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Antologia

SMANTELLARE LE PERSONE?

Scritto  nel 2013, questo piccolo pezzo riportava la pura cronaca di un incidentale episodio che attirò la mia attenzione mentre mi apprestavo a imboccare la via XX Settembre, a Roma, vicinissimo alla sede del ministero dell’agricoltura. Nonostante il tempo trascorso mi pare che esso, purtroppo, continui a essere attuale per diversi aspetti e a richiamare la nostra attenzione attiva di cittadini onesti. Per questo lo ripropongo.
Il 2013… diversi governi si sono succeduti da allora alla guida del nostro paese, formati  dal centrodestra o dal centrosinistra, ma nessuno di essi ha saputo spostare in alto l’asticella della civiltà con la quale la politica affronta la questione di far funzionare con efficienza le strutture pubbliche senza sprecare il lavoro delle persone e nello stesso tempo senza confondere efficienza con arbitrio di gestione o asetticità sociale di contenuti. Siamo ancora al punto di allora, dunque: e abbiamo l’impressione che anche il governo appena entrato in carica in questi giorni abbia sì cambiato colore e nomi dei suoi ministri, ma non abbia annunciato un orizzonte metodologico di miglioramento relativo al come impostare i problemi.  Almeno a giudicare dai fiumi di frasi fatte e generiche con cui si sono presentati i nuovi capi dei dicasteri con i relativi programmi.
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Me lo rigiro fra le mani, questo libretto di novantotto pagine, dal titolo Linee guida per una sana alimentazione italiana, che mi viene consegnato con una targhetta appiccicata sopra, la quale reca: Omaggio dei dipendenti ex Inran, in protesta sotto il Ministero dell’Agricoltura perché senza stipendio.


Di sottecchi torno a guardare la ragazza che con gentilezza me lo ha offerto. Gratis. Ma perché me lo offre? Che ci fanno, qui, sotto il ministero dell’agricoltura, tante decine di lavoratori radunati educatamente, anche se non silenziosamente?

L’Inran è l’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione. Il nome lo conoscevo. Faceva opera di divulgazione intelligente, questo istituto, come ricordo.

Ma… dipendenti privati o pubblici? – azzardo alla ragazza, per avere una conferma.

“Pubblici, pubblici… Ed è questo che non capiamo; sono i tagli: ma che tagli, se non ti spiegano nulla? Le sembra civile? Questo è lo Stato al cui servizio lavoriamo… Posso capire (mica scusare) le imprese private, che prendono e licenziano su due piedi: ma lo Stato dovrebbe spiegare, preparare, aiutare… E’ il modo, capisce? Il modo incivile: lo Stato è la comunità di tutti...”.

E la ragazza gentile, affiancata da alcuni colleghi, continua a raccontarmi una storia inverosimile:


- Sa che succede? Siamo ricercatori, soprattutto, ma anche impiegati… comunque quasi tutti con una famiglia da mantenere. Ora, succede che andiamo a ritirare lo stipendio e ci viene detto che… lo stipendio, semplicemente, non c’è.


- Come, non c’è? E dov’è? – facciamo noi.


- Beh, noi non lo sappiamo – rispondono; - ci hanno detto che da questo mese siete stati smembrati, in diversi gruppi, ma non sappiamo dove, non sappiamo altro… Provate a chiedere… non so… a un dirigente…

E comincia il calvario, perché in realtà nessuno ti riceve. Nessuno di quelli che possono realmente fare qualcosa. E nessuno sembra sapere nulla. Ma come è possibile? Riusciamo a far giungere la nostra voce, finalmente, al ministro, ma questi non solo non ci riceve ma si limita a farci sapere che… ignora tutto del problema. Ma che Stato è? Ma che politici sono? E che dirigenti sono?

In effetti, tutto questo ha dell’inverosimile: non perché non si possa decidere lo smantellamento di un istituto; anzi, ciò a volte è necessario, quando non sia possibile la sua trasformazione utile. Il fatto è che non si può decidere lo smantellamento delle persone. Questa è un’altra cosa. Lo impedisce la costituzione, lo impedisce anche il diritto naturale, lo impedisce una sana logica d’impresa pubblica.

Eppure la legge, in Italia, da un po’ di tempo a questa parte, non risponde più né alla costituzione né al diritto naturale né a una sana logica d’impresa: la legge agisce ormai come se vivesse per conto suo, essa è il ghigno di una entità astratta che si chiama formalmente parlamento o governo, ma forse questi formalizzano solo quanto stanze più oscure e nascoste decidono con obiettivi più oscuri e nascosti.

Delle cose non discute il paese, in modo che poi il parlamento riassuma la discussione e responsabilmente formuli l’approccio migliore di affrontarle: la legge è pronta, già preparata in qualche oscuro luogo da oscuri esperti al servizio di qualcuno, e viene data ai capigruppo parlamentari perché la facciano ingoiare a quei poveretti di parlamentari (il modo con il quale sono stati eletti, in liste preconfezionate, come branchi di buoi ubbidienti, è adatto in effetti solo a un ammasso di suddetti, anche se non raramente i suddetti sono o si trasformano a loro volta in carognette) e questi formalizzano senza sapere, il più delle volte, neanche l’oggetto della legge che votano. Il capo manda in giro a dire “lunedì ore 12 tutti in aula: si vota sì al decreto numero…”. Ed è fatta.

E’ fatta, cioè quelli votano. E poi, naturalmente, a tempo debito, vanno a riscuotere la pacca sulla spalla, da parte del capo soddisfatto. Il che assicura loro sempre qualcosa: una riconferma di mandato, comunque il lauto stipendio parlamentare, la lauta pensione parlamentare, spesso anche un incarico di consulenza presso un ente quando parlamentari non saranno più… Quale ente? Mah, chissà: forse anche un Inran qualsiasi: le cui spese cresceranno, ma che importa? Male che vada, diremo ai lavoratori che non ci sono più soldi e che dei licenziamenti sono inevitabili. Pian piano si rassegneranno.

Rassegnarsi? Ad esempio non andare a votare? No, no… mai. Cerchiamo piuttosto con il lumicino le persone in gamba, dovunque siano, rinforziamo quelle, quanto più possiamo, dovunque siano. Anche questo è fare politica. Ma non arrendiamoci, mai.
                                                                                                         
                                                                                                                                            (Giuseppe Ecca)
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Antologia

A ME GLI OCCHI... IL REGALO PERFETTO

La vita quotidiana, i suoi doni, le sue opportunità… Ma ci pensiamo davvero, almeno qualche volta?
Ad esempio gli occhi, i nostri occhi: il nostro sguardo, e attraverso di esso il nostro pensiero e la nostra anima, verso l’infinito, a dominare il creato regalatoci per essere contemplato e conquistato…
Piccola meditazione per la consapevolezza, scritta da Lauro Viscardo, sempre acutissimo. La pubblichiamo per la rubrica Antologia, perché il suo testo apparve già qualche anno fa nella versione di Studisociali inviata per posta elettronica, e ci sembra utile riproporlo.
 

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Chiudi gli occhi un momento ...
Ora dai, aprili ...
Un attimo, ecco, li sgrano:
Oh... oh, Dio, ma è mia, proprio mia questa meraviglia:
ma è vero? Ma no, ma non ci posso credere…
Gli occhi.
 
Oggi ti parlerò degli occhi, il regalo perfetto.
Veggenti e visionari lo siamo un pò tutti
senza bisogno di stare nelle favole e nelle apocalissi.
Perché la vita stessa è un poema che mi scorre davanti
e all'improvviso si arrampica e mi penetra dai sensi
e guai a farmela sfuggire.
 
Ma per averla e per gustarla ho bisogno degli occhi
non importa se di materia o di spirito
non importa se veri o immaginari
non importa se umani o divini
non importa se di carne o con i tasti del Braille.
Vedo, e tutto l'universo mi scivola dentro.
E però non come se dicessi “io sto di qua e il mondo di là”:
no, no: è il contrario, sono proprio io che me lo prendo,
io che me lo ingoio, io che me lo digerisco,
il mondo, la vita e tutto.
Cogli occhi.
 
E cosa sono gli occhi? Che gioiello ci portiamo in fronte?
A dirla facile,
gli occhi sono un pezzo di cervello che sbuca da due finestre.
Il sistema nervoso centrale, sempre così nascosto
misterioso, geloso, sotterraneo e sfuggente
a un certo punto si tira fuori, si affaccia, si mette in mostra
e sono gli occhi.
Resti a bocca aperta appena te lo studi, pezzo a pezzo.
L'occhio: foglietti uno sull'altro, cellule a prisma, a bastoncino, a spirale
una diversa dall'altra, una incastrata all'altra
bianco, nero, colori, e, subito dietro, i serbatoi d'acqua
e tutto è lubrificato e scorrevole, lenti e pellicole, nervi e muscoli,
miscele chimiche e proiezioni che s'incrociano, si specchiano
vanno a testa in giù e alla fine sbattono sullo schermo,
laggiù, al fondo della testa, proprio come al cinema.
 
Insomma, una perfezione che neanche riesco a dirtela;
e però, studiando,  studiando, e imitando, e copiando…
nasce la foto, e poi il film, e poi il video.
Capisci che roba?
Dimmi tu se vedere non è proprio il regalo definitivo.
E luce fu, come nella creazione.
 

Averceli, gli occhi buoni
(anche con un bel po' di diottrie in meno mi contento)
ci ho davvero l'universo sotto mano.
Che stai leggendo di questi tempi, che film t'è piaciuto ultimamente,
non mi dire che ti sei perso il festival.
Teatro, cinema, libri, paesi, mari, montagne, un paradiso, una giostra,
una mostra che non finisce mai.
Fisso, contemplo, ci vado a vivere in mezzo,
e gli occhi che non si riposano mai.
Sì, hai ragione, la sera mi ci sguercio sui libri, me l'ha detto pure l'oculista e… che vuoi, quando comincio non la smetto più.
 
E poi c'è uso e uso degli occhi.
Aspetta, gli dò un occhiata, un colpo d'occhio e ti dico,
vengo subito, ci prendiamo un caffè di corsa.
No, caro: tu mi devi guardare bene,
ho bisogno di leggertelo negli occhi se mi dici la verità,
per me è importante fissarci a lungo se è vero che ci capiamo
 e se è vero che ancora ci amiamo.
Allora apro gli occhi perbene, mi fermo, mi calmo, ti guardo,
ti contemplo e non la smetto più:
è il primo, secondo, terzo, infinito atto di amore.
Bastano gli occhi.
Te lo leggo negli occhi, te lo leggo nel cuore,
come nella bella canzone di Battiato.
Senza occhi, senza sguardi, senza ammiccamenti divertenti,
non c'è intesa, non c'è fiducia, non esiste accordo.
Tutto è possibile se lo sguardo è chiaro, è leale, è complice,
è innamorato.
 
Rileggo il capolavoro di Josè Saramago Cecità e tremo tutto:
un'intera città e alla fine tutti, proprio tutti, uno appresso all'altro,
brancolano, si oscurano e piano piano non vedono più niente.
Buio,  scuro, zero.
E le strade che sfumano e i volti che si sciolgono
 e il sole che è un disco vuoto e tutti che si fanno nemici
e si odiano e si combattono,
e un manto infernale copre l'intera città.
 
Sfoglio l'ultima pagina e sospiro e non mi escono preghiere e parole:
alzo la testa e pure stamattina è una visione
e pure oggi è un'apparizione
e pure oggi sarà una rivelazione.
Che grazia.
La luce negli occhi e sono un re.
Oggi… cos'è che sarebbe oggi se non aprissi gli occhi?
Invece è una sorpresa, è un'emozione forte,
è uno schianto di felicità e non mi lascia respiro,
e io che mi do i pugni in testa: “Ma quando la smetti di lamentarti per fesserie e non ti tieni stretto questo gioiello?”.
 
Però, calma: c'è guardare e guardare.
Va’ a testa alta diceva mio padre,
non ti vergognare mai di quello che sei, non abbassare lo sguardo
di fronte a nessuno, fosse il più potente e prepotente.
La gente la devi guardare in faccia
senza che nessuno ti metta paura e ti infili nel sacco.
E non fidarti di chi ti sfugge cogli occhi mentre ci parli,
forse ha già parlato male di te o non ti sopporta.
 
Gli occhi. Gesù sembra ossessionato con la faccenda degli occhi
e prima di chiamarlo, un discepolo, lo fissa dritto negli occhi.
Lucerna del tuo corpo è il tuo occhio,
se il tuo occhio è chiaro tutto in te sarà luminoso
ma se il tuo occhio è opaco tutto in te sarà buio.
Mi appari e ci hai gli occhi sorridenti, ohé come stai, che bello dopo tanto…
e già siamo uno nelle braccia dell'altro.
Gli occhi che sorridono (e meglio se ridono) s'illuminano,
anzi sfavillano e quasi quasi vorrebbero uscire dalle orbite,
tanta è la felicità.
Ma come abbiamo fatto a stare lontani tanto tempo.
Gli occhi ridenti… e tutto cambia.
 
E fermiamoci un altro momento. Di occhi in realtà ne abbiamo due:
uno fuori e uno dentro,
ma connessi, stretti, appiccicati uno sull'altro.
Lo vedo, me ne accorgo subito se ti bolle il cervello,
se ti passa una grana e non la vuoi dire a nessuno
e ti porti un peso sullo stomaco
e hai passato una nottataccia: lo vedo subito, ti conosco,
sbatti le palpebre, i bulbi sono slavati
e torno torno rossi rossi
e forse ci hai pianto sopra, forse..
Che posso fare per te, cosa stai passando?
 
Dell'occhio di fuori te n'ho parlato e non mi basta:
è nell'occhio di dentro che tutto succede.
E ognuno lo chiama come gli pare.
Per psichiatri e neurologi si dice sistema sottocorticale,
per psicologi è psiche e inconscio,
per poeti e religiosi è anima e vita interiore.
Basta metterci d'accordo, ma il risultato è quello.
Là dietro, là dentro e là sotto, quello che ricevo da fuori io me lo organizzo,
me lo trasformo, me lo manipolo, 
e alla fine ci lavoro sopra: costruisco, creo, compongo,
come se fosse mio;
ed è mio: immagine o pensiero, fantasia o sogno,
memoria o pretesa, felicità o disperazione.
L'occhio di dentro è la mia sibilla, il mio profeta, il mio artista,
ma anche la mia voglia di vivere
o la mia depressione e la mia distruzione.
Che mondo sconosciuto, gli occhi.
 

Non è ancora tutto.
Perché quell'occhio di dentro non è detto che invecchi
e cogli anni si logori;
anzi.
Anzi… potrebbe perfino migliorare, se voglio ci lavoro,
mi ci appassiono
o semplicemente sono fortunato e pieno di grazia.
Dipende. Lo chiamerò l'occhio di fondo, tanto per capirci.
Pochi ce l'hanno, beati loro.
Sì, l'occhio di fondo è il più raro,
l'occhio magico delle radio a valvola dell'infanzia,
quando mamma diceva aspetta, si allarga, si allarga, si fa verde e...
ora è pronto e puoi girare la manopola e lui parlerà.
Se mi si aprisse l'occhio di fondo io sarei vigile, sarei teso, sarei spalancato.
E qualcuno mi direbbe vai.
È l'occhio del Buddha, l'occhio del mistico, l'occhio del genio,
l'occhio di colui che è sveglio, che è iniziato e ha le braccia aperte:
attento! attento!
Ora ti verrà sussurrato il verbo, ora ti si spalancherà il vero,
ora disegnerai il bello che col primo occhio non vedresti mai.
Dai, apri l'occhio vero
e tutto conoscerai e tutto ammirerai

e non ci saranno più segreti per te
e una vita sconfinata ti scorrerà di fronte
e tu a bocca chiusa,
inerme, istupidito, intontito, saprai.
 
La contemplazione dei mistici inizia così:
notte che non ha più tenebre,
notte che non fa paura,
notte che non dà angoscia.
Tutto segreto, tutto silenzio, tutto appartato.
Occhio di anima, non di corpo,
occhio quasi divino, occhio penetrante.
Veggente, e non importa se con religione o senza.
È nato il Veda, il Quarto Vangelo, la Sistina, la Settima, il Parsifal.
 
In quel sole accecante io brancolo: ma sono felice lo stesso.
 
                                                                                           (Lauro Viscardo)
 
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Antologia

LA RESSA

Le nostre chiese sono vuote?

Lo sento ripetere spesso, da tanti e da tanto tempo: l’ho sentito ripetere anche a ridosso della Pasqua appena trascorsa, come se quel gran giorno, con le sue chiese piene, fosse stato poco più che una felice eccezione; ma ho l’impressione che si tratti di una lamentela reiterata con eccessiva criticità e con troppa indistinzione di tempi e di luoghi. Non ho la stessa impressione di vuoto, insomma, o non ce l’ho così uniforme.
Comunque non era certo vuota, nel corso della settimana santa da poco passata, la chiesa che frequento di solito. Per il vero, anzi, essa è piena proprio ogni domenica dell’anno, a entrambe le messe della mattina. Quest’anno, poi, per la domenica delle palme, in particolare, la folla dei fedeli traboccava addirittura un metro al di fuori di tutte e tre le porte d’ingresso, e tutte e tre le navate interne hanno continuato a riempire i loro banchi di fedeli lungo i giorni successivi, fino alla straripante domenica pasquale e dopo.

C’è ancora molta religiosità, fra noi: di diverse motivazioni e di diverse intensità e colorazioni, piuttosto; ed è su questo punto che, in realtà, mi pare si propongano alla nostra riflessione quesiti particolarmente impegnativi e talvolta eccessivamente trascurati.

Ad esempio, un piccolo episodio ricorrente continua a incuriosirmi ogni anno, da tanto tempo, proprio il giorno della domenica delle palme: un piccolo episodio che torna invariabilmente a ripetersi, regolare come la campana di mezzogiorno, nella mia e in tutte le chiese che in tanti anni mi è capitato di frequentare per questa festività; l’ho notato perciò anche quest’anno.

Si tratta della ressa disordinata ai banchi nei quali, subito prima e subito dopo la messa, si distribuiscono i rami di ulivo benedetti.
La ressa, la folla, l’accalcamento, la gara, l’ansia inconfessata, l’entusiastico desiderio, il gesto tradizionale, il segno scaramantico, l’attesa, la momentanea dimenticanza dell’essenziale, l’euforia generale dell’ambiente specifico, chissà…

Fatto sta che in questo piccolo episodio ricorrente trovo in effetti una piccola ma significativa “prova del nove” della effettiva sostanza della Pasqua, e della partecipazione alla chiesa, per tanti di noi, o per alcuni di noi: la ressa per accaparrarsi i rami più belli dell’ulivo benedetto, i più grandi, i più frondosi, e per accaparrarsene non uno per sé ma più di uno, uno anche per i figli, uno per i nipoti, uno per i vicini di casa, uno per l’amica, uno in sovrappiù perché non si sa mai…

Cosa che, di per sé, costituisce buono e lodevole pensiero, naturalmente.

Ma il lato che mi lascia sempre nuovamente perplesso, e malinconicamente curioso alla ricerca di qualche eventuale indizio di cambiamento, è che la ressa, nel suo malcelato tentar di essere pure educata e rispettosa, di palesarsi senza escandescenze, è proprio “ressa”, e in quanto tale finisce oggettivamente per non avere quasi mai compassione né rispetto del prossimo più debole, quello che al rametto di ulivo giunge in ritardo, per debolezza di passo o per buona educazione.

Nella ressa ognuno agguanta il suo piccolo malloppo come una conquista, lo rende il più corposo possibile, e scappa via; qualcuno lascia l’obolo, qualcuno un sorriso, qualcuno un augurio di Buona Pasqua, qualcuno persino si sforza di fare spazio a chi viene dopo di lui: ma relativamente pochi, alla fine, lasciano una traccia esplicita, chiara, testimoniata, di solidarietà e comprensione, di tenerezza e generosità, per chi resta senza ramo di ulivo o deve accontentarsi dei rimasugli semidefoliati, quelli che proprio, anche nell’aspetto esteriore, non hanno neanche più la sembianza di rami di ulivo.

Beh, c’è poca Pasqua, in questo piccolo, particolare gesto della festa; poca Pasqua cristiana, almeno. C’è poco Gesù Cristo, poco di quel Gesù che subito dopo confessiamo tanto solennemente alla messa come il nostro Dio e Signore insieme con i nostri fratelli. E per questo, a volte, invece che sentirmi “felice come una pasqua” in tanto tripudio di rami, mi sento un po’ malinconico.

E mi vien da pensare, più o meno, rivolgendomi mentalmente a ciascuno dei miei fratelli di fede, e scoprendomi anche ogni tanto a distrarmi per un momento dalla messa: “Caro fratello (e soprattutto cara sorella, dato che in questa Milano-Sanremo liturgica mi pare empiricamente che le donne, e non quelle giovani, prevalgano di gran lunga): forse dovremmo ricordare con più attenzione il significato di quel ramoscello d’ulivo che stiamo prendendo in mano, ricordarlo davvero alla luce di quel giorno di duemila anni fa raccontato dal vangelo; e sentire perciò l’impulso che, se ne prendiamo uno per noi e per la nostra famiglia, e magari uno anche per il vicino di casa, dobbiamo però aver cura di lasciarne uno all’altra donnina che avanza più educata o meno muscolosa di noi nella ressa, o al giovane che per rispetto dell’età altrui si lascia sopravanzare ma osserva il banco che si svuota rapidamente lasciando per lui e per gli altri soltanto tronchicini defoliati…”. Perché essere cristiani, in quel momento, mi pare anche questo…

Insomma, domenica delle palme, anche quest’anno, e per questo piccolo aspetto… poco liturgica e molto rituale, poco cristiana e un po’ folclorica. O almeno, così a me sembra. Ci penso su, uscendo dalla chiesa. Mi accontento dei miei ramoscelli non foltissimi. Anzi, ne ho potuto prendere uno anche per le mie figlie. Sono davvero contento. E’ il segno della mia Pasqua. Il segno profondo, anche se solo simbolico, di quel Gesù nel quale credo e che ho davvero incontrato nella messa. No, non ho fatto e non farò mai la gara per i ramoscelli più belli e più folti.

Ma, durante la messa, mi è restato il pensiero fisso anche su come doveva essere la folla che osannava Gesù nella Gerusalemme storica di quell’anno primo della Pasqua cristiana, o meglio di quel primo anno di “festa delle palme”: c’era la ressa, anche allora, ed era fatta di appassionati di fede in attesa del messia promesso dai profeti, di discepoli del Battista dal cuore grande, di umile gente sincera del popolo e sbalordita dai miracoli di Gesù, e anche di un nugolo di curiosi, di pettegoli, di indifferenti, di ritualisti del tempio in gara per catturare un ramo di palma o di ulivo da tenere per ricordo perché “questo Gesù di Nazareth sta facendo parlare tanto di sé che, chissà, passerà alla storia, magari caccerà i romani dalla nostra terra, magari ci farà rivivere le glorie di Davide e di Salomone… il grande Israele… magari farà arrabbiare tanto i nostri sacerdoti e scribi perché, dopotutto, si dimostra più coerente di loro… E insomma… è importante esserci, oggi, è importante dire ai nipoti: “Vedi questa palma? E’ proprio del giorno in cui il nuovo re passava in mezzo a noi: e io c’ero, e ne ho catturato una anche per te, per tuo ricordo, perché io facevo il tifo per lui…”.

Tutto il resto, che lui sia Dio o non lo sia, che occorra davvero amare il prossimo come lui dice, che poveri e umili valgano davvero, davanti a Dio, come quelli del sinedrio, come lui sostiene… Beh, che importa tutto ciò? Apparenze, convenienze, riti, tradizioni… belle, giuste, ma, diamine, con un po’ di giudizio, senza esagerare…”.

Sì, siamo proprio noi, siamo proprio quelli, siamo uguali, ancora dopo duemila anni; anche nelle piccole cose. Anche nella gara per i ramoscelli d’ulivo in questo giorno di festa. Chissà, forse è anche per questo che il regno dei cieli dura tanta fatica ad affermarsi, anche fra noi credenti… Ancora dopo duemila anni non ci riesce… e ancora continuiamo a pensare che sia questione di miracoli tonanti, non anche della piccola vita quotidiana affidataci…

Lo so, ora voi mi direte: “Beh, a cosa ti attacchi, tu… a simili quisquilie… la gente è così, si sa, ma che c’entra con la Pasqua? Ci sono ben altri problemi… I musulmani… le scuole cattoliche… le elezioni con una lista di ispirazione cristiana…”.
Avete ragione. Forse. Lo sapete, del resto, che io sono fatto così. Non riesco a levarmi dalla testa che le cose piccole siano segnacolo di cose più grandi, che le une e le altre siano legate fra loro, che tutto anzi cominci forse dalle piccole… Mah!... sono fatto così…

Eppure: che grande spettacolo sarebbe stato, che predica silenziosa per i non credenti, che profumo di amicizia ed affetto avrebbe pervaso la chiesa, la piazza, gli estranei passanti, che misericordia fra noi… “Guarda… gente che si vuole bene, che si dà la precedenza anche per un ramoscello di ulivo… qualcosa di serio e di bello deve pur esserci, fra questi... di diverso da ciò che si vede fra gli altri…”.
Che bella Pasqua sarebbe! Questa, sì, da contrapporre con giusto orgoglio alle bombe di Bruxelles.

                                                                                                                                                      ​(Giuseppe Ecca)
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Antologia

Per una riforma del sistema bancario europeo: la proposta sempre valida di Luciano Gallino

Riproduciamo un interessante spunto che fu già pubblicato da Studisociali, nella sua versione pre-sito, nel 2016, sulla interessante e lucida iniziativa di petizione allora rivolta al parlamento europeo, promossa proprio da Luciano Gallino e da alcuni suoi amici per la riforma, tuttora più che mai indispensabile, del sistema bancario e delle politiche finanziarie degli Stati.
 
Luciano Gallino, uno dei più grandi sociologi italiani del dopoguerra, è venuto a mancare da una manciata di mesi. Con lui la sociologia mondiale e quella italiana hanno perso una delle anime più attente alle dinamiche profonde del nostro tempo e, soprattutto, uno degli interpreti più profondi di Adriano Olivetti, con il quale lavorò a diretto contatto.
 
Pochi mesi prima di morire, Gallino si era fatto promotore, insieme con Eio Veltri e Antonio Caputo, di una petizione al parlamento europeo per chiedere un cambiamento radicale del sistema finanziario vigente nei paesi dell’Unione. 
 
La petizione ripete la posizione da lui sempre espressa sulla materia. Del resto, a ben pensare è quella che corrisponde, da sempre, anche al buon senso elementare del cittadino che risparmia qualcosa dei suoi guadagni e desidera affidarli a una banca perchè glieli custodisca in sicurezza, servendosene nel frattempo per finanziare investimenti in economia reale che facciano crescere la ricchezza di tutta la comunità. Eliminando così la speculazione impropria. Non occorre essere economisti, per capire questa logica elementare ed eticamente corretta. Ma per attuarla occorre non essere né dipendenti né servi di speculatori: banche degeneri, oscure finanziarie, fondi poco trasparenti, o altro di similmente speculativo.
 
Riproduciamo il testo della petizione dichiarandone tuttora la piena validità e condivisione da parte nostra. Le cose, in questi mesi, non sono affatto cambiate, quanto a politica finanziaria in Europa, in Italia e nel mondo: e siamo anzi ancora più preoccupati di allora, in quanto la situazione bancaria del nostro paese è parsa ulteriormente indebolirsi, la trasparenza delle intenzioni di governo è parsa ulteriormente mascherarsi, le minacce di uno scarico di tale situazione sui risparmi degli italiani è parsa farsi nuovamente ravvicinata secondo più di un osservatore. La riflessione critica di Gallino e di quanti l’hanno ripresa e sviluppata, o almeno diffusa, comincia comunque a scuotere molte coscienze e anche per questo ci sembra utile riproporla.

 
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Tra le cause della crisi economica che attanaglia l’Europa rientrano i difetti strutturali del sistema finanziario della Ue, evidenti soprattutto nei grandi gruppi bancari.
   
Lo sviluppo anomalo del sistema finanziario ha provocato gravi danni all’economia produttiva.
 
Da un lato i crediti che le banche concedono vengono utilizzati soprattutto per attività speculative, anziché per investimenti in capitale fisso, infrastrutture, ricerca, sviluppo di nuovi settori d’attività; dall’altro, la finanziarizzazione delle imprese industriali e dei servizi ha distorto i loro criteri di gestione e le ha indotte a spingere sempre più in basso le condizioni di lavoro e i salari.
   
Una riforma del sistema finanziario è pertanto necessaria quanto urgente.
 
Senza di essa una crisi ancora più grave di quella in corso ormai da otto anni potrebbe abbattersi sulla Ue.
   
Sappiamo che progetti di riforma del sistema finanziario sono in discussione presso la Commissione e alcuni parlamenti di paesi europei. Si tratta però di progetti lontani da ciò che sarebbe necessario per riportare la finanza al suo essenziale ruolo di servizio nei confronti dell’economia produttiva.
 
Ed è sin troppo evidente come essi siano stati redatti in accordo con le grandi banche e le loro lobbies.
   
I difetti strutturali del sistema finanziario Ue si possono così riassumere, insieme con alcune indicazioni su possibili linee di riforma:
   
            1) Nella Ue vi sono numerosi gruppi bancari che non solo sono troppo grandi per essere lasciati fallire, ma sono diventati talmente grandi da rendere impossibile salvarli nel caso fossero a rischio fallimento. Il loro bilancio in termini di attivi si avvicina e in vari casi supera il pil del paese in cui hanno sede. Appare pertanto indispensabile scomporli in entità di minori dimensioni. Varie strade sono praticabili, dalla separazione tra banche di deposito e banche di investimento, all’apposizione di un limite al volume di attivi che un istituto può detenere.
  
            2) I maggiori gruppi bancari sono troppo complessi sul piano internazionale per poter essere assoggettati a una efficace regolazione. Ciascuno è formato da migliaia di società sussidiarie giuridicamente indipendenti distribuite in tutto il mondo. Dopo il fallimento della Lehman Brothers nel settembre 2008 ci sono voluti anni di lavoro da parte di migliaia di analisti per capire quali e quanti fossero, e dove stavano, gli attivi e i passivi delle 2.500 società che formavano il gruppo. Il numero delle sussidiarie di ciascun gruppo dovrebbe pertanto essere drasticamente ridotto.
 
          3) Le grandi banche Ue intrattengono stretti rapporti con un gigantesco sistema bancario e finanziario ombra – formato da enti che non sono banche ma operano come banche - il quale secondo stime del Financial Stability Board detiene attivi dell’ordine di 23 trilioni di euro, una somma pressoché pari al totale degli attivi di tutte le banche europee. Pure le dimensioni del sistema bancario ombra dovrebbero essere fortemente ridotte, e quanto ne rimane dovrebbe venir assoggettato a una regolazione analoga a quella delle banche.
           
          4) Le banche europee hanno emesso col tempo titoli derivati per centinaia di trilioni di euro. Oltre il 90 per cento di essi sono “nudi”, ossia non corrispondono ad alcuno scambio reale di merci o servizi.
Giustamente sono stati definiti da molti esperti delle pure scommesse. Poiché, a parte il loro valore nominale, essi hanno un prezzo di mercato, la loro creazione è equivalsa a immettere nell’economia immense quantità di denaro fittizio, che ha contribuito a creare e fare esplodere la bolla immobiliare e finanziaria del 2008, e poi l’attuale bolla dei valori azionari. Pertanto l’emissione di derivati “nudi” dovrebbe essere vietata.
   

            Tutto ciò considerato, i cittadini europei firmatari della presente petizione chiedono al Parlamento Europeo, unico ente elettivo dell’Unione in cui essi si riconoscono, di farsi carico di una proposta di legge che affronti finalmente le distorsioni del sistema finanziario della Ue sopra richiamate.
 
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