversa di esistenza.
 
La riflessione che intendiamo fare serve per educarci a sviluppare le dimensioni interiori necessarie per attraversare la morte, cioè per pervenire ad un’altra modalità di esistenza. Sono le stesse dinamiche che ci consentono di vivere in modo pieno la nostra condizione attuale, come il feto nell’utero materno vive in modo pieno la sua condizione di feto quando sviluppa gli organi che gli serviranno nella vita successiva.
 
Il primo punto relativo alla preparazione è il rendersi conto della nostra condizione di precarietà: tutto ciò che noi viviamo è provvisorio, non c’è nulla di assoluto e definitivo nelle nostre condizioni. Noi spesso ci illudiamo che ci siano delle situazioni definitive che resteranno così come sono – certe convinzioni, sensibilità, modi di vivere le relazioni… - ma non è così: tutto ciò che viviamo è provvisorio, precario, ed è funzionale a un compimento, perché stiamo “diventando”. Questa è la convinzione che dovremo maturare pian piano, perché noi crediamo prima di tutto di essere già e quindi non abbiamo la percezione del divenire reale.
 
Secondo: crediamo che quello che siamo lo siamo per sempre, mentre in realtà la nostra condizione cambia continuamente: il nostro modo di pensare, il nostro modo di vivere i rapporti, il nostro modo di affrontare le situazioni cambiano continuamente; ma cambiano per un processo che viviamo realmente, per cui noi diventiamo; il nostro cervello cambia fisicamente, il nostro modo di rapportarci è realmente diverso da quello precedente, anche se non ne abbiamo sempre la consapevolezza. Il gesuita Padre Koyne diceva che siamo gli esseri più riciclati della terra o forse dell’universo perché gli elementi che ci costituiscono cambiano continuamente. Ogni organo si rinnova in poco tempo. E’ l’esperienza anticipatrice della morte.
 
Il cambiamento deve essere vissuto consapevolmente e per viverlo in modo consapevole dobbiamo avere dei criteri solidi. Essi ci sono indicati dalla morte che è il traguardo del nostro processo storico. Sono le condizioni richieste per attraversare la morte da vivi, in modo cioè che essa costituisca il passaggio vero l’altra modalità di esistenza. Sono i criteri per vivere pienamente tutte le situazioni, cioè per essere pieni di vita in ogni istante.
 
E’ questa la ragione per cui riflettiamo sulla morte come passaggio: proprio per essere in ogni istante pieni di vita. E’ una pienezza relativa, ma reale. Un bambino piccolo è pieno di vita quando è amato. E lo si vede quando gode la vita: non può parlare ancora, non può capire quello che avviene, ma per quanto è in grado di vivere è pieno. In questo senso quindi, almeno nella prospettiva della fede, anche un bambino piccolo che muore è in grado di continuare la vita nell’altra modalità perchè quello che è richiesto è essere pieni di vita. Questa è la condizione fondamentale. Ci sono carenze e ci sono possibilità di recuperi, però importante è vivere pienamente, intensamente. Questo ci consente di attraversare la morte. Vediamoli allora brevemente, i cinque criteri che la morte ci indica proprio per vivere intensamente, cioè per essere pieni di vita.
 
Il primo è il criterio della identità. La morte ci chiederà: “Chi sei? Chi sei diventato?”. Noi diventiamo giorno per giorno. La domanda fondamentale della fine della vita non è “che cosa hai fatto?” perché quello che noi facciamo sulla terra è sempre precario, è sempre funzionale: poi scompare tutto, non resta nulla di ciò che abbiamo fatto. Tra cinque miliardi di anni o anche meno il sole nel suo momento di espansione finale, nel rantolo della sua vita, assorbirà la terra e tutto quello che è sulla terra che gli uomini hanno costruito – anche la Grande Muraglia, anche i grattacieli – tutto diventerà polvere, tutto si ridurrà nella grande fornace agli elementi primordiali, per cui tutto riprenderà. Non sappiamo come, ma in ogni caso non resterà nulla di ciò che abbiamo fatto. La domanda è quindi “chi sei diventato?”, perché se c’è una possibilità della vita futura è per quello che noi diventiamo, cioè se sviluppiamo una dimensione spirituale; se esiste un’altra dimensione è quella che dobbiamo raggiungere.
 
Allora la domanda fondamentale è “chi sei diventato?”; attraverso quello che hai fatto, che hai pensato, che hai desiderato, chi sei diventato? Occorre pensare che possiamo anche fare le cose migliori ma non diventare. Per esempio se noi operiamo per apparire agli altri, per acquistare fama, per guadagnare o raggiungere potere, anche facendo il bene non diventiamo buoni. Abbiamo raggiunto un traguardo, abbiamo acquistato fama, denaro, potere, abbiamo forse illusoriamente anche pensato di aver raggiunto dei livelli elevati, ma poi scopriamo che tutto è insensato, che tutto è vano, tutto scompare. Se non siamo diventati viventi attraverso ciò che abbiamo compiuto tutto è vano, perché solo la dimensione del divenire ci consente di attendere una modalità nuova di esistenza.
 
Dovremmo costantemente tenere presente il criterio del divenire. Non interrogarci su “che risonanza ha avuto quello che ho fatto? Che successo ho ottenuto?”, ma su “chi sono diventato? Quali dinamiche di vita ho esercitato?”. Noi potremmo vivere anche tutti i fallimenti della nostra vita in modo sereno e pieno, cioè dire “ho fallito in questo ma sono diventato”. Se per esempio esprimiamo amore verso coloro che ci fanno del male, esprimiamo misericordia, doniamo vita, noi siamo diventati anche se non c’è stato successo. Questo è un modo per relativizzare i successi ma anche per vivere in modo positivo gli insuccessi.
 
Capire però che quello che è fondamentale è precisamente la modalità con cui viviamo tutto, il lavoro quotidiano, gli incontri, la sofferenza, la malattia, l’emarginazione, i successi: tutto possiamo vivere in modo da diventare e quindi da sviluppare la dimensione interiore, perché questa è la ragione fondamentale per cui possiamo rispondere alla domanda “chi sei?”. Gesù parlava del “nome scritto nei cieli” (Lc 10,20): “Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”. Il nome è la realtà che noi costruiamo giorno dopo giorno. Ricordate sempre che non c’è un’identità già precostituita: noi diventiamo.
 
Nella tradizione cristiana esiste la pratica della riconciliazione che è il recupero del passato non vissuto o rifiutato. Possiamo diventare anche attraverso la memoria, sviluppare ora doni trascurati, o anche accogliere ora doni di vita rifiutati nel passato. Anche attraverso la memoria possiamo realmente diventare, perché l’azione creatrice di Dio contiene ancora i dati offerti e trascurati in altri tempi. Noi possiamo oggi fare memoria in modo da accogliere quella forza di vita che nel passato non abbiamo accolto. Anche gli aspetti negativi del passato quindi possono diventare oggetto di memoria positiva e farci crescere come persone. Dovremmo dunque ogni giorno interrogarci su “chi sono diventato oggi?”, cioè “quale sviluppo ulteriore ho avuto?”. Se ci interroghiamo semplicemente su “cosa ho fatto?” e non investighiamo sulle dinamiche vissute non siamo in grado di rispondere in modo adeguato sulla nostra condizione e sul valore della nostra attività. Possiamo fare un elenco delle esperienze compiute, dei successi o degli insuccessi, e così via, ma non tocchiamo il punto fondamentale, che è il nostro divenire reale.
 
Il secondo criterio che la morte ci indica è il distacco. La morte ci chiederà di non portare nulla con noi, nulla. Come sappiamo, nella storia ci sono stati tanti momenti illusori, per esempio i faraoni che riempivano le tombe di gioielli e di cibo, che sono diventati tesori per i musei e gli archeologi. In ogni caso il distacco necessario per morire è assoluto, non possiamo portare neppure il corpo che ci è servito.
 
La morte indica un criterio fondamentale per la vita, proprio perché se noi ci attacchiamo a qualcosa come assoluto, cioè diciamo “questo è essenziale per me, non può essere altrimenti”, di fatto cadiamo nell’idolatria e non viviamo secondo la realtà, dato che tutto è provvisorio e quindi dobbiamo viverlo come tale. Non dobbiamo rifiutarlo ma accoglierlo come provvisorio. Dobbiamo distinguere chiaramente tra la provvisorietà e la necessità: anche le cose necessarie sono provvisorie. Certo, noi dobbiamo respirare o mangiare, non possiamo farne a meno, ma tutti gli elementi che utilizziamo mangiando o respirando sono in sestessi precari, provvisori, insufficienti e dobbiamo viverli distaccandoci nello stesso momento in cui li accogliamo. Anche i rapporti: occorre sempre vivere i rapporti in modo dai introdurre la consapevolezza della provvisorietà. Sono necessari i rapporti, noi possiamo costituire dei doni necessari per gli altri, ma occorre viverli con distacco perché la vita fluisca e non venga bloccata. Allora vivere già distaccati è la condizione per vivere intensamente ogni situazione. E’ importante la componente del distacco, per non aggrapparsi a nulla come assoluto. Nella vita spirituale questo è tradotto con “solo Dio basta”, ma è un traguardo che solo nella morte saremo in grado di vivere.
 
Tutto questo noi lo viviamo sempre in un modo limitato, ma la morte ci chiederà di viverlo in modo così assoluto e radicale da non esserci compromessi. Cioè non possiamo dire “però almeno questo me lo porto con me”, “almeno il mio corpo mi serve, degli occhi ho bisogno…”. No, niente.
Quindi in questo senso noi impariamo a morire quando riusciamo a vivere tutte le situazioni pienamente ma distaccati. Questo è il punto: pienamente ma distaccati.
 
Il terzo criterio è il criterio della interiorizzazione delle persone o anche delle cose nei rapporti. Interiorizzare, cioè vivere le relazioni sapendo che ci costruiscono e quindi che sono per noi fondamentali perché ci arricchiscono, cioè diventano una dimensione interiore. Invece noi spesso viviamo le relazioni con le cose o con le persone con dinamiche possessive, cioè per costringerle a stare accanto a noi, per poterle utilizzare, non per farci diventare. La componente del divenire può sembrare espressione di egoismo ma in realtà è la legge della vita: noi diventiamo per le offerte che riceviamo continuamente. Però dobbiamo essere in grado di riconoscere che non è la persona o la cosa da possedere, ma è il dono che ci viene vivendo le relazioni. Non è la realtà in sè che ci è necessaria, è la ricchezza di vita che ci perviene attraverso il rapporto che viviamo. La fonte è Dio: questo è l’orizzonte teologale per vivere le relazioni. E’ una componente fondamentale della vita spirituale, e quella che sto sviluppando è appunto una riflessione di tipo spirituale.
 
Quindi il criterio della interiorizzazione mette in luce questo doppio dinamismo con cui dobbiamo avere rapporto con le cose e con le persone, cioè l’accoglienza interiorizzante, che lascia la libertà e che consente la partenza o il distacco. Dobbiamo però accogliere il dono, assumerlo, interiorizzarlo. Se invece noi viviamo i rapporti come se fossero indifferenti per noi (“sì, questo momento è importante, ma poi non mi interessa”), non interiorizziamo nessuna realtà e nessuna persona. Pensate il bambino piccolo: finchè non ha interiorizzato il padre, la madre, la nonna, il giocattolo, finchè non ce l’ha dentro non riesce a richiamarne l’immagine, per cui quando si trova solo piange, grida, ha bisogno di vicinanza. Non può fare altrimenti, ma man mano che sviluppa la presenza e porta dentro le persone è in grado di richiamare l’immagine, di richiamare la figura che ha interiorizzato; è in grado quindi di vivere poi le situazioni perché dice “fra poco vedrò mia madre, mio padre…”. Ma finchè non è in grado di richiamare le immagini interiori non è in grado di vivere situazioni provvisorie di assenza, perché non ha ancora la possibilità del richiamo.
 
Noi dobbiamo pervenire alla morte pieni di presenze, pieni anche di cose, perché abbiamo vissuto rapporti, perché abbiamo ricevuto doni; ma senza la possibilità di portare nessuno con noi. Possiamo anche vivere le situazioni di morte accanto agli altri proprio per completare il dono e per riempirci di presenze. Per questo la morte in casa, in famiglia, con le persone care vicine, ha un particolare significato proprio per la ricchezza dello scambio di doni, ma non per la pretesa di portarci qualcuno con noi. E’ la tentazione di coinvolgere gli altri e di morire insieme. Pensate poi le forme patologiche, anche di vita religiosa. Qualche decennio fa ci sono stati fenomeni di morti collettive, per esempio l’episodio della Guyana francese. In realtà dobbiamo essere in grado di morire pieni di presenze ma senza portarci nessuno con noi: la morte è un evento di compimento  personale.
 
Il quarto criterio fondamentale è il criterio della oblatività, perché la morte ci chiederà non solo di distaccarci ma anche di donare, di consegnare tutto agli altri: tutto torna nel ciclo cosmico e storico, anche la nostra esperienza interiore, anche la nostra cultura, nella misura in cui siamo in grado di donarli. Questo è un criterio fondamentale per la vita, perché la vita nostra si sviluppa proprio secondo la capacità di dono che siamo in grado di realizzare. Realmente si può dire che noi diventiamo il dono che facciamo: non siamo noi la fonte del dono, ma il passaggio del dono ci fa diventare viventi. Non dobbiamo neppure considerarci il principio del dono che consegniamo. Se lo offriamo con attese di ricompense, o con ricatti impliciti, inquiniamo il dono.
 
Questo Gesù l’ha espresso in ordine al dono nella preghiera che ci ha insegnato, ma questo vale per tutti gli aspetti della vita: “Perdona a noi come noi perdoniamo”, “rendici viventi come noi diventiamo donatori di vita”. C’è sempre questa circolarità: noi accogliamo quel tanto che siamo disposti a donare. Noi doniamo quel tanto che siamo in grado di accogliere. C’è una piena corrispondenza. In ogni relazione, anche nella vita matrimoniale, il dono può crescere man mano che procediamo, proprio perché diventiamo accoglienti donando e siamo in grado di offrire in una misura più profonda accogliendo. Siamo snodi nella rete profonda della vita.
 
La morte ci chiederà di essere capaci di donare tutto. Non è sufficiente il distacco, perché può essere un distacco di indifferenza (“io vivo distaccandomi da tutto, non mi interessa niente”), mentre deve essere un distacco di donazione piena: siamo chiamati ad offrire tutto quello che ci costituisce. Ci sono stati alcuni artigiani del passato che hanno conservato dei segreti del loro mestiere e questi sono stati perduti per sempre e per tutti. Noi riusciamo a vivere pienamente solo quando siamo trasparenti al dono, quando la vita non trova ostacoli nell’offrirsi in noi. Educarci alla morte significa imparare la trasparenza piena e definitiva.
 
L’ultimo criterio, che riassume e rende efficaci tutti gli altri, è il criterio della fiducia: per vivere la morte pienamente dobbiamo abbandonarci senza riserve alla vita, cioè esercitare una fiducia tale da saperla perdere. Nella sua forma radicale la fiducia nella vita la si può esercitare solo nella morte che è il momento in cui la perdiamo: perché èl’atteggiamento che ci consente di accogliere il dono nella sua pienezza. La morte deve essere l’esercizio di una fiducia senza limiti, solo in quel momento possiamo dire in piena verità “io non so, ma mi affido”. E’ in certo senso lo stesso atteggiamento del feto quando nasce: non sa nulla di quello che diventerà ma si affida, è stato educato dall’amore che l’ha condotto a quel punto e si lascia condurre dall’istinto sapendo che può fidarsi senza riserve. E’ un atteggiamento indotto dall’amore che l’ha fatto crescere giorno dopo giorno, per cui è capace di abbandonarsi all’avventura e al trauma della nascita proprio perché ha già sperimentato il significato dell’amore. Ma nella morte ci è chiesto di vivere consapevolmente – o finchè abbiamo consapevolezza – l’abbandono fiducioso: “Io non so, Tu sai, mi affido”.
 
E’ la stessa fiducia che ci consente di vivere tutte le situazioni quotidiane, perché quelli esaminati sono criteri non solo per morire in modo umano ma sono anche criteri per vivere pienamente. Il dato della fiducia è fondamentale, proprio perché ogni resistenza che noi poniamo alla vita diventa un impedimento ad accoglierla, ogni sfiducia, ogni timore, ogni paura blocca l’accoglienza della vita.
In questo senso quindi occorre imparare a fidarsi senza riserve. Certo che a questo punto la fiducia non è la fiducia nelle singole creature come tali – perché attraverso il cammino abbiamo scoperto la provvisorietà di tutto – ma è la fiducia in Dio, cioè nella Pienezza della perfezione e della vita, che conosciamo solo per lontane approssimazioni. Per cui fidarsi della vita vuol dire fidarsi dell’amore che ci ha investito, che ci ha alimentato, fidarsi così dell’azione di Dio in noi, da essere in grado di perdere tutto per giungere ad una modalità nuova di vita.
 
Io credo che comprendiamo ora perché imparare a morire è il compito di tutta la nostra vita. Di fatto quando abbiamo imparato a morire, quel giorno abbiamo imparato a vivere in pienezza.
 

                                                                                                                                             (Carlo Molari)
 

 [G1]On
 

Lavoro

COMMIATO

“Cose ormai antiche…ricordi ormai andati…”, direte. Mah!... è la vita (in questo caso la mia), rispondo.

In realtà ripenso spesso a quell’ultimo anno della mia esperienza istituzionale di lavoro in cui mi dissi: “Beh, sei finalmente arrivato, Giuseppe: sei arrivato al momento della tua pensione. Hai messo al sicuro, se Dio vuole, la tua anzianità dopo una vita francamente densissima di impegno, e ora diventi libero: non smetti di lavorare, ma lavorerai da persona libera. Goditi la conquista tanto agognata di tutta la tua vita e però non dimenticare mai nulla di quanto hai vissuto, e comunque ora, nel momento in cui formalmente ti congedi dai tuoi colleghi di ambiente lavorativo condiviso negli ultimi anni, non limitarti a un saluto burocratico e festoso come se il centro della faccenda fosse tutto intorno al brindisi scambiato per il congedo. Testimonia piuttosto loro quello che hai nel cuore in questo momento e che ti piacerebbe suggerire loro per il bene anche della loro vita”.

Così ho fatto. Così scrissi, quel mese di… ma che anno era? Forse già un decennio è trascorso, mamma mia! Lo scrissi e lo consegnai a tutti loro, quel mio saluto e quel mio pensiero, con affetto e attenzione personalizzata per ciascuno. Dopotutto, in quel momento ero ancora un loro dirigente: ed era anche, forse, doppiamente doveroso, da parte mia, un gesto simile. Ma era soprattutto una conferma di amicizia che vuole durare anche fuori dell’ambiente di lavoro, come è giusto che sia tutte le volte che ci è possibile.
 
 
°°°°°
 
 
 
 
A tutti i colleghi ed amici del Sistema Enasco

 
Cari amici,
 
ho compiuto, non molti giorni orsono, gli ultimi atti formali di commiato dal nostro (affettivamente lo sento ancora così) sistema e dalle ultime responsabilità che in esso ricoprivo. Mi resta appena, ancora per un certo tempo tecnico, l’utilizzo del vecchio indirizzo istituzionale di posta elettronica: anch’esso mi richiama, piccolo segno, i molti anni di vita intensa trascorsi con voi.
 
Ma come potrei pensare di concludere effettivamente la mia presenza istituzionale fra voi, senza salutarvi?  E vorrete scusarmi se, trattandosi del saluto conclusivo, lo troverete un po’ lungo: d’altronde… non ce ne saranno altri!
 
Con il 1° maggio del 2013 si è dunque conclusa sostanzialmente, grazie a Dio in piena serenità personale, la mia lunga attività di lavoratore dipendente, di dirigente e poi di collaboratore del nostro sistema. 
 
Dico “grazie a Dio” non perché abbia desiderato di allontanarmi dai colleghi con i quali ho speso tanti anni della mia vita lavorativa, ma semplicemente perchè la quiescenza ha sempre rappresentato per me un grande traguardo di vita, perseguito per tanto tempo come meta di libertà e di serenità e non come obiettivo di disimpegno o di disinteresse.
 
La libertà è un bene immenso per chi lo sa assaporare come conquista di tanti anni di lavoro intenso, reso solido dalla propria onestà e non da una famiglia potente di appartenenza o da un clientelismo servile, che ti rendono facile e scontato il cammino e, a volte, veloce la carriera.
 
Nella vita ho provato la fatica della povertà delle origini, quella del cercare lavoro contando soltanto su me stesso, quella del timore di perderlo, quella del doverlo cambiare contro la mia volontà, quella della estorsione delle mie dimissioni (non riguarda l’Enasco!), quella della famiglia lontana per inseguire il lavoro… un po’ tutto ciò che può provare un uomo che deve affrontare la vita senza padrini e senza padroni.
 
Oggi, potendo dire Ce l’ho fatta, sento di essere stato molto fortunato e nello stesso tempo piuttosto coraggioso.
Sento di avere meritato tutto ma anche di essere stato aiutato tanto.
Sento di dover ringraziare la Provvidenza di Dio e me stesso, ma anche tanti colleghi, tanti amici e, semplicemente, tante persone positive.
Che mai dimentico.
 
Ora mi sembra giusto lasciare serenamente ogni mio ruolo di struttura, in quanto:
 
  • è giusto che ciascuno di noi, giunto all’età matura, declini gradualmente, come ho fatto in questi anni, lasciando a chi viene dopo di lui il tempo e il modo di subentrargli con corretta gradualità per il bene della comunità lavorativa; ho potuto seguire questo metodo quasi sempre, nella mia vita, e ne sono particolarmente contento;
  • ho molto ricevuto e ho dato tutto quel che potevo; e sono consapevole che viene inesorabilmente anche per me, come per ciascuno di noi, un tempo nel quale il nostro pensiero e le nostre modalità di lavoro tendono a irrigidirsi, a essere meno adeguate, per quanto impieghiamo tutta la nostra buona volontà e la nostra buona fede. 
 
Ho curato, in questi anni di ruolo istituzionale e poi in questi mesi di collaborazione, la puntuale trasmissione delle mie capacità ed esperienze a chi mi è stato vicino, in quanto non ho mai ritenuto giusto tenere per me le cose che la società mi ha insegnato.
 
In effetti penso che le collaborazioni, specialmente dopo la quiescenza, debbano servire, più ancora dei ruoli istituzionali, soprattutto a trasmettere esperienza e sapere a chi resta, per arricchire la comunità lavorativa e il paese di tutto ciò che si è imparato. E a non sprecare nulla di quanto il paese possiede di capacità lavorativa.  
 
Del resto, ove ciò dovesse ancora occorrere in futuro, personalmente sarò sempre disponibile a farlo di nuovo. Ma continuerò soprattutto a sentire con voi, e con questo nostro ambito “aziendale”, l’amicizia che resta, come di chi ha fatto un lungo tratto di strada insieme e non si è trovato male. 
 
Penso in effetti che mai lo sciogliersi del rapporto di lavoro debba significare il declino dei rapporti umani, anche se meno frequentemente ci si vede. Personalmente non ho mai perduto i contatti con le persone positive con le quali sono stato legato nei diversi ambienti attraversati lungo la mia vita lavorativa: tutti hanno arricchito me ed i luoghi dove sono stato successivamente; in definitiva, hanno arricchito la società, l’unica nostra azienda vera. 
 
Di quanto ho la coscienza di aver fatto bene sono ragionevolmente orgoglioso, di quanto sono stato insufficiente mi scuso sinceramente con tutti. Non è tuttavia mai mancata la buona fede.
 

Messaggi?
 
Innanzitutto le regole. Mi dispiace di non essere sempre riuscito a spiegare questo principio. Regola si scrive con la R maiuscola, come la scrisse San Benedetto e come la scrissero tutti i grandi fondatori. Nella società nulla vive senza regole e queste sole sono la protezione dei deboli e degli onesti, la garanzia della giustizia, la razionalità e trasparenza delle risorse che si spendono, e tanto altro. Non c’è rispetto reciproco che non passi attraverso le regole.  “Le regole vanno osservate”, ci ha ricordato recentemente anche Nelson Mandela. Semplicemente.
 
Le regole non sono burocrazia ma uguaglianza di dignità fra persone. A patto che siano poche e semplici, e vincolino tutti senza eccezione alcuna, dalla base al vertice. Anche nel prendere il caffè e nel timbrare il cartellino. Ho visto in materia delle eccezioni: no, ragazzi: è una malattia grave, questa delle eccezioni. Finiscono in malesempio, corruzione, prevaricazione, differenze di razza e di casta. Distruggono i principi e i valori. Distruggono la solidarietà. Rendono più difficile capire il prossimo. Se una eccezione è motivata essa deve diventare una regola per i casi analoghi. Solo così c’è onestà e trasparenza che consentono di migliorare le cose. E di fare comunità.
 
Della buona fede non deve importarci molto, di per sè: l’azienda non è un problema di buona fede ma di efficienza. In buona fede si possono commettere le ingiustizie e gli errori più gravi. “Di buona fede è lastricata la via dei fallimenti”, come ho detto in qualche occasione passata.
Come di progetti è lastricata la via della provvisorietà.
Non sto dicendo che la buona fede non è essenziale: essa è essenzialissima, ma è valore distinto, presupposto in tutte le cose della vita. E non deve servire da stabile scusante per le inefficienze o per le mancate trasparenze.
 
L’Organizzazione è scienza grande e difficilissima, non ha a che vedere con la tronfia saccenza dei decisionisti, né in mala fede né in buona fede, né dell’alta gerarchia né di quella bassa.
 
L’organizzazione non ha a che vedere neanche con gli improvvisatori.
Non ha a che vedere con i cultori di slogans alla moda, neanche se imparati nelle eleganti scuole manageriali. Tanto meno se detti in inglese.
Né ha a che vedere con gli esibitori di brillanti masters postlaurea.
 
Ha invece a che vedere con chi mantiene orizzonti larghi e profondi, dialogo con tutti, e un cuore onesto.
L’organizzazione che funziona ha a che vedere con la garanzia che tutti abbiano le stesse opportunità di crescita, di incontro con il capo, di riconoscimento del proprio lavoro.
 
Ha a che vedere con la scoperta, la coltivazione e lo sfruttamento, a vantaggio di tutti,  di tutti i talenti (spesso i talenti migliori sono quelli non utilizzati o non riconosciuti).
 
Ha a che vedere con la serenità di lavoro di padri e madri di famiglia che non possono permettersi il lusso (né lo vogliono) di giocare a essere belli o brillanti fra i colleghi ma semplicemente sono seri, onesti, affidabili, positivi.
 
Ha a che vedere, come ho accennato, con una legge che sia uguale per tutti, e su tutto: anche in materia di criteri per i premi, di cartellini da timbrare, di permessi per taxi, di orari…
 
E a proposito di orari, se potete, vi invito caldamente ad acquisire un intelligente sistema aperto al telelavoro: è il futuro della qualità della vita di lavoro. E anche della razionalità organizzativa dell’azienda. Che esige serietà grande da entrambe le parti.
 
Ci ho provato anch’io, a istituire il telelavoro, anni fa: non potè nascere per eccesso di rigidità dei casi specifici.
 
Ma ora il clima è più adatto, anche perché da diversi anni sono maturate molte esperienze esterne, contrattualmente ben regolate ed equilibrate, dalle quali si può imparare molto di utile.
 
L’organizzazione che funziona non ha a che vedere con la meritocrazia, parola troppo alla moda che rischia quasi sempre di contenere, e di nascondere senza volerlo, arbitrarietà del tutto personali di valutazione; bensì con l’onestà laboriosa.
 
Cosa è infatti la meritocrazia? Chi giudica il merito? E quali sono i criteri adeguati? Quanti fallimenti, quanti piccoli e grandi furti di lavoro altrui, trasformati abusivamente in “merito”…
 
Secondo messaggio: la formazione. Quella veloce fa male, quella continua fa bene.
Quella brillante fa male, quella profonda fa bene. Quella solo tecnica fa male, quella tecnica e umana fa bene.
 
Non ci si forma a essere grandi professionisti ma grandi persone: dal che deriva l’essere anche grandi professionisti. Il viceversa non è. C’è in giro troppa formazione tecnica e troppo poca formazione umana.
Ci sono in giro troppi professori e pochi maestri di vita. Diminuite i primi e cercate di più i secondi.
 
La formazione non corre, ma non si ferma mai: e incide in profondità.
 

La formazione non segue i masters postuniversitari o le specializzazioni all’estero o gli Stages negli States e non parla in lingua inglese e non rilascia attestati e non costa tanti soldi e non ha bisogno di consulenti famosi.
 
Piuttosto, ogni anno ognuno deve andare a fare un mese o almeno una settimana di servizio effettivo presso un’altra realtà e con un ruolo diverso e di diverso grado da quello che svolge abitualmente. Un’altra realtà che può essere Enasco ma anche del tutto diversa: un dirigente può andare utilmente a fare l’operatore di centralino, un quadro può utilmente fare per un mese il garzone di officina meccanica, un caposervizio farà bene a provare a fare il banconista al bar.
 
Il mio grande maestro di vita Vincenzo Saba, che è stato uno dei maggiori intellettuali italiani della cultura lavorista del dopoguerra, in tarda età è andato per sei mesi a fare la piccola accoglienza quotidiana ai lavoratori in difficoltà, in pratico anonimato.
 
Il mio grande maestro di vita Ulderico Romani, che è stato per anni una delle più grandi personalità culturali occidentali nel mondo universitario giapponese, ha voluto, a conclusione della sua carriera, fare l’umile viceparroco avendo come capo un suo antico allievo e mio compagno di corso; e venivano ancora a chiedergli consiglio i ministri del governo giapponese... 
 
Chi non integra la formazione di aula con queste esperienze non può costruire formazione vera. E non può capire neppure i libri che legge o studia. Non può andare in profondità.
 
Non stupisce che un direttore funzionale o un capoarea faccia per una settimana il centralinista. Stupisce che non senta il dovere di chiederlo.
 

Ma suggerisco innanzitutto a me stesso di riprendere a farlo. In passato l’ho fatto, in ambienti diversi, e altri lo hanno fatto con me, ed è stata la formazione più bella.
Suggerisco a tutti i presidenti ed a tutti i direttori del mondo di farlo.
  
La terza regola è lo scambio mentale, psicologico e morale, dei ruoli. Continuo. Guai a chi non ha qualcuno a cui rendere conto di quello che fa e di come si comporta. Quando ero in seminario questo metodo era la regola, dall’ultimo novizio al primo superiore. I ruoli si intercambiavano, a volte, addirittura per sorteggio. Non è un caso che simili organizzazioni siano le più longeve e le più produttive di uomini grandi.

Se accade la disgrazia di non avere qualcuno cui rendere conto anche morale del proprio operato, si diventa, anche in buona fede, ciechi e sordi al prossimo: la peggiore delle fini che si possa fare. La vita più inutile. Anzi, più dannosa per tutti: perché si riempirà la propria strada di vittime: vittime di piccole e grandi ingiustizie  che non si sarà nemmeno in grado di riconoscere.

Quarto messaggio: la comunicazione. Non è scoop, la comunicazione. Non è scenografia. Non è manipolazione suggestiva. E neanche brillantezza. Né battute studiate o facili. E’ cuore che parla, ricerca di verità che si vede, senso del limite e dell’onestà che si dichiara: si condivide. Non è estetica ma amore. Abbiate una sana diffidenza dei puri esteti della comunicazione, pur volendo bene anche a loro. 

 La stessa diffidenza che dovete avere per la lingua inglese, pur studiandola. Diffidenza dei modelli culturali che essa veicola in modo nascosto, soprattutto. In economia e managerialità, soprattutto. E che avvelenano l’anima e intorpidiscono il cervello. E che sono uno dei tumori del mondo attuale.
 
La comunicazione non è finzione che gonfia nè manipolazione che insinua: ma offerta di opportunità e finestre sul mondo.
 
E’ semplicità e verità. Crea libertà, non la incatena.
 
Non induce bisogni ma risponde a bisogni e una volta che li ha soddisfatti lavora per migliorare la qualità della vita.
 
E’ un’impresa che non finisce mai.
 
La nostra vera azienda non è l’Enasco, né la Confcommercio, ma il nostro paese. Che attraverso Enasco o Confcommercio ci paga, ci dà dignità e futuro.
E la missione del paese è un mondo un po’ migliore per tutti.
 
Non ci vuole, nel lavoro e nella vita, un grande cervello con un po’ di cuore dentro, ma il contrario: un grande cuore con un po’ di cervello dentro. L’ho detto tante volte, a tanti di voi. L’ho detto anche in tanti altri ambienti. Forse, chissà, io stesso non sono riuscito ad applicarlo del tutto, anche se ne ho piena convinzione. Ma ce l’ho messa tutta.
 
Attenzione ai premi: perché sono una cosa bellissima ma anche difficilissima da gestire. A volte hanno più diviso che unito, e in qualche caso più scoraggiato che motivato.
Perché valutare le persone è difficilissimo.
 
E si sbaglia molto.
 
E anche vedere quello che effettivamente i colleghi fanno e meritano è spesso difficilissimo.
 
Per i limiti di chi vede, per la diversissima abilità di chi sa “vendere” il proprio lavoro, per la presenza costante di piccoli e grandi ladri del lavoro altrui, diretti e indiretti, capi o colleghi.
 
Anche in buona fede.
 
Resta il fatto che i premi non sono una concessione dell’azienda: questa è una idea immorale. I premi sono la naturale (ed eticamente obbligatoria) partecipazione dei lavoratori ai frutti (positivi e anche negativi) del loro lavoro, attraverso il quale l’azienda esiste e dà beneficio alla sua proprietà ed alla comunità.
 
Proprietà che peraltro è solo giuridica, non è mai morale: il diritto naturale, e con esso la dottrina sociale della Chiesa, fa invece proprietari ed azionisti morali tutti quelli che lavorano nell’azienda.
 
Dà loro diritto di partecipare ai suoi risultati, e dovere di lavorare con impegno e serietà. Di non rubare. Nemmeno il tempo: di non lasciare che il nostro lavoro lo facciano gli altri.
 
Di non prendere giorni di malattia finta.
 
Di non dire mai “a me che mi frega? Per quello che mi danno…”
 
Perché questo è rubare.
 
Questo è disonesto.
 
Questo, sì, merita il licenziamento.
 
La malinconia di due licenziamenti di colleghi, che non sono riuscito a evitare, attenua la gioia per tante assunzioni che ho potuto aiutare.
 
Non dimenticherò né le une né le altre.
 
Le une mi servono per umiltà e meditazione, le altre per incoraggiamento.
 
Siamo sempre tutti piccola cosa, grandi soltanto di fronte a Dio se abbiamo un bel cuore.
 
Rischiamo di ripetere troppo che siamo tutti diversi. E che la diversità è una ricchezza.
 
E’ una ricchezza se contemporaneamente non dimentichiamo che siamo anche tutti uguali.
 
Uguali in dignità e diritti e doveri. E quindi non in astratto, ma in tutte le cose quotidiane e per sempre.
 
E allora: un po’ meno diversi e un po’ più uguali: negli stipendi nei premi nel tempo annuo di lavoro nel cartellino da timbrare nel dovere di lavorare con diligenza nella severità con la quale dobbiamo fermare anche con la forza i piccoli e grandi ladri (spesso ladri di idee e di lavoro) i piccoli e grandi parassiti i piccoli e grandi imboscati i piccoli e grandi “bugiardi per farsi belli” e la genia cancerogena di quelli delle eccezioni: tutti timbrano ma loro no, nessuno prende premi ma loro sì, tutti lavorano ma loro giocano al Solitario, tutti devono produrre risultati ma loro li presentano al capo…
 
E ci vuole anche il non dare troppa importanza al salotto, al si dice, al chiacchiericcio: ci vuole agire come se tutto dipendesse dal nostro personale comportamento. Questo è importantissimo per tutti ma ancor più per i capi.
 
Ognuno di noi è il capo di sestesso.
 
Ognuno di noi è il direttore di sestesso.
 
Ognuno di noi ha come segretario sestesso.
 
Ci vuole che si dicano le cose con chiarezza continuando però a costruire azioni buone. 
 
Ricordo ancora la malinconica vicenda dei fogli anonimi che venivano firmati da Gordon.
 
Molti anni fa.
 
Ricordate anche voi?
 
Tutti noi ci saremo fatti una idea del volto di Gordon: anch’io me la sono fatta.
 
No, non ritengo che quello sia un modo dignitoso e costruttivo di comunicare.
E la finisco qui con il tema, perché è stato un tema triste.
 
La dignità della terza età? Non esiste: esiste la dignità morale delle persone; ci sono ottantenni corrotti e corruttori, viziati e viziosi, inaffidabili e bugiardi, egocentrici e avari, che in nome dell’età rivendicano il diritto di continuare le loro malefatte.
 
Nelle organizzazioni coincidono spesso con “quelli del gettone di presenza e della poltrona in prima fila”.
 
Evitateli.
 
O, se riuscite, ricordate loro che presto moriranno (il che è la sacrosanta verità, e l’unica cosa… da prendere sul serio nella vita, anche se fanno le corna quando gliela dite) e che è meglio che si preparino a rendere conto di tutto sapendo che le bugie, in quella circostanza, non funzioneranno più.
 
Ma ci sono anche ventenni e trentenni già vecchi nell’anima, sporchi e corrotti per troppi masters che servono a nascondere la povertà morale, per troppo inglese che serve a nascondere la mancanza di cultura, per troppa brillantezza che serve a nascondere la miseria del cuore, per troppa “competitività” che serve a nascondere il deserto dell’anima.
 
Come, al contrario, ci sono ventenni e trentenni già carichi di opere buone e di sogni onesti: fate loro spazio.
 
E ci sono anziani carichi di meriti e di sapienza: ascoltateli, fate loro spazio nella vostra vita. Fateli non solo presidenti ma vigilatori morali di tutte le vostre cose.
 
Istituite questo ruolo dei vigilatori morali: sapeste quanto valgono più dei colloqui di budget e della pianificazione strategica e degli incontri di valutazione!
 
Quanto valgono più dei marchi e dei loghi e dei brand e del marketing e di tutte le piccole e grandi “frasi fatte” benintenzionate attraverso cui continuano a dirci che si può promuovere il nostro lavoro!
 
Non è il nostro lavoro né il loro bene né il bene comune che viene promosso da queste cose, ma il perpetuarsi di un gigantesco autoinganno.
 
Ma non istituiteli, i vostri vigilatori morali, ritenendo di doverli nominare o eleggere.
 
Dovete soltanto riconoscerli con il vostro cuore, e indicarveli, dirvi apertamente fra di voi che quelli sono i vostri vigilatori morali, i capi che davvero vanno ubbiditi dal vostro cuore.
Agli altri va riservata una ubbidienza onesta e leale ma che è solo quella organizzativa e burocratica.
 
Se vi hanno detto che del vostro lavoro ci si può innamorare, che ci vuole passione, e simili stupidaggini, non credeteci: vi stanno inducendo in errore, senza saperlo e senza volerlo; simili melensaggini tendono, senza saperlo e senza volerlo, a fare di voi dei punti di vendita per risultati che sono soltanto profitti, soldi e carriera, non una comunità migliore per tutti e fraterna con la società di tutti.
 
Ci si può innamorare della vita, di una persona, di un ideale, di Dio, di uno scenario della natura che ci fa pensare alla grandezza della nostra vocazione umana, della nostra immortalità…
 
Ci si può innamorare anche della propria comunità di lavoro e della bellezza del farla sempre più efficiente e più giusta.
 
Ma mai ci si può innamorare di un 730 o di una scheda budget o di un cliente conquistato o di un orario di lavoro robusto… Perché queste cose sono soltanto uno strumento per essere concretamente innamorati del nostro prossimo, degli altri figli di Dio. Anch’io mi sento amato concretamente quando vado da Serena o da Salvatore e loro mi compilano bene il 730. O da Gianni o da Rosaria quando mi assistono per la pratica della mia pensione. Ma non è il 730, l’amore, né la pratica di pensione: è il rapporto con queste persone.
 
Non ci credete?
 
Chiedetelo alle mamme di famiglia che ogni giorno vengono al lavoro lasciando a casa i figli e portandosi dietro il pensiero di come accudirli e di come preparare la cena per la famiglia rientrando un po’ tardi e rischiando di trovare il supermercato chiuso.
 
Chiedetelo ai padri di famiglia che escono la mattina presto sorbendosi il traffico dei mezzi pubblici e rientrano la sera tardi inseguendo l’obiettivo di cinquanta euro di aumento o di mille euro di premio.
 
Che a volte non verranno neanche dopo anni.
 
Chiedetelo a chi ha in casa un familiare malato.
 
Chiedetelo a chi ha in famiglia un lutto.
 
Chiedetelo a chi deve finire di pagarsi la casa.
 
Chiedetelo a chi non ha ancora visto sistemati i suoi figli.
 
Se voi non rientrate in nessuna di queste categorie o di categorie simili, potete ridervene di questa riflessione.
 
O meglio, potete ringraziarne la provvidenza.
 
Ma siete sicuri di essere numerosi? 
 
E se pensate a tutti i casi che conoscete, anche soltanto fra i vostri colleghi di lavoro, fatevi tentare da una riflessione approfondita, e dall’idea che anche voi in realtà siete coinvolti.
 
Vale piuttosto la pena di innamorarsi della grande avventura di una vita impegnata ed onesta e di quella cosa piccola piccola di cui a volte ci si vergogna, e che un tempo  chiamavamo ideali.
 
L’azienda non è ciò che dice il codice civile e ciò che recitiamo al professore quando andiamo a sostenere l’esame di diritto privato all’università: l’organizzazione di mezzi e persone che ha lo scopo di raggiungere obiettivi…
 
L’azienda non è neppure una organizzazione di uomini e mezzi finalizzata a produrre profitti per gli azionisti, come ci predicano la sballata teoria economica calvinista e quei luoghi di perdizione culturale che sono la Bocconi o la Luiss o il Politecnico di Milano, e cosacce similari, che tanto piacciono in America e altrove, e che tanti guai hanno causato, compresa l’ultima crisi economica che ha messo sul lastrico milioni di famiglie in tutto il mondo.
 
L’azienda è invece una comunità di persone e di destino che si organizza per produrre ricchezza e benessere da ridistribuire fra tutti i suoi membri e mantiene attenzione etica e solidale a tutti i suoi componenti e a tutta la società.
 
Ma tutte queste riflessioni non sarebbero equilibrate e giuste se non fossero accompagnate contestualmente dalla consapevolezza della benedizione rappresentata comunque dal lavoro che pure avete, e che fa parte intrinseca della dignità della vostra vita, che sarebbe umiliata se tale lavoro non ci fosse. Questo merita un sentimento di riconoscenza verso la comunità cui apparteniamo. Il tanto spesso vituperato nostro “posto” di lavoro merita apprezzamento e impegno e lealtà e generosità grandi. Dunque lo merita l’Enasco.
 
Mentre svolgo tali pensieri con me stesso, ma avendo davanti alla mia mente tutti voi e ciascuno di voi, penso anche che nel corso della mia presenza fra voi sono stato valutato in tanti modi diversi, dei quali più volte mi sono accorto e che non sono stato in grado di approfondire con ciascuno di voi, come avrei voluto.
 
Sono stato definito “un bravo ragazzo”, “uno onesto”, “uno che fa quello che può”, “un dirigente in gamba”; ma anche “un figlio di puttana” (proprio così), “uno che si è fatto gli affari suoi”, “uno che ha detto cose che poi non ha fatto”, persino “un falso” (questo mi ha fatto male più di qualsiasi altra cosa)… E altre versioni.
 
Alcuni giudizi mi hanno generato un po’ di malinconia; posso assicurarvi che non sono mai stato “un figlio di puttana” e tanto meno un “falso”, neanche quando ho sostenuto idee o comportamenti che non piacevano a tutti i colleghi.
 
Posso assicurarvi che sono stato soltanto un uomo di buona volontà e senza disonestà, attento al mio prossimo e sollecito del suo bene per tutto ciò che è stato nelle mie capacità e forze.
 
Mi sento molto gratificato da quanti mi hanno capito (e in qualche caso me lo hanno detto).
 
Mi sento immalinconito dai giudizi negativi, che avverto ingiusti, ma non ne voglio male a nessuno.
 
Fanno parte delle cose che nella vita non riusciamo mai a correggere né a spiegare abbastanza.
 
Se devo cercare un pensiero conclusivo a questa riflessione di commiato verso tutti voi, mi sento di dirvi: Non è bene cercare il successo di breve periodo: conta ciò che si costruisce nel lungo.
 
Accettate di discutere di fatti, più che di problemi: i problemi tendono a dividere e a creare ideologie. Cioè rigidità che ci dominano.
 
In cuor mio, poi, ma ve lo dico come fra parentesi, come sottovoce, se ciascuno di voi venisse a chiedermi in confidenza quale è stato in fin dei conti il vero mio punto di forza nei momenti più difficili, quelli nei quali sei tentato di dire a te stesso ora non ce la faccio più, ho fatto tutto quello che potevo ma questo è più forte di me (e vi assicuro che ne ho vissuti: ho visto mio padre disoccupato, ho visto respingermi da certe opportunità perché povero, ho visto la calunnia prevalere su di me contro la verità ed ero ancora bambino per potermi difendere…) vi risponderei che dietro l’angolo buio ho sempre cercato di ragionarne con Dio.
 
Vi auguro di vivere tutti i giorni della vostra vita come altrettanti passi di crescita completa, per ciascuno di voi personalmente e per tutta la nostra comunità.
 
                                                                                                                                  Giuseppe Ecca
Roma, mese di giugno del 2013.
 
(Beh, ve l’ho detta un po’ lunga: ma… è la sintesi di tanti anni di vita insieme!).
 
 
                                                                                                   °°°°°
                                                                                                       MM

 
 

Storia

"IERI E OGGI": PURCHE' SI SAPPIA RIFLETTERE BENE!

Quante volte ci capita… Siamo appassionati di confronti fra l’ieri e l’oggi, il passato e il presente, un poco in tutti i campi. “Ai nostri tempi… oggi invece…”. Naturale, il confronto fra noi e chi venne prima di noi, istintivo, e utile. Come il tentativo di immaginare il futuro. Ma attenzione ai luoghi comuni, alla frasi fatte, alla superficialità dei giudizi basati su conoscenze che spesso… (spesso!) neanche gli storici dominano bene.

Domenico De Masi ci richiama l’importanza di una consapevolezza più attenta con alcuni raffronti istruttivi... fra l’ieri e l’oggi della storia umana.

°°°°°
 
Due tesi irrefutabili: 1) questo in cui viviamo non è il migliore dei mondi possibili ma è certamente il migliore dei mondi esistiti fino ad oggi; 2) mai la realtà è stata così complessa ma mai la vita è stata così semplice.

In che epoca avreste preferito vivere? Nell’Atene di Pericle, quando quarantamila uomini liberi avevano a loro disposizione 150mila schiavi, quando per strada potevate fare quattro chiacchiere con Socrate o con Platone, quando i giorni festivi erano duecento all’anno? O nella Roma di Cesare, quando in un solo colpo arrivò un milione di schiavi dalla Gallia, quando la capitale del mondo era una metropoli brulicante di architetti, poeti e teatranti, quando in un solo giorno i 70.000 spettatori del Colosseo potevano godersi la vista di 5.000 coppie di gladiatori che si sbudellavano? O nella Firenze dei Medici, quando il meglio dell’arte e della letteratura gareggiava con banche, corporazioni ed eserciti? o nella Vienna di Klimt, Musil e Mahler, quando un mondo stravecchio conviveva con l’adolescenza della civiltà moderna?

In ognuna di queste epoche, per godersi la vita, anzitutto occorreva essere degli aristocratici. I borghesi erano poveracci relegati in case scomode e squallide. I plebei erano morti di fame stivati in tuguri puzzolenti. Dunque, se non siete di nobile casato, meglio per voi essere nati nel ventesimo secolo.

Ma neppure il sangue blu sarebbe riuscito ad assicuravi una vita decente: oltre al censo e allo stemma nobiliare, occorreva avere una salute di ferro. Ve lo immaginate un Aristotele o un Augusto o un Luigi XIV alle prese con il mal di denti? Niente analgesici, niente dentisti: solo cerusici nerboruti, che asportavano denti con tenaglie funeste e approssimative. Dunque, se di tanto in tanto soffrite di colite o di bruciori allo stomaco o anche solo di un raffreddore, meglio per voi essere nati nel ventesimo secolo: quelli che oggi sono malesseri passeggeri, un secolo fa sarebbero bastati a mandarvi all’altro mondo.

E pure in tempi di pestilenze e pandemie le cose andavano meglio di oggi. Ve l’immaginate il lockdown durante la febbre spagnola del 1919 che fece un milione e mezzo di morti per 50 settimane consecutive? Niente Pfizer, niente DAD, niente smart working, niente Amazon, niente televisione, niente Spotify, niente Glovo, niente Deliveroo, niente informatica in soccorso della salute, dell’economia, della scuola, dei servizi, dell’ambiente.

Spesso gli snob vagheggiano presunte età felici in cui tutto scorreva semplice e leggero. In realtà, la stragrande maggioranza di chi nasceva nell’Ottocento poteva contare su una vita media di 32 anni; era destinato all’analfabetismo; mancava di tutto: dall’acqua corrente alla luce elettrica, dagli antibiotici agli analgesici ai mezzi di trasporto; da Fedez a Barbara D’Urso. Ogni problema era complicatissimo perché non c’erano gli strumenti per risolverlo. Quello si che era un mondo complesso!

Poiché sembrava che la natura andasse avanti per gradi, si credeva che ogni progresso, anche quello sociale e conoscitivo, fosse lineare, che le risorse del pianeta fossero infinite e anche il PIL potesse crescere infinitamente.

Poi, durante il Novecento, grazie a geni come Einstein, Freud, Le Corbusier, Wiener e Steve Jobs abbiamo capito che la nostra realtà attuale è complessa ma che, usando i potenti mezzi di cui ci siamo dotati, anche i problemi più ardui possono essere semplificati e risolti con disinvoltura crescente. Abbiamo capito che il progresso non è sempre lineare né uniformemente accelerato, che la natura fa dei salti imprevisti, che ogni problema ammette più soluzioni a seconda dei punti di vista. Soprattutto abbiamo imparato a trasformare molti vincoli in opportunità, molti punti di debolezza in punti di forza.

Giulio Cesare e Napoleone sono vissuti alla distanza di diciotto secoli l’uno dall’altro, ma se avessero voluto coprire il tragitto da Roma a Parigi avrebbero avuto entrambi bisogno di alcune settimane. Tra Napoleone e i nostri giorni ci sono poco più di due secoli eppure noi, pur non godendo di nessun privilegio imperiale, possiamo andare da Roma a Parigi in meno di tre ore.

Per salire in cima a un grattacielo, ci basta premere il bottone dell’ascensore; per liberarci di un’appendicite, ci basta fare un’operazione chirurgica; per ascoltare una sinfonia, ci basta spingere il pulsante del telecomando, per vedere le mie figlie all’altro capo della città o del mondo, mi bastano Skype o Zoom. Mai prima d’ora la realtà è stata così complessa e la vita è stata così semplice.

La progressiva semplificazione dei problemi pratici, grazie alle infinite protesi meccaniche di cui disponiamo, ci consente di dedicare maggiore tempo e impegno alla soluzione (cioè alla semplificazione) di problemi sempre più complessi, di ordine scientifico, economico, filosofico ed estetico.

Per quanto inquinate siano le nostre città, per quanto violenti siano i nostri rapporti umani, per quanto squallide siano le nostre periferie urbane, tuttavia il nostro ambiente è di gran lunga più sano, pacifico e bello di un secolo fa. Non a caso, la nostra vita media dura il doppio della vita dei nostri bisnonni. Non a caso qualsiasi impiegato statale può scegliere tra vestiti e oggetti più abbondanti e più belli di quanti ne potesse avere Lorenzo il Magnifico.

In un suo incantevole racconto, intitolato La rosa di Paracelso, l’ineffabile Borges ci ricorda che il paradiso esiste: ed è questa terra. Poi ci ricorda che anche l’inferno esiste: ed è vivere su questa terra senza accorgerci che è un paradiso.

Auguriamoci di non farci del male vivendo ad occhi chiusi.
                                                                                                                                              (Domenico De Masi)
°°°°°
MM

Tutti gli articoli