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Racconti di vita

IL DESERTO FIORITO

Come ci sembra di avervi già altra volta segnalato, abbiamo fatto la scelta di lasciare intatti questi “racconti di vita”, così come i loro autori ce li hanno trasmessi. Sono testimonianze, e il loro valore non è nella struttura letteraria ma semplicemente, e spesso profondamente, nella umanità che esprimono. Così è del racconto di oggi. Quando la forza insopprimibile di un affetto fa prendere la decisione di non rassegnarsi a lasciar morire un proprio caro in un’anonima “casa di riposo”...

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Odio il bianco: ospedali, cliniche, case di cura… hanno tutti muri bianchi. Percorro il labirinto dei loro corridoi a testa bassa. Una metafora agra del percorso obbligato della vita che, in fondo, ci porta tutti al medesimo punto. La differenza non è la meta, ma il cammino: è questo che ci distingue e qualifica, che può riempirsi di significato oppure sgonfiarsi nel nulla.
Il percorso di mio nonno è stato silenzioso, senza mai staccarsi da quella terra che egli ha coltivato per tutta la vita e che forse è stata il suo unico vero amore. Giungo alla sua camera con lo stato d’animo confuso; mi ero fermamente ripromesso di pensare prima a cosa dirgli per “tirarlo un po’ su di morale”, ma la mente ha vagato per conto suo nei meandri dei ricordi, tra fragole e albicocche e le mani callose di mio nonno che mi accarezzavano i capelli.  Entrando nella struttura mi aspettavo di vederlo seduto a leggere il giornale, come al solito,  e invece lo trovo sdraiato in una posizione nuova, con le braccia abbandonate lungo i fianchi.
  • Ciao, nonno! Come ti senti oggi? – alzo la voce perché è un po’ sordo.
Solleva leggermente il capo, mi fissa stringendo gli occhi:
  • Chi sei?
Due sillabe che mi giungono come stilettate alle costole. Mi ero illuso di poter rimandare questo giorno a un tempo futuro e indefinito; egoisticamente speravo che quando fosse accaduto (perché comunque era inevitabile che accadesse) mi sarei trovato magari in viaggio di lavoro e avrei quindi avuto una buona scusa per scaricare il peso della notizia su qualcun altro. Invece no: accade proprio oggi, in questo momento, e tocca a me.
  • Sono Paolo – gli ripeto cercando di abbozzare un sorriso e ricacciando giù il magone che mi attanaglia la gola.
Mi lancia uno sguardo smarrito, aggrotta la fronte, sembra impegnato in uno sforzo disperato per ricordare. Non mi ha riconosciuto: proprio me, il suo unico nipote, io che gli ho vissuto accanto per trent’anni e poi ogni giorno in questi ultimi due mesi…Non mi ha riconosciuto. E’ l’ultimo stadio di una malattia che porta via l’uomo un po’ per volta: lo disgrega, lo scompone, come in un quadro di Picasso, finchè l’uomo non riconosce più gli altri né sestesso. Mi siedo accanto al letto, gli parlo scandendo bene le parole: “Ti ho portato il giornale, nonno; non vuoi leggere?”
Una volta andai in Marocco con una comitiva turistica. Le guide ci condussero nel deserto. Niente sabbia. Colline rocciose scolpite dal vento e vallate cosparse di sassi e massi spigolosi. Un paesaggio desolato dove il nulla è protagonista e il pensiero vaga sconcertato alla ricerca vana di un appiglio. Le guide avevano piantato le tende sulla cima piatta di una collinetta per evitare il pericolo dei torrenti impetuosi che si formano quando piove. Non c’erano nuvole all’orizzonte e in quella regione la siccità durava da dieci anni. Quella notte però fui svegliato dal ticchettio della pioggia sulla tenda. I miei compagni dormivano e così gustai in solitudine quel momento particolare. Udivo in lontananza i rombi del tuono. Il temporale si stava scaricando con violenza. Rimasi sveglio a lungo e la mattina seguente fui l’ultimo ad alzarmi. Fuori, mi aspettava una sorpresa: tutt’intorno, sotto di noi, una marea di fiori gialli si era impossessata del terreno: un tappeto denso e uniforme che riverberava al sole. Ciottoli e pietre erano fioriti, la materia inerte aveva generato la vita, un’esplosione improvvisa aveva trasformato il deserto in un paradiso. Scesi dalla collinetta per toccare con mano il miracolo. Erano fiorellini simili a quelli che da bambino trovavo in campagna, nel podere del nonno, e di cui non ricordavo il nome. Piccoli fiori su steli esili, senza pretese né orpelli, ma di un giallo così intenso da abbacinare la vista. Ero stato privilegiato ad assistere a quello spettacolo così raro. Mentre i miei compagni consumavano rullini di foto, io rimasi immobile ad ammirare. Un uomo minuscolo nel deserto fiorito. Un brivido felice nell’animo.
Ora osservo il volto di mio nonno e vi ritrovo il paesaggio aspro del deserto: un’arida landa con solchi profondi, la fronte; radi cespugli quasi secchi, le sopracciglia; una collina smunta dal vento e dagli anni, il naso; e rughe profonde che dalle guance s’irradiano come canyons in una pianura secca eppure ancora vitale, non arresa al potere superiore della natura. Gli occhi, invece, gli occhi verdi di mio nonno, gli stessi miei occhi, sono laghi di vita risorta, pianure ubertose, un piccolo miracolo che ancora sfida il tempo.
Paolo! – esclamò all’improvviso-: sono contento di vederti!
Mi ha improvvisamente riconosciuto e, con le parole, un sorriso sboccia prepotente nel deserto, rompe gli schemi che sembravano ormai fatali, ricopre i canyons, spiana le colline, fa vibrare i cespugli di una brezza nuova. Su quel volto sorridente ritrovo lo stesso smarrimento beato che provai nel mezzo del deserto fiorito, un attimo di felicità che riempie il mondo ma che non possiamo portarci appresso. Un attimo che fa fiorire il mio nome sulle sue labbra, mentre il sorriso si spande agli occhi e all’anima.
  • Che hai da guardarmi così? – mi fa in tono burbero.
  • Niente. Pensavo… Sei mai stato nel deserto?
  • Lo sai bene che non mi sono mai mosso dalla mia terra.
  • Allora ti ci porto io, nel deserto.
Mi scruta come fossi un marziano e sbotta:
  • Che ti prende, oggi?
  • Dai, alzati – lo afferro per le spalle e lo costringo a sollevarsi.
  • Ma che diamine… - protesta a denti stretti.
  • Mettiti la vestaglia, ti porto via con la sedia a rotelle, non voglio che rimanga a marcire qui dentro.
Si mette a ridacchiare:
  • Vedrai come s’incazza la caposala!
Lo spingo fuori sulla sedia a rotelle. Percorriamo i corridoi quasi di corsa, prima che scoprano la nostra evasione. Il nonno ride come un bambino felice:
  • Sei proprio matto. Si può sapere dove andiamo?
  • Te l’ho detto: all’aeroporto, e poi nel deserto.
  • E cosa c’è nel deserto?
  • Non te lo posso spiegare, devi fidarti di me.
  • Andiamo nel deserto, allora! – E ride a crepapelle, agitando il bastone da passeggio come un cavaliere la sua lancia. Non lo vedevo così contento da anni. Prego il Signore che ci conceda almeno il tempo necessario a questa pazza impresa. Ci dirigiamo a tutta velocità verso il parcheggio dei taxi e intanto lui continua a gridare:
  • Più forte! Più forte!
                                                                                                     (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
°°°°°
MM

Internazionale

RANIERO LA VALLE AGLI EBREI DELLA DIASPORA

Carissimi Ebrei della Diaspora,
vi scriviamo per parteciparvi una duplice angoscia che cresce in noi a partire da quel 7 ottobre del 2023, quando un’efferata azione dei palestinesi di Hamas fece scempio di un gran numero di ebrei di Israele e di molti non israeliani sui bordi della “striscia” di Gaza.

Insieme al dolore per le vittime e alla esecrazione per la brutalità dell’aggressione, la prima di tali angosce ha tratto origine dalla percezione che le conseguenze di quella azione, con tutto il male che portava con sé, sarebbero ricadute sulla intera popolazione di Gaza e sul popolo palestinese in quanto tale, ovunque situato, nei territori colonizzati della Cisgiordania come nei Paesi vicini.

L’altra angoscia è sorta, ed è cresciuta nel tempo, dalla considerazione che le conseguenze della spietata ritorsione intrapresa dagli Ebrei delle Israel Defence Forces, con tutto il male che porta con sé, ricadranno sull’intero popolo ebraico, sia privando di ogni sicurezza, ad onta di ogni possibile difesa, i cittadini dello Stato di Israele, sia mettendo a repentaglio, con risultati imprevedibili, il popolo ebraico della Diaspora in quanto tale.

A questa duplice angoscia si aggiunge quella per ciò che può accadere a causa dell’allargamento del conflitto al Libano e all’Iran, e per le conseguenze che ne possono derivare per tutto il Medio Oriente e la residua pace del mondo. Ciò che ci accomuna di fronte a questi eventi, è la nostra condizione di terzietà che ci fa trovare con voi dalla stessa parte sia al cospetto delle attuali condotte dello Stato di Israele, che sono in odore di genocidio, sia delle reazioni violente e illegittime dei suoi antagonisti, sia della responsabilità che tutti abbiamo in ordine alla “questione palestinese”.

Il nostro coinvolgimento in questa tragedia è determinato anche dal fatto che essa non investe direttamente solo i due popoli in lotta, né è solo un evento di portata locale, ma investe tutti i popoli e gli Stati ed ha una portata di carattere mondiale. Se, non risolvendosi questo conflitto, esso lasciasse dietro di sé due popoli irrimediabilmente nemici, la cui spinta vitale fosse la distruzione l’uno dell’altro, così ogni altro popolo potrebbe cadere nella stessa sindrome di annientamento reciproco, in modo tale che l’unità della famiglia umana sarebbe rotta e il mondo non potrebbe sussistere.

Perciò, e non solo per molte altre ragioni di cui si potrebbe parlare, noi sentiamo il vostro problema come nostro, e vi scriviamo non per darvi moniti e consigli che non abbiamo l’autorità di darvi e che voi potreste non trovare alcuna ragione di accogliere,
ma perché siamo convinti che insieme dobbiamo farci carico di questa sfida e insieme immaginare e cercarne la soluzione sul piano effettuale e politico. Se siamo, come si dice, a un “cambiamento d’epoca”, tutti noi contemporanei ne siamo responsabili e autori.

Un’altra ragione per farlo, senza che questo voglia dire un’interferenza in una questione che è solo vostra, è il fatto che come noi comprendiamo ed è di dominio comune, alla radice di questa terribile vicenda c’è una realtà di fatto che non è solo dello Stato di Israele, che in oltre 70 anni non è riuscito a dare soluzione al problema del rapporto sulla stessa terra con un gran numero di residenti che hanno altra origine, storia, lingua, religione e cultura, ma è anche e sempre più potrà diventare un problema anche nostro; e ciò in ragione delle correnti migratorie, regolari e irregolari, che affluiscono nei nostri Stati e che le nostre politiche sembrano non in grado di fronteggiare. La differenza sta nel fatto che mentre gli Ebrei sono gli “altri” sopraggiunti a sostituire una popolazione già esistente, i nostri Stati sono la popolazione esistente a cui si aggiungono gli “altri” che arrivano sempre più numerosi, provocando in essa inevitabili cambiamenti. Se i nostri Stati affrontassero il problema del rapporto con i migranti nella prevalente preoccupazione di una “identità” e invarianza da preservare, il rischio sarebbe di vivere “la questione migratoria” con la stessa ambascia con cui lo Stato di Israele fin dall’inizio ha avvertito “la questione palestinese”. E sarebbe una catastrofe se noi volessimo difendere la “nazione” e i valori nazionali, ben oltre la chiusura delle frontiere e dei porti, in modo corrispondente alla perentorietà con cui lo Stato di Israele rivendica e tutela la propria identità nella sua Legge fondamentale. Tale Legge, adottata per iniziativa del premier Netanyahu ma con l’opposizione del Presidente di Israele Reuven Rivlin il 19 luglio 2018, com’è noto definisce Israele come “Stato Nazione del Popolo Ebraico”, la Terra di Israele (più volte identificata in Israele con la terra che si stende dal mare al Giordano) come “la patria storica del popolo ebraico in cui lo Stato di Israele si è insediato” e “Gerusalemme integra e indivisa” come la capitale -di Israele.

Si può obiettare che l’identità che rende così tipico e coeso il popolo ebraico è ben più forte e storicamente sperimentata di quella che unisce i cittadini dei nostri Stati, che sono ormai inclusi in società per larga parte multietniche e pluraliste, legittimate da ordinamenti democratici, a differenza dello Stato di Israele in cui la citata Legge fondamentale riserva i diritti di natura politica “esclusivamente al popolo ebraico”. Ma se si rifiuta di cogliere la “differenza ebraica” nella specificità razziale, che è stata usata a fondamento della perversione dell’antisemitismo (“razziali” si chiamavano le leggi che l’hanno promosso) si deve cercare altrove il cemento di questa unità e specificità del popolo cui appartenete; e noi lo troviamo nella storia di Israele, nella sua fede, nel
suo riferimento alla tradizione biblica e talmudica, (“la Legge e i Profeti”!), e nella solidarietà nel dolore determinata dall’esperienza e dalla memoria delle persecuzioni subite.

Ma allora di nuovo si scopre quanto abbiamo in comune e come sia anche nostro il problema delle politiche e della figura attuali dello Stato di Israele.

Prima di tutto ci sembra che il riferimento alla fede e alla tradizione religiosa di Israele apra uno spazio fecondo di alterità tra voi, popolo ebraico della Diaspora, e i vostri fratelli ebrei dello Stato di Israele. Diverso infatti nei due casi ci appare questo rapporto. I cittadini anche non credenti della società israeliana, in larga parte secolarizzata (non diversamente dalle altre società dell’Occidente) vi fanno riferimento e le professano fedeltà come fondamento e garanzia dello Stato, che fin dall’origine ha scelto di stabilire in essa la propria legittimazione; infatti essa è implicitamente riconosciuta dalla comunità internazionale che correntemente si riferisce ad Israele come allo “Stato ebraico”. Questo però comporta una lettura del patrimonio spirituale dell’ebraismo in termini temporali e politici, non sempre prudenti, che distorcono agli occhi degli osservatori esterni il significato della fede ebraica e che nei momenti di crisi sono accentuati dai governanti di Israele per difendere le loro scelte e ottenere una sorta di insindacabilità delle loro politiche, mettendo in carico all’antisemitismo le riserve e le critiche che vengono loro rivolte. Il danno di questo uso strumentale dei tesori dell’ebraismo ci è apparso ingigantito nel corso di questa crisi, per il frequente ricorso che vi ha fatto il premier Netanyahu, rivendicando una filiazione diretta delle sue scelte dai comandi di Mosè e dalle gesta di Giosuè, stabilendo una continuità di fatto tra le azioni distruttive di oggi e gli stermini di ieri dei popoli vinti da Israele nell’epica conquista della Terra promessa, interpretando settariamente l’effetto della presenza di Israele sulla “mappa” del mondo in termini di benedizione e maledizione, presentando lo Stato di Israele nella forma di un messianismo realizzato e rompendo con la comunità delle Nazioni in una rinnovata contrapposizione tra Ebrei e “Gentili”. Una linea di governo che si è manifestata bollando l’Organizzazione che le riunisce, l’ONU, come una “palude di antisemitismo”, non risparmiando la vita dei suoi operatori umanitari, attaccandone i militari in missione di pace, dichiarando persona non grata il suo massimo rappresentante e sdegnando le pronunzie i moniti e le accuse dei suoi organi istituzionali e giudiziari. Siamo particolarmente raccapricciati e appare blasfema la pratica di uccidere i nemici uno per uno e promettere di ucciderli tutti invocando il nome di Dio, avendo in premio la luce e l’entusiastico consenso di Biden.

Vogliamo rendervi atto che molto diversa è la testimonianza dei valori dell’ebraismo e della fede di Israele che si sprigiona dal vasto mondo degli Ebrei della Diaspora. Anche tra voi ci sono credenti e non credenti, e senza dubbio è ragione di arricchimento per
tutti la presenza e l’integrazione degli Ebrei della Diaspora nelle nostre società laiche e nella costruzione di autentiche democrazie. Ma se teniamo conto della ricca varietà di posizioni espresse in seno all’ebraismo, vediamo come una gran parte dei sapienti d’Israele e dell’ebraismo rabbinico ha respinto nel passato, e in notevole misura lo fa anche oggi, una interpretazione del messianismo in senso politico e mondano, professando come riservata a Dio l’attuazione delle promesse messianiche, ha giurato di “non forzare la fine”, si è dissociata da una versione del sionismo in un suo intreccio perverso con lo Stato, rivendica il valore della vita ebraica “nel differimento” della redenzione e nell’esilio, legge in modo non fondamentalista il libro sacro e ha parole di vita riguardo a molte altre cose. Grande perciò, dal nostro punto di vista, sarebbe l’importanza di una crescita del dialogo e del confronto tra il mondo della Diaspora e gli Ebrei dello Stato di Israele, in vista di un cambiamento e di una rettifica degli errori commessi (denunciati perfino dagli Stati Uniti) e anche ai fini di un contenimento e di un antidoto al risorgente mostro dell’antisemitismo o, come è stato chiamato anche da autorevoli Ebrei, al “suicidio di Israele”.
La seconda realtà chiamata in causa dal riferimento alla fede e alla tradizione biblica di Israele è quella dell’Occidente, il quale non a caso è collocato, da un luogo comune di cui molti ignorano la vera portata, nella filiazione dalla tradizione “ebraico-cristiana”.

Se questo è vero, si pone un problema molto grave per noi, al di là delle opzioni di fede di ognuno. A questa nostra tradizione appartiene una parola di Gesù detta alla donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe, tramandata dal Vangelo di Giovanni, che afferma: “La salvezza viene dai Giudei”. La nostra esperienza attuale e la tragedia di Gaza insinuano che ne venga invece la perdizione e la fine. Il problema consiste nel fatto che o lasciamo cadere come infondata e inattendibile la predizione di Gesù, ma allora è tutto il Vangelo che cade, oppure la situazione presente viene rovesciata e questa profezia si traduce in lieto preannunzio di un altro futuro e in un compito da assolvere. Nella storia della cristianità per molto tempo questa seconda ipotesi è stata scartata (“i perfidi Giudei”!) ma nel nostro tempo il rovesciamento è avvenuto, come dimostrano la riforma della liturgia, la fede espressa nel documento “Nostra aetate” del Concilio Vaticano II”, il dialogo ecumenico e quello ebraico-cristiano, il riconoscimento degli Ebrei come “nostri fratelli maggiori” secondo la pronunzia di Paolo VI, il documento di Abu Dhabi e la “Fratres omnes” di papa Francesco, così come nel mondo laico il ravvedimento è attestato dal pentimento e dalla condanna universale della Shoà insieme all’onore e al pregiudizio favorevole riservati agli Ebrei contro ogni antisemitismo. A ciò si aggiunge, da parte della storiografia scientifica e della ermeneutica cristiana una lettura non pedissequa della Bibbia (quella letterale
sarebbe secondo i teologi cattolici “un suicidio del pensiero”) che non considera “storici” i libri “storici” dell’Antico Testamento, scritti molti secoli dopo i fatti narrati, e perciò non attestanti fatti effettivamente avvenuti. Ciò significa liberare il popolo ebraico dalla pretesa origine da un delitto fondatore, e addirittura da un passato di decreti di sterminio ed eccidi di interi popoli (molti dei quali all’epoca nemmeno esistenti) su commissione di un improbabile Dio violento, a sua volta successivamente ucciso nel Figlio, e cancellare l’intero armamentario ideologico su cui è stata storicamente fondata la persecuzione antisemita. Per contro un passato di delitti fondatori e di messianismi letali lo hanno molte realizzazioni genocide e colonizzazioni insediative dell’Occidente “civilizzatore”, come nella “scoperta” e conquista dell’America, nell’America cosiddetta “latina”, nell’Africa non solo del Sud, in Oceania e altrove.

Così ristabilito l’orizzonte in cui operare, si apre la possibilità di un’alleanza di tutti i soggetti fautori di pace con gli Ebrei della Diaspora per un dialogo con l’attuale Stato di Israele, la ricerca di una soluzione e la costruzione di un’alternativa riguardante non solo Israele e i palestinesi ma la pace e l’unità stessa del mondo.

Sarebbe una presunzione e ancora il riflesso di una mentalità egemonica stabilire i termini di tale soluzione, che possono scaturire solo da una ricerca comune e dalla inventiva della storia. Si può però affermare con un sufficiente grado di certezza che una soluzione può risiedere solo in una riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi e non solo venire da artifici politici e diplomatici. Per la costruzione di un’alternativa si deve ormai abbandonare la fuorviante soluzione a due Stati, per la quale ci vorrebbe ben più che una riconciliazione, tra due Stati limitrofi e indiziati a combattersi, anche ove mai tale soluzione fosse stata possibile e auspicabile in passato, nonché la finzione di negoziati in realtà ordinati a confermare e preservare la situazione qual è, come è stato sostenuto anche in un dialogo tra due culture diverse, quale il dialogo tra Ilan Pappé con Noam Chomski. Resta la soluzione a uno Stato, ma allora va costruita attraverso una riforma della figura di Stato vigente, riforma che pertanto riguarda non solo lo Stato di Israele, nel quale l’identità etnico-religiosa spinta all’estremo ha dato luogo a un regime di dominio e di guerra, ma la stessa forma di Stato moderno, quale si è andata a fissare negli Stati esistenti, che nel loro insieme ormai globalizzato si presentano come un coacervo di sovranità in competizione se non in lotta tra loro, che hanno eletto come ultimo (e spesso anche primo) giudice tra loro, la guerra. Lo Stato rispondente alla nuova realtà di una comunità mondiale pluralistica e multiculturale dovrà piuttosto costruirsi in una pluralità di ordinamenti giuridici interagenti tra loro, che insedino come sovrana la pace, assicurino l’eguaglianza, riconoscano non solo come affare individuale e “privato”, ma sociale e significante per tutti, le culture le religioni e le
tradizioni diverse, e aprano le frontiere e i porti alla libera circolazione non solo delle economie e delle merci, ma delle persone e dei popoli. Si potrebbe perfino pensare che nel nuovo “villaggio globale” agli organismi che corrispondono ai tre poteri competenti nelle relazioni interne agli Stati, legislativo, esecutivo e giudiziario, possa aggiungersi un altro organo, quello della diplomazia, con poteri di consiglio e di controllo sui rapporti esterni e le scelte internazionali dello Stato, a partire dalla scelta costituzionalmente obbligante della pace, della salvaguardia del creato e della dignità delle creature. Così come si potrebbe pensare a uno sviluppo del diritto che giunga ad abrogare e sanzionare la figura del “Nemico”; e ciò non solo in Europa, quando perfino nell’Impero ottomano Ebrei e Islamici hanno vissuto insieme pacificamente per secoli, senza ombra di antisemitismo.

Questo volevamo dire agli Ebrei con noi conviventi, nostri vicini, concittadini, sorelle e fratelli in quest’epoca nuova.
Raniero La Valle e Comitati Dossetti per la Costituzione, Domenico Gallo, giurista, Roberta De Monticelli, filosofa
Con (firme dei mittenti in ordine di apposizione):
Raffaele Nogaro, vescovo cattolico, Claudio Grassi, legislatore, Felice Scalia, gesuita, Elena Basile, ambasciatrice, Luigi Ferrajoli, giurista, Giovanni Ricchiuti, vescovo cattolico, presidente di Pax Christi Italia, Stefania Tuzi, storica dell’architettura, Francesco Di Matteo, avvocato, Francesco Zanchini di Castiglionchio, canonista, Massimo Zucconi, architetto, Fulvio De Giorgi, ordinario di storia dell’educazione, Agata Cancelliere, insegnante, Giorgio Rivolta, docente di filosofia, Santino Di Dio, impiegato, Raffaele Luise, giornalista, Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo, Vito Micunco, Comitati pugliesi per la Pace, Nicola Colaianni, già Magistrato di Cassazione; Nicola Costantino, ex Rettore del Politecnico di Bari; Nicola Pantaleo, già Presidente del Consiglio della Chiesa Evangelica Battista di Bari;, Antonio Malorni, biochimico, Paolo Cento, legislatore, Fabio Filippi, editore, Enrico Peyretti, insegnante e maestro di pace, Grazia Portoghesi Tuzi, etnomusicologa, Francesco Comina, insegnante, Paola Patuelli, insegnante, Anna Sabatini Scalmati, psicanalista, Angelo Cifatte, funzionario pubblico, Riccardo Valeriani, assistente sociale, Luca Robino, (“Persona al centro”), Don Emilio Maltagliati, Parroco emerito di Cassinetta di Lugagnano (Mi),
e con:
Ottavio Di Grazia, Storico della Shoà, Tonio Dell'Olio, presidente Pro Civitate Christiana, Don Renato Sacco, Pax Christi, Mario Menin, direttore di "Missione Oggi", Franco Ferrari, Presidente “Viandanti”, Giuseppe Limone, filosofo e giurista, Carlo
Maria Ferraris. Redazione de “Il Gallo", Maurizio Serofilli, Emanuele Pellicanò, direttore di Montedomini, Firenze, Maurizio Mazzetto, presbitero (Pax Christi), Paola Mario, insegnante, Gian Piero Saladino, assistente sociale, Paolo Farinella, biblista, Moreno Biagioni (Comitato "Fermiamo la guerra" di Firenze), Giancarlo Piccinni, Presidente Fondazione don Tonino Bello, Alfonso Gianni, saggista, Firenze, Pietro Soldini, sindacalista, Roberto Rusconi, storico del cristianesimo e delle Chiese, Giorgio Trentin, sinologo, Vincenzo Colli, storico del diritto medievale, Francesco Pistoia, già sindaco e legislatore, Sergio Paronetto, Pax Christi, Flavio Pajer, docente di Pedagogia comparata delle religioni, don Severo Piovanelli, ex parroco, Federico Palmonari, fisico nucleare, Fabrizio Truini, amicizia ebraico-cristiana, Anna Doria, insegnante, Maria Speranza Perna, docente, Massimo Marnetto, attivista, Carmine Miccoli, prete, Luigi Bertagnolli, libero professionista, P. Abdo Raad, missionario, Manlio Schiavo, docente, Bernardino Zanella, Servo di Maria, Vincenzo Marras, già direttore di “Jesus”, Pier Giorgio Maiardi, pensionato bancario, Roberto Fiorini, Giovanna Monina già Dirigente del Servizio Sanitario Nazionale, Antonio Caputo, giurista, Leonarda Stucchi, Gianni Bacci, Cristina Giorcelli, docente americanista, Elena Berlanda, insegnante, Barbara Varelli, Paola Pecco, Luigi Consonni, preteoperaio, Lino Prenna coordinatore di "Agire Politicamente" , Vito Capano, "Il Gallo" di Genova, don Mario Marchiori, parroco, Lucia Maccone Sica, insegnante, Giulio Sica, già magistrato di Cassazione, Bice Parodi, Fondatrice dell’associazione ’”senza paura” Genova, Luigi Colavincenzo, dirigente pubblico
e con:
Beatrice Draghetti, già presidente della provincia di Bologna, Peppe Sini, Centro per la pace di Viterbo, Daniele Mauri, Comunidad Santo Espìritu, Lima, Perù, Francesco Domenico Capizzi, chirurgo, Giovanni Ferretti, filosofo e presbitero cattolico, già rettore dell’Università di Macerata, Francesco Antonio Romito, avvocato, Mario Agostinelli presidente Associazione Laudato Si’, Laura Nanni, docente di filosofia, Art’incantiere, Eleonora Stillitani, insegnante, Piergiorgio Bortolotti, operatore sociale, Roberto Mazzotta, diplomatico, Giovanni Lamagna, docente, Marco Vincenzi, operatore sociale, Andreina Albano, addetto stampa, Eleonora Caltabiano, medico, Santo Di Nuovo, psicologo, Vito Lacirignola. Editore Stilo, Franca Maria Lorusso, avvocato ecclesiastico, Corrado De Robertis, comboniano, Pier Giorgio Taneburgo, Biblioteca Provincia Puglie, frati cappuccini, Francesca Vessia, pedagogista, Claudio Ciancio, professore di Filosofia teoretica, Loris Nobili, ex dipendente della Banca Nazionale dell’Agricoltura e presente alla strage di Piazza Fontana, Franco Meloni, direttore Aladinpensiero News, Lina Ibba, medico, Stefano Toppi, ingegnere, Alessandro Bellavite Pellegrini, cristiano semplice, Gaetano Dammacco, Docente di
diritto ecclesiastico, Paolo Orsolino, architetto. Maria Teresa Cattarossi, insegnante e psicoterapeuta. Luca Ulianich, ricercatore CNR, Roberto Gelpi, ingegnere e biblista, Maria Rosa Filippone, Carolina Goretti, Maria Nella Abbassetti, Ugo Ugazio, filosofo, Susanna Braccia, segretaria. Laura Marotta, impiegata. Sr. Maria Costanza Crippa, eremita, Ilva Palchetti, attivista, Roberto Bertoli, ex giornalaio, Giuseppe Deiana, presidente Associazione Puecher di Milano, Grazia Bellini, presidente della Fondazione Balducci, Liviana Gazzetta, insegnante, Luca Kocci, insegnante
e con:
Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, Pasquale La Cerra pediatra, Giuseppina Sciacca, Ufficio Approvvigionamenti Sanità, Francesca Scarpat, Pio Zanella, p. Giovanni Belloni, Elisabetta Porro, Flavo Fenici, medico, Ettore Fasciano, Carlo Bolpin e Associazione “Esodo”, Pier Luigi Biamonti, avvocato, Daniela Turato, docente, Giovanni Giuffrida, ingegnere informatico, Giuliana Amadio, madre di famiglia, Paolo Bertagnolli, insegnante, Angela Mancuso, Fabio Ragaini, Gruppo Solidarietà, Franca Littarru, Piccola sorella di Gesù, Emilia Forconi Occorsio, insegnante, Raffaele (Lello) Agretti, poeta, Domenico Garozzo, chimico, dirigente di ricerca del CNR. Carmelina Loguercio, ordinaria di gastroenterologia, Livia Malorni, ricercatrice CNR, biologa computazionale e madre, Norma Naim, dirigente Regione Campania, Giacomo Meloni, segretario della Confederazione Sindacale Sarda-CSS, Gianfranco Maddoli, già Sindaco di Perugia, Giorgio Sartori, educatore, Maria Ricciardi Giannoni, “Pace Terra Dignità”, Nicola Sannolo, professore di medicina del lavoro, Gaetano Dammacco, Docente di diritto ecclesiastico, Pierpaolo Favia, docente. Gruppo Ecumenico di Bari, Vito Lacirignola. Editore Stilo, Franca Maria Lorusso, avvocato ecclesiastico, Corrado De Robertis, Comboniano, Pier Giorgio Taneburgo, Biblioteca Puglie frati cappuccini, Francesca Vessia, Pedagogista
Le motivazioni di ogni mittente firmatario sono conservate in archivio. Il gran numero di quanti hanno voluto unirsi ai mittenti di questa lettera indica come essa interpreti il pensiero e possa ispirare l’azione di tanti altri tra i Gentili intesi a promuovere un mondo diverso.

Racconti di vita

CIRILLINO TROPPE'URVE

A dire il vero questa “storia di vita”, oltre che molto semplice e molto vera, è un poco amara. Una piccola povera storia vera dalla quale cercar di trovare stimolo a vigilare meglio su noi stessi e su ciò che siamo e su chi ci sta intorno, per aiutarci e aiutare a prendere consapevolezza della dignità e della responsabilità che la vita merita: la vita non può essere sprecata. Vi lasciamo il racconto così come ci è stato trasmesso.


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Nel rione di San Giusto, a Pisa, per un certo periodo di tempo tra la fine della seconda guerra mondiale ed il pieno del miracolo economico italiano, erano sulla bocca di tutti due fratelli, nati ambedue intorno al 1910.

Si chiamavano Libertario e Giordanobruno Riglioni, ed i loro nomi la dicevano lunga sulle idee politiche del loro padre, per il quale anarchico era il pensiero giusto e verso l’anarchia doveva andare la storia.

Libertario si rese famoso per essere uno degli antifascisti più duri a morire e si fece un po’ di gattabuia e parecchio confino; dopo il 25 luglio del 1943 diede sfogo a tutto il suo patriottismo e, durante la guerra civile, non disdegnò di mettersi al servizio dell’Intelligence inglese e meritarsi, a fine conflitto, un bell’attestato del maresciallo Anders.

Fratello minore di Libertario  era Giordanobruno, che non si occupò mai di politica per la paura di perdere il posto di fuochista nelle FFSS. Anzi, durante il ventennio del regime cambiò nome in un più semplice Bruno. Sposò una casalinga, brava cuoca, e si rese popolare in San Giusto come raccoglitore di funghi e di lumache. Fece il fuochista fino a che esistettero le locomotive da manovra a vapore,  poi morì senza godersi la pensione.

Ebbe due figli che erano duri come il macigno: sì e no fecero le scuole dell’obbligo, ma senza profitto. Il maggiore, Velio, fece anche lui il ferroviere – settore personale viaggiante – e sbattè la porta in faccia ad amici e parenti quando seppe che qualcuno aveva detto di lui che nelle FFSS non era entrato per concorso ma per un colpo di fortuna.

Infatti, cominciò come facchino in una cooperativa di carico e scarico che fu sciolta all’arrivo della legge detta erga omnes, ed i cui dipendenti furono assunti dalle FFSS come manovali. Il lavoro da facchino glielo aveva trovato un suo lontano parente da parte di madre, preso da compassione per quel povero giovane che rischiava di divenire uno dei tanti disoccupati cronici dell’epoca.

Il secondo figlio, Rodolfo, aveva trovato, chissà come, un posto di saldatore nello stabilimento della Piaggio a Portammare, dove si assemblava l’Ape e dove, come inizio, si procurò, con la fiamma ossidrica, una ustione che gli fruttò alcune settimane di cassa mutua e riposo. Dato che era un bel ragazzo, era entrato in simpatia di un altro lontano parente, un impiegato spezzino dell’Inps che un giorno gli chiese perché, data la sua prestanza fisica, non avesse scelto la carriera del fotomodello: Firenze era vicina con il suo mondo della moda, e molte porte gli si sarebbero aperte con poca fatica. Ebbe però una risposta sibillina.

Altrettanto sibillina (“Sono mestieri periolosi”) la ebbe quando il parente gli chiese perché non facesse la guardia notturna o il carabiniere, data la dichiarata pesantezza del mestiere di saldatore: almeno, a far certi mestieri, come ad esempio la guardia notturna o il carabiniere, c’è poco da sfacchinare, si pensava.

Dato che erano in argomento, il parente previdenzialista si sentì chiedere se avesse conoscenze nella direzione della Piaggio per un’eventuale spintarella. Il previdenzialista non ebbe il coraggio di dire di no: parlò del ragazzo in termini benevoli con il capo del personale della Piaggio, che fece di tutto per far trasferire il Rodolfo Riglioni da Pisa a Pontedera, dove si stavano raddoppiando gli stabilimenti e i dipendenti.

Mal ne incolse al parente Inps, perché dopo due o tre mesi il raccomandato di ferro fu sbattuto fuori della Piaggio come una ramazza, per manifesto scarso rendimento. Infatti il Riglioni era stato, sì, spedito alla catena di montaggio della Vespa, ma gli era stato anche accennato che se ci sapeva fare sarebbe stato promosso di categoria e poi, chissà, avrebbe potuto divenire anche un capetto. Invece il Riglioni si fece subito venire una peritonite con conseguenti lunghe settimane di convalescenza, cure, e, soprattutto, riposo: situazioni che aggravarono la sua posizione di ritardatario cronico.

Egli si giustificò del licenziamento in tronco dicendo alla fidanzata, al parentado, ai cugini laureati, al parente Inps e alla relativa signora, che alla Piaggio di Pontedera si respirava un’aria mefitica fatta di controlli e di spinte, e che lui si era ribellato. Fu creduto.

Nonostante questo precedente, però, riuscì a trovare – forse con il metodo usato qualche anno prima da suo fratello – un posticino da autista nell’azienda municipalizzata dei trasporti cittadini, ove ti licenziano solo se spacchi la faccia ad un dirigente. E allora, dopo un annetto di guida degli autobus urbani, un’ernia del disco lo mise cappaò. Operazioni chirurgiche, degenze, convalescenze e riabilitazioni nelle principali stazioni termali della penisola, che convinsero l’azienda a considerarlo inabile alla guida: per compassione fu spedito in officina, ove si distinse per le sue movenze da bradipo, tanto che i suoi colleghi lo soprannominarono sarcasticamente Motorino.

Rimase in officina fino al prepensionamento, che avvenne in età talmente giovanile da permettergli di dedicarsi, finalmente, alla sua unica vera passione: la pesca sportiva. Ora sì che poteva alzarsi dal letto all’alba: ma non per andare all’odiato lavoro, bensì per andare coi gambali fino alla coscia nelle gelide acque del Serchio e in quelle vorticose della Lima per la pesca con la canna, e fra i marosi del Tirreno in burrasca per la pesca al rezzaglio.

Postumi della peritonite e dell’ernia del disco? Neanche a parlarne. Durante le battute di pesca al rezzaglio conobbe dei pescatori livornesi dai quali apprese le locuzioni “boiadè!” e “borda!”, con le quali modernizzò un pò il suo linguaggio. Infatti, avendo vissuto fino alla pubertà attaccato alle gonnelle della madre che era una popolana, diceva, ad esempio, “la diabete” invece che “il diabete”; e altre eleganze linguistiche.
La fidanzata, poi moglie, di Rodolfo Riglioni era una commessa di drogheria, figlia di un bracciante inurbato. Si chiamava Morena; aveva fatto sì e no le elementari, ma le piacevano tanto i soldi e l’oreficeria. Avrebbe voluto riscattarsi civilmente, ma non certo andando alle scuole serali, perché le sarebbero state proibite dal Riglioni Rodolfo, geloso come un Otello.

Avrebbe potuto, in alternativa, imparare qualcosa qua e là: ed il qua e là poteva essere attraverso il parente Inps e la relativa moglie, ai quali chiese infatti di poter andare  a una gita collettiva verso San Gimignano, città che aveva sempre sentito nominare ma che non aveva mai visto neanche in cartolina: fece la richiesta  perché sapeva che il previdenzialista e sua moglie erano una coppia colta, dalla quale avrebbe potuto imparare parecchio.

Il previdenzialista si diede in effetti da fare, spiegando la bellezza soave della cappella di Santa Fina del Ghirlandaio e quella di Piazza della Cisterna, tutta a sghimbescio ma pure piccolo capolavoro della urbanistica rinascimentale. Al ritorno, chiese al Riglioni se gli era piaciuta la piazza ed ebbe come tutta risposta che sì, poteva essere anche bella, ma “c’erano troppe cornacchie”.

Analoga risposta intelligente fu data dopo una gitarella in Garfagnana, subregione oggetto di culto da parte di tutta la borghesia di Pisa: “Forse saranno bei posti, ma ci sono troppe ùrve”. Così si beccò anche il soprannome di Cirillino Troppeurve.

Il parente previdenzialista era sposato, a sua volta, con una bella e simpatica impiegata dell’Autorità Portuale di Livorno, che morì improvvisamente divorata da un cancro: cosa che lasciò Riglioni talmente sconvolto da fargli decidere di lasciare tutto e traslocare nella Spezia, ove aveva lasciato qualche amico e qualche parente. E un giorno, nel trigesimo della morte della signora, guidato dalla Morena, Rodolfo si fece avanti per vedere se per caso lei avesse lasciato dell’oro e per sapere se, nell’intrico giuridico relativo alla quota legittima, c’era da raspare qualche milioncino di lire. Trovarono il portone chiuso ed un cartello di “vendesi” con la sola indicazione di un numero telefonico che iniziava con zero-uno-otto-sette. Tornarono indietro ritenendosi sfortunati…
                                                                                                       
                                                                                                                 (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)

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Racconti di vita

QUELLE STRANE PORZIONI

A volte, ma non così raramente come in genere si pensa, apprendiamo lezioni di vita da una casuale affermazione di vecchio saggio, ad esempio di un nonno, molto più che da dieci lezioni universitarie.

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Lo so bene perché il bunet (dolce tipico della cucina tradizionale piemontese, preparato con latte, uova, cacao e amaretti) mi piace tanto.  
Avevo dodici anni, in quell’agosto, ed era giorno della Fiera di San Rocco. La fiera era sempre un bel giorno per noi bambini, ma anche per i grandi, che passavano la mattinata tra i banchi del mercato, al bar, a sentire il sindaco che teneva il discorso tra un brano musicale e l’altro della banda comunale; la fiera piaceva un po’ meno alle donne, che la mattinata finivano per passarla in cucina, perché il giorno della fiera qualche ospite in casa finiva per esserci sempre.

E quell’anno, il giorno della fiera, invitato di lusso era in casa nostra addirittura il dottor Luigi Porretti, luminare e massimo esperto ortopedico dell’università di Torino, nonché relatore della tesi di laurea di mia sorella.

Sì, perchè grazie agli aiuti anche economici del nostro medico condotto che aveva visto in mia sorella un futuro grande dottore, lei aveva potuto fare l’università, anche un po’ contro il volere dei miei genitori che pensavano di non poter permettersi questo lusso; comunque mia sorella era ormai arrivata alla fine degli studi, mancava solo la tesi, ed era sembrato logico a tutti invitare il grande professor Porretti alla festa patronale del nostro paesino.

Il dottor Porretti aveva pensato bene di portare con sé tre suoi giovani assistenti: il dottor Roberto Caldi, il dottor Franco Sereni e il dottor Mauro Pescatori. Inutile dire che mentre i quattro avevano girato in lungo e in largo per la fiera, comprando oggetti inutili e costosi fra continue soste al bar per bere aperitivi rigorosamente alcolici, mia mamma e mia nonna dalle sei del mattino avevano preparato tali e tanti piatti che a casa mia tutti insieme non si erano mai visti. Vitello tonnato, carne cruda, insalata russa, salame e prosciutto, agnolotti al plin, bollito, arrosto, fritto misto, con un’abbondanza di carote, spinaci, patate e altre verdure, che non riesco nemmeno a ricordare. E poi il bunet. A casa mia le donne sapevano fare tutto, ma il bunet no: il bunet lo faceva solo la nonna. Con quella pazienza che solo gli anziani sanno avere, mescolava i rossi d’uovo con lo zucchero fino a che non veniva un’amalgama di consistenza unica; poi faceva scendere il cacao a pioggia e senza smettere di mescolare aggiungeva i bianchi delle uova in un modo che sembrava di vedere quella neve che tutti gli anni scende, almeno dalle nostre parti, nella notte di Natale. Con il latte l’impasto diventava fluido, senza grumi, pronto a ricevere il bicchierino di liquore e gli amaretti, sbriciolati in pezzi così uguali che sembrava li avesse fatti una macchina. Poi rovesciava il tutto nello stampo dove aveva fatto caramellare lo zucchero, e quando iniziava la cottura a bagnomaria mia nonna non si muoveva da lì nemmeno per un attimo, come una sentinella di guardia a un carico di diamanti preziosi; restava a fissare pentola, acqua, stampo e coperchio fino a quando non spegneva il fuoco e levava questa perfezione della natura chiamata bunet.
Data l’occasione, per la prima volta mia nonna non aveva fatto il bunet nel solito stampo, così piccolo che sempre ne toccava soltanto un pezzettino per ognuno e io e tutti gli altri ci stavamo male perché, se avessimo potuto, ne avremmo mangiato uno intero a testa; quella volta, visti gli ospiti di riguardo, la nonna aveva preparato due enormi teglie rotonde di bunet. E’ meglio che avanzi: basta che non manchi…” – aveva detto.

La tavolata era numerosa e rumorosa. A capotavola il grande dottor Porretti, alla sua destra e alla sua sinistra i suoi assistenti. Poi mia sorella, mio papà, l’altro mio fratello, mio nonno, zio, zia e due cuginetti; in fondo al tavolo mia mamma e mia nonna, che, poverine, facevano avanti e indietro in cucina e come al solito finivano per mangiare sempre poco di tutto.

Così per tutto il pranzo io non avevo che aspettato il momento del bunet. E mentre i dottori si ingozzavano con tutto quello che veniva portato in tavola, senza rifiutare il bis, senza far avanzare mai niente, senza dimenticare di bere un bicchiere di Barbera o di Grignolino tra un boccone e l’altro, io pensavo solo al bunet; pensavo che per la prima volta avrei potuto mangiare bunet fino a sazietà, fino a esserne così pieno da arrivare a dire “basta,  non voglio più nemmeno un pezzetto di bunet”.

Finalmente arrivò il momento tanto atteso; come in processione, la mamma e la nonna arrivarono tenendo nelle mani due grandi teglie di bunet, tra lo sguardo ammirato di tutti. Il famoso bunet della nonna. “Dottor Porretti, ci terremmo che fosse lei a tagliarlo!”.
Mia sorella, che durante il pranzo aveva fatto un po’ da padrona di casa perché per tutto il giorno precedente ci aveva raccomandato di non farle fare brutta figura, aveva avvicinato una teglia al grande professore; lui con fare serio aveva mostrato di accettare e gradire la responsabilità dell’incarico: in un silenzio mai visto prima, il dottor Porretti prese il coltello dalla lunga lama e con un gesto lento ma sicuro tagliò in due il bunet; quindi girando di novanta gradi la teglia fece di nuovo correre la lama lungo tutto il diametro. Ne erano usciti quattro grandi spicchi uguali, senza la minima imperfezione; il professore posò il coltello e con la paletta cominciò a distribuire il primo quarto al dottor Caldi, il secondo al dottor Sereni e il terzo al dottor Pescatori. Quando i suoi assistenti furono tutti serviti prese l’ultimo quarto, lo sistemò nel suo piatto e insieme ai suoi illustri colleghi iniziò a mangiare, facendo con il capo ampi gesti di entusiasmo.

Tutti voltammo lo sguardo verso l’altra teglia rimasta e credo che ognuno mentalmente avesse iniziato a suddividerne le porzioni accorgendosi che anche stavolta per noi ci sarebbe stato il solito piccolo pezzo a testa. In un silenzio spezzato solo dal rumore dei cucchiai che i quattro medici impietosamente infilavano nella delizia di cacao, improvviso, inatteso, inimmaginabile, mio nonno sentenziò:
  • Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei… -: Non serve studiare tanto per fare una cosa del genere…

Per un momento tutti pensarono alle raccomandazioni di mia sorella a non fare brutte figure con ospiti così importanti, ma subito nessuno riuscì a resistere e uno dopo l’altro tutti scoppiarono a ridere. Anch’io, ancora deluso per il mio bunet, anche mia sorella che tanto la raffinata aveva fatto fino ad allora, e mio papà, gli zii, la mamma, la nonna, mentre i dottori guardavano senza capire perché ridevamo.

Come andò a finire quel pranzo non lo ricordo più molto bene, se non per quel pezzettino di bunet a testa che comunque abbiamo mangiato tutti; però adesso che sono passati degli anni, che il dottor Porretti credo non sia nemmeno più vivo e i suoi assistenti di allora saranno diventati dei luminari della medicina, sì, adesso il bunet lo ricordo sempre e molto bene. Non c’è più la nonna che lo prepara, anzi ormai in casa il bunet non si fa più: però ogni volta che vado in uno di quei ristoranti di cucina piemontese, alla fine del pranzo il bunet lo prendo sempre. Anche se forse non è nemmeno più il mio dolce preferito, anche se forse ormai mi piacciono di più la crostata o la torta di nocciole o la panna cotta; però finisce che il bunet lo prendo sempre perché a me fa un po’ l’effetto della madeleine di Proust, mi ricorda gli anni dell’infanzia, mi ricorda il dottor Porretti, i suoi giovani assistenti, l’agitazione di mia sorella, tutta la mia famiglia che si mette a ridere per la frase del nonno.

Già, la frase del nonno… Quella mi è servita, mi è servita per la vita da affrontare con quel distacco e quell’ironia che sono indispensabili. Perché poi la mia famiglia è riuscita a far studiare anche me e alla fine ho preso una laurea in ingegneria; però, anche se mi presento sempre come un serio professionista del lavoro, in realtà sono eternamente conscio di essere un perfetto dilettante della vita.  E lo studio, le ambizioni, i successi, gli onori che si finisce per ricercare ogni giorno, saranno sì importanti, ma l’educazione e il buon senso… quelli davvero sono per me fondamentali.

Così tutte le volte che mi rendo conto di essermi lasciato andare ad atteggiamenti presuntuosi, tutte le volte che mi accorgo di quanto si può essere arroganti e quanto si diventa ridicoli nell’esserlo, tutte quelle volte io mi fermo un attimo, mi metto davanti allo specchio e mi dico a voce alta: Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei.
Poi ricomincio di nuovo, fino alla prossima volta. Ma almeno, quando sono davanti a un bunet, me ne ricordo. Sempre.
                                                                                            (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
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MM

Racconti di vita

CASTAGNE MATTE E GNOMI DEL BOSCO

Le testimonianze di vita continuano. In questo caso, si tratta dell’importanza estrema e duratura dell’esempio di vita e dell'affetto dei genitori nel processo educativo dei figli, che per la sua organicità  e immediatezza non appare delegabile né sostituibile del tutto, neanche da parte della scuola migliore...

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C’erano una volta, tantissimo tempo fa, un papà e la sua piccola figlia. Si amavano teneramente e il loro amore rendeva ogni gesto ed ogni parola speciali, quasi magici. Vivevano però, a volerla dire tutta, in un luogo che di magico non aveva quasi nulla: non c’erano tramonti incantati nelle serate estive; non si sentiva il profumo dei fiori di gelsomino quando maggio veste generoso le siepi dei giardini; non c’erano piccoli corsi d’acqua dove poter cercare rane e girini; soprattutto non c’era il mare, con il suo odore intenso e il suo rumore possente nelle giornate di tempesta. C’erano invece lunghe file di fabbriche grigie, adagiate nella periferia della grande città, apparentemente disabitate, ma rumorose, per un orecchio attento, a testimonianza dell’incontro operoso di uomini e macchine. C’erano anche lunghe strade che tagliavano la pianura; volendo seguirle con lo sguardo, si saliva verso le colline e poi più su, fino a raggiungere le cime delle Alpi, innevate per tutto l’anno.
La gente che vedeva passeggiare il papà e la sua piccola figlia tenendosi per mano (lei accompagnava lui o lui accompagnava lei non si sa) aveva espressioni di stupore e di meraviglia:
  • Guardate come sono belli, lui sembra un principe, con quel suo largo cappello e il passo elegante, e lei è sicuramente la sua principessina… Fate largo, fate largo… lasciateli passare!
La loro dimora sembrava, da fuori, un po’ fuorimoda con la sua forma stretta e allungata su due piani. A fatica sporgevano due piccoli balconi con la ringhiera di ferro; ma proprio da quelli il papà e la sua piccola figlia immaginavano spesso di affacciarsi per recitare la parte del re e della regina, fino a quando la mamma non chiamava:
  • Tutti a tavola, che è pronto!
Dall’interno della cucina poteva accadere che giungesse la musica di un grammofono e loro ne approfittavano, rientrando, per muovere qualche passo di danza: lei saliva con i piccoli piedi sulle scarpe di lui e insieme ridevano per quell’inganno innocente, mentre piroettavano fra le sedie e il tavolo immaginandosi nel salone di un grande castello.
Giocavano spesso insieme, il papà e la sua piccola figlia: lui era prodigo di invenzioni strabilianti, faceva giochi di prestigio che sembravano vere magie, ma si faceva piccolo come lei quando doveva assecondarla per una sua infantile richiesta. E così inventava favole con maghi e castelli incantati, faceva arrivare cavalieri invincibili che liberavano principesse prigioniere, e lei lo ascoltava rapita, gli occhi spalancati sul mistero, muta nell’attesa di ciò che sarebbe accaduto.
  • Papà, quando sarò grande voglio diventare una principessa e ti sposerò, perché tu sei il mio re…
  • Ohi, ohi…e come faremo a dirlo alla mamma? E’ lei la regina – rispondeva divertito il suo papà.
  • Ma starà con noi, staremo tutti insieme! – rispondeva lei.
In quella dimora c’era anche un piccolo giardino che in qualche modo permetteva loro di godere dei fiori di lavanda in estate e dei mille colori delle foglie in autunno. Non era molto, ma con un po’ di fantasia si potevano anche trasformare le file di formiche in ballerine e qualche coccinella in una fata buona. C’era anche un gatto bianco e nero, che passeggiava pigro su e giù, fra l’albero di cachi e qualche cespuglio selvatico, inconsapevole delle innumerevoli volte nelle quali aveva indossato stivali e cappello piumato per difendere il suo padrone o, per contro, aveva ingannato con furbizia una lucertola fingendosi cieco e innocuo, per tendere poi un agguato mortale! Sì, perché, come forse si è capito, questa favola è piena di favole. E come in tutte le favole le scene cambiano, i personaggi si trasformano, i buoni vincono i cattivi, e la fantasia si fa largo per interpretare la realtà a modo suo. Anche il papà buono di questa fiaba, che sapeva trascinare la sua piccola figlia in un mondo incantato, smontò pezzi del reale per ricomporli in una nuova storia del tutto irreale.
E quando, qualche tempo dopo, dovettero purtroppo cambiare dimora, si sentirono un po’ tristi nel dover abbandonare quel piccolo paradiso: ma né lui né lei si persero d’animo.  Anche se il palazzo nel quale erano andati ad abitare rendeva difficile riprendere il gioco del “facciamo che io ero la principessa e tu il re”, iniziarono subito ad andare alla ricerca di un luogo che permettesse loro di continuare a sognare. E gira e rigira lo trovarono: era un pioppeto che, sorprendentemente, si apriva al di là del cemento, quasi un miracolo della natura. Così, partirono in un pomeriggio di sole per andare a conoscere i misteri di quel bosco e alla piccola figlia di quel papà meraviglioso batteva il cuore per l’emozione. Fatti i primi passi tenendosi per mano, il sottobosco cominciò a crepitare sotto i loro piedi, e sui tronchi alti e sottili dei pioppi si innalzavano fronde leggere che si muovevano appena sopra di loro. Continuarono a camminare, facendo attenzione mentre l’aria intorno si riempiva delle loro voci spezzando il silenzio. Giunsero quasi alla fine del bosco, proprio dove alcuni ippocastani, con i loro tronchi imponenti, sorgevano a definire un viale che, passando di lì, portava quasi sicuramente lontano. A differenza dei pioppi, questi erano alberi maestosi, che reggevano chiome larghe e ombrose; le foglie fitte nascondevano ricci spinosi pieni di castagne matte: ma molti di questi erano già caduti.
  • Attenta, non toccarlo, con il riccio ti puoi pungere...
A lei piacevano tanto le castagne matte, così rotonde e lucide, e allora cercava quelle già uscite dal riccio, ce n’erano molte per terra, se le faceva rotolare fra le mani e poi ne raccoglieva fino a riempirsene le tasche.
  • Guarda papà, sono bellissime, le portiamo alla mamma, anche a lei piacciono, me lo ha detto un giorno… Ma che cosa sono questi buchi nei tronchi?
A questa domanda il papà buono liberava tutta la sua fantasia per volare con la sua piccola figlia nel loro mondo incantato.
  • Questi buchi nei tronchi li fanno gli gnomi del bosco.
  • E dove sono adesso? Ma…sono cattivi gli gnomi?
  • Certamente no! Gli gnomi del bosco non sono cattivi, anzi. Ma escono solo di sera perché temono gli uomini: si rifugiano in questi buchi e si fanno compagnia, si vogliono bene fra di loro. Nessuno però li ha mai visti, purtroppo! Chissà, forse noi potremmo essere fortunati e incontrarne uno…
La piccola figlia sbarrava gli occhi, si emozionava, ma la presenza rassicurante del papà le consentiva di abbandonarsi a immaginare serate di luna piena con gli gnomi seduti a conversare intorno a quei buchi nei tronchi. E alla sera si addormentava, cullata dall’ultima favola che lui le leggeva.
Un brutto giorno, però, accadde ciò che non dovrebbe mai accadere: il papà si distrasse? La piccola figlia si staccò dalla sua mano? Fatto è che non si ritrovarono più e… lei si perse, non in un bosco fitto di alberi e di pensieri fantastici, ma, molto più modernamente, in una libreria affollata di una strada del centro della città; perché, come è evidente, questa è una favola nella quale realtà e fantasia si confondono e qualche volta non si sa più dove finisce l’una e dove comincia l’altra. Fu allora che quel papà, disperato, cominciò a percorrere le strade della città invocando e gridando:
  • Chi ha visto la mia bambina? C’è qualcuno che me la può riportare?
Percorse in lungo e in largo portici e vicoli, incapace di immaginare la vita senza di lei. Si mise a correre senza meta, chiedendo a chiunque incontrasse:
  • Ha visto una piccola bambina, che sembra una principessa? E’ la mia bambina, è mia figlia, mi aiuti a cercarla…
Allora, uno dopo l’altro, uomini e donne e ragazzi, si unirono a lui, le strade si riempirono di gente che chiamava a gran voce il nome di lei in un unico coro disperato, ma tutto sembrava vano. Poi, finalmente una voce gridò:
  • Venite, venite! L’ho trovata, è qui!...
Oltre la porta della gendarmeria, due signori vestiti in uniforme ascoltavano, compiaciuti, una piccola bambina che recitava, in piedi su di un grande tavolo, una poesia imparata all’asilo: via le lacrime della disperazione nell’essersi vista sola, cancellato il ricordo di quel singhiozzo alternato a parole sussurrate in cerca di aiuto: - Ho perso il mio papà… voglio il mio papà… la mamma dov’è? 
Tutto finito, ora. Le parole rassicuranti dei gendarmi confermavano che la mamma sarebbe subito arrivata, e anche il papà. L’abbraccio del ritrovarsi fu accompagnato da grandi grida di gioia, i clacson delle automobili divennero scampanio di campane, la gente si mise a ballare nella strada: perché così succede nelle favole.
Da allora la vita riprese tranquilla il suo scorrere: il papà buono e la sua piccola figlia continuavano a volersi bene; lei cresceva e lui si adattava con complicità e… tanta pazienza.
Poi, un certo giorno di un certo anno, alla piccola figlia, ormai dodicenne, parve di udire dentro di sé la voce del papà che, a conferma di un presagio che si stava concretizzando, dava risposta alle domande che il suo cuore poneva: perché quei nuovi silenzi nella casa? Perché si erano interrotti i momenti di complicità? Perché erano state via via abbandonate vecchie abitudini, per fare spazio a nuove necessità, dalle quali si sentiva esclusa, quasi allontanata?
  • Forse dovrò partire per un lungo viaggio, piccola mia… - diceva quella voce; - forse non potremo attendere insieme di vedere, il prossimo autunno, il colore dei ricci degli ippocastani che cambia…
  • Perché, dove devi andare, papà?
  • E’ un po’ difficile da spiegare: quando sarai più grande capirai e forse accetterai. Ti ricordi quando ti raccontavo le favole con le principesse e i re? Ecco, noi resteremo sempre insieme, come nelle favole, e sarà come fare una magia: tu resterai nel mio cuore e io nel tuo, per sempre. Non piangere, la nostra sarà la favola più bella.
E così, piano piano, senza far rumore, il papà buono sfumò verso l’azzurro, nell’aria ferma di un pomeriggio estivo, lasciando però dietro di sé mille bagliori di vita per la sua piccola figlia.
Questo è il ricordo che ho di mio padre, mondato del dolore provato per la sua perdita. Oggi compirebbe cento fantastici anni. Buon compleanno, papà!... E grazie per aver dipinto la mia infanzia con tutti i colori della fantasia.
Questo ricordo è appunto dedicato a mio padre, memoria viva nel mio cuore, con immensa nostalgia, in questo 7 giugno 2012.
                                                                                                 
                                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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Esperienze

SCELTA DI VITA

L’autrice l’ha raccontata così, dal vivo. E noi ve la trasmettiamo. Non siamo in grado di dire se la protagonista avrebbe potuto far qualcosa di più per cercar di salvare l’amica dal suo naufragio umano, come forse avremmo desiderato. Ma ci sembra buona cosa raccontarvene la esperienza.
 
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Silenzio. Tanto silenzio.  Era ciò che negli ultimi tempi le teneva più compagnia. Come al solito, quella sera si era chiusa in camera, si era distesa sul letto e osservando il nulla incipriato dal bianco del soffitto cercava di dimenticare: dimenticare Valeria, gli amici, i suoi vent’anni passati così in fretta. Serrava quella porta della camera come per impedire al tempo di entrare e operarvi il cambiamento: eppure quanto era cambiata la realtà! A volte le sembrava così difficile poter continuare a sognare: non riusciva a bramare il futuro come le era accaduto in passato. Viveva in bilico, appesa alla costante sensazione di una decisione imminente da prendere e che tuttavia non riusciva a prendere. 
Come ogni sera i ricordi partivano dal proiettore della sua memoria per accavallarsi sul fragile lembo dei suoi azzurri occhi: e dall’oscurità qualcosa appariva sempre. Ora si vedeva seduta in riva al mare, con Valeria. Avevano trascorso un’ottima giornata insieme, e mentre il sole splendeva alto sui loro corpi magrolini aspettavano allegre che si asciugassero le ultime gocce d’acqua salata sui capelli scomposti e i bikini colorati, prima di tornare a casa, lavarsi e prepararsi per un’altra indimenticabile serata insieme. Sicuramente avrebbero incontrato Antonino e Marco. Valeria si sarebbe rabbuiata, sulle prime, per poi sfogare il suo malumore con colorite espressioni, mentre Maria alla vista di Marco si sarebbe limitata ad un lungo sospiro con gli occhi lucidi.
Erano così diverse, eppure talmente legate! Valeria, impulsiva e passionale, agiva sempre senza riflettere. Maria, riflessiva e calma, non si lasciava andare a eccessi di alcun tipo: composta, precisa, gentile. Manteneva la sua personalità e sembrava non essere un’adolescente soggetta al vento della crescita ma piuttosto un’adulta già formata. Questo aspetto affascinava Valeria e la istigava ad emulare l’amica: ma, per quanto ci provasse, Valeria non era come Maria.
Maria lo stava capendo solo adesso, da sola, nella sua stanza, mentre con la mente accarezzava un altro flebile ricordo: lei e Valeria si abbracciavano strette strette con una energia che da un momento all’altro sembrava esplodere in una scarica elettrica. Erano nella cameretta di Valeria, dove avevano parlato a lungo del futuro e dei loro sogni. Maria li aveva già “srotolati “davanti a sé come una larga strada sterrata da cui, in lontananza, si intravedeva luce, tanta luce. Sarebbe diventata una giornalista e avrebbe fatto di tutto per cambiare il mondo. Valeria, invece, si apprestava allora ad iniziare il viaggio e la sua strada era ripida, a tratti oscura, piena di fossi e brutte discese.  Maria cercava allora di illuminarla, con la sua enfasi oratoria e il suo piccolo mondo interiore. Ed in queste fuggevoli ore trascorse insieme a sognare, Valeria e Maria erano un tutt’uno, un vortice di idee, di sentimenti, di speranze: erano amiche, ma amiche in una maniera assoluta. Un’amicizia pura e radiosa che le circondava senza che loro neanche se ne accorgessero.
Maria ricordava la prima volta che si erano viste, e da allora non aveva mai abbandonato Valeria. Quando quest’ultima si era innamorata per la prima volta, timorosa di aprire il suo cuore, Maria le era stata accanto ricordando come era buffa la solitudine in momenti simili: infatti quando era stata lei a innamorarsi non c’era stato nessuno a capirla. E allora cosa la spingeva a fare quel bene all’amica? Maria non lo sapeva: era fatta così! Dava senza pretendere niente in cambio. Ricordava quante parole e quanto coraggio aveva trasmesso all’altra e non le era mai pesato perché credeva in ciò che faceva e riusciva a gioire della felicità dell’altra. Quando vedeva Valeria tornare fra le braccia di Antonino quasi si commuoveva. Ne gioiva come vedendo realizzato il sogno che non era riuscita a realizzare con Marco: tra loro non c’era stata nessuna Maria; Maria, invece, c’era sempre stata per Valeria. C’era stata quando quella le riempiva la testa di chiacchiere inutili, c’era stata quando aveva bisogno di una spalla su cui piangere, c’era stata per prestarle soldi e vestiti, c’era stata per darle tutto l’affetto che le mancava in famiglia. C’era stata persino quando avevano scoperto Antonino a farsi di cocaina nel bagno di un locale e Valeria ne aveva pianto per una settimana. C’era stata sempre, eppure questo sembrava non esser bastato.
Ma ora tra loro si era posto il mare. Un’altra immagine le appariva dinanzi: un’immagine in cui non distingueva più le futili parole che quella le borbottava. Per Maria non era stata una buona giornata. Valeria era cambiata: Maria lo stava capendo pian piano, eppure non riusciva a tagliare del tutto il legame. Non capiva come quella specie di sanguisuga fallita avesse potuto prendere il posto della sua buona amica. Non poteva credere quella trasformazione di Valeria: era diventata insopportabile, parlava, parlava, parlava ma di una realtà distorta e astratta. “Io potrei fare tutto… Sono la migliore… Ma che ci vuole a fare quello che fai tu… Sono stufa di tutto… Nessuno si accorge del mio talento assoluto, che noia!...”. E intanto nulla faceva delle sue giornate e del suo futuro: non lavorava, non studiava, non ragionava, non sognava.  
Sulle prime Maria non aveva voluto vedere. Era vissuta per anni con l’idea perfetta di Valeria e ora era impossibile accettare tacitamente quel mostro perverso. Scappare, scappare lontano… solo questo era il pensiero che affollava la sua mente dopo quella scoperta. E mentre un paio di lacrime clandestine scendevano veloci lungo le guance, Maria osservava la foto attaccata all’armadio e che ancora non era riuscita a staccare. Le piaceva quella foto: come era felice, Maria, in quella foto! Si perdeva in quel ricordo così nitido e straziante che quasi le veniva voglia di strappare furiosamente quel quadratino di carta in migliaia di pezzettini. Quelle due ragazze non esistevano più. Velocemente Maria vedeva passare una scena e poi un’altra e poi un’altra ancora: in ognuna di esse era triste. Aveva smesso di essere felice qualche mese prima, quando al posto di “Valeria l’amica” aveva trovato “Valeria la drogata” in discesa libera verso il baratro dell’animalità. Non capiva come quella avesse fatto a tuffarsi a capofitto in un tale gorgo. Eppure Valeria sapeva quanto sarebbe stato difficile uscirne! Avevano vissuto con Antonino quell’incubo: da perfetta egoista quale era diventata, Valeria aveva provato una volta e poi un’altra e un’altra ancora e adesso aveva trovato quell’ingannevole sogno che tanto anelava e ci si era perduta: quale sorpresa dovette provare Maria al sentirsi dare della bambina, della stupida, dell’immatura, della vecchia, della pavida! Dopo tutto quello che avevano passato insieme e il bene che le aveva unite come sorelle!
A questo pensiero, quasi immediatamente lo stupore fu sostituito da una rabbia furibonda a cui altrettanto rapidamente seguì un disgusto nero e una profonda sensazione di pena. Poi il silenzio. Il silenzio che non lasciava spazio neanche alla sofferenza. Valeria era lontana e irraggiungibile nel suo nuovo mondo di oche sgualdrine, di venditori di fumo, di nottate insonni nelle prigioni di menti impasticcate, di serpi insidiose di amici. Scheletri in attesa di un rantolo letale.
E quel mondo era lì ad un passo da Maria. Bastava dire sì. Bastava alzare il telefono ed assecondare l’irreparabile pazzia di Valeria. Ma Maria era destinata a ben altro: era cresciuta spingendo la carrozzina del suo migliore amico malato di distrofia muscolare e volato via troppo presto. Si commuoveva per strada quando constatava la solitudine e la sofferenza di un barbone o di una mendicante con figlio appeso al petto e già esausto d’essere al mondo. Sognava d’aprire un centro d’integrazione per famiglie straniere poco inserite nella comunità italiana: così Maria si era curata lungo l’intero anno di Yao, di Yuliana, di Ali, di Sued, di Majid, di Abbass. E nonostante le strade della vita li avessero portati altrove, Maria li portava nel cuore come pezzi della sua stessa esistenza, come motivi di crescita, di amore e di verità. Maria credeva in quell’oscura forza che muove il pensiero aspirando a migliorare l’animo umano e la realtà…Leopardi, Dumas, Dickens, Dante, Dostojevskji, Tolstoj, Pirandello… la prosa, la poesia, l’arte, l’amore, la verità…la vita! Questo era lei: il sogno e la speranza, il coraggio e la purezza, la giovinezza e la saggezza insieme. E non sarebbe cambiata.
Pensava a quelle indimenticabili presenze della sua vita: la zingara della stazione, il barbone del Tevere, la ragazza cinese dagli eterni inchini, la brasiliana scontrosa che si difendeva dagli uomini rozzi, il ragazzo del Bangladesh che a vent’anni era già sposato con due figli e frequentava la scuola solo per imparare la lingua italiana e trovare lavori migliori del venditore ambulante senza paga sicura, l’afghano  scappato da Kabul col fratello minore dopo che le bombe e i talebani avevano reciso la vita dei genitori e della bellissima sorella Parvana recatasi alla fonte dell’acqua nel momento sbagliato.
Maria pensava a sua sorella Elisa, adottata in un tempo in cui Maria stessa non era ancora nata. Elisa bella e introversa, con gli occhioni scuri e la carnagione olivastra che tradivano le sue origini orientali, e quello sguardo da cui traluceva una storia incredibile, una di quelle storie fatte di abbandoni, dolori, ricordi confusi, sfide continue, paure. Ma era una storia di verità. La verità che Maria aveva scoperto in fondo alla sofferenza acuta che serra la vita nelle sale d’attesa degli ospedali, aspettando che Elisa scendesse dalla sala operatoria per un intervento alle gambe, alla vista, alle braccia, al seno. Eppure era ancora qui, Elisa, con gli occhi vivi e la voglia di vincere nonostante la malattia e la beffa della vita. Elisa era ancora pronta a lottare nonostante nei mesi seguenti dovesse rientrare in ospedale. E portava sempre il sorriso lucente di chi ancora può credere. Poi Maria pensava ai suoi genitori giusti, forti, stanchi, silenziosi, amorevoli, coraggiosi. Li accompagnava nella difficoltà impegnandosi affinchè ogni sua vittoria potesse divenire la luce di un sorriso anche per loro.
Così Maria aprì gli occhi. Si destò da quelle immagini caotiche e il silenzio solitario della sua stanza bastò alla netta scelta, una volta per tutte. Non avrebbe più cercato Valeria. E, in quella scelta, fu la vita.
                                                                                                        

                                                                                                                     (Anonimo, Premiopratoraccontiamoci)
 
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La dimensione compiuta

IL TRENO

Metafora della vita, il treno e il suo viaggio. Dove siamo diretti con la nostra esistenza complessiva? Può darsi che, concentrati semplicemente intorno a noi stessi all’interno del vagone nel quale ci troviamo, rischiamo di perdere il senso totale del viaggio e di quanto vive anche fuori del nostro treno? Valentina Tuccella ci invita con la forza delicata della sua immaginazione anche poetica a fermare la nostra attenzione sulla totalità  dell’esistenza (il treno della vita) e dei suoi significati.
 
°°°°°
 
Quando arrivi per la prima volta in una stazione non sai dove questo viaggio ti porterà. Sei solo,
così inesperto, in mezzo ad una folla sconosciuta…
 
Quando sali per la prima volta su un treno ti guardi intorno, in cerca di un viso amico. Controlli le
tasche, il biglietto, le monete.
 
Quando il viaggio inizia ti accorgi del percorso così lungo e lineare, e ti chiedi se sarà
lo stesso per tutti i passeggeri.
Un viaggio già scritto, già vissuto, già raccontato.
 
Quando socchiudi gli occhi e ti lasci dondolare dal lento andare del treno immagini anche come sarà
la meta, cosa farai, chi incontrerai; e non ti accorgi di non riconoscere ancora la tua stessa
immagine riflessa sul finestrino.
 
Quando il treno arriva alla prima fermata sei pensieroso; potresti scendere adesso: in fondo,
perché arrivare così lontano? E poi molti stanno scendendo qui. Ma il treno riparte e tu stai
ancora lì a pensare. Non credevi ci fossero dei bivi, delle fermate, altre destinazioni.
Come sta diventando complicato, questo viaggio...
 
Al primo sobbalzare del treno sussulti e ti spaventi. La macchina si blocca improvvisamente. Che
sfortunato intoppo: non era previsto... Ci vorrà una lunga attesa. Come sta diventando, questo viaggio…
 
Ed ecco che il treno riparte, con il buio alle spalle, e sembra raggiungere il sole. Il tempo è
trascorso e tu hai pensato, meditato, sofferto, all'interno di quel vagone-treno.
 
Quando impari a coordinare il respiro, allora apri gli occhi e vedi anche fuori dal finestrino: che bel
paesaggio!
 
Non me ne ero mai accorta. Ero intenta a guardare all'interno del vagone dei miei pensieri.
Il paesaggio è lì fuori, la natura brulica di vita e forse è arrivato il momento di scendere.
Di raggiungere la meta.
                                                                                       
                                                                                                 (Valentina Tuccella)
 

Racconti di vita

LA PASSEGGIATA DI LUIGI

Famiglie che potevano essere e non furono mai: a volte la guerra, soprattutto, a volte l’emigrazione, o altri drammi, sconvolgevano pensieri, disegni, sogni. In un mistero che su questa terra forse non si potrà mai chiarire.

*****
 
Lassù, sotto le falde del monte, si sentiva qualcuno cantare una canzone che diceva: “Questa notte laggiù nella valle…”. Era un canto che si confondeva col rumore di un rio gorgogliante fra i sassi, dentro il corso che s’era scelto da sempre fra abeti e larici, olmi e maggiociondoli.
Il canto era intermittente, una voce maschile cadenzata al ritmo di un passo montanaro. A volte diventava mormorio, soffio, o si mutava in fischio, come se il cantore si sentisse improvvisamente più leggero o la china del monte diventasse meno impervia. I rumori e le voci del bosco continuavano ad essere sottofondo di quella presenza canora: il tonfo di una pigna caduta  dall’abete, lo scricchiolio causato da uno scoiattolo qua e là per i rami, il plaf-plaf di un ranocchio presso gli acquifoglio, lì alla “molinella”...

Sì, perché lassù l’uomo aveva costruito un leggero e semplice mulino di legno per lasciare un segno delle sue soste lungo l’acqua del rivo, un segno delle sue pause di riflessione in ogni passeggiata o scarpinada dentro quel bosco. Quelle pale, rozzamente abbozzate col coltello da tasca, giravano dentro il rivo e facevano saltare intorno zampilli e spruzzi d’acqua, e questi attiravano tanti passeri suoi amici, ai quali pure egli parlava o forse… confidava i suoi segreti. A quella polsa Luigi sostava spesso, e il cigolio ritmico della molinella, l’ombra dei noccioli, il sole che filtrava la mattina, creavano l’atmosfera adatta per pensare a Gianna. Luigi si sentiva parte dell’ambiente.

Solo lì era riuscito a dare ristoro alle sue urgenze, alle pene di giovane provato dalla guerra sul fronte delle Alpi Occidentali, verso Briga e Tenda, fra l’aggressione alla Francia e i bombardamenti notturni, la mancanza di notizie della sua famiglia e nessuno scritto della sua amata, e poi la cattura, l’internamento, le camminate di trasferimento obbligato in notturna, la ricostruzione delle casematte, la fame, i soprusi subiti dai prigionieri, poi gli inglesi, la fuga e l’avventuroso ritorno a casa, attraverso boscaglie interminabili per non essere rintracciati, i piedi che dolevano, la paura dei rastrellamenti, e infine… la morte di Gianna, lontana, in Argentina.

Quand’era nel bosco si trovava immerso in un’atmosfera panica, totalizzante, che gli incuteva rispetto per ogni cosa della natura. Lì conosceva quei grossi nidi che le formiche erigevano con cumuli di aghi di pino e piccoli stecchi, per un’intera stagione, con infaticabili andirivieni in file nere o rosse. Formiche che passavano fra sassi e sterpi, dritte alla fonte di risorse individuata quel giorno: per esse tutto procedeva senza alcuna distrazione o rottura di ritmo che non fosse un improvviso pericolo o la suola di un improvvido passante.

Il prato di primo mattino era come se fosse piumato per la guazza notturna: gli steli del fleon e delle graminacee erano chinati da una corona di perline trasparenti che, tutte assieme, formavano cuscini azzurrini sospesi sopra tutto quel verde. Luigi osservava e si soffermava rapito. Dentro sentiva un’urgenza sconosciuta tramutarsi in pensiero, parola, canto, grido. Si chinava a raccogliere dei fiori: erano a volte garofanini di monte, sfrangiati, posti lì su una balza, oppure  entauree al bordo del sentiero, o borraggine azzurro-lapislazzulo. Doveva guardarsi però dai bombici che, già di buon mattino, stavano rumoreggiando in cerca di nettare.

Luigi voleva mettere quei fiori ad un capitello, sul sentiero verso le baite; lo faceva quasi tutte le domeniche. Un rito? No, piuttosto un sentimento d’abbandono, di fiducia in quel Sant’Antonio lì effigiato, stinto dal sole e dall’acqua piovana, protetto da due scorzi messi a capanna. Anche quel Toni lì conosceva la solitudine in cui Luigi si trovava nel corso della settimana;  ma la domenica era un’altra cosa: nella sacca qualche frutto e un companatico, un filone di pane, e via in montagna, lungo la strada dei montanari  dei legnaioli, dei malghesi che portavano le bestie all’alpeggio e le riportavano poi in valle alle loro stalle.

Giù in paese, al negozio, le sue clienti quando lo sentivano accennare ad un motivetto, o arrivava il suo canto dalla dispensa in cantina, gli dicevano: “Ma voi, Luigi, siete sempre contento! Cantate, cantate allegro! Beato voi! Chissà chi sarà la fortunata…” e qualcuna di mezza età, come ce n’erano tante nel dopoguerra, lanciava lì una proposta sospesa, sospesa in aria come un sentimento accennato ma puntuale, non dichiarato ma allusivo. “Cantate… Cantate… Cantate… Sempre allegro, voi, Luigi!”; ma non approfondivano i motivi di quel suo cantare e fischiettare preciso, di quel suo modo di scherzare, di quel suo rispondere evasivo. “Canto alla Lilly Marlene”, diceva a volte, ed indicava un grande quadro con la figura di una cantante o di un’attrice americana che sorrideva da un paesaggio West. Lei aveva il sorriso di Gianna, della sua Gianna che era andata lontana, in Argentina, con tutti i suoi fratelli, prima della guerra: la sua Gianna che doveva tornare, tornare per lui, proprio per lui…e poi gli avevano scritto che era morta, banalmente, per una polmonite.

La guerra con le sue mille facce, le sue tragedie, i suoi sconvolgimenti, aveva portato anche in lui, che era di forte tempra, confusione e tristezza senza fine. Riusciva in qualche modo a camuffare quelle momentanee prostrazioni reagendo con il canto o fischiettando proprio nei momenti “dei cupi abbandoni del cuore”. Tutti erano persuasi della sua allegria ed invece la sua pena a volte cresceva a dismisura e così si rifugiava a piangere nella cantina del suo negozio. Perciò la domenica, quando ancora tutta la parte alta del paese dormiva, fatto il sacco, infilava il sentiero ed era presto alle falde del bosco.

Poco dopo incominciava a sentirsi meglio: per tutto il giorno era un altro modo di essere. Nasceva dentro di lui una rassicurante certezza che fluiva nel canto e nel fischiettare modulato. Erano quelli i momenti nei quali comunicava con la sua Gianna e la sua Gianna di sicuro lo aiutava a trovare la strada per disfarsi di quel fardello  che da tempo lo opprimeva. Il canto, che prima era affanno, sentimento angoscioso e inespresso, si faceva più disteso, armonioso, quasi un linguaggio gentile. E mutava: era adesso un fischio, ad esempio, che imprimeva alla canzone un’espressione precisa. Luigi era attento ai minimi scarti di note, a tutti i balzi e i rimbalzi della voce, ai passaggi del testo. Si serviva delle note per “comunicare oltre”, oltre le cime degli alberi, oltre i coni d’ombra che il sole proiettava sui viottoli del bosco, oltre l’affanno dei pensieri e dei ricordi, oltre oceano.

In quel breve paesaggio di vallette, di balze, d’ombrosi botri dirupati, arrivava infine al Ronco,  sotto gli alberghi e le baite. Trovava quel riparo che placava, almeno per quel giorno, una spina dolorosa che gli si era conficcata in petto a quella tragica, improvvisa e maledetta notizia: “Giovanna è morta”.

Nel bosco tutto poteva estinguersi, almeno per ora, dolcemente, in quel mormorio d’acque e tonfi leggeri, nello zirlare di merli acquaioli, nel canto e nel fischiettare armonioso che egli rivolgeva, sempre con attenta misura alla sua Gianna.
                                                                                                         
                                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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Persona e società

PERCHE'?

Non ci pensiamo mai abbastanza: il quesito e il mistero di esistenze che ci scorrono al fianco, che dipendono dalla nostra attenzione, che possono realizzarsi positivamente oppure perdersi proprio sulla base di come noi le affianchiamo: dipendono da noi, insomma. Adulti perduti misteriosamente nella demenza senile, malati cronici affidati a strutture con scarso coinvolgimento delle famiglie, bambini con il diritto alla vita sospeso da genitori padroni e non custodi. E’ l’immane dramma del silenzio sociale che circonda queste vite, che non possono difendersi da sole e spesso non vengono difese da noi. Possibile che il silenzio continui?
*****

Quel tavolino per scrivere è sufficiente. Certo, il computer era diventato per me un’abitudine inveterata, ma si vede che qui non posso tenerlo. Beh, nel caso mi venisse in mente qualcosa scriverò a mano. Del resto, ho sempre fatto così. Soltanto in un secondo momento ho bisogno di sviluppare, tagliare, spostare brani del lavoro, e farlo con i fogli è problematico. Allora chiederò che mi venga ridato il mio computer. In questa camera non c’è telefono. Eventualmente, per le connessioni di cui avessi bisogno, userò una chiavetta. Intanto però dovranno mettermi degli scaffali per un po’ di libri. Il posto per una piccola libreria c’è, proprio di fianco al tavolino.

Non capisco però come mi sia deciso a venire in questo posto. Non ricordo di averlo scelto. E poi, per quale motivo avrei dovuto sceglierlo? A casa mia avevo ogni comodità, e i miei libri, i miei quadri, il mio pianoforte, che sono parte di me, ma soprattutto mia moglie, che amo e che mi ama. Come ha potuto farmi uscire di casa e consentirmi di prendere alloggio qui? E i miei figli dove sono andati a finire? Sono confuso: sono troppe le cose che non mi tornano. Non mi pare di essere in ferie. Ci andiamo insieme, io e mia moglie. Siamo sempre andati insieme. Se poi lo fossi ci sarebbe il mare. Qui non c’è. Neppure campagna c’è, come io la intendo, come era quella dove avevo la casa una volta. Io però in ferie vado soltanto al mare. I monti non mi piacciono. Soprattutto non mi piacciono le strade che conducono ai monti e li percorrono. Non sopporto il vuoto visto da una strada. Posso guardare giù dall’aereo senza problemi, anche in fase di atterraggio, ma il vuoto visto da una strada… Ne consegue che certamente non sono in ferie. Non sono neppure malato. I miei mali li conosco fin troppo bene e non mi danno disturbi nuovi rispetto a quelli di cui soffro da più di vent’anni. Del resto, questo non è un ospedale. Gli ospedali li conosco bene come i miei mali. Come potrebbe essere diversamente? Ci ho passato mesi, complessivamente molti mesi. Li conosco bene.

Questo ambiente mi sembra più un pensionato. A tavola oggi avevo un commensale, abbastanza più giovane di me, che non si è presentato, non ha risposto al mio saluto ed è rimasto tutto il tempo con gli occhi fissi nel piatto, ma non mangiava. Hanno dovuto imboccarlo. Non so chi fosse la signora che lo ha fatto. Non era un’infermiera. Forse era una parente, ma anche lei non ha proferito parola. Sono sempre meno le persone capaci di comunicare, di rapportarsi agli altri parlando.

Quanti giorni saranno che mi trovo qui? Non mi ricordo quando ci sono arrivato e non so che giorno sia oggi. Un calendario…Ecco, sì, mi ci vuole un calendario, altrimenti come posso fare? A casa, anche senza calendario… sapevo dal computer che giorno era: la data, intendo, mi dava solo la data, ma non mi diceva il giorno della settimana. Però, meglio di niente, com’è invece in questo posto.

Ieri sono uscito. Lo ricordo bene. Sono sceso dalla camera e mi sono ritrovato in giardino. Mi sembra di esserci stato altre volte. Volevo andare in strada, ma in fondo al vialetto del giardino ho trovato un cancello. Chiuso. Senza bottone per aprirlo. Allora sono rientrato e ho chiesto alla portinaia che sta nell’ingresso di aprirmelo. E’ una bella ragazza, la portinaia. Non arriva a trent’anni. Oggi era dietro a quel bancone che c’è. Si notavano solo quei seni prorompenti che ha. Non molto grandi: staranno fra la terza e la quarta, più terza che quarta, ma che figura su quel corpicino snello! E un paio di glutei ben modellati e sicuramente sodi, così come deve avere le cosce. Porta i pantaloni e ieri l’ho vista bene. E’ anche gentile, e si è schermita, dicendo che non aveva modo di aprire il cancello al momento, e che le dispiaceva. Poi una signora ha suonato, il cancello si è aperto e, mentre lei entrava, io sono uscito in strada. Ci siamo salutati con un cenno della testa. Mi è parso che anche lei risortisse. Ma non mi sono girato. Ho fatto un bel giro. Insomma, un bel giro… un giro, per quanto mi consente di camminare, senza disagio, questa mia gamba sinistra, dove porto una protesi all’anca. Devo confessare che non conosco il rione dov’è il mio pensionato. Non credo sia nella mia città. Ma non mi sono perso. Ho fatto il giro dell’isolato, un isolato enorme, tenendomi sempre sul marciapiede. A un certo punto mi sono ritrovato al mio cancello. L’ho osservato bene di fuori. C’è il campanello vicino, ma nessuna targa che indichi come si chiama la pensione o albergo che sia. Non c’è neppure un’insegna con le stelle della categoria cui appartiene. Da come si presenta dentro, mi sembra assai scarso. Non credo possa meritarsi un fregio di più di due stelle. Solo Martina, così si chiama la ragazza in portineria, meriterebbe quattro o cinque stelle. Per poterle dare una classificazione di quattro o cinque stelle occorrerebbero esami che io ho smesso di fare da tanto e che non so se lei mi avrebbe permesso comunque di farle. Ma così, a occhio, credo che potrebbe salire al top.

Ho atteso che qualcuno volesse entrare. Ho aspettato più che per uscire, ma a un certo punto è arrivata a suonare una signora, una bella signora, di qualche anno d’età ma di quelle che portano la loro maturità con semplicità, che non mascherano i propri dignitosi capelli grigi con tinture di colori improbabili che, quelli sì, fin da lontano rivelano l’età tarda di chi li ostenta. Sono tornato con lei. Ho rifatto il vialetto e mi sono seduto su una delle panchine che ci sono in prossimità della portineria. Ho evitato tuttavia di farmi vedere da Martina. C’erano altri ospiti, seduti lì, tre donne e due uomini. Presumo che fossero ospiti perché una delle donne indossava uno spolverino di un celestino stinto, come usano in casa le donne di campagna, un’altra era piuttosto trasandata, con lo sguardo perso davanti a sé, e la terza entrava e usciva nervosamente dalla portineria. I due uomini, più giovani di me all’aspetto, indossavano entrambi quelle pantofole alte di stoffa a quadri colorati, tipo i kilt scozzesi, con il pelo dentro, come portano gli anziani, e si tenevano il collo ben coperto, anche aiutandosi con le mani, quasi fosse freddo. Era invece una calda giornata di primavera inoltrata, tanto che io mi ero sbottonato il colletto della camicia.

Dopo una mezzora sono venuti a chiamarci perché il pranzo era pronto. Non si mangia male in questo posto, ma non c’è possibilità di scelta. Solo quello che passa il convento, come si dice, e a sorpresa. All’albergo sul mare, dove andiamo noi, ci sono tre primi a scelta e tre secondi, sia a pranzo che a cena, ed è roba buonissima e abbondante, anche troppo, oltre a un buffet libero e ricchissimo. Eppure è soltanto un tre stelle. Ho valutato bene: questo non ne merita neppure due. Spero di rimanerci poco e comincio a chiedermi perché ci sono capitato. Sono qui dentro ormai da diversi giorni. Non so dire quanti, per il problema del calendario. Nel frattempo ho studiato com’è l’andazzo del pensionato: non si può uscire in strada, nessuno degli ospiti esce. Solo io ci riesco con il sotterfugio di stare in attesa in prossimità del cancello. 

Ora però ho un problema: non so come rientrare in camera mia perché non ne ricordo il numero. Ma è un giorno fortunato: si è affacciato nella sala della televisione Carlo. Caro è un giovane uomo che fa servizio all’interno da un paio di giorni, forse. Riguarda porte, finestre, rubinetti, bagni. Fa insomma tutti quei lavoretti di manutenzione spicciola che tanto sono necessari nelle grandi strutture. E’ disponibile sempre e ci si può parlare bene. Io, per la verità, non l’ho in grande simpatia perché mi pare che faccia la corte a Martina, ma soprattutto perché mi pare che Martina gli corrisponda, con quelle risatine che le ho visto fare alle battute insulse di lui. Mi sono dominato, ho ricacciato questa sorta di ripulsa che ho nei suoi confronti, mi sono allargato in un sorriso a quaranta denti (finti) e gli ho detto: “Carlo, ho un cassetto in camera mia che non scorre bene. Duro un po’ di fatica ad aprirlo e chiuderlo. Quando hai un minuto puoi venire a dargli un’occhiata? La mia camera è la numero… la numero…”
  • Ventisei: La Sua camera è la ventisei.
  • Oh, bravo Carlo! Sì, la ventisei. Ti aspetto.
  • Non dubiti. Vengo subito dopo che sarà ristabilito.
  • Grazie, Carlo. Grazie davvero.
Ecco, è la ventisei. Sono riuscito a farmelo ricordare senza destare sospetti. Se fossi andato a chiederlo a Martina o a qualcuna delle donne mi sarei fregato da solo. Qui dentro ho capito che se pensano che uno non abbia più mente ti tengono d’occhio, ti prendono di mira e non ti fanno fare più un passo. Non mi posso permettere che capiti anche a me. Come farei a uscire in strada? Se non potessi mi sentirei prigioniero e la paura, la claustrofobia di cui ho sempre sofferto, mi distruggerebbe. Ora però cosa gli invento a Carlo, su in camera? I cassetti scorrono tutti bene… Forse quello del tavolino per scrivere si può considerare un po’ difettoso ma non dà problemi, in realtà. Dirò che è quello che talvolta pare incastrarsi. Çi riguarderà e, al più, mi dirà che va bene. Tutto qui. A proposito del tavolino: devo ricordarmi di chiedere un paio di biro a Martina. Ne consumo molte a scrivere. Quasi non ho più neppure fogli.
Toc, toc.
  • Chi è?
  • Sono Carlo, per i cassetti.
  • Ti apro. Vieni, Carlo. Vieni.
  • Qual è il cassetto che le dà problemi?
  • Il cassetto, dici? Qual è? Non mi ricordo, Carlo…
  • Non si preoccupi. Li controlliamo tutti, così… Questo va bene… questi altri anche… E qui siamo a posto… Vediamo quello del tavolino. Capperi! Come fa ad aprirlo, questo? E’ incastrato. Una scartatina… Ecco, ora scorre bene. Tutto fatto. C’è qualche altro problema?
  • No, Carlo. Grazie
  • Di niente. Arrivederla.
  • Ciao, Carlo. Arrivederci. Ah Carlo…
  • Mi dica.
  • Quella ragazza, giù…
  • Quella ragazza… Chi? Sonia?
  • No, non Sonia. Sonia non la conosco. Dico di Martina. Sai, quella in  portineria? Martina!
  • Martina? Ah! Cosa ha fatto Martina?
  • Meglio perderla che acquistarla, quella, sai…
  • Perché?
  • E’ sempre al telefono. Fa tutto malvolentieri. Non è troppo educata…
  • Davvero è così? Meglio starle alla larga, allora.
  • Ecco, hai capito. Non vale proprio la pena.
  • Ha fatto bene a dirmelo. Io non ho tempo da perdere con chi non merita.
  • Bravo, Carlo!
  • ArrivederLa, di nuovo.
  • Arrivederci, arrivederci.
Tutto sommato è un bravo ragazzo, quel Carlo. E’ anche educato. Mi dà del lei, diversamente da altri che neanche conosco. Io gli do del tu, non per mancanza di rispetto, ma perché fra me e lui ci corrono di sicuro quasi cinquant’anni.
  • Sonia!
  • Che c’è?
  • Il vecchio, su, della ventisei…
  • Che ha fatto?
  • E’ innamorato di te.
  • Lo so. Tu come te ne sei accorto?
  • Mi ha parlato male di te. Ma era chiaro che lo ha fatto per cercare di sminuirti ai miei occhi. Una cosa strana, però: ti ha chiamato Martina.
  • So anche quello. Certi giorni passa le mattinate a guardarmi di sottecchi. Passerà cento volte davanti al banco, e mi osserva, senza parere. Mi ha spiegato la moglie che gli ricordo una ragazza che aveva in gioventù e che si chiamava Martina.
Quella povera donna di sua moglie, una donna squisita, è sempre qui. Abita vicino. Lui è abitudinario e tutti i giorni si prepara per uscire alla stessa ora. Non credo neppure che consulti l’orologio. Ce l’ha dentro, incorporato, come gli animali. Lei lo accompagna e gli fa fare un giro, anche se lui non cammina bene, come si vede. Lo fa uscire e lo segue per tutto il tempo. Lui è convinto di essere solo. Non la riconosce, così come non riconosce i suoi figli.
  • Me però mi riconosce e mi chiama per nome.
  • Sì, ma non ti meravigliare se a un tratto non saprà più chi sei. Ormai sono cinque anni che è ricoverato e ogni persona nuova che ha visto l’ha riconosciuta per qualche mese e poi più nulla. L’ho verificato di persona. Io per lui, come hai sentito, sono Martina. Sono stata Sonia per solo due mesi.
  • Poveraccio!
  • Sì, ma poveracci più che altro i suoi che rimpiangono l’uomo intelligente che era. Era un artista, sai?
  • Ah sì?
  • Era uno scrittore, un poeta, e pittore, anche bravo. Ho letto tutti i suoi libri e visto alcuni suoi quadri. Tutto notevole! Ora vuole sempre fogli bianchi, che tiene sul tavolo, e li imbratta di ghirigori con la biro fino a farli neri.
  • Allora è un peccato che sia ridotto così.
  • E’ sempre un peccato! Ma quando tocca a persone così… del resto, però…anche personaggi celebri…
Quel Carlo è stato bravo ad accomodarmi il cassetto. Ora magari esco. Mi metto la giacca ed esco. Controllo se ho le chiavi…Dove le ho messe? Non ce l’ho. E questo foglio in tasca, tutto arrotolato, consumato…Vediamo: c’è scritto “26”. Ventisei cosa? Boh! Buttiamolo via.
                                                                                                                            
                                                                                         (Anonimo, Premio PratoRaccontiamoci)

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MM

Democrazia Comunitaria

NASCE FORMAITALIA: SENZA CONFINI "PER TUTTO L'UOMO E PER TUTTI GLI UOMINI"

Il 7 dicembre scorso si è tenuto a Roma, in collaborazione con la Fondazione Internazionale per l’Aiuto all’Anziano, un incontro culturale e formativo sul tema “La politica in Italia: ieri e oggi a confronto per capire le prospettive possibili”.

Dal 22 al 26 gennaio appena trascorsi si è tenuta in Basilicata, in collaborazione con un Istituto Scolastico Superiore, una settimana di formazione e orientamento sul tema Motivazione e autorealizzazione nella scuola”.

Due eventi con i quali si è avviata concretamente e stabilmente l’attività di Formaitalia, la nostra piccola libera “università permanente per la formazione totale”.

Ai due temi citati se ne aggiungeranno via via altri, che verranno puntualmente comunicati; e insieme agli incontri verranno inaugurati anche, per chi sia interessato, veri e propri corsi organici di studio e formazione, della durata cioè di più incontri (fino anche a un anno) ciascuno su una tematica omogenea da affrontare come vera e propria materia di livello universitario.

Incontri e corsi potranno essere svolti sia per singoli partecipanti che lo richiedano sia per gruppi.
E verranno tenuti in qualunque sede esigano di volta in volta le circostanze o le preferenze dei richiedenti: un’aula scolastica o anche semplicemente un bar, un oratorio parrocchiale o anche semplicemente un giardino pubblico, o una sede di associazione professionale disponibile...

Lo studio-formazione, che avrà comunque sempre il connotato dell’alta qualità e organicità di contenuti, non prevede sostanzialmente costi per i partecipanti: viene chiesto semplicemente un simbolico euro a incontro, come valore morale di adesione e consapevolezza e per rispondere a qualche eventuale minima esigenza operativa, come potrebbero essere materiali da fotocopiare o simili.

La docenza vedrà spesso impegnato il sottoscritto ma coinvolgerà via via anche esperti e testimoni in diverse discipline e con diversi approcci, secondo i casi. E i temi verranno via via concertati secondo il criterio dello “scorrimento continuo” in una strategia condivisa e nel quadro di riferimento metodologico e valoriale che molti amici mi hanno sentito definire spesso come “modello monasteriale”.

Nella sostanza si tratta appunto di “formazione alta” ma… proprio perché alta non avrà nulla da spartire, anzi aborrisce esplicitamente, alti titoli e alti linguaggi, alte sponsorizzazioni e alti atteggiamenti accademici… e simili vuotaggini.

E’ formazione alta proprio perché… non va in alto bensì, al contrario, in profondità: costruisce nel profondo delle coscienze per far crescere, integrati, valori e competenze. Per questo anche il risultato sarà “alto”, ma solo nel senso più vero e pregnante.

Il pensiero di questa iniziativa viene in realtà da lontano, come viene da lontano il concetto di “formazione integrale” che lo anima: che ha appartenuto alla vicenda di vita e di crescita mia e di molte altre persone; e il cui merito non va a noi, pur avendoci anche noi messo la indispensabile nostra convinzione e buona volontà: ma va a quei formatori ed a quelle scuole di formazione che avevano (l’imperfetto è malinconico ma inevitabile, in quanto rare sono oggi simili realtà) come riferimento della loro azione proprio il concetto di integralità, cioè la idea che la persona è una creatura appunto integrale, composta di corpo, anima e spirito, e strutturata per essere contemporaneamente individuo e comunità; e che in tale integralità essa deve svilupparsi e realizzarsi positivamente, qualunque sia la materia più specifica di cui si occupa e l’ambiente più specifico in cui vive.

L’Italia ebbe simili scuole di formazione nel primo ventennio del dopoguerra, in campo politico ma anche in campo sindacale, aziendale, religioso, sociale, e la stessa scuola istituzionale dello Stato aveva in sé un nocciolo centrale di riferimento a tale cultura di integralità: uno dei segnali ne era la presenza nei programmi e in pagella della “buona condotta” collegata anche con la educazione civica, che implicava appunto attenzione specifica della funzione educativa alla persona nella sua totalità, e accentuata sensibilità alle dimensioni umanistiche di tutte le materie.

Successivamente tali scuole e tale metodologia sono state incredibilmente abbandonate a un progressivo declino e parte di esse sono addirittura scomparse, come è stato ad esempio per le grandi scuole dei partiti politici storici. La flebile e inadeguata figura dei ministri della pubblica istruzione succedutisi negli ultimi decenni ha sancito e generalizzato tale decadenza.

Molti di noi sono tornati però costantemente a chiedersi come fare a ritrovare la via (per usare le parole di Luigi Sturzo).  

Il nostro paese, peraltro, non ha in realtà bisogno di ritrovare semplicemente “una grande classe dirigente”, come a volte si dice: ha bisogno di ritrovare una più diffusa e profonda coscienza di sé, dalla quale si generi anche una nuova classe dirigente di grande levatura, in tutti i settori della sua vita.

Siamo nel 21° secolo: velocizzazione, mondializzazione, tecnologicizzazione, digitalizzazione, turbocapitalismo, intelligenza artificiale… fanno infatti diventare in parte un sorpassato luogo comune anche il concetto tradizionale di “classe dirigente”.

In realtà siamo tutti classe dirigente nella misura in cui siamo in grado di influenzare intorno a noi altre coscienze. Occorre dunque tornare a formare potentemente e diffusamente persone di alta levatura, più che “dirigenti” in senso formale.

Abbiamo cioè bisogno di costruire alte coscienze da mettere come sentinelle attive dovunque, direi in ciascun angolo di strada e in ciascuna stanza di ufficio o di casa o di fabbrica. Ciascuna di esse strategica per il semplice fatto che ne interseca altre, in tutti i settori della vita. Sentinelle appunto di qualità totale: altrimenti svanisce il sogno di una comunità che migliora nel suo insieme e nelle singole persone che la compongono. Se tali sentinelle sono di qualità… esse sono automaticamente classe dirigente a prescindere dai ruoli formali.

Anche a livello planetario si nota del resto, oggi, una non tranquillizzante tendenza al declino o alla stagnazione qualitativa del vivere individuale e sociale e del livello di sensibilità istituzionale, che comporterebbe una ben diversa e superiore attenzione ai sistemi formativi e al concetto di classe dirigente: dalla grossolanità di Trump alla inconsistenza di Biden, dall’umiliante resa della civiltà e dei diritti umani in Afghanistan o in Iran alla crisi ucraina con le sue vittime innocenti, all’incartamento burocratico-finanziario della realtà europea, alla povertà dell’Africa,  allo strapotere intrasparente della finanza, alla disattenzione complessiva verso il grande valore fondativo della vita, al malinconico fantasma dell’Onu che a oltre settant’anni dalla sua costituzione non riesce a diventare vero parlamento dei popoli, la “classe dirigente” formale, politica e non politica, dà oggi testimonianza prevalente di mediocrità anche, appunto, a livello planetario.

In materia più particolare di economia, ad esempio, mentre osserviamo che il capitalismo ha sconfitto il comunismo, e la tecnologia sta sconfiggendo il capitalismo, non possiamo non chiederci anche: ma… poi? Il futuro? La persona? La comunità? Dove sono? L’umanesimo capace di dominare la tecnologia e la emergente intelligenza artificiale, dove è? Il capitale umano, su cui è steso il più drammatico silenzio, dove è?… Dove sono l’impresa partecipativa e il lavoro di cointeressenza?

Urge insomma porre fine alla sterilità delle parole, delle ideologie, degli schemi e dei titoli formali che ubriacano il parlare quotidiano, e tornare a pensare e agire con pregnanza secondo il binomio “persona e comunità: tutto l’uomo e tutti gli uomini (per dirla con le parole di Paolo VI).

E’ infatti la persona concreta e integrale che ogni giorno “fa” la politica, la scuola, il sindacato, l’economia, l’impresa, la religione… Mentre partiti, istituzioni, classi, categorie, schemi, sono strumenti e non fini. 

Via, dunque, anche dagli insensati schematismi (come sono, ad esempio, in politica l’ottocentesco “destra- centro-sinistra”, nel sociale il retorico giovani-anziani e l’ingannevole uomini-donne, in economia l’eterno poveri-ricchi, etc.); e via anche dalla idiozia di semplificazioni concettuali come élites, classe media, borghesia, ceto intellettuale, etc. Il capitale umano e l’umanesimo, le persone concrete e la loro solidarietà, sono l’unico futuro accettabile per l’economia, per la politica e per tutta la vita sociale!

Ma, a questo punto, voi chiederete più concretamente: che idea più specifica avete e proponete per questa formazione integrale? Rispondiamo in sintesi quanto rispondevamo già anni orsono:

“E’ una idea molto alta.

La formazione infatti è il cammino della persona totale verso il proprio orizzonte infinito, in armonia con la comunità in cui essa vive e cresce.

Tutte le sue potenzialità di sviluppo e miglioramento si mettono in movimento.

Ci si forma perché migliorarsi è vocazione fondativa e irrinunciabile della persona.

E anche perché, se è buona formazione, essa mette insieme armonicamente crescita personale e crescita comunitaria: cioè l’unica crescita che abbia senso compiuto per l’uomo e per la civiltà.

L’uomo è infatti appunto, nella sua pienezza e contemporaneamente, “persona e comunità”.

La formazione non è indottrinamento.

Non è semplice aumento di nozioni nel nostro cervello.

Non sono professori che fanno conferenze.

Non sono esami e promozioni o dichiarazioni di idoneità.

Tanto meno sono bocciature.

Queste ultime, quando ci sono, caso mai bocciano la capacità della scuola di essere utile alla crescita delle persone.

La formazione non è un “master” conquistato in una prestigiosa università

Da esibire stupidamente in un curriculum

O da contemplare narcisisticamente incorniciato a una parete

O da segnalare allusivamente in un discorso pubblico.

La formazione è il tuo cammino di vita nel miglioramento continuo:

Quel cammino della tua anima e di tutto il tuo essere, che non finisce mai

Che non delude mai

Che non inganna mai

Basta che tu sia leale con testesso.

La formazione sei tu sempre più consapevole dei tuoi limiti ma anche delle tue potenzialità

E della loro concretezza

Del tesoro nascosto che possiedi e che… sei un irresponsabile se lo lasci perdere.

La formazione è la tua occasione di tutta la vita:

Qualunque mestiere tu faccia

Basta che faccia il mestiere di esistere

E di essere una persona che si vuol realizzare compiutamente.

Ti trovi a fare la scommessa decisiva della tua vita se ti prendi cura della tua formazione permanente o te ne infischi.

In una comunità che... forse ne è inconsapevole ma si vuol realizzare anch’essa

ed è chiamata a dire a sua volta sì o no a questa sua e tua realizzazione.

Qualunque mestiere tu faccia:

Lavoratore dipendente o disoccupato o studente o imprenditore o dirigente d’azienda o anziano in quiescenza o politico o amministratore locale o studioso o libero professionista o sportivo…

Ed a qualunque gradino tu sia in quella idiota e immorale falsificazione di vita che chiamano scala sociale.

In qualunque ambiente tu viva

Da qualunque punto tu parta

sei dunque chiamato a decidere se ti prendi cura della tua crescita permanente

o se ti infischi del destino della tua vita.

A volte mi chiedono in particolare cosa io pensi della formazione politica

Dato che la politica è dimensione essenziale per la vita comunitaria.

Anche la formazione politica rientra pienamente nei criteri valoriali e risponde alle esigenze di coerenza suddette.

Formarsi in politica, in particolare,

non significa imparare a far comizi efficaci turlupinando la gente

Né apprendere a creare manifesti elettorali più brillanti di quelli dell’avversario di turno

E neanche trovare la battuta efficace per controbattere l’ultima uscita di successo dell’avversario di turno.  

Formarsi in politica

Se davvero hai valori di ispirazione umanistica e tantopiù se si tratta di umanesimo cristiano

Significa imparare ogni giorno a capire più profondamente te stesso e contemporaneamente gli altri

A vedere di te stesso e degli altri un futuro lungo e non solo quello a dieci centimetri dal tuo naso

A saper affrontare tutti i problemi

anche eventualmente sbagliando, ma riconoscendo gli errori e migliorando sempre

Ad acquisire competenze crescenti, anche tecniche, nelle materie che hai scelto come tua specializzazione

Senza mai trascurare il miglioramento delle tue conoscenze più generali

E contemporaneamente a consolidare valori più alti per testimoniarli più fortemente

Mettendo tutto ciò a disposizione attiva della tua comunità

Oltre che di testesso.

E analogamente si può dire per la formazione sindacale, economica, scientifica, giuridica, e simili.

La formazione usa anche le aule ma se occorre sa farne a meno.

La formazione, se è davvero buona, deve costare pochi soldi e molta costanza di impegno

Deve chiedere l’aiuto di pochi professori e di molti maestri di vita

Deve mettere insieme teoria e pratica

Perché la teoria senza la pratica è priva di vita

Ma anche la pratica senza la teoria è un cammino a rischio di dispersione.

Per tutto questo la formazione non ha età

Né cariche sociali né gerarchie che esentino da essa

Né sapienti che possano farne a meno

Né “arrivati” che non ne abbiano più bisogno.

Beh… vi interessa?

Se sì, siete sulla strada giusta.

Se no, riflettete sui pericoli della vostra situazione.

Qualunque cosa pensiate,

la nostra formazione sarà così

o non sarà per nulla, perché, diversa da così, pensiamo che non valga la pena farne.

Solo così essa ha un senso di bene totale

Per noi stessi, per le speranze del nostro paese e anche oltre il nostro paese.

Un sogno?

Se volete, sì: un sogno. E che c’è di più concreto e utile di un sogno di bene, per migliorare davvero la realtà?

In fondo, alla chetichella, abbiamo già cominciato da molto a seminare il terreno:

ci siamo visti con tanti di voi, in diverse occasioni

giusto per cominciare a immaginarla, questa formazione

giusto per cominciare a dirci che puntiamo in alto

puntiamo appunto alla nostra persona totale da sviluppare

ed alla nostra comunità senza esclusioni

per migliorarle davvero entrambe e senza confini”.

                                                                                                                                              Giuseppe Ecca
Roma, 29 gennaio 2024
 
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I contatti, per chi è interessato, possono essere presi per ora direttamente con il sottoscritto, all’indirizzo giuseppe.ecca@gmail.com, o telefonicamente.

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Sono dunque disponibili fin da ora, concretamente:
 
INCONTRI (durata orientativa da due a cinque ore):
  1. La politica in Italia: un confronto fra ieri e oggi per capire le prospettive possibili.
  2. Motivazione e autorealizzazione nella scuola, nel lavoro, nella vita.
  3. La comunicazione fra persone e nella società: scienza e tecniche di base.
  4. Marketing e gestione aziendale.
  5. L’insegnamento della lingua italiana nella scuola come elemento fondativo per una formazione integrale: centralità  e metodi.
  6. Impresa: organizzazione e futuro.
CORSI (consistenza orientativa da dieci a venticinque incontri):
  1. Storia del lavoro e del sindacalismo in Italia e nel mondo.
  2. Un’esperienza lavorista e sindacale di eccezione: il settore elettrico e l’idea partecipativa in sessant’anni di dopoguerra.
  3. Formazione: il sentiero stretto.
  1. La comunicazione: scienza e tecniche nella vita e nel lavoro
  2. Econoimia: l’economia come bene comune.
 
                                                                                                 °°°°°°°°°
 

Racconti di vita

QUARTO DEI MILLE

A volte la nostra vita si specchia inattesamente in quella degli altri, magari per un episodio casuale del quale avevamo fino allora ignorato i protagonisti: e scopriamo che dietro quell’episodio c’è un insegnamento che fa anche per noi, o magari solo uno spunto di riflessione che è però occasione preziosa per farci semplicemente capire quanto è vasta e variegata la realtà umana che ogni giorno ci passa davanti e interseca i nostri passi; e quanto, in fin dei conti, valga la pena essere nei suoi confronti attenti e aperti.

*****
 
Il bambino che mi sedeva di fronte, sul treno regionale Genova-La Spezia, era mingherlino, aveva occhi castano-dorati, come i capelli, e gambette irrequiete. Quando si sentiva osservato si stringeva alla madre e reclinava la testa sul braccio di lei.

Lei, una giovane donna triste e pensosa, non badava al figlio né alle piccole stazioni dove il treno si fermava per pochi minuti: mentre lui ad ogni sosta si allungava verso il finestrino e leggeva ad alta voce il nome della stazione; la vocetta era squillante anche se tradiva una lieve incertezza nel sillabare il nome sconosciuto della località: uno scolaretto di prima elementare, ne dedussi.

Dopo Sturla, il bambino si inginocchiò sul sedile e appoggiò la fronte al vetro. La madre si preoccupò allora di controllare che i suoi sandali non sfiorassero le mie ginocchia. Ignorò la mia occhiata benevola di comprensione e riprese il suo silenzioso raccoglimento, con le mani intrecciate sulla borsa di rafia.

“Quarto dei Mille!” esultò poco dopo il piccolo viaggiatore, puntando il dito fuori. E voltandosi: “Perché Mille? Mamma, cosa vuol dire?”. La donna non cambiò espressione: muta e indecifrabile come una statua. Era mai possibile che non sapesse rispondere a una domanda così semplice? mi chiesi. Il bimbo ripetè la domanda calcando su quel “mille”, che forse gli sembrava strambo, per un paese. Non ottenne nessun risultato. Il treno ripartì. Colsi una sua occhiata rivolta a me: conosco bene la psicologia dei bambini, dopo trentotto anni di insegnamento, e capii subito che questo era un tipetto sveglio con una gran voglia di scoprire e imparare. Se mi fossi messa a spiegargli l’evento storico legato a quel nome, dopo aver bevuto le mie parole mi avrebbe tempestato di domande. Colta da un senso di rispetto per il silenzio malinconico della madre, preferii tacere. Intanto il bambino seguitava a fissarmi, per cui io finsi di dormicchiare. Durante il percorso udivo però la sua voce che elencava i vari paesi costieri; ma il tono era stracco e poi si spense. Evidentemente non gli piaceva giocare da solo. Tra un battito di ciglia lo intravidi osservare svagato il grigiore del cielo che si rifletteva nel mare, e smuovere smanioso le gambe.

Appena il treno sferragliò sul ponte sopra il fiume Entella la donna si rivolse al figlio con un piglio brioso: “Su, Nuccio! La prossima è la nostra fermata”. Lui balzò in piedi e si fece agganciare lo zainetto alle spalle. “Siamo già a Lavagna?”, si informò. “Proprio a Lavagna”, confermai io, rompendo finalmente il cerchio del mio riserbo. E lui con gli occhi sgranati: “Io sulla lavagna ci scrivo”. “E io ci abito da un sacco di tempo”, replicai scherzosa.

Scendemmo tutti e tre insieme. La madre portava un borsone nero a tracolla e sul marciapiedi sbirciò attorno, indecisa. All’uscita dalla stazione mi chiese dove fosse via Devoto, controllando un biglietto tratto da una tasca dei jeans. ”Che numero?” chiesi a mia volta. “Trentuno”, mi rispose. “Andiamo, è il caseggiato di fronte al mio”, la rassicurai. Parve illuminarsi: “Grazie, signora; è da anni che non vengo da queste parti: abito a Udine, e qui mi aspetta una mia amica”. “La Luisita”, specificò il bambino con gli occhi ridenti. Ci salutammo quando già le prime gocce di pioggia cadevano su via Devoto.

Quando arrivai a casa accesi una sigaretta e misi a posto alcune scartoffie inerenti alla mia visita al provveditorato agli Studi di Genova. Più tardi il frigo poco fornito mi indusse a prendere l’ombrello e uscire. Tornando dal supermercato mi volsi casualmente verso il civico 31: scorsi il bambino del treno che mi guardava attraverso il vetro del portone con aria sconsolata. Tornai allora sui miei passi e mi accostai: la madre era rannicchiata sulla prima rampa delle scale con nello sguardo la medesima delusione del figlio. Spinsi la maniglia: “Siete ancora qui?”, mi meravigliai. La giovane si levò in piedi imbarazzata: “La mia amica forse si è scordata del nostro arrivo, doveva lasciare le chiavi alla vicina, che però non sa nulla e al cellulare non risponde. “La Luisita è proprio scema”, mormorò il bambino scuotendo il capo. “E adesso?”, mi impensierii. “Aspettiamo ancora un po’, se non viene cercherò un alberghetto per la notte”, mi rispose lei a occhi bassi. Controllai l’ora al polso e decisi su due piedi: “Venite su da me, intanto dovete pur cenare”. Madre e figlio parevano stupiti dell’invito: lui fu però pronto a sistemarsi le cinghie dello zainetto, mentre lei esitava a raccogliere il borsone.

“Signora, non vorrei darle disturbo, lei è troppo gentile…”. Le allungai la mano come per stringere un patto di solidarietà. “Mi chiamo Teresa”, mi presentai. “Io sono Ortensia”, replicò lei con un filo di voce. Quindi aprii l’ombrello e alla benemeglio li feci mettere sotto tutti e due.
Nello svegliarmi la mattina dopo ebbi subito la sensazione di non essere sola in casa. Erano quasi le otto e certo Ortensia era già uscita: doveva prendere un treno per Genova. Mi aveva lasciato il bambino e il borsone; e non aveva potuto contattare l’amica al cellulare.

La sua storia me l’aveva raccontata la sera prima: quattro parole al tavolo di cucina mentre Nuccio dormiva nella cameretta che era stata di mio figlio Alberto. Una storia cominciata bene, che si era deteriorata recentemente. Il suo compagno – oh, quanto detesto questo termine in uso per le coppie di fatto – aveva perso il lavoro di gruista e l’inerzia lo aveva reso sfuggente e irascibile. Stava tutto il giorno fuori, rientrava tardi e ogni tanto portava un po’ di soldi di dubbia provenienza. Ortensia temeva che si fosse messo in un brutto giro e i suoi sospetti si confermarono allorchè fu arrestato perché in possesso di pochi grammi di cocaina. Raccontando questa vicenda lei fumava, e io pure. La nuvola di fumo creava una sorta di velo confacente a questa sua improvvisa familiarità con un’estranea.

“Il giudice non ha accettato l’alibi che si trattasse della sua dose personale e l’hanno arrestato per spaccio”. E dopo una pausa, con tono supplice: “Mi creda, signora, ha avuto un momento di debolezza in seguito al licenziamento, ma è un brav’uomo e ci vuole bene”. Il posacenere era pieno di mozziconi. Per il processo imminente Ortensia intendeva rivolgersi a un buon avvocato di Genova. “La mia amica si è offerta di tenere Nuccio, così io posso muovermi liberamente”, aveva concluso con un sospiro.

Nuccio comparve sulla soglia della cucina strofinandosi gli occhi e mi domandò della madre, con la quale aveva condiviso il letto a una piazza. Gli risposi che era partita e sarebbe tornata la sera. Lui si strinse nelle spalle: “E’ per papà, lo so; lavora a Genova. E’ tanto che non lo vedo”. Poi scostò una sedia e si sedette al tavolo dove avevo preparato il tazzone di latte con i biscotti. Ortensia lo tirava su bene, il suo bambino, sebbene adesso potesse contare solo sul suo lavoro in un’impresa di pulizie. Verso le dieci uscimmo e andammo a passeggiare sul lungomare sotto lo sfolgorante sole di giugno: Nuccio mi dava la mano fiducioso. Al suo sguardo acuto non sfuggiva nessun dettaglio di quel paesaggio da cartolina; però non faceva domande. Così toccò a me prendere l’iniziativa: “Ti ricordi che in treno volevi sapere perché una stazione si chiama Quarto dei Mille?”.

Lui mi guardò di sotto in su e mi fece, un po’ imbronciato: “Nessuno mi ha risposto”. Niente di meglio di una panchina un po’ in ombra per colmare la lacuna: e il mio racconto gli sciolse la lingua. “Questo Garibaldi era davvero un eroe”, osservò Nuccio, che aveva ascoltato molto attento la narrazione dell’impresa dei Mille. E poi con una timida occhiata: “Tu sei una maestra?”. “Lo sono stata… e tu hai una brava maestra?”. “Io ne ho due, la Lory è simpatica, l‘altra  è una streghetta con le unghie blu”. E si portò le mani alla bocca, pentito dell’impertinenza.
Nel pomeriggio Nuccio si mise a guardare i cartoni alla tivù e io presi un vecchio album dell’infanzia di mio figlio per mostrarglielo, ma cambiai idea e lo infilai di nuovo nel cassetto. Ortensia per tutto il giorno non si fece viva. Mentre cenavamo squillò il campanello della porta. Nuccio si strappò il tovagliolo e corse all’ingresso. Udii delle esclamazioni e lo seguii. Sulla soglia si stagliava una biondina sorridente che lo stava abbracciando: era la famosa Luisita che, una volta entrata, si scusò per le sue negligenze del giorno prima;  “Sto allestendo un piccolo stabilimento balneare, un grande impegno che mi ha mandato in tilt e ho scordato tutto il resto…”.

Nuccio la guardava con una smorfia di rimprovero. “Su, adesso saluta questa gentile signora, prendi la tua roba e vieni da me… La mamma mi ha telefonato, ma il cellulare era mezzo scarico e non ho capito quasi niente”. Nuccio non si mosse dal mio fianco. “Stanotte dormo qui”, disse; “la maestra deve finire di raccontarmi le ultime imprese di Garibaldi”. Non ci fu verso di fargli cambiare idea. La ragazza infine si arrese: sarebbe venuta a prenderlo l’indomani. Appena chiusi la porta Nuccio mi strizzò l’occhio: e rimase sveglio fino alle dieci ad ascoltare la lezione su Garibaldi. Prima di addormentarsi gettò un’occhiata verso la scrivania dove c’era la foto del mio Alberto. “ E’ tuo nipote?”, mi domandò. “E’ mio figlio a quindici anni”. “Dove è adesso?”. “All’estero”. “E non ti viene a trovare? ”Certo che viene, e anche di frequente”. Spensi la luce e uscii dalla stanza. Avevo il magone. Alberto era bello e bravo come appariva in quell’ultima immagine: ma quando suo padre se n’era andato via di casa per amore di una giovane turista inglese che viveva a Londra, era diventato duro e ribelle. Che si fosse messo in un brutto giro come il compagno di Ortensia me ne ero resa conto troppo tardi. Quell’estate particolarmente secca i boschi delle colline bruciavano e l’odore del fumo arrivava fino alla Via Aurelia. Incendi dolosi, scrivevano i giornali. Le guardie forestali scoprirono una piccola banda di minorenni che appiccavano il fuoco per divertimento. Alberto era fra loro. Cercò di scappare ma sull’orlo di un dirupo perse l’equilibrio e precipitò, facendo un volo di dieci metri.
Nuccio se ne andò la mattina dopo con “quella scema della Luisita”, lasciandomi dentro un’apprensiva tenerezza. La casa tornava vuota. Forse mi ero illusa che il bambino del treno restasse ancora un po’ a dare un senso alle mie giornate. Ma sarebbe stato come tradire Alberto che da decenni è l’ombra dolce che accompagna ogni istante della mia vita. Qualche volta scorgo Nuccio che gioca in spiaggia, allegro,  abbronzato, con altri bambini. Oramai di Garibaldi sa tutto e non ha più bisogno di me. Ci lanciamo un saluto da lontano. Ortensia ogni tanto mi telefona. Spero che tutto si risolva presto: così Uccio tornerà a Udine con i suoi genitori.
                                                                                                                             
                                                                                                                    (Anonimo, Premio  Prato Raccontiamoci)
      
                                                                                                                *****

 

Racconti di vita

PICCOLOBLU

A volte, come nel caso del racconto che pubblichiamo oggi, non correggiamo neanche la lingua italiana laddove essa può essere formalmente meno perfetta: perché chi ci regala queste esperienze di vita ci mette spontaneamente a disposizione la sua vicenda di umanità senza altre pretese che quella di testimoniare con onestà, e questo è un merito pieno, che non ha bisogno neppure della perfezione espressiva della lingua italiana (a volte si tratta di persone che, semplicemente, non hanno potuto compiere un completo corso di studi perché la vita le ha portate per ben più stringenti sentieri da affrontare).  

Ci si potrà rimproverare il fatto che, con il racconto odierno, per la seconda volta ci soffermiamo su una piccola vicenda di legame fra una persona e un animaletto, e ciò può sembrare un attaccamento eccessivo a una sorta di causa animalista: ma non è così. Raccontiamo tutta la vita e tutte le vite che ci capita di incontrare, nelle loro piccole e grandi dimensioni, invitando noi stessi e tutti a considerarle così come ci vengono incontro, semplicemente, nei significati piccoli e grandi che possono rivestire, e in ogni insegnamento che se ne possa trarre.

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Spesso i ricordi ci riportano indietro negli anni e i frammenti di emozioni ronzano all’orecchio della mente come api nell’alveare, e la mente continua aleggiando nel mare del passato, a volte senza trovare la fondamentale risposta ai quesiti che pone.

Scrivo questo episodio, vissuto con tristezza nella mia giovane età, quando negli anni del dopoguerra la vita era dura, la gente per sopravvivere era pronta a qualsiasi sacrificio, le famiglie erano numerose ed in ogni casa c’era solo il necessario per vivere.

Nella via in cui la mia famiglia abitava, al lato opposto della mia casa sorgeva un vecchio palazzo antico, che apparteneva ad una grande famiglia benestante, aristocratica, antica: i Medici, che del vecchio palazzo non facevano nessun conto; ma la gente del paese lo usava per gettarvi i rifiuti, e spesso per qualcosa di più doloroso. Quando nelle loro case avevano degli animaletti, soprattutto cani e gatti, e questi davano alla luce cagnetti e gattini, questi per mancanza di cibo venivano buttati vivi, senza rimorso, lì nel palazzo, e il pianto di questi esserini giorno e notte mi tormentava il cuore; spesso andavo, li raccoglievo nel mio grembiulino, li portavo a casa chiedendo a mamma di dare loro il mio cibo per sfamarli, e così mi sentivo felice.

Vedendomi tanto sensibile, mia madre mi accontentava e tutto ciò durava due, tre giorni; ma quando il terzo o quarto giorno tornavo da scuola e subito andavo al cesto e lo trovavo vuoto, allora chiamavo la nonna e la mamma e domandavo: “Dove sono gli animaletti?”. Loro, in sintonia, mi rispondevano che dai paesini di montagna era scesa gente per vendere i suoi prodotti, gente che stava bene, padroni di mandrie e di tante cose da mangiare; e li avevano regalati a loro, con loro sarebbero stati bene, avendo cibo in abbondanza, e sarebbero cresciuti da gran signori. Io nella mia innocenza ero felice. E ancora oggi non so se tutto questo era vero: ma non sentendo il loro pianto cessavo di essere triste. Mamma faceva del suo meglio per me, diceva che ero il suo piccolo uccellino spennato: “Se viene una ventata di vento ti porta via...”. Ero esile e lei mi abbracciava fortemente al cuore e faceva quanto poteva per me.

Ma l’episodio che segnò la mia anima fu quando, a quattordici anni, mi regalarono un cagnolino dagli occhi blu, bianco come la neve, di una bellezza straordinaria, il cui epilogo si immortalò nella mente mia segnandovi una storia particolare che ha messo un punto fermo nella mia vita.

Sono sempre stata innamorata dei fiori, ma le circostanze della vita non davano quello che desideravamo;                                                                                      c’era un limite in tutte le cose. Nella mia famiglia eravamo cinque bambini e, quando il Natale arrivava, per ognuno di noi il regalo più bello era un vestitino; succedeva due volte l’anno, il Natale per l’inverno e Pasqua per l’estate; con i tempi che correvano, questo per noi era una grande cosa,  un privilegio, pensando ai bimbi che avevano poco o niente; ma la bellezza era che chi aveva divideva tutto: specialmente pane, scarpe e vestiti; nei piccoli paesi si era una grande famiglia, amandoci e rispettandoci a vicenda.

Così arrivò il fatidico giorno; mamma e papà ci portarono a Bovalino, un paese vicino al nostro; Bovalino era un paese commerciale con tantissimi negozi di ogni genere, e mentre camminavo i miei occhi si posarono su un fioraio: aveva fiori bellissimi e io ammiravo una pianta di bellezza spettacolare, una pianta colma di bianche gardenie; mi sembrò che tutta la neve del mondo fosse caduta su quei petali ed il profumo inondava l’aria: mi fermai, mamma mi chiamava ma io non mi muovevo, qualcosa dentro me cambiò, volevo la pianta. Lei disse: ”La pianta costa quanto la stoffa del vestitino, non si possono comprare tutte e due”; ma io dolcemente e con perseveranza la convinsi, e così ebbi la mia splendida pianta. La curavo ed ogni giorno diventava più bella, ricca nella corona delle sue gardenie, attraverso i vetri della mia finestra l’ammiravo e mi sentivo felice.  

Accadeva anche che ogni giorno da casa mia passava un dottore veterinario  con la moglie: erano amici di famiglia; a quei tempi i dottori erano gente importante e di grande rispetto, e  successe che la signora moglie s’innamorò della mia pianta e venendo a trovarci diceva che non aveva visto mai una così bella e viva pianta; io sentivo che la voleva a tutti i costi, e lei mi offriva quello che desideravo: ma io dissi sempre di no. “E’ la mia pianta e non la do a nessuno”. Mamma mi suggeriva di darla al dottore e alla signora, perché “sono gente che… abbiamo sempre bisogno di loro”. Ferma, io dicevo sempre di no. Ma un giorno dovetti cedere: e pagai a caro prezzo.

Il dottore si presentò con un grande cesto adorno di fiocchetti e nastri blu e dentro il bianco cagnolino, il mio Blu dagli occhi color del cielo. M’innamorai subito di lui, lo presi in braccio, e lui cominciò a leccarmi con il suo musetto rosa. E’ stato un amore a prima vista; più cresceva, più si attaccava a me ed io la lui, era il bene dell’anima mia ed io gli detti quel nome con amore: Blu.

Se ben ricordo, a quei tempi in ogni paese le macchine si contavano sulle dita delle mani, erano pochi i privilegiati ad averne una, e per mia fortuna un giorno al palazzo dei grandi signori c’era festa, parteciparono persone di paesi lontani, arrivati da ogni dove proprio in macchina, ed io in quel giorno andai in negozio per far delle compere, attraversando la strada da casa mia. Il negozio distava pochi metri e mi avviai credendo che il mio piccolo Blu non mi avesse visto andare, ma lui mi aveva seguito a distanza e mentre attraversava la strada una macchina lo investì, sfortunatamente, travolgendolo e ferendolo gravemente; e così ferito, per amor mio si trascinò fino al negozio dove ero. Arrivò ai miei piedi, mi si buttò sopra lamentandosi, guardai cos’era e il battito del mio cuore si fermò, le lacrime scorrevano come un temporale vedendo il mio Blu colmo di sangue; lo presi fra le braccia e me lo strinsi al cuore, piansi: lui mi guardò con quegli occhioni colmi di lacrime e con un lieve sospiro morì fra le mie braccia.

Tornai a casa con il mio fagottino; il suo sangue bagnò il mio viso, le braccia, il vestito; il mio cuore sanguinava dal dolore, e lì finì quel grande bene. In tutta la mia esistenza non ho avuto più il coraggio di prendere un altro animaletto. E’ rimasto lui solo, nella mia vita e per sempre: il mio piccolo Blu.

Così finì pure la mia bella e bianca gardenia: nella vita niente è nostro, bisogna godere quello che si ha al momento e stringerlo nelle mani e nel cuore; solo i ricordi sono nostri, non ce li fa dimenticare nessuno, sono una proprietà nostra assoluta: ed oggi mi rivedo una bimba che stringeva fra le sue braccia anche la sua pianta di gardenia con occhi sorridenti e la felicità nel cuore.

Questa storia l’ho scritta per ognuno che sia padrone di un animaletto, affinchè lo ami, lo accudisca e gli voglia bene: perché sono degli esserini che hanno bisogno di tanto affetto e di tanto amore, e li ricambiano.
                                                                                                             
                                                                                                               (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)

 
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MM
 
 

Storie di vita

PIPPO L'ARISTOGATTO

6 gennaio 1943, festa dell’Epifania. Per noi bambini era la festa della Befana, la simpatica vecchina che nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, a cavallo di una scopa e con una gerla sulla schiena portava regali a tutti i bambini. In quel lontano 1943 io vivevo l’attesa della Befana in modo insolito: questa volta svegliandomi non avrei trovato vicino al letto il babbo e non avrei condiviso con lui, come sempre avevo fatto, la gioia e lo stupore per i regali ricevuti. Questa volta egli non poteva essermi vicino: era lontano per la guerra.
 
Quel mattino, quando mi sono svegliata, ho trovato come ogni anno, appesa alla spalliera del letto, una calza piena di dolcetti e sul comodino una sagoma della befana fatta con della pasta dolce. Sul letto, al posto dei giocattoli, un cestino legato con un nastro azzurro e, appeso, un biglietto dove era scritto: Ecco Pippo, un amico per sempre. Incuriosita mi sono affrettata ad aprire il cestino e dentro c’era un piccolo gatto, un bastardino con un mantello peloso bicolore, sopra maculato come un soriano e sotto, pancia e zampette, bianche: sembrava un comune gattino e non sapevamo quanto sarebbe stato speciale.
 
In quel periodo passavo molto tempo da sola, mentre mia madre continuava a lavorare in una grande fabbrica laniera. Il tessile era la caratteristica di Prato, la nostra città. Producendo soprattutto tessuti e coperte per militari, le aziende laniere lavoravano ancora a pieno ritmo: tutto si sarebbe fermato più tardi, con l’arrivo dei bombardamenti. Anch’io conti[G1] nuavo ad andare a scuola: frequentavo la seconda elementare; ma anche la scuola a breve si sarebbe fermata. Il peggio, purtroppo, doveva arrivare.
 
Sentivo molto la mancanza di mio padre, particolarmente la sera, quando mia madre aveva il turno serale e sarebbe rientrata dal lavoro alle 22,30. Il pomeriggio passava presto: noi bambini andavamo sempre all’aperto per i nostri giochi di gruppo, eravamo liberi e indipendenti, forse anche troppo indipendenti. A volte avevamo l’impressione di essere orfani: gli adulti erano distratti e affaccendati in altro di più urgente. All’ora di cena però dovevo andare nella casa di mia zia Umiltà, la sorella maggiore di mio padre, la quale abitava vicino a noi. I miei zii avevano una famiglia numerosa, cinque figli, e l’ultimo era affetto da una pesante poliomielite che lo costringeva in una sgangherata carrozzella donatagli dall’Ospedale Palagi. La loro casa era piccola, la loro miseria era grande. Lo zio Tito faceva di mestiere il muratore e in quel periodo, causa la guerra, era quasi senza lavoro. Per la preoccupazione e l’umiliazione di non riuscire a sfamare i suoi figli, egli, che era un omone buono e dolce, aveva avuto un crollo fisico (era dimagrito di 30 chili) e psicologico. La sera, invece di mettersi al tavolo con noi per la cena, si metteva in disparte seduto su una sedia e con la testa fra le mani piangeva. L’atmosfera in casa degli zii era molto pesante, troppo diversa dalle serate passate con mio padre prima della partenza per la guerra.
 
Il babbo, che prima della guerra lavorava nell’azienda del gas, aveva un turno di lavoro unico, diurno, e all’ora di cena era sempre con me e quando mia madre aveva il turno serale lui mi organizzava delle serate speciali. Forse perché ero figlia unica o forse per una sua grande sensibilità al riguardo (aveva perduto la mamma da piccolo) faceva tutto il possibile per non farmi sentire la mancanza della mamma. Le nostre serate speciali erano di due tipi: quelle “musicali” e quelle “imitative”.
 
Per le serate dedicate alla musica lui toglieva dal suo piedistallo il grammofono, un oggetto bellissimo marcato “La Voce del Padrone”, e me lo piazzava sul grande tavolo centrale; e io fin da piccolissima avevo imparato ad usarlo. In piedi su una sedia sapevo cambiare i dischi, cambiare le puntine e girare la manovella per ricaricarlo.
 
Per le serate “imitative”, in cui volevo giocare alla “mamma”, chiedevo a mio padre di togliere dalla vetrinetta i servizi di porcellana, regali di nozze che mamma aveva ricevuto dai suoi compagni di lavoro e a cui teneva moltissimo: e lui con grande azzardo me li affidava per farmi giocare a fare la padrona di casa. Fortunatamente tutto è andato sempre a buon fine e prima che lei rientrasse dal lavoro rimettevamo le cose a posto. Tutto questo ora non c’era più a causa della guerra. Io ero sempre più triste e malinconica.
 
Un maestro di vita
 
Pippo, il gattino, cresceva in fretta e ben presto cominciammo a capire che aveva qualcosa di particolare. Non miagolava quasi mai: non gli piaceva quel mezzo di comunicazione, preferiva esprimersi con gli occhi, i quali diventavano sempre più attenti ed espressivi.
 
Oggetto particolare della sua attenzione ero io: non mi perdeva mai di vista. Più cresceva e più avevo la sensazione di avere vicino qualcosa di speciale. Facendomi coraggio chiesi a mia madre di non mandarmi più dagli zii per l’ora di cena: preferivo rimanere nella nostra casa in compagnia di Pippo. All’inizio la mamma era un po’ perplessa, poi capì questa mia necessità e trovando un aggiustamento (facendo venire le mie due cugine più grandi a “darmi un’occhiata”) acconsentì a questo mio desiderio.
 
Pippo era sempre con me, era come se mi avesse preso in affidamento e, particolarmente nelle sere in cui ero sola, non usciva mai di casa. In quel tempo lontano la vita era molto diversa da quella che siamo abituati a vivere oggi. Nei paesi come il mio le case erano tutte singole, con la porta d’ingresso a pian terreno e sempre aperta. I bambini e gli animali domestici vivevano molto all’aperto, nella strada o nei campi vicini. La scelta di Pippo, di non uscire di casa la sera, lo rendeva diverso dai suoi simili: lui era sempre diverso. Tutto quello che faceva o che non voleva fare era caratterizzato da una scelta precisa sempre pensata, consapevole. Dopo ogni sua azione mi guardava e con quegli occhi intelligenti sembrava volesse dirmi: “Osserva, rifletti, usa la testa”. Oltre a darmi lezioni di consapevolezza mi faceva apprezzare anche la diversità. La vicinanza del gatto mi tranquillizzava e rendeva meno acuta la mancanza di mio padre, anche se era tanta la voglia di rivederlo!
 
La storia comunque mi stava aiutando, dato che si avvicinava una data importantissima per noi italiani: l’8 settembre del 1943, firma dell’armistizio con gli angloamericani. Circa un mese e mezzo prima, il 25 luglio, era caduto Mussolini con il suo governo e il generale Badoglio aveva preso momentaneamente il controllo del paese. Molti ingenuamente pensavano che con la firma dell’armistizio la guerra sarebbe finita. I militari che erano sui fronti di guerra cercarono di tornare a casa. Anche mio padre, che in quei giorni difficili era ricoverato a San Gallo, nell’ospedale militare di Firenze, per curarsi una ferita ad un ginocchio, riuscì con una fuga rocambolesca a tornare a casa. Anche lui, come molti, pensava che il peggio fosse passato e non poteva immaginare cosa ci aspettava. Mussolini riuscì ben presto a ricostruire il partito fascista creando la Repubblica di Salò, i tedeschi che erano sul suolo italiano occuparono le nostre città e insieme cominciarono a dare la caccia ai soldati che avevano disertato la guerra. Mio padre dovette nascondersi nella casa del nonno, ritenuta più sicura avendo delle vie di fuga.
 
Mia madre, a causa dei bombardamenti e dei sabotaggi fatti dai tedeschi alle fabbriche laniere, perse il suo lavoro. Mio padre improvvisamente si trovò dodici bocche da sfamare: gli zii con i loro cinque figli, il nonno con la seconda moglie, più noi tre. Nessuno poteva far fronte a tutte le necessità: chi era troppo vecchio, chi era troppo giovane, chi era malato. E mio padre di notte, come un animale selvatico, mettendo ogni volta a rischio la sua vita, andava a piedi attraverso i campi, da una casa all’altra dei contadini, a volte fino alla zona pistoiese: comprava qualcosa da mangiare e qualcosa da rivendere per poter assicurare la nostra sussistenza. La mamma ed io ogni sera nel tardo pomeriggio ci incamminavamo verso la casa del nonno per portare la cena al babbo. Pippo, percependo che i tempi erano cambiati e che i rischi erano aumentati, estese la sua protezione anche all’esterno e ogni sera si univa a noi formando con noi uno strano trio: faceva questo da par suo, non ci seguiva ma ci precedeva e con le sue lunghe zampe e con il suo incedere elegante, la testa fieramente eretta, guardava in faccia i rari passanti come volendo dire: “Guai a chi me le tocca!”.
 
Questa storia è andata avanti per un anno intero. Finalmente è arrivato il 6 settembre 1944, giorno della liberazione di Prato dai nazifascisti. Era il momento di riprendersi la vita; le distruzioni erano tante e tutti cercavano di tornare alla normalità, anche se i tempi erano difficili: mancava lavoro, mancavano servizi, i generi alimentari scarseggiavano ed erano molto cari. Il babbo però fortunatamente era tornato a casa e ben presto aveva ripreso a lavorare nell’Azienda del gas.
 
Ma dopo un po’ di tempo, un mattino, mi sono svegliata e non ho più trovato Pippo. Disperata ho iniziato a cercarlo e in questa mia ricerca si è unito tutto il paese, sparpagliandosi anche nei campi vicini; lo abbiamo cercato in ogni anfratto, in ogni dove, ma di Pippo nessuna traccia: sembrava svanito nel nulla.
 
I cattivi ragazzi
 
Dopo qualche tempo dalla scomparsa di Pippo mio padre una sera mi diede una bellissima notizia: casualmente, andando al lavoro, in una pasticceria aveva ritrovato il nostro gatto. Pippo si trovava in una pasticceria del centro di Prato, la Pasticceria Lai, che aveva ripreso da poco la sua attività. Dopo la chiusura a causa della guerra, i proprietari riaprendo avevano trovato la cantina, dove tenevano la farina, completamente infestata dai topi e per questo avevano chiesto al garzone di bottega di procurare un gatto. Immediatamente abbiamo capito: il garzone in questione era un ragazzo che abitava di fronte alla nostra casa.
 
Questo ragazzo era il minore di due fratelli, due ragazzi strani, asociali: non frequentavano mai nessuno, stavano sempre fra loro. Il minore era affetto da un’agitazione motoria notevole, si arrampicava sugli alberi come uno scoiattolo, e nel cortiletto a fianco della loro abitazione, con i pattini ai piedi, faceva delle piroette altissime. Il maggiore, più cupo, con gli occhi bassi, camminava vicino ai muri e sembrava voler nascondersi agli occhi altrui. Da poco qualcuno lo aveva fermato, sparandogli con una mitragliatrice ad una gamba, che poi gli avevano tagliato fino all’inguine. Qualcuno diceva che gli avevano sparato perché aveva assaltato un treno che trasportava merci alimentari. Altri dicevano che era stata una vendetta perché era stato in combutta con i repubblichini. Forse era vera la seconda versione. Pochi giorni prima di questo incidente anche un altro giovane del paese, non ancora ventenne, ea stato ucciso, colpevole di essere entrato negli ultimi mesi di guerra fra i repubblichini. Nell’immediato dopoguerra,  per una strisciante guerra civile non dichiarata, si verificarono numerosi episodi di rancori e vendette.
 
In famiglia eravamo comunque intenti a preparare al meglio la cesta per il recupero del nostro gatto. E la domenica mattina mio padre ed io con le nostre biciclette andammo alla pasticceria Lai. Entrando all’interno vidi Pippo su un alto sgabello; stava dormendo. Mio padre si diresse al banco delle proprietarie, io mi avvicinai al gatto e lui svegliandosi mi  guardò e capì tutto. Velocemente si mise seduto con il busto eretto, esprimendo il massimo della regalità: sembrava un’autentica divinità egizia. Con gli occhi socchiusi, sornioni, cercava di mettermi in soggezione per dirmi qualcosa che di regale non aveva niente. Mi stava dicendo: “Ti prego, lasciami, non portarmi via, in questa toperia mi sto divertendo da matti!”.
 
Sconcertata sono rimasta ferma per un attimo, poi mi sono voltata verso il babbo dicendogli: “Andiamo via, Pippo rimane qui”. Mestamente, a mani vuote, siamo tornati a casa. Amareggiata, delusa, non capivo come a causa del rapimento il gatto fosse caduto in un mondo di ratti. Ero troppo bambina per capire che con il ritorno a casa di mio padre e il ricomporsi della nostra famiglia forse la missione dell’animaletto era terminata. In seguito, da grande, pensando a quei giorni difficili, cruciali, ho capito che la vita mi aveva fatto un grande regalo mettendomi vicino quell’essere speciale: un angelo col mantello peloso. Indimenticabile!
                                                                      
                                                                                                      (Autrice anonima, “Premio Prato Raccontiamoci”)
 
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Saper vivere

LA MORTE COME CRITERIO DELLA VITA

Un testo inconsueto, un tema inconsueto. Ma riteniamo, decisamente, che sia tempo che nella nostra società opulenta  e disorientata venga rimesso l’accento sul tema del significato totale della vita umana, da cui scuola, famiglia, sistemi educativi, scienza ufficiale, economia, pubblicità, sono di fatto assenti pressochè del tutto. Gravemente e colpevolmente. No, non sono riflessioni da confinare nella coscienza individuale di ogni cittadino, come generalmente si dice e si pensa. Sono riflessioni che devono essere fatte proprie anche dai contesti sociali e comunitari. La riflessione è di Carlo Molari.
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Dovremmo riflettere insieme sulla preparazione alla morte, su quale significato ha per una vita autentica il riferimento alla morte. Voglio farvi prima alcune premesse.
Prima premessa: la finalità pratica di questa riflessione. Questa riflessione non è tanto finalizzata a rispondere alla domanda “cos’è la morte” o “come dobbiamo vivere per prepararci alla morte”; ma a prendere coscienza della responsabilità che abbiamo del tempo. Nella prospettiva evolutiva la morte non è un evento accidentale, secondario, introdotto successivamente: non c’è stata mai una umanità perfetta e la morte è costituita dal nostro esistere come creature. Credo che oggi almeno tra noi non ci sono difficoltà a capire questo: noi siamo nati per morire.
Seconda premessa: la morte sarà come noi la prepariamo. Credo che sia pacifico anche che noi vivremo la morte come la stiamo preparando: se per esempio pensiamo che la morte sia la fine di tutto, noi la vedremo come tale e certamente essa segnerà l’esaurimento della nostra vita. Se noi la viviamo come un passaggio a una vita successiva, noi renderemo possibile il passaggio alla vita successiva, perché nel frattempo maturiamo le strutture che sono necessarie per la vita successiva. Per cui è importante che ci chiediamo: come sto vivendo la morte nelle sue anticipazioni e quindi come sto preparandomi a morire? Perché noi faremo della morte quello che abbiamo deciso. Nella prospettiva evolutiva questa è una conseguenza molto chiara: noi vivremo la morte che abbiamo preparato, corrispondente al contenuto introdotto nella nostra vita.
Terza premessa: il carattere temporale della nostra esistenza. Noi come creature siamo tempo e ciascuno ha il ritmo del tempo proprio, non c’è un tempo universale. Sulla natura del tempo si sta discutendo più intensamente da un secolo almeno ed esistono molte opinioni. Adesso non possiamo esaminare questo problema, però almeno una cosa deve essere pacifica: non esiste un tempo assoluto e ciascuno di noi ha il suo tempo. Noi pensiamo al tempo come a un ritmo comune a tutte le cose, che precede la stessa realtà; ci pensiamo inseriti nel tempo come in un grande contenitore che procede e si sviluppa a ritmo costante e identico per tutte le creature. Questa visione intuitiva e immediata è infondata: in sé questo tempo assoluto non esiste. In realtà noi siamo tempo come creature perché non possiamo accogliere il dono della vita in un istante, tutta completamente.
Il fisico Carlo Rovelli in un libro intitolato “La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose” (Cortina, Milano) ha un capitolo, il settimo, intitolato proprio così: “Il tempo non esiste”. Si riferisce alla visione assoluta del tempo e sostiene appunto che il tempo è il ritmo che è legato alle singole creature, al luogo dove sono, per cui per esempio essere in montagna od essere in pianura comporta il vivere a ritmi diversi, perché il tempo scorre diversamente. Sono differenze di miliardesimi di secondo, ma il concetto è fondamentale per capire la natura del tempo e quindi la nostra condizione di creature, e per vivere pienamente.
Noi di fatto in realtà rischiamo di vivere sempre il passato. Solo nell’ambito spirituale possiamo pervenire a un presente vissuto come presente. Voglio chiarire brevemente questo punto: sono cose note ma sulle quali non riflettiamo. Per esempio, la luce del sole che ci perviene adesso non è come è il sole in questo momento, ma come era otto minuti fa. Se in questo istante il sole scomparisse noi continueremmo ancora a vederlo per diversi minuti. Così le stelle o gli eventi straordinari che capitano nel cosmo, di cui i satelliti lanciati nello spazio stanno trasmettendo foto meravigliose, noi li vediamo non come sono in questo momento ma come erano milioni o miliardi di anni fa, secondo la loro distanza.
Ma anche all’interno della nostra vita interiore noi viviamo sempre leggermente sfasati, rispetto al presente, di qualche frazione di secondo, benchè abbiamo la convinzione che sia il nostro presente. Per esempio, quando sentiamo che si avvicina una zanzara in realtà la zanzara ci ha già punto. Noi non l’avvertiamo nello stesso istante perché lo stimolo ci mette un po’ di tempo ad arrivare al cervello, che deve elaborarlo, deve capire che si tratta di una zanzara, poi mettere in moto il muscolo del nostro braccio per colpire la zanzara, ma quando noi arriviamo la zanzara non c’è più. Siamo sempre un po’ sfasati rispetto al presente perché ci vuole sempre un po’ di tempo per trasmettere il messaggio, per elaborarlo e per agire.
Ho poi sottolineato più volte che la parte del cervello istintiva precede sempre la parte del cervello relativa alla consapevolezza, c’è una differenza di un mezzo secondo e quindi c’è già un piccolo spazio. Per cui dobbiamo renderci conto del fatto che noi siamo quasi sempre nel passato: anche se si presenta come presente in realtà siamo leggermente in ritardo.
Nell’ambito spirituale questo non avviene, nel senso che se Dio è, se la forza creatrice ci alimenta e noi viviamo consapevolmente questa condizione, noi determiniamo l’istante della nostra accoglienza dell’azione di Dio. Cioè se noi viviamo consapevolmente la nostra relazione con Dio, quello è l’istante in cui l’azione ci perviene, in cui l’azione di Dio ci arricchisce. Quello è il presente che noi determiniamo ed è realmente in quell’istante che il dono di Dio ci perviene.
In questo senso l’ambito spirituale può essere – se lo viviamo e se Dio è – l’unico momento presente reale. In questo senso credo che l’esperienza spirituale sia molto significativa per cogliere il presente che ci invade, la forza creatrice che qui, ora, ci è offerta.
Quarta premessa: modelli antropologici. Le riflessioni che sto per proporvi non sono cose definitive ma vogliono essere degli stimoli; non utilizzano il modello corpo-anima. Sapete che questa concezione dell’anima e del corpo che si combinano insieme (nell’antichità c’erano diversi modi di pensare questa combinazione) è fondamentalmente di origine greca e anche di altre culture orientali, è stata molto diffusa prima nel mondo mediterraneo e poi nel nostro mondo occidentale, e ha avuto un’influenza notevole  anche nella formulazione della dottrina cristiana così come si è sviluppata lungo i secoli. Ma di per sé non è un modello assoluto. Fra l’altro non corrisponde neppure al modello biblico più diffuso. Il mondo ebraico, semita in genere, aveva una concezione più unitaria della persona, anche se distingueva nella realtà umana diversi aspetti mediante tre termini fondamentali: basar, nefesh e ruah, tradotti in italiano come ”carne” (basar), “anima” (nefesh), “spirito” (ruah), in greco con “sarx” (basar), “psichè” (nefesh), “pneuma” (ruah) e in latino con “caro” (basar), “anima” ( nefesh) e “spiritus” (ruah). Schematizzando:
  • “Basar” indica l’uomo nella sua debolezza.  Quindi non è una parte dell’uomo, è una caratteristica della sua esistenza.
  • “Nefesh” indica l’uomo in quanto vivente. Il termine indicava di per sé il collo, da cui si capiva che la persona viveva perché il sangue scorreva (noi sentiamo il polso per capire se una persona vive o no). Nella traduzione greca dell’Antico Testamento (detta dei Settanta) nefesh veniva tradotto “psichè”, che corrisponde al latino “anima”. Il Nuovo Testamento ci è pervenuto in greco ma il riferimento per tradurlo esattamente deve rimanere il mondo semita, per cui psichè deve essere tradotto con “vita” anche se a volte traduciamo “anima” (per esempio “che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde l’anima?”: riferivano l’anima precisamente al dopo morte perché nella concezione greca l’anima era immortale – anzi, secondo alcuni (ad esempio Platone e molti suoi seguaci) l’anima già esisteva prima della sua venuta sulla terra - .
  • “Ruah” indicava il respiro fisico, il soffio, che pensavano essere introdotto da Dio nell’uomo. Infatti nella Genesi si dice che Dio insufflò lo spirito di vita nel corpo modellato con fango. Il respiro veniva considerato come il mezzo con cui Dio dona la vita. Noi non dobbiamo pensare come gli antichi: ho richiamato questa terminologia per far capire le formule tradizionali.
 
Nella prospettiva evolutiva non utilizziamo questo modello, non parliamo dell’anima e del corpo, ma del divenire della persona, che crescendo sviluppa una dimensione spirituale. Secondo la fede cristiana e molte altre religioni la dimensione spirituale è in funzione della vita successiva e rende capaci di attraversare la morte da vivi. Se c’è una vita successiva occorre sviluppare le strutture necessarie per esercitarla, perché altrimenti non siamo in grado di sopravvivere e la morte rappresenterebbe la fine del tentativo che la vita ha fatto per svilupparsi in noi.
 
Portiamo l’esempio molto semplice del feto nell’utero materno: sviluppa organi e strutture (come polmoni, occhi e orecchi) che in quel momento non servono. Se il feto ragionasse pensando: “A che mi servono adesso i polmoni?”, per cui decidesse di non sviluppare i polmoni, la sua nascita corrisponderebbe all’esaurirsi della possibilità di vivere; non avrebbe creato le strutture necessarie per vivere in un’altra dimensione, per respirare all’aria aperta. Analogamente, se noi non sviluppiamo ora le strutture spirituali ci rendiamo impossibile l’attraversare la morte da vivi, perché non abbiamo le strutture necessarie per una modalità diversa di esistenza.
 
La riflessione che intendiamo fare serve per educarci a sviluppare le dimensioni interiori necessarie per attraversare la morte, cioè per pervenire ad un’altra modalità di esistenza. Sono le stesse dinamiche che ci consentono di vivere in modo pieno la nostra condizione attuale, come il feto nell’utero materno vive in modo pieno la sua condizione di feto quando sviluppa gli organi che gli serviranno nella vita successiva.
 
Il primo punto relativo alla preparazione è il rendersi conto della nostra condizione di precarietà: tutto ciò che noi viviamo è provvisorio, non c’è nulla di assoluto e definitivo nelle nostre condizioni. Noi spesso ci illudiamo che ci siano delle situazioni definitive che resteranno così come sono – certe convinzioni, sensibilità, modi di vivere le relazioni… - ma non è così: tutto ciò che viviamo è provvisorio, precario, ed è funzionale a un compimento, perché stiamo “diventando”. Questa è la convinzione che dovremo maturare pian piano, perché noi crediamo prima di tutto di essere già e quindi non abbiamo la percezione del divenire reale.
 
Secondo: crediamo che quello che siamo lo siamo per sempre, mentre in realtà la nostra condizione cambia continuamente: il nostro modo di pensare, il nostro modo di vivere i rapporti, il nostro modo di affrontare le situazioni cambiano continuamente; ma cambiano per un processo che viviamo realmente, per cui noi diventiamo; il nostro cervello cambia fisicamente, il nostro modo di rapportarci è realmente diverso da quello precedente, anche se non ne abbiamo sempre la consapevolezza. Il gesuita Padre Koyne diceva che siamo gli esseri più riciclati della terra o forse dell’universo perché gli elementi che ci costituiscono cambiano continuamente. Ogni organo si rinnova in poco tempo. E’ l’esperienza anticipatrice della morte.
 
Il cambiamento deve essere vissuto consapevolmente e per viverlo in modo consapevole dobbiamo avere dei criteri solidi. Essi ci sono indicati dalla morte che è il traguardo del nostro processo storico. Sono le condizioni richieste per attraversare la morte da vivi, in modo cioè che essa costituisca il passaggio vero l’altra modalità di esistenza. Sono i criteri per vivere pienamente tutte le situazioni, cioè per essere pieni di vita in ogni istante.
 
E’ questa la ragione per cui riflettiamo sulla morte come passaggio: proprio per essere in ogni istante pieni di vita. E’ una pienezza relativa, ma reale. Un bambino piccolo è pieno di vita quando è amato. E lo si vede quando gode la vita: non può parlare ancora, non può capire quello che avviene, ma per quanto è in grado di vivere è pieno. In questo senso quindi, almeno nella prospettiva della fede, anche un bambino piccolo che muore è in grado di continuare la vita nell’altra modalità perchè quello che è richiesto è essere pieni di vita. Questa è la condizione fondamentale. Ci sono carenze e ci sono possibilità di recuperi, però importante è vivere pienamente, intensamente. Questo ci consente di attraversare la morte. Vediamoli allora brevemente, i cinque criteri che la morte ci indica proprio per vivere intensamente, cioè per essere pieni di vita.
 
Il primo è il criterio della identità. La morte ci chiederà: “Chi sei? Chi sei diventato?”. Noi diventiamo giorno per giorno. La domanda fondamentale della fine della vita non è “che cosa hai fatto?” perché quello che noi facciamo sulla terra è sempre precario, è sempre funzionale: poi scompare tutto, non resta nulla di ciò che abbiamo fatto. Tra cinque miliardi di anni o anche meno il sole nel suo momento di espansione finale, nel rantolo della sua vita, assorbirà la terra e tutto quello che è sulla terra che gli uomini hanno costruito – anche la Grande Muraglia, anche i grattacieli – tutto diventerà polvere, tutto si ridurrà nella grande fornace agli elementi primordiali, per cui tutto riprenderà. Non sappiamo come, ma in ogni caso non resterà nulla di ciò che abbiamo fatto. La domanda è quindi “chi sei diventato?”, perché se c’è una possibilità della vita futura è per quello che noi diventiamo, cioè se sviluppiamo una dimensione spirituale; se esiste un’altra dimensione è quella che dobbiamo raggiungere.
 
Allora la domanda fondamentale è “chi sei diventato?”; attraverso quello che hai fatto, che hai pensato, che hai desiderato, chi sei diventato? Occorre pensare che possiamo anche fare le cose migliori ma non diventare. Per esempio se noi operiamo per apparire agli altri, per acquistare fama, per guadagnare o raggiungere potere, anche facendo il bene non diventiamo buoni. Abbiamo raggiunto un traguardo, abbiamo acquistato fama, denaro, potere, abbiamo forse illusoriamente anche pensato di aver raggiunto dei livelli elevati, ma poi scopriamo che tutto è insensato, che tutto è vano, tutto scompare. Se non siamo diventati viventi attraverso ciò che abbiamo compiuto tutto è vano, perché solo la dimensione del divenire ci consente di attendere una modalità nuova di esistenza.
 
Dovremmo costantemente tenere presente il criterio del divenire. Non interrogarci su “che risonanza ha avuto quello che ho fatto? Che successo ho ottenuto?”, ma su “chi sono diventato? Quali dinamiche di vita ho esercitato?”. Noi potremmo vivere anche tutti i fallimenti della nostra vita in modo sereno e pieno, cioè dire “ho fallito in questo ma sono diventato”. Se per esempio esprimiamo amore verso coloro che ci fanno del male, esprimiamo misericordia, doniamo vita, noi siamo diventati anche se non c’è stato successo. Questo è un modo per relativizzare i successi ma anche per vivere in modo positivo gli insuccessi.
 
Capire però che quello che è fondamentale è precisamente la modalità con cui viviamo tutto, il lavoro quotidiano, gli incontri, la sofferenza, la malattia, l’emarginazione, i successi: tutto possiamo vivere in modo da diventare e quindi da sviluppare la dimensione interiore, perché questa è la ragione fondamentale per cui possiamo rispondere alla domanda “chi sei?”. Gesù parlava del “nome scritto nei cieli” (Lc 10,20): “Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”. Il nome è la realtà che noi costruiamo giorno dopo giorno. Ricordate sempre che non c’è un’identità già precostituita: noi diventiamo.
 
Nella tradizione cristiana esiste la pratica della riconciliazione che è il recupero del passato non vissuto o rifiutato. Possiamo diventare anche attraverso la memoria, sviluppare ora doni trascurati, o anche accogliere ora doni di vita rifiutati nel passato. Anche attraverso la memoria possiamo realmente diventare, perché l’azione creatrice di Dio contiene ancora i dati offerti e trascurati in altri tempi. Noi possiamo oggi fare memoria in modo da accogliere quella forza di vita che nel passato non abbiamo accolto. Anche gli aspetti negativi del passato quindi possono diventare oggetto di memoria positiva e farci crescere come persone. Dovremmo dunque ogni giorno interrogarci su “chi sono diventato oggi?”, cioè “quale sviluppo ulteriore ho avuto?”. Se ci interroghiamo semplicemente su “cosa ho fatto?” e non investighiamo sulle dinamiche vissute non siamo in grado di rispondere in modo adeguato sulla nostra condizione e sul valore della nostra attività. Possiamo fare un elenco delle esperienze compiute, dei successi o degli insuccessi, e così via, ma non tocchiamo il punto fondamentale, che è il nostro divenire reale.
 
Il secondo criterio che la morte ci indica è il distacco. La morte ci chiederà di non portare nulla con noi, nulla. Come sappiamo, nella storia ci sono stati tanti momenti illusori, per esempio i faraoni che riempivano le tombe di gioielli e di cibo, che sono diventati tesori per i musei e gli archeologi. In ogni caso il distacco necessario per morire è assoluto, non possiamo portare neppure il corpo che ci è servito.
 
La morte indica un criterio fondamentale per la vita, proprio perché se noi ci attacchiamo a qualcosa come assoluto, cioè diciamo “questo è essenziale per me, non può essere altrimenti”, di fatto cadiamo nell’idolatria e non viviamo secondo la realtà, dato che tutto è provvisorio e quindi dobbiamo viverlo come tale. Non dobbiamo rifiutarlo ma accoglierlo come provvisorio. Dobbiamo distinguere chiaramente tra la provvisorietà e la necessità: anche le cose necessarie sono provvisorie. Certo, noi dobbiamo respirare o mangiare, non possiamo farne a meno, ma tutti gli elementi che utilizziamo mangiando o respirando sono in sestessi precari, provvisori, insufficienti e dobbiamo viverli distaccandoci nello stesso momento in cui li accogliamo. Anche i rapporti: occorre sempre vivere i rapporti in modo dai introdurre la consapevolezza della provvisorietà. Sono necessari i rapporti, noi possiamo costituire dei doni necessari per gli altri, ma occorre viverli con distacco perché la vita fluisca e non venga bloccata. Allora vivere già distaccati è la condizione per vivere intensamente ogni situazione. E’ importante la componente del distacco, per non aggrapparsi a nulla come assoluto. Nella vita spirituale questo è tradotto con “solo Dio basta”, ma è un traguardo che solo nella morte saremo in grado di vivere.
 
Tutto questo noi lo viviamo sempre in un modo limitato, ma la morte ci chiederà di viverlo in modo così assoluto e radicale da non esserci compromessi. Cioè non possiamo dire “però almeno questo me lo porto con me”, “almeno il mio corpo mi serve, degli occhi ho bisogno…”. No, niente.
Quindi in questo senso noi impariamo a morire quando riusciamo a vivere tutte le situazioni pienamente ma distaccati. Questo è il punto: pienamente ma distaccati.
 
Il terzo criterio è il criterio della interiorizzazione delle persone o anche delle cose nei rapporti. Interiorizzare, cioè vivere le relazioni sapendo che ci costruiscono e quindi che sono per noi fondamentali perché ci arricchiscono, cioè diventano una dimensione interiore. Invece noi spesso viviamo le relazioni con le cose o con le persone con dinamiche possessive, cioè per costringerle a stare accanto a noi, per poterle utilizzare, non per farci diventare. La componente del divenire può sembrare espressione di egoismo ma in realtà è la legge della vita: noi diventiamo per le offerte che riceviamo continuamente. Però dobbiamo essere in grado di riconoscere che non è la persona o la cosa da possedere, ma è il dono che ci viene vivendo le relazioni. Non è la realtà in sè che ci è necessaria, è la ricchezza di vita che ci perviene attraverso il rapporto che viviamo. La fonte è Dio: questo è l’orizzonte teologale per vivere le relazioni. E’ una componente fondamentale della vita spirituale, e quella che sto sviluppando è appunto una riflessione di tipo spirituale.
 
Quindi il criterio della interiorizzazione mette in luce questo doppio dinamismo con cui dobbiamo avere rapporto con le cose e con le persone, cioè l’accoglienza interiorizzante, che lascia la libertà e che consente la partenza o il distacco. Dobbiamo però accogliere il dono, assumerlo, interiorizzarlo. Se invece noi viviamo i rapporti come se fossero indifferenti per noi (“sì, questo momento è importante, ma poi non mi interessa”), non interiorizziamo nessuna realtà e nessuna persona. Pensate il bambino piccolo: finchè non ha interiorizzato il padre, la madre, la nonna, il giocattolo, finchè non ce l’ha dentro non riesce a richiamarne l’immagine, per cui quando si trova solo piange, grida, ha bisogno di vicinanza. Non può fare altrimenti, ma man mano che sviluppa la presenza e porta dentro le persone è in grado di richiamare l’immagine, di richiamare la figura che ha interiorizzato; è in grado quindi di vivere poi le situazioni perché dice “fra poco vedrò mia madre, mio padre…”. Ma finchè non è in grado di richiamare le immagini interiori non è in grado di vivere situazioni provvisorie di assenza, perché non ha ancora la possibilità del richiamo.
 
Noi dobbiamo pervenire alla morte pieni di presenze, pieni anche di cose, perché abbiamo vissuto rapporti, perché abbiamo ricevuto doni; ma senza la possibilità di portare nessuno con noi. Possiamo anche vivere le situazioni di morte accanto agli altri proprio per completare il dono e per riempirci di presenze. Per questo la morte in casa, in famiglia, con le persone care vicine, ha un particolare significato proprio per la ricchezza dello scambio di doni, ma non per la pretesa di portarci qualcuno con noi. E’ la tentazione di coinvolgere gli altri e di morire insieme. Pensate poi le forme patologiche, anche di vita religiosa. Qualche decennio fa ci sono stati fenomeni di morti collettive, per esempio l’episodio della Guyana francese. In realtà dobbiamo essere in grado di morire pieni di presenze ma senza portarci nessuno con noi: la morte è un evento di compimento  personale.
 
Il quarto criterio fondamentale è il criterio della oblatività, perché la morte ci chiederà non solo di distaccarci ma anche di donare, di consegnare tutto agli altri: tutto torna nel ciclo cosmico e storico, anche la nostra esperienza interiore, anche la nostra cultura, nella misura in cui siamo in grado di donarli. Questo è un criterio fondamentale per la vita, perché la vita nostra si sviluppa proprio secondo la capacità di dono che siamo in grado di realizzare. Realmente si può dire che noi diventiamo il dono che facciamo: non siamo noi la fonte del dono, ma il passaggio del dono ci fa diventare viventi. Non dobbiamo neppure considerarci il principio del dono che consegniamo. Se lo offriamo con attese di ricompense, o con ricatti impliciti, inquiniamo il dono.
 
Questo Gesù l’ha espresso in ordine al dono nella preghiera che ci ha insegnato, ma questo vale per tutti gli aspetti della vita: “Perdona a noi come noi perdoniamo”, “rendici viventi come noi diventiamo donatori di vita”. C’è sempre questa circolarità: noi accogliamo quel tanto che siamo disposti a donare. Noi doniamo quel tanto che siamo in grado di accogliere. C’è una piena corrispondenza. In ogni relazione, anche nella vita matrimoniale, il dono può crescere man mano che procediamo, proprio perché diventiamo accoglienti donando e siamo in grado di offrire in una misura più profonda accogliendo. Siamo snodi nella rete profonda della vita.
 
La morte ci chiederà di essere capaci di donare tutto. Non è sufficiente il distacco, perché può essere un distacco di indifferenza (“io vivo distaccandomi da tutto, non mi interessa niente”), mentre deve essere un distacco di donazione piena: siamo chiamati ad offrire tutto quello che ci costituisce. Ci sono stati alcuni artigiani del passato che hanno conservato dei segreti del loro mestiere e questi sono stati perduti per sempre e per tutti. Noi riusciamo a vivere pienamente solo quando siamo trasparenti al dono, quando la vita non trova ostacoli nell’offrirsi in noi. Educarci alla morte significa imparare la trasparenza piena e definitiva.
 
L’ultimo criterio, che riassume e rende efficaci tutti gli altri, è il criterio della fiducia: per vivere la morte pienamente dobbiamo abbandonarci senza riserve alla vita, cioè esercitare una fiducia tale da saperla perdere. Nella sua forma radicale la fiducia nella vita la si può esercitare solo nella morte che è il momento in cui la perdiamo: perché èl’atteggiamento che ci consente di accogliere il dono nella sua pienezza. La morte deve essere l’esercizio di una fiducia senza limiti, solo in quel momento possiamo dire in piena verità “io non so, ma mi affido”. E’ in certo senso lo stesso atteggiamento del feto quando nasce: non sa nulla di quello che diventerà ma si affida, è stato educato dall’amore che l’ha condotto a quel punto e si lascia condurre dall’istinto sapendo che può fidarsi senza riserve. E’ un atteggiamento indotto dall’amore che l’ha fatto crescere giorno dopo giorno, per cui è capace di abbandonarsi all’avventura e al trauma della nascita proprio perché ha già sperimentato il significato dell’amore. Ma nella morte ci è chiesto di vivere consapevolmente – o finchè abbiamo consapevolezza – l’abbandono fiducioso: “Io non so, Tu sai, mi affido”.
 
E’ la stessa fiducia che ci consente di vivere tutte le situazioni quotidiane, perché quelli esaminati sono criteri non solo per morire in modo umano ma sono anche criteri per vivere pienamente. Il dato della fiducia è fondamentale, proprio perché ogni resistenza che noi poniamo alla vita diventa un impedimento ad accoglierla, ogni sfiducia, ogni timore, ogni paura blocca l’accoglienza della vita.
In questo senso quindi occorre imparare a fidarsi senza riserve. Certo che a questo punto la fiducia non è la fiducia nelle singole creature come tali – perché attraverso il cammino abbiamo scoperto la provvisorietà di tutto – ma è la fiducia in Dio, cioè nella Pienezza della perfezione e della vita, che conosciamo solo per lontane approssimazioni. Per cui fidarsi della vita vuol dire fidarsi dell’amore che ci ha investito, che ci ha alimentato, fidarsi così dell’azione di Dio in noi, da essere in grado di perdere tutto per giungere ad una modalità nuova di vita.
 
Io credo che comprendiamo ora perché imparare a morire è il compito di tutta la nostra vita. Di fatto quando abbiamo imparato a morire, quel giorno abbiamo imparato a vivere in pienezza.
 

                                                                                                                                             (Carlo Molari)
 

 [G1]On
 

Lavoro

COMMIATO

“Cose ormai antiche…ricordi ormai andati…”, direte. Mah!... è la vita (in questo caso la mia), rispondo.

In realtà ripenso spesso a quell’ultimo anno della mia esperienza istituzionale di lavoro in cui mi dissi: “Beh, sei finalmente arrivato, Giuseppe: sei arrivato al momento della tua pensione. Hai messo al sicuro, se Dio vuole, la tua anzianità dopo una vita francamente densissima di impegno, e ora diventi libero: non smetti di lavorare, ma lavorerai da persona libera. Goditi la conquista tanto agognata di tutta la tua vita e però non dimenticare mai nulla di quanto hai vissuto, e comunque ora, nel momento in cui formalmente ti congedi dai tuoi colleghi di ambiente lavorativo condiviso negli ultimi anni, non limitarti a un saluto burocratico e festoso come se il centro della faccenda fosse tutto intorno al brindisi scambiato per il congedo. Testimonia piuttosto loro quello che hai nel cuore in questo momento e che ti piacerebbe suggerire loro per il bene anche della loro vita”.

Così ho fatto. Così scrissi, quel mese di… ma che anno era? Forse già un decennio è trascorso, mamma mia! Lo scrissi e lo consegnai a tutti loro, quel mio saluto e quel mio pensiero, con affetto e attenzione personalizzata per ciascuno. Dopotutto, in quel momento ero ancora un loro dirigente: ed era anche, forse, doppiamente doveroso, da parte mia, un gesto simile. Ma era soprattutto una conferma di amicizia che vuole durare anche fuori dell’ambiente di lavoro, come è giusto che sia tutte le volte che ci è possibile.
 
 
°°°°°
 
 
 
 
A tutti i colleghi ed amici del Sistema Enasco

 
Cari amici,
 
ho compiuto, non molti giorni orsono, gli ultimi atti formali di commiato dal nostro (affettivamente lo sento ancora così) sistema e dalle ultime responsabilità che in esso ricoprivo. Mi resta appena, ancora per un certo tempo tecnico, l’utilizzo del vecchio indirizzo istituzionale di posta elettronica: anch’esso mi richiama, piccolo segno, i molti anni di vita intensa trascorsi con voi.
 
Ma come potrei pensare di concludere effettivamente la mia presenza istituzionale fra voi, senza salutarvi?  E vorrete scusarmi se, trattandosi del saluto conclusivo, lo troverete un po’ lungo: d’altronde… non ce ne saranno altri!
 
Con il 1° maggio del 2013 si è dunque conclusa sostanzialmente, grazie a Dio in piena serenità personale, la mia lunga attività di lavoratore dipendente, di dirigente e poi di collaboratore del nostro sistema. 
 
Dico “grazie a Dio” non perché abbia desiderato di allontanarmi dai colleghi con i quali ho speso tanti anni della mia vita lavorativa, ma semplicemente perchè la quiescenza ha sempre rappresentato per me un grande traguardo di vita, perseguito per tanto tempo come meta di libertà e di serenità e non come obiettivo di disimpegno o di disinteresse.
 
La libertà è un bene immenso per chi lo sa assaporare come conquista di tanti anni di lavoro intenso, reso solido dalla propria onestà e non da una famiglia potente di appartenenza o da un clientelismo servile, che ti rendono facile e scontato il cammino e, a volte, veloce la carriera.
 
Nella vita ho provato la fatica della povertà delle origini, quella del cercare lavoro contando soltanto su me stesso, quella del timore di perderlo, quella del doverlo cambiare contro la mia volontà, quella della estorsione delle mie dimissioni (non riguarda l’Enasco!), quella della famiglia lontana per inseguire il lavoro… un po’ tutto ciò che può provare un uomo che deve affrontare la vita senza padrini e senza padroni.
 
Oggi, potendo dire Ce l’ho fatta, sento di essere stato molto fortunato e nello stesso tempo piuttosto coraggioso.
Sento di avere meritato tutto ma anche di essere stato aiutato tanto.
Sento di dover ringraziare la Provvidenza di Dio e me stesso, ma anche tanti colleghi, tanti amici e, semplicemente, tante persone positive.
Che mai dimentico.
 
Ora mi sembra giusto lasciare serenamente ogni mio ruolo di struttura, in quanto:
 
  • è giusto che ciascuno di noi, giunto all’età matura, declini gradualmente, come ho fatto in questi anni, lasciando a chi viene dopo di lui il tempo e il modo di subentrargli con corretta gradualità per il bene della comunità lavorativa; ho potuto seguire questo metodo quasi sempre, nella mia vita, e ne sono particolarmente contento;
  • ho molto ricevuto e ho dato tutto quel che potevo; e sono consapevole che viene inesorabilmente anche per me, come per ciascuno di noi, un tempo nel quale il nostro pensiero e le nostre modalità di lavoro tendono a irrigidirsi, a essere meno adeguate, per quanto impieghiamo tutta la nostra buona volontà e la nostra buona fede. 
 
Ho curato, in questi anni di ruolo istituzionale e poi in questi mesi di collaborazione, la puntuale trasmissione delle mie capacità ed esperienze a chi mi è stato vicino, in quanto non ho mai ritenuto giusto tenere per me le cose che la società mi ha insegnato.
 
In effetti penso che le collaborazioni, specialmente dopo la quiescenza, debbano servire, più ancora dei ruoli istituzionali, soprattutto a trasmettere esperienza e sapere a chi resta, per arricchire la comunità lavorativa e il paese di tutto ciò che si è imparato. E a non sprecare nulla di quanto il paese possiede di capacità lavorativa.  
 
Del resto, ove ciò dovesse ancora occorrere in futuro, personalmente sarò sempre disponibile a farlo di nuovo. Ma continuerò soprattutto a sentire con voi, e con questo nostro ambito “aziendale”, l’amicizia che resta, come di chi ha fatto un lungo tratto di strada insieme e non si è trovato male. 
 
Penso in effetti che mai lo sciogliersi del rapporto di lavoro debba significare il declino dei rapporti umani, anche se meno frequentemente ci si vede. Personalmente non ho mai perduto i contatti con le persone positive con le quali sono stato legato nei diversi ambienti attraversati lungo la mia vita lavorativa: tutti hanno arricchito me ed i luoghi dove sono stato successivamente; in definitiva, hanno arricchito la società, l’unica nostra azienda vera. 
 
Di quanto ho la coscienza di aver fatto bene sono ragionevolmente orgoglioso, di quanto sono stato insufficiente mi scuso sinceramente con tutti. Non è tuttavia mai mancata la buona fede.
 

Messaggi?
 
Innanzitutto le regole. Mi dispiace di non essere sempre riuscito a spiegare questo principio. Regola si scrive con la R maiuscola, come la scrisse San Benedetto e come la scrissero tutti i grandi fondatori. Nella società nulla vive senza regole e queste sole sono la protezione dei deboli e degli onesti, la garanzia della giustizia, la razionalità e trasparenza delle risorse che si spendono, e tanto altro. Non c’è rispetto reciproco che non passi attraverso le regole.  “Le regole vanno osservate”, ci ha ricordato recentemente anche Nelson Mandela. Semplicemente.
 
Le regole non sono burocrazia ma uguaglianza di dignità fra persone. A patto che siano poche e semplici, e vincolino tutti senza eccezione alcuna, dalla base al vertice. Anche nel prendere il caffè e nel timbrare il cartellino. Ho visto in materia delle eccezioni: no, ragazzi: è una malattia grave, questa delle eccezioni. Finiscono in malesempio, corruzione, prevaricazione, differenze di razza e di casta. Distruggono i principi e i valori. Distruggono la solidarietà. Rendono più difficile capire il prossimo. Se una eccezione è motivata essa deve diventare una regola per i casi analoghi. Solo così c’è onestà e trasparenza che consentono di migliorare le cose. E di fare comunità.
 
Della buona fede non deve importarci molto, di per sè: l’azienda non è un problema di buona fede ma di efficienza. In buona fede si possono commettere le ingiustizie e gli errori più gravi. “Di buona fede è lastricata la via dei fallimenti”, come ho detto in qualche occasione passata.
Come di progetti è lastricata la via della provvisorietà.
Non sto dicendo che la buona fede non è essenziale: essa è essenzialissima, ma è valore distinto, presupposto in tutte le cose della vita. E non deve servire da stabile scusante per le inefficienze o per le mancate trasparenze.
 
L’Organizzazione è scienza grande e difficilissima, non ha a che vedere con la tronfia saccenza dei decisionisti, né in mala fede né in buona fede, né dell’alta gerarchia né di quella bassa.
 
L’organizzazione non ha a che vedere neanche con gli improvvisatori.
Non ha a che vedere con i cultori di slogans alla moda, neanche se imparati nelle eleganti scuole manageriali. Tanto meno se detti in inglese.
Né ha a che vedere con gli esibitori di brillanti masters postlaurea.
 
Ha invece a che vedere con chi mantiene orizzonti larghi e profondi, dialogo con tutti, e un cuore onesto.
L’organizzazione che funziona ha a che vedere con la garanzia che tutti abbiano le stesse opportunità di crescita, di incontro con il capo, di riconoscimento del proprio lavoro.
 
Ha a che vedere con la scoperta, la coltivazione e lo sfruttamento, a vantaggio di tutti,  di tutti i talenti (spesso i talenti migliori sono quelli non utilizzati o non riconosciuti).
 
Ha a che vedere con la serenità di lavoro di padri e madri di famiglia che non possono permettersi il lusso (né lo vogliono) di giocare a essere belli o brillanti fra i colleghi ma semplicemente sono seri, onesti, affidabili, positivi.
 
Ha a che vedere, come ho accennato, con una legge che sia uguale per tutti, e su tutto: anche in materia di criteri per i premi, di cartellini da timbrare, di permessi per taxi, di orari…
 
E a proposito di orari, se potete, vi invito caldamente ad acquisire un intelligente sistema aperto al telelavoro: è il futuro della qualità della vita di lavoro. E anche della razionalità organizzativa dell’azienda. Che esige serietà grande da entrambe le parti.
 
Ci ho provato anch’io, a istituire il telelavoro, anni fa: non potè nascere per eccesso di rigidità dei casi specifici.
 
Ma ora il clima è più adatto, anche perché da diversi anni sono maturate molte esperienze esterne, contrattualmente ben regolate ed equilibrate, dalle quali si può imparare molto di utile.
 
L’organizzazione che funziona non ha a che vedere con la meritocrazia, parola troppo alla moda che rischia quasi sempre di contenere, e di nascondere senza volerlo, arbitrarietà del tutto personali di valutazione; bensì con l’onestà laboriosa.
 
Cosa è infatti la meritocrazia? Chi giudica il merito? E quali sono i criteri adeguati? Quanti fallimenti, quanti piccoli e grandi furti di lavoro altrui, trasformati abusivamente in “merito”…
 
Secondo messaggio: la formazione. Quella veloce fa male, quella continua fa bene.
Quella brillante fa male, quella profonda fa bene. Quella solo tecnica fa male, quella tecnica e umana fa bene.
 
Non ci si forma a essere grandi professionisti ma grandi persone: dal che deriva l’essere anche grandi professionisti. Il viceversa non è. C’è in giro troppa formazione tecnica e troppo poca formazione umana.
Ci sono in giro troppi professori e pochi maestri di vita. Diminuite i primi e cercate di più i secondi.
 
La formazione non corre, ma non si ferma mai: e incide in profondità.
 

La formazione non segue i masters postuniversitari o le specializzazioni all’estero o gli Stages negli States e non parla in lingua inglese e non rilascia attestati e non costa tanti soldi e non ha bisogno di consulenti famosi.
 
Piuttosto, ogni anno ognuno deve andare a fare un mese o almeno una settimana di servizio effettivo presso un’altra realtà e con un ruolo diverso e di diverso grado da quello che svolge abitualmente. Un’altra realtà che può essere Enasco ma anche del tutto diversa: un dirigente può andare utilmente a fare l’operatore di centralino, un quadro può utilmente fare per un mese il garzone di officina meccanica, un caposervizio farà bene a provare a fare il banconista al bar.
 
Il mio grande maestro di vita Vincenzo Saba, che è stato uno dei maggiori intellettuali italiani della cultura lavorista del dopoguerra, in tarda età è andato per sei mesi a fare la piccola accoglienza quotidiana ai lavoratori in difficoltà, in pratico anonimato.
 
Il mio grande maestro di vita Ulderico Romani, che è stato per anni una delle più grandi personalità culturali occidentali nel mondo universitario giapponese, ha voluto, a conclusione della sua carriera, fare l’umile viceparroco avendo come capo un suo antico allievo e mio compagno di corso; e venivano ancora a chiedergli consiglio i ministri del governo giapponese... 
 
Chi non integra la formazione di aula con queste esperienze non può costruire formazione vera. E non può capire neppure i libri che legge o studia. Non può andare in profondità.
 
Non stupisce che un direttore funzionale o un capoarea faccia per una settimana il centralinista. Stupisce che non senta il dovere di chiederlo.
 

Ma suggerisco innanzitutto a me stesso di riprendere a farlo. In passato l’ho fatto, in ambienti diversi, e altri lo hanno fatto con me, ed è stata la formazione più bella.
Suggerisco a tutti i presidenti ed a tutti i direttori del mondo di farlo.
  
La terza regola è lo scambio mentale, psicologico e morale, dei ruoli. Continuo. Guai a chi non ha qualcuno a cui rendere conto di quello che fa e di come si comporta. Quando ero in seminario questo metodo era la regola, dall’ultimo novizio al primo superiore. I ruoli si intercambiavano, a volte, addirittura per sorteggio. Non è un caso che simili organizzazioni siano le più longeve e le più produttive di uomini grandi.

Se accade la disgrazia di non avere qualcuno cui rendere conto anche morale del proprio operato, si diventa, anche in buona fede, ciechi e sordi al prossimo: la peggiore delle fini che si possa fare. La vita più inutile. Anzi, più dannosa per tutti: perché si riempirà la propria strada di vittime: vittime di piccole e grandi ingiustizie  che non si sarà nemmeno in grado di riconoscere.

Quarto messaggio: la comunicazione. Non è scoop, la comunicazione. Non è scenografia. Non è manipolazione suggestiva. E neanche brillantezza. Né battute studiate o facili. E’ cuore che parla, ricerca di verità che si vede, senso del limite e dell’onestà che si dichiara: si condivide. Non è estetica ma amore. Abbiate una sana diffidenza dei puri esteti della comunicazione, pur volendo bene anche a loro. 

 La stessa diffidenza che dovete avere per la lingua inglese, pur studiandola. Diffidenza dei modelli culturali che essa veicola in modo nascosto, soprattutto. In economia e managerialità, soprattutto. E che avvelenano l’anima e intorpidiscono il cervello. E che sono uno dei tumori del mondo attuale.
 
La comunicazione non è finzione che gonfia nè manipolazione che insinua: ma offerta di opportunità e finestre sul mondo.
 
E’ semplicità e verità. Crea libertà, non la incatena.
 
Non induce bisogni ma risponde a bisogni e una volta che li ha soddisfatti lavora per migliorare la qualità della vita.
 
E’ un’impresa che non finisce mai.
 
La nostra vera azienda non è l’Enasco, né la Confcommercio, ma il nostro paese. Che attraverso Enasco o Confcommercio ci paga, ci dà dignità e futuro.
E la missione del paese è un mondo un po’ migliore per tutti.
 
Non ci vuole, nel lavoro e nella vita, un grande cervello con un po’ di cuore dentro, ma il contrario: un grande cuore con un po’ di cervello dentro. L’ho detto tante volte, a tanti di voi. L’ho detto anche in tanti altri ambienti. Forse, chissà, io stesso non sono riuscito ad applicarlo del tutto, anche se ne ho piena convinzione. Ma ce l’ho messa tutta.
 
Attenzione ai premi: perché sono una cosa bellissima ma anche difficilissima da gestire. A volte hanno più diviso che unito, e in qualche caso più scoraggiato che motivato.
Perché valutare le persone è difficilissimo.
 
E si sbaglia molto.
 
E anche vedere quello che effettivamente i colleghi fanno e meritano è spesso difficilissimo.
 
Per i limiti di chi vede, per la diversissima abilità di chi sa “vendere” il proprio lavoro, per la presenza costante di piccoli e grandi ladri del lavoro altrui, diretti e indiretti, capi o colleghi.
 
Anche in buona fede.
 
Resta il fatto che i premi non sono una concessione dell’azienda: questa è una idea immorale. I premi sono la naturale (ed eticamente obbligatoria) partecipazione dei lavoratori ai frutti (positivi e anche negativi) del loro lavoro, attraverso il quale l’azienda esiste e dà beneficio alla sua proprietà ed alla comunità.
 
Proprietà che peraltro è solo giuridica, non è mai morale: il diritto naturale, e con esso la dottrina sociale della Chiesa, fa invece proprietari ed azionisti morali tutti quelli che lavorano nell’azienda.
 
Dà loro diritto di partecipare ai suoi risultati, e dovere di lavorare con impegno e serietà. Di non rubare. Nemmeno il tempo: di non lasciare che il nostro lavoro lo facciano gli altri.
 
Di non prendere giorni di malattia finta.
 
Di non dire mai “a me che mi frega? Per quello che mi danno…”
 
Perché questo è rubare.
 
Questo è disonesto.
 
Questo, sì, merita il licenziamento.
 
La malinconia di due licenziamenti di colleghi, che non sono riuscito a evitare, attenua la gioia per tante assunzioni che ho potuto aiutare.
 
Non dimenticherò né le une né le altre.
 
Le une mi servono per umiltà e meditazione, le altre per incoraggiamento.
 
Siamo sempre tutti piccola cosa, grandi soltanto di fronte a Dio se abbiamo un bel cuore.
 
Rischiamo di ripetere troppo che siamo tutti diversi. E che la diversità è una ricchezza.
 
E’ una ricchezza se contemporaneamente non dimentichiamo che siamo anche tutti uguali.
 
Uguali in dignità e diritti e doveri. E quindi non in astratto, ma in tutte le cose quotidiane e per sempre.
 
E allora: un po’ meno diversi e un po’ più uguali: negli stipendi nei premi nel tempo annuo di lavoro nel cartellino da timbrare nel dovere di lavorare con diligenza nella severità con la quale dobbiamo fermare anche con la forza i piccoli e grandi ladri (spesso ladri di idee e di lavoro) i piccoli e grandi parassiti i piccoli e grandi imboscati i piccoli e grandi “bugiardi per farsi belli” e la genia cancerogena di quelli delle eccezioni: tutti timbrano ma loro no, nessuno prende premi ma loro sì, tutti lavorano ma loro giocano al Solitario, tutti devono produrre risultati ma loro li presentano al capo…
 
E ci vuole anche il non dare troppa importanza al salotto, al si dice, al chiacchiericcio: ci vuole agire come se tutto dipendesse dal nostro personale comportamento. Questo è importantissimo per tutti ma ancor più per i capi.
 
Ognuno di noi è il capo di sestesso.
 
Ognuno di noi è il direttore di sestesso.
 
Ognuno di noi ha come segretario sestesso.
 
Ci vuole che si dicano le cose con chiarezza continuando però a costruire azioni buone. 
 
Ricordo ancora la malinconica vicenda dei fogli anonimi che venivano firmati da Gordon.
 
Molti anni fa.
 
Ricordate anche voi?
 
Tutti noi ci saremo fatti una idea del volto di Gordon: anch’io me la sono fatta.
 
No, non ritengo che quello sia un modo dignitoso e costruttivo di comunicare.
E la finisco qui con il tema, perché è stato un tema triste.
 
La dignità della terza età? Non esiste: esiste la dignità morale delle persone; ci sono ottantenni corrotti e corruttori, viziati e viziosi, inaffidabili e bugiardi, egocentrici e avari, che in nome dell’età rivendicano il diritto di continuare le loro malefatte.
 
Nelle organizzazioni coincidono spesso con “quelli del gettone di presenza e della poltrona in prima fila”.
 
Evitateli.
 
O, se riuscite, ricordate loro che presto moriranno (il che è la sacrosanta verità, e l’unica cosa… da prendere sul serio nella vita, anche se fanno le corna quando gliela dite) e che è meglio che si preparino a rendere conto di tutto sapendo che le bugie, in quella circostanza, non funzioneranno più.
 
Ma ci sono anche ventenni e trentenni già vecchi nell’anima, sporchi e corrotti per troppi masters che servono a nascondere la povertà morale, per troppo inglese che serve a nascondere la mancanza di cultura, per troppa brillantezza che serve a nascondere la miseria del cuore, per troppa “competitività” che serve a nascondere il deserto dell’anima.
 
Come, al contrario, ci sono ventenni e trentenni già carichi di opere buone e di sogni onesti: fate loro spazio.
 
E ci sono anziani carichi di meriti e di sapienza: ascoltateli, fate loro spazio nella vostra vita. Fateli non solo presidenti ma vigilatori morali di tutte le vostre cose.
 
Istituite questo ruolo dei vigilatori morali: sapeste quanto valgono più dei colloqui di budget e della pianificazione strategica e degli incontri di valutazione!
 
Quanto valgono più dei marchi e dei loghi e dei brand e del marketing e di tutte le piccole e grandi “frasi fatte” benintenzionate attraverso cui continuano a dirci che si può promuovere il nostro lavoro!
 
Non è il nostro lavoro né il loro bene né il bene comune che viene promosso da queste cose, ma il perpetuarsi di un gigantesco autoinganno.
 
Ma non istituiteli, i vostri vigilatori morali, ritenendo di doverli nominare o eleggere.
 
Dovete soltanto riconoscerli con il vostro cuore, e indicarveli, dirvi apertamente fra di voi che quelli sono i vostri vigilatori morali, i capi che davvero vanno ubbiditi dal vostro cuore.
Agli altri va riservata una ubbidienza onesta e leale ma che è solo quella organizzativa e burocratica.
 
Se vi hanno detto che del vostro lavoro ci si può innamorare, che ci vuole passione, e simili stupidaggini, non credeteci: vi stanno inducendo in errore, senza saperlo e senza volerlo; simili melensaggini tendono, senza saperlo e senza volerlo, a fare di voi dei punti di vendita per risultati che sono soltanto profitti, soldi e carriera, non una comunità migliore per tutti e fraterna con la società di tutti.
 
Ci si può innamorare della vita, di una persona, di un ideale, di Dio, di uno scenario della natura che ci fa pensare alla grandezza della nostra vocazione umana, della nostra immortalità…
 
Ci si può innamorare anche della propria comunità di lavoro e della bellezza del farla sempre più efficiente e più giusta.
 
Ma mai ci si può innamorare di un 730 o di una scheda budget o di un cliente conquistato o di un orario di lavoro robusto… Perché queste cose sono soltanto uno strumento per essere concretamente innamorati del nostro prossimo, degli altri figli di Dio. Anch’io mi sento amato concretamente quando vado da Serena o da Salvatore e loro mi compilano bene il 730. O da Gianni o da Rosaria quando mi assistono per la pratica della mia pensione. Ma non è il 730, l’amore, né la pratica di pensione: è il rapporto con queste persone.
 
Non ci credete?
 
Chiedetelo alle mamme di famiglia che ogni giorno vengono al lavoro lasciando a casa i figli e portandosi dietro il pensiero di come accudirli e di come preparare la cena per la famiglia rientrando un po’ tardi e rischiando di trovare il supermercato chiuso.
 
Chiedetelo ai padri di famiglia che escono la mattina presto sorbendosi il traffico dei mezzi pubblici e rientrano la sera tardi inseguendo l’obiettivo di cinquanta euro di aumento o di mille euro di premio.
 
Che a volte non verranno neanche dopo anni.
 
Chiedetelo a chi ha in casa un familiare malato.
 
Chiedetelo a chi ha in famiglia un lutto.
 
Chiedetelo a chi deve finire di pagarsi la casa.
 
Chiedetelo a chi non ha ancora visto sistemati i suoi figli.
 
Se voi non rientrate in nessuna di queste categorie o di categorie simili, potete ridervene di questa riflessione.
 
O meglio, potete ringraziarne la provvidenza.
 
Ma siete sicuri di essere numerosi? 
 
E se pensate a tutti i casi che conoscete, anche soltanto fra i vostri colleghi di lavoro, fatevi tentare da una riflessione approfondita, e dall’idea che anche voi in realtà siete coinvolti.
 
Vale piuttosto la pena di innamorarsi della grande avventura di una vita impegnata ed onesta e di quella cosa piccola piccola di cui a volte ci si vergogna, e che un tempo  chiamavamo ideali.
 
L’azienda non è ciò che dice il codice civile e ciò che recitiamo al professore quando andiamo a sostenere l’esame di diritto privato all’università: l’organizzazione di mezzi e persone che ha lo scopo di raggiungere obiettivi…
 
L’azienda non è neppure una organizzazione di uomini e mezzi finalizzata a produrre profitti per gli azionisti, come ci predicano la sballata teoria economica calvinista e quei luoghi di perdizione culturale che sono la Bocconi o la Luiss o il Politecnico di Milano, e cosacce similari, che tanto piacciono in America e altrove, e che tanti guai hanno causato, compresa l’ultima crisi economica che ha messo sul lastrico milioni di famiglie in tutto il mondo.
 
L’azienda è invece una comunità di persone e di destino che si organizza per produrre ricchezza e benessere da ridistribuire fra tutti i suoi membri e mantiene attenzione etica e solidale a tutti i suoi componenti e a tutta la società.
 
Ma tutte queste riflessioni non sarebbero equilibrate e giuste se non fossero accompagnate contestualmente dalla consapevolezza della benedizione rappresentata comunque dal lavoro che pure avete, e che fa parte intrinseca della dignità della vostra vita, che sarebbe umiliata se tale lavoro non ci fosse. Questo merita un sentimento di riconoscenza verso la comunità cui apparteniamo. Il tanto spesso vituperato nostro “posto” di lavoro merita apprezzamento e impegno e lealtà e generosità grandi. Dunque lo merita l’Enasco.
 
Mentre svolgo tali pensieri con me stesso, ma avendo davanti alla mia mente tutti voi e ciascuno di voi, penso anche che nel corso della mia presenza fra voi sono stato valutato in tanti modi diversi, dei quali più volte mi sono accorto e che non sono stato in grado di approfondire con ciascuno di voi, come avrei voluto.
 
Sono stato definito “un bravo ragazzo”, “uno onesto”, “uno che fa quello che può”, “un dirigente in gamba”; ma anche “un figlio di puttana” (proprio così), “uno che si è fatto gli affari suoi”, “uno che ha detto cose che poi non ha fatto”, persino “un falso” (questo mi ha fatto male più di qualsiasi altra cosa)… E altre versioni.
 
Alcuni giudizi mi hanno generato un po’ di malinconia; posso assicurarvi che non sono mai stato “un figlio di puttana” e tanto meno un “falso”, neanche quando ho sostenuto idee o comportamenti che non piacevano a tutti i colleghi.
 
Posso assicurarvi che sono stato soltanto un uomo di buona volontà e senza disonestà, attento al mio prossimo e sollecito del suo bene per tutto ciò che è stato nelle mie capacità e forze.
 
Mi sento molto gratificato da quanti mi hanno capito (e in qualche caso me lo hanno detto).
 
Mi sento immalinconito dai giudizi negativi, che avverto ingiusti, ma non ne voglio male a nessuno.
 
Fanno parte delle cose che nella vita non riusciamo mai a correggere né a spiegare abbastanza.
 
Se devo cercare un pensiero conclusivo a questa riflessione di commiato verso tutti voi, mi sento di dirvi: Non è bene cercare il successo di breve periodo: conta ciò che si costruisce nel lungo.
 
Accettate di discutere di fatti, più che di problemi: i problemi tendono a dividere e a creare ideologie. Cioè rigidità che ci dominano.
 
In cuor mio, poi, ma ve lo dico come fra parentesi, come sottovoce, se ciascuno di voi venisse a chiedermi in confidenza quale è stato in fin dei conti il vero mio punto di forza nei momenti più difficili, quelli nei quali sei tentato di dire a te stesso ora non ce la faccio più, ho fatto tutto quello che potevo ma questo è più forte di me (e vi assicuro che ne ho vissuti: ho visto mio padre disoccupato, ho visto respingermi da certe opportunità perché povero, ho visto la calunnia prevalere su di me contro la verità ed ero ancora bambino per potermi difendere…) vi risponderei che dietro l’angolo buio ho sempre cercato di ragionarne con Dio.
 
Vi auguro di vivere tutti i giorni della vostra vita come altrettanti passi di crescita completa, per ciascuno di voi personalmente e per tutta la nostra comunità.
 
                                                                                                                                  Giuseppe Ecca
Roma, mese di giugno del 2013.
 
(Beh, ve l’ho detta un po’ lunga: ma… è la sintesi di tanti anni di vita insieme!).
 
 
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Storia

"IERI E OGGI": PURCHE' SI SAPPIA RIFLETTERE BENE!

Quante volte ci capita… Siamo appassionati di confronti fra l’ieri e l’oggi, il passato e il presente, un poco in tutti i campi. “Ai nostri tempi… oggi invece…”. Naturale, il confronto fra noi e chi venne prima di noi, istintivo, e utile. Come il tentativo di immaginare il futuro. Ma attenzione ai luoghi comuni, alla frasi fatte, alla superficialità dei giudizi basati su conoscenze che spesso… (spesso!) neanche gli storici dominano bene.

Domenico De Masi ci richiama l’importanza di una consapevolezza più attenta con alcuni raffronti istruttivi... fra l’ieri e l’oggi della storia umana.

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Due tesi irrefutabili: 1) questo in cui viviamo non è il migliore dei mondi possibili ma è certamente il migliore dei mondi esistiti fino ad oggi; 2) mai la realtà è stata così complessa ma mai la vita è stata così semplice.

In che epoca avreste preferito vivere? Nell’Atene di Pericle, quando quarantamila uomini liberi avevano a loro disposizione 150mila schiavi, quando per strada potevate fare quattro chiacchiere con Socrate o con Platone, quando i giorni festivi erano duecento all’anno? O nella Roma di Cesare, quando in un solo colpo arrivò un milione di schiavi dalla Gallia, quando la capitale del mondo era una metropoli brulicante di architetti, poeti e teatranti, quando in un solo giorno i 70.000 spettatori del Colosseo potevano godersi la vista di 5.000 coppie di gladiatori che si sbudellavano? O nella Firenze dei Medici, quando il meglio dell’arte e della letteratura gareggiava con banche, corporazioni ed eserciti? o nella Vienna di Klimt, Musil e Mahler, quando un mondo stravecchio conviveva con l’adolescenza della civiltà moderna?

In ognuna di queste epoche, per godersi la vita, anzitutto occorreva essere degli aristocratici. I borghesi erano poveracci relegati in case scomode e squallide. I plebei erano morti di fame stivati in tuguri puzzolenti. Dunque, se non siete di nobile casato, meglio per voi essere nati nel ventesimo secolo.

Ma neppure il sangue blu sarebbe riuscito ad assicuravi una vita decente: oltre al censo e allo stemma nobiliare, occorreva avere una salute di ferro. Ve lo immaginate un Aristotele o un Augusto o un Luigi XIV alle prese con il mal di denti? Niente analgesici, niente dentisti: solo cerusici nerboruti, che asportavano denti con tenaglie funeste e approssimative. Dunque, se di tanto in tanto soffrite di colite o di bruciori allo stomaco o anche solo di un raffreddore, meglio per voi essere nati nel ventesimo secolo: quelli che oggi sono malesseri passeggeri, un secolo fa sarebbero bastati a mandarvi all’altro mondo.

E pure in tempi di pestilenze e pandemie le cose andavano meglio di oggi. Ve l’immaginate il lockdown durante la febbre spagnola del 1919 che fece un milione e mezzo di morti per 50 settimane consecutive? Niente Pfizer, niente DAD, niente smart working, niente Amazon, niente televisione, niente Spotify, niente Glovo, niente Deliveroo, niente informatica in soccorso della salute, dell’economia, della scuola, dei servizi, dell’ambiente.

Spesso gli snob vagheggiano presunte età felici in cui tutto scorreva semplice e leggero. In realtà, la stragrande maggioranza di chi nasceva nell’Ottocento poteva contare su una vita media di 32 anni; era destinato all’analfabetismo; mancava di tutto: dall’acqua corrente alla luce elettrica, dagli antibiotici agli analgesici ai mezzi di trasporto; da Fedez a Barbara D’Urso. Ogni problema era complicatissimo perché non c’erano gli strumenti per risolverlo. Quello si che era un mondo complesso!

Poiché sembrava che la natura andasse avanti per gradi, si credeva che ogni progresso, anche quello sociale e conoscitivo, fosse lineare, che le risorse del pianeta fossero infinite e anche il PIL potesse crescere infinitamente.

Poi, durante il Novecento, grazie a geni come Einstein, Freud, Le Corbusier, Wiener e Steve Jobs abbiamo capito che la nostra realtà attuale è complessa ma che, usando i potenti mezzi di cui ci siamo dotati, anche i problemi più ardui possono essere semplificati e risolti con disinvoltura crescente. Abbiamo capito che il progresso non è sempre lineare né uniformemente accelerato, che la natura fa dei salti imprevisti, che ogni problema ammette più soluzioni a seconda dei punti di vista. Soprattutto abbiamo imparato a trasformare molti vincoli in opportunità, molti punti di debolezza in punti di forza.

Giulio Cesare e Napoleone sono vissuti alla distanza di diciotto secoli l’uno dall’altro, ma se avessero voluto coprire il tragitto da Roma a Parigi avrebbero avuto entrambi bisogno di alcune settimane. Tra Napoleone e i nostri giorni ci sono poco più di due secoli eppure noi, pur non godendo di nessun privilegio imperiale, possiamo andare da Roma a Parigi in meno di tre ore.

Per salire in cima a un grattacielo, ci basta premere il bottone dell’ascensore; per liberarci di un’appendicite, ci basta fare un’operazione chirurgica; per ascoltare una sinfonia, ci basta spingere il pulsante del telecomando, per vedere le mie figlie all’altro capo della città o del mondo, mi bastano Skype o Zoom. Mai prima d’ora la realtà è stata così complessa e la vita è stata così semplice.

La progressiva semplificazione dei problemi pratici, grazie alle infinite protesi meccaniche di cui disponiamo, ci consente di dedicare maggiore tempo e impegno alla soluzione (cioè alla semplificazione) di problemi sempre più complessi, di ordine scientifico, economico, filosofico ed estetico.

Per quanto inquinate siano le nostre città, per quanto violenti siano i nostri rapporti umani, per quanto squallide siano le nostre periferie urbane, tuttavia il nostro ambiente è di gran lunga più sano, pacifico e bello di un secolo fa. Non a caso, la nostra vita media dura il doppio della vita dei nostri bisnonni. Non a caso qualsiasi impiegato statale può scegliere tra vestiti e oggetti più abbondanti e più belli di quanti ne potesse avere Lorenzo il Magnifico.

In un suo incantevole racconto, intitolato La rosa di Paracelso, l’ineffabile Borges ci ricorda che il paradiso esiste: ed è questa terra. Poi ci ricorda che anche l’inferno esiste: ed è vivere su questa terra senza accorgerci che è un paradiso.

Auguriamoci di non farci del male vivendo ad occhi chiusi.
                                                                                                                                              (Domenico De Masi)
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Scuola e vita

LETTERA DI SALUTO AI MIEI STUDENTI

Adele è una cara amica che da poco ha deciso di lasciare il mondo della scuola per raggiunte condizioni previdenziali: la inattesa dura esperienza personale legata al covid le ha suggerito di non attendere oltre per la sua quiescenza  ma non le ha scalfito lo spirito di missione con cui ha sempre vissuto il suo lavoro: spirito che dedica ora con uguale intensità alle attività che svolgerà fuori della scuola. Lo spiega nella “lettera di saluto agli alunni” facendone la sua ultima lezione preziosa e coerente di vita.

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La vita ci riserva tante sorprese, a volte belle ed a volte brutte. Il Covid mi ha colpita molto duramente al punto di essere in pericolo di vita e dover andare in pensione prima. Non avrei potuto lasciare tutto così, i miei alunni mi hanno vista l’ultima volta il 23 dicembre 2021. Ho affidato alla docente che mi ha sostituita la “lettera di saluto ai miei studenti”. La riporto di seguito così come l’ho fatta avere a loro.

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Carissime Alunne e carissimi Alunni,
 
non ci vediamo da quasi 6 mesi ormai. Il mio ultimo giorno a scuola è stato il 23 dicembre 2021. Molti di voi sapranno cosa mi è successo. Vi accenno solo qualcosa, che ha segnato completamente la mia esistenza.

Ho contratto il covid, anzi a detta dei medici ne ho contratte più varianti insieme.  Beh, mi devo distinguere sempre…perché contrarne solo una? Meglio di più!

Pur senza avere febbre e sembrando quella che in famiglia l’avesse preso in forma più leggera il 10 gennaio 2022 sono stata portata in ospedale in ambulanza per crisi respiratoria.

Tutto ciò che è successo durante il ricovero lo salto volutamente, vi dico solo che sono stata anche in rianimazione e mi avevano comunicato che stavo per morire, e stessa cosa avevano già detto, prima che a me, a mio marito.

I miei polmoni non funzionavano più, respiravo solo attaccata alle macchine e cosciente della mia prossima morte ho rifiutato l’intubazione ed ho chiesto un sacerdote per ricevere la Comunione e l’Unzione degli Infermi.

Mi sono ritrovata ad un certo punto, proprio mentre ero sul lettino della Rianimazione, sul “confine” fra questa vita e l’Altra. Ero di qua ma stavo per passare di là.

Ma il Signore ha voluto poi diversamente per me. Infatti sto qui a scrivervi.

La convalescenza ancora continua, non ho camminato per due mesi

Questa esperienza mi ha portato a fare scelte particolari e a farmi apprezzare maggiormente la mia stessa vita, la mia famiglia, tutto ciò che ogni giorno possiamo vedere e di cui spesso, per correre fra una cosa e l’altra, non ci accorgiamo di quanto sia bello e meraviglioso.

Vi raccomando di vivere la vostra vita in maniera piena, di apprezzare ogni piccola cosa che vedete o che avete, anche quelle che vi sembrano più banali. Dall’altra parte non ci portiamo nulla dietro se non l’Amore che abbiamo dato agli altri e ciò che di bello e buono abbiamo fatto.

Un pensiero in più a chi sta per affrontare gli esami di maturità. Vivete questa esperienza con serenità ma anche con senso del dovere: è un trampolino di lancio verso il futuro, il primo vero trampolino.

Ed arrivo alla fine. L’esperienza della Rianimazione mi ha spinta a fare una scelta ben precisa: ho chiesto di andare in pensione, prima del previsto. Voglio dedicare ciò che resta della mia vita alla mia famiglia, agli affetti miei più cari; voglio dedicarla ad aiutare il prossimo e a chi è nella sofferenza. Lo facevo già prima….ma quando davanti ti trovi il termine della tua vita sembra sempre che sia arrivato troppo presto ed allora, avendo avuta la grazia di poter vivere ancora, ho fatto questa scelta.

Vi lascio il mio account personale adele.caramico@gmail.com perché andando in pensione verrà disabilitato quello del Pininfarina.
Per chi volesse scrivermi io ci sono sempre. Vi ho portato sempre nel mio cuore e vi ho pensato spesso, tutte e tutti, indistintamente.
Vi auguro che possiate realizzare quanto più i vostri cuori desiderano.

Ed ora smetto di scrivere…..perché anche una prof si commuove, lo sapete?

Un abbraccio a tutte e a tutti voi.
                                                                                                                   (Adele Caramico)
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Racconti di vita

CAFFE' FELICITA'?

Vite perdute? Povera umanità che non ha trovato chi la illuminasse e riscaldasse nello spirito? Un filo di malinconia prende l'anima quando si segue un racconto dal vivo, come questo, che propone anche una riflessione di possibile nostra eccessiva “distrazione” quotidiana per tante situazioni di autoabbandono umano e sociale presenti intorno a noi, spesso non rumorose. Valutate voi. Il racconto è comunque vero, come al solito è per i nostri.
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Non è buona cosa passare molte ore al caffè a giocare a carte. Si beve per forza e quando mi rendo conto che ho esagerato è sempre troppo tardi; e capita quasi tutte le sere. Me lo diceva sempre Teresa, la mia povera moglie (pace alla sua anima brontolona!). Del resto non rimane che questo, dopo il tramonto, ed io il mio tramonto di vita l’ho passato da un pezzo: sarei già dovuto essere morto da tempo, oramai, ma non mi decido; e poi cos’è il tempo? Forse della sabbia che precipita da un vetro strozzato e qualcuno ad un certo punto capovolge l’attrezzo e tu hai chiuso, e qualcun altro prenderà il tuo posto al tavolo, comprese le tue carte, fino al compimento del suo turno. Per quello che ne so, potrei anzi essere già trapassato e non essermi accorto di niente, senza dolore, magari nel sonno, ed ora forse sto vivendo nello specchio di un cosmo parallelo, insieme con gli altri tre ubriaconi con i quali solitamente mi gioco una bottiglia o due fumando sigarette scadenti senza filtro.
Giacomo, il gestore del caffè, che tutti chiamano Giacomino, quello sì che è morto: o almeno pare. E’ piccolo, pallido, piegato, per la sua spina dorsale malata, in un umiliante perenne inchino. In bocca gli mancano parecchi denti e quando parla sputacchia dappertutto. Ma è buono come il pane e se fossimo davvero in paradiso certamente sarebbe un angelo. Chi ha mai detto che gli angeli sono accecanti di bellezza celeste? Giacomino è orribile come una macchia di vomito sul marciapiede, come quelle che ogni tanto lascio anch’io sulla via di casa; ma è buono, parla sempre a voce bassa e le bottiglie da litro le riempie sempre più del necessario.

Il suo locale per il vero è uno schifo, in via Gasparo da Salò (quello del violino). Sulla strada si apre una piccola vetrina con due ripiani d’alluminio; vi sono tre ceste di caramelle scartate, un poco di liquirizia in forma di omino od arrotolata come una stringa attorno ad una pallina di zucchero rosso, poi bustine di figurine sparpagliate a caso; e nient’altro. Accanto alla vetrina, una porta di vetro e di ferro scuro, che, aprendosi, fa tintinnare una campanella come quella dei chierichetti in chiesa: ma è inutile, la porta cigola da sempre sui cardini e, quando qualcuno entra, lo si sente inevitabilmente, anche per il freddo che penetra. Dalla porta si scendono quattro gradini di pietra e il caffè non è che uno stanzone: a destra il banco e in mezzo, sul pavimento di vecchie piastrelle di cotto, cinque o sei tavoli (non li ho mai contati). Tavoli di legno sudicio, impregnato di vino disegnato in cerchi spezzati. Sulle pareti gialle, due calendari di anni passati, dai quali ci guardano belle donne fetenti, felici di vederci bere da tanto lontano.

Giacomino spunta appena da dietro il bancone, con le spallucce rachitiche e la testa dai capelli corti e ricci color sale e pepe. Ha il viso segnato da rughe profonde sulla fronte e tutto intorno alla bocca: la vita deve averlo castigato, quel pover’uomo. Prende le ordinazioni con garbo, scoprendo i suoi denti disordinati, e in silenzio porta le bevande ai tavoli, su vassoi di latta. Non credo di averlo mai visto arrabbiato o semplicemente inquieto; la settimana scorsa mi ha fatto anche credito e devo ancora pagarlo. Con tutta la cagnara che facciamo dalla mattina fino a notte inoltrata, avrebbe potuto mandarci al diavolo almeno una volta, invece niente! C’è quel Lofaro, ad esempio, che gioca al tavolo vicino al nostro, con altri del suo paese, e urla come un maiale dalle giugulari recise quando perde anche pochi centesimi; o, se vince, canta canzonette in un dialetto che non mi sono mai preoccupato di capire. Giacomino lascia fare. Ogni tanto, se non è preso dalle sue faccende, afferra uno sgabello e vi sale sopra per aprire una finestrella, protetta da due sbarre incrociate, che dà sul retro, in un cortile umido: così esce dalla stanza un po’ di fumo e di quel fetore di caffè e vino appena infiascato che ristagna nel locale. Mi rendo conto che non è cosa da signori ma molti di questi rottami umani, me compreso, bestemmiano.  Certo il buon Dio mi chiederà, arcigno in volto, di riparare un giorno. Se avrò tempo e voglia lo confesserò al prete quando porterà l’olio santo vicino al mio letto di morte, quello bello, appartenuto al mio nonno garibaldino, una delle poche cose che non mi sono ancora venduto. Giacomino non approva che noi si maledica tutta la sacra famiglia e, quando ne sente una grossa, inarca le sopraciglia scuotendo la testa mentre continua ad asciugare bicchieri.

Talvolta, quando le sere invernali sono particolarmente fredde e piovose, Giacomino tollera che io ceni lì con lui. Dietro il bancone si apre una porticina che un tempo doveva essere stata dipinta di bianco: da lì si scende ad un altro buio stanzone dove l’omino conserva le damigiane pronte per essere infiascate, un fornello a gas e un tavolo. Si mangiano soltanto uova sode con il sale, qualche fetta di salame e, quando va bene, polenta abbrustolita. Per me è un lusso, perchè poi mi viene una sete tremenda e posso ricominciare a bere alla faccia della mia coscienza. E’ una delle rare occasioni che mi capitano di parlare con lui, anche se, in verità, lui parla poco dei fatti suoi.

Racconta episodi minimi, piccole tessere di un’esistenza che mi sforzo di collegare con le altre, ma sono ben lontano dall’avere anche una mezza idea di quello che è stata la sua vita. E’ abile, ma non certo con malizia, ad ottenere confidenze che peraltro non mi risulta faccia trapelare ad alcuno. Gli ho raccontato almeno tre volte le cose importanti della mia vita: la mia infanzia in campagna quando, come un cane sciolto, marinavo la scuola ma riconoscevo il proprietario di un nido a trenta metri, poi la guerra, i rastrellamenti, quindi, strano a dirsi, l’università a Padova e la fatica dello studio, gli anni di insegnamento di greco e di latino in un ginnasio di provincia, e poi Teresa e come l’ho perduta per una bastarda malattia polmonare. E infine la nausea, la voglia di lasciarsi vivere così come viene, fino ad ora, fino alle scodelle di minestrone che l’ente comunale di assistenza mi elargisce alle dodici di ogni giorno. Faccio la fila con altri poveracci che puzzano di letame, rosi dalle tarme dei ricordi, e sono convinto che non gliene importi niente se domani è giovedì o domenica. Quasi nessuno parla o saluta, beccano il dovuto e arrivederci. Fanno schifo anche loro e questa volta non frega niente a me.

Ho scoperto che anche Giacomino ha moglie, o l’ha avuta. Una donna alta, non bella ma con molte pretese. Credo che si sia vergognata di un marito mal riuscito che s’andava ogni giorno stropicciando di più. Qualcun altro mi ha detto che ha pure una figlia, alta come la madre e brutta come lui, certamente andata a vivere altrove. Non è una gran compagnia, Giacomino, ma non bestemmia, beve e fuma con moderazione e non sparla di clienti e di compaesani. Quanto alle donne mi sento di escludere che ce ne sia una, oltre alla fantasmatica moglie. Tuttavia con lui sto bene, ho cominciato a pensare che potrebbe essere un buon amico. L’ho creduto del vino e delle femmine sudaticce dei bordelli, ma sono tutte balle da mentecatti. Giacomino invece è proprio un angelo, se è di buon umore è capace anche di offrirti da bere.
Da qualche settimana capita che la domenica pomeriggio passi nella via un bambino, che avrà sette od otto anni. Si ferma davanti alla vetrina, guarda quel che c’è, sempre le stesse cose, poi si ficca le mani in tasca e se ne va di buon passo. Porta i pantaloni grigi fino al ginocchio, calzettoni candidi e giacca blu sempre a misura: deve per forza avere una nonna che fa la sarta, o una zia. Da queste parti infatti non abbiamo famiglie ricche. L’ho notato un giorno mentre stavo calando un re di bastoni (perdevo, come al solito). Il ragazzino si era fermato a guardare nella vetrina, ma non sembrava avere interesse per caramelle o liquirizie; piuttosto osservava le bustine di figurine e pareva almanaccare qualcosa tra sé. Non credo che gli altri disgraziati ci abbiano fatto caso ma, se l’avessero osservato, avrebbero notato i suoi occhi scuri e vivaci e i suoi capelli a spazzola rossicci.

Certo era gracilino, uno di quelli che, nel campetto dei preti, sta da solo a guardare gli altri che giocano al pallone o si scazzottano lordandosi i vestiti. Quanto alle figurine, ne sono sicuro, non le comprava perché non aveva un soldo. Mi sembra di vederlo, là nel prato vicino alla chiesa, con il libro del catechismo in tasca, uno di quei libri che rappresentano i peccati mortali come macchie d’inchiostro sul cuore e quelli veniali come puntolini. Non ho mai saputo come si chiamasse quel bambino ma, in cuor mio, spero si chiami Gianni, non perché mi ricordi qualcuno ma perché è un nome semplice, facile da appiccicare a chiunque. Anche Giacomino lo ha notato. La domenica, verso le due, pare lo aspetti. A quell’ora non siamo mai in molti nel locale, i più fortunati fra noi infatti hanno uno straccio di famiglia e fanno tardi a tavola, epicurei come sono. Talvolta siamo solo io e quel brutto angelo. Di solito leggo il giornale, quell’altro non so neppure se sappia scrivere. Gianni arriva puntuale alle due meno dieci, guarda oltre il vetro e si mangia con gli occhi qualche bustina odorosa di caolino. Poi se ne va, e mi pare sereno.
Domenica scorsa Giacomino ha aperto la porta e lo ha chiamato dentro. Gianni è sceso dalla scaletta soltanto per due gradini, aveva certo timore e doveva essere nauseato dal fetore del locale. I bambini vanno protetti, finchè si può, dalla vita; non gli si fa vedere quanto ci si può putrefare! Giacomino ha afferrato dalla vetrina un mazzetto di bustine e gliele ha regalate. Il bambino ha sorriso felice e anche noi eravamo felici. Si può per un attimo far felice qualcuno ed essere felici.
                                                                                                     
                                                                                                                   (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)

 
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Religione

MIO ZIO ATTILIO E LA SANTA PASQUA

Silvano, autore di questo piacevole e sorridente dialoghetto con lo zio Attilio, non si smentisce: nel suo scrivere c’è sempre il gusto raffinato di chi dipinge caratteri e paesaggi umani e sociali con la maestria raffinata del pittore sulla sua tela (infatti egli è anche pittore) ma inoltre c’è sempre, ed a volte è la vera sostanza dominante del suo scrivere, un pensiero che pone quesiti e ipotizza strade, evidenzia strettoie  e prospetta orizzonti, e soprattutto richiama coerenze. Questa volta la proposta di riflessione mette in contatto, sorridendo ma con consapevole profondità di intenzione, alcuni rischi di superficialità tipici dell’epoca che viviamo con valori religiosi che meriterebbero più attento, rispettoso e meditativo approccio.
 
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Ho trovato lo zio impegnatissimo in una telefonata, col vivavoce inserito.

“Aspetta, aspetta, se no perdo la priorità: è parecchio tempo che tento di capire quale tasto premere…”

E’ in linea con il centralino della Parrocchia.

“Sai, Il parroco ha scritto sul sito web della chiesa che quest’anno le benedizioni si fanno non più casa per casa”

Se desidera informazioni sulle attività della Parrocchia, prema il tasto 1.

“ma cumulativamente, secondo la suddivisione per vie (ha allegato l’elenco), nelle messe delle ore 19: bisogna consultare l’elenco e non dimenticare la data per presentarsi in chiesa.”

Se desidera informazioni su battesimi, prime comunioni e cresime, prema il tasto 2

“Tutti coloro che invece vogliono la benedizione presso la propria casa possono contattare il parroco per concordare la data. Siccome sono amante delle tradizioni, sto cercando di chiamare il prete”

Se desidera informazioni sui corsi di preparazione al matrimonio, prema il tasto 3

“ma come vedi è una cosa difficilissima, peggio che telefonare per informazioni a qualche ente pubblico!”

Se desidera una benedizione, prema il tasto 4.

“Ecco deve essere questo, vediamo se ci ho azzeccato!”

Se desidera una benedizione in latino, prema il tasto 1
Se desidera una benedizione in italiano, prema il tasto 2
Se desidera una benedizione in altra lingua, prema il tasto 3.
 
“Mah, proviamo in italiano”
 
Se desidera la benedizione della persona, prema il tasto 1
Se desidera la benedizione dell’anziano, prema il tasto 2
Se desidera la benedizione del bambino, prema il tasto 3
Se desidera la benedizione del malato, prema il tasto 4
Se desidera la benedizione dell’auto, prema il tasto 5
Per tornare al menu principale, prema il tasto 9
 
“Ma no, non è questa… io non voglio una benedizione registrata al telefono… va be’, visto che sei qui, meglio riprovare un’altra volta”.

Ed ha chiuso la telefonata.

“Certo che le cose stanno cambiando sempre più velocemente, in omaggio ad una modernità che non so quanto sia piacevole. Adesso neanche il prete si sposta, bisogna prenotare per tempo, nemmeno fosse uno spettacolo o una cena al ristorante… Penso che prossimamente le benedizioni le farà via whatsapp, o via facebook solo per chi si è iscritto al gruppo!… A proposito, tu pensi che bisognerà pagare per la prestazione?”

“E’ il progresso, zio, e bisogna stare al passo con i tempi”, ho detto io.

Macché progresso e progresso, ma che soddisfazione ti danno più queste cose, ci manca solo che la Pasqua diventi un videogioco e si debba festeggiare con una ‘app’!

Una volta, e fino a nemmeno tanti anni fa, il parroco passava a benedire le case e noi bambini aspettavamo l’evento con una sorta di timore reverenziale. Il prete, casa per casa, benediva le varie stanze e poi anche le persone e tutti eravamo contenti e ci sentivamo più buoni… almeno per quel giorno!

Questo accadeva nelle città, nelle campagne invece il prete veniva con l’auto e girava tutte le case, anche quelle isolate, si fermava spesso a bere il bicchiere di vino che veniva sempre offerto e certe volte succedeva che alla fine del giro era assai brillo, tanto che una volta a mia madre si dimenticò di dare la benedizione e se ne andò via tutto bello rosso in viso… solo che il cane di casa, evidentemente infastidito da tutta quella scena, corse appresso al prete e lo azzannò ad un polpaccio, niente di grave ma che ridere!

Ora le cose - come vedi - le fanno online, fra poco le faranno con la realtà virtuale. Mah, che vuoi che ti dica, è la modernità… ma io ricordo con una certa nostalgia quando la Pasqua si festeggiava in un modo diverso, molto più - come dire - solenne e sentito. E c’era anche una sorta di rispetto religioso.

Mi ricordo che a partire dal mezzogiorno di Venerdì Santo (ora della morte di Cristo) i programmi radio e tv trasmettevano solo musica sacra e notiziari, non venivano trasmesse musiche ”allegre” o programmi spensierati, pensa che non si trasmetteva neanche Carosello! E in casa noi bambini dovevamo fare silenzio e non fare chiasso. Poi c’era l’attesa dello scioglimento delle campane, sabato a mezzanotte, e la domenica c’era il pranzo pasquale, rigorosamente preparato da mia nonna con le immancabili uova sode e salame e la colomba pasquale (che, detto fra noi, non mi è mai piaciuta).

La Pasquetta, poi, era l’occasione - se possibile - di una scampagnata per i prati e giocare a pallone sull’erba.
Per l’occasione a mia nonna regalavo una pecorella di zucchero, lei era felice, si accontentava di poco, e ne faceva collezione. Oramai non se ne trovano più.

Che differenza rispetto ad oggi, era un’altra atmosfera! Oggi, per omaggio a quale idea che non ho ben capito, la Pasqua si è ridotta solo ad una grande festa commerciale, con la corsa agli acquisti di cose mangerecce… come se non si mangiasse tutto il resto dell’anno… a comprare colombe e uova di cioccolato, che poi in gran parte vanno buttate dopo aver preso il regalo di plastica, e poi domenica e lunedì tutti a mangiare nei parchi, cercando di sporcare il più possibile, e siccome non c’è posto per tutti, chi tardi arriva…, una volta ho visto addirittura persone che si erano accampate in una aiuola spartitraffico! Di rispetto per il Cristo risorto mi sembra non ce ne sia più”.
 
“Bene zio, vedrò di trovarti una pecorella di zucchero”, gli ho risposto pensando di fare lo spiritoso.

Zio Attilio mi ha guardato con una sorta di sogghigno: “Vedi piuttosto di non portarmi il solito uovo di cioccolato al latte, lo sai che preferisco soltanto il fondente!”

Ed è tornato a telefonare al parroco.
                                   
(Silas)
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MM
 

Esperienze

ERA UN UFO

L’anziana autrice del racconto ci conferma ancora oggi che la vicenda andò proprio così, come lei la rivive  in questo ricordo del 1993.

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Dopo aver visitato la stupenda distesa archeologica dove riposa il gigante di Tolomei e dopo aver visitato la tomba di Terone, si andò verso la Valle dei Templi, dove si ergevano il tempio di Giunone, il tempio di Castore e Polluce, il tempio di Ercole; e mentre si andava i mandorli del viale scintillavano di frutti e di fiori  delicatissimi che inebriavano l’aria con il loro profumo di primavera precoce. A febbraio la primavera splendeva infatti già prepotentemente su quelle ondulate e folte chiome di alberi che sembravano prendere per mano i turisti, ammirati come davanti a un’incantevole processione fuori del tempo moderno.

Il Tempio della Concordia stava lì, in fondo al viale, maestoso nella sua fierezza, e mostrava a tutti la regalità della sua nobile mole vecchia di secoli. Un gruppo di turisti si sbizzarriva ad ammirare e fotografare i resti di quei templi con le loro sgretolature rose dai secoli, resti fascinosi nell’accogliere la folla dei visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Mi ero innamorata di quei luoghi di pace e di bellezza: gli spettri degli “dei” mi avevano affascinata al punto d’infondermi il desiderio di trascorrere la notte lì da sola, magari abbracciata ad una colonna, ad ammirare la maestosità del cielo che trapunto di stelle costituiva in quel luogo incantato uno spettacolo unico al mondo. Mi nascosi dietro una colonna e quando tutti i mormorii intorno a me sparirono mi sedetti su di un gradino ad aspettare il tramonto. Il Tempio della Concordia mi sembrava ora ancora più grande e le sue colonne, che svettavano verso il cielo blu cupo, davano la sensazione che volassero portandomi con loro verso tutto quel paradiso siciliano”, paradiso in ogni stagione dell’anno.

Guardavo intorno affascinata mentre pian piano, all’orizzonte, calava un manto rosso-fuoco che incendiava le colline di mille colori intorno ai Templi, i quali tingendosi di scuro sembrava mi venissero incontro. Abbracciai una colonna e il suo tocco m’invase l’animo di un tenue tepore facendomi pensare che gli dei l’avevano accarezzata tanto tempo fa e avevano lasciata la loro indelebile impronta in ogni angolo di quella valle meravigliosa. Godevo il tramonto infuocato mentre le stelle cominciavano il loro ingresso nella distesa infinita. Pian piano il cielo si popolò delle più belle stelle del firmamento e il loro luccichio illuminò lo scenario irripetibile.

Ad un tratto m’accorsi che nel cielo una luce molto grande mi fissava, cambiando di tonalità. Un po’ impaurita cercai di guardare altrove, ma gli occhi mi andavano sempre lì e quella luce mi accecava con i suoi riflessi diretti proprio a me. Non sapevo cosa fare ed ero impaurita: mi misi a correre oltrepassando tutti i Templi e finalmente uscii dalla Valle finendo nel grande parcheggio sottostante, dove speravo di trovare un taxi che mi portasse in albergo. In un angolo vicino ad un chiosco già chiuso intravidi qualcuno che si muoveva: poi un’ombra mi venne incontro dicendomi: “Dove scappa, signorina! Guardi che andare in giro di notte ad Agrigento è pericoloso, potrebbero rubarle la borsetta e magari violentarLa…”.

Mi accorsi che parlava un uomo di pelle nera, che si esprimeva bene in italiano ed era molto gentile; egli  proseguì dicendo che dormiva accanto ai chioschi, così al mattino era pronto e il primo chiosco che apriva gli consegnava dei souvenir da vendere ai turisti che visitavano la Valle dei Templi e i dintorni: e questo lavoro gli permetteva di comprarsi da mangiare. Gli chiesi se poteva accompagnarmi all’albergo perché, ancora più dopo il suo avvertimento, avevo paura ad andare da sola. Fu tanto gentile e chiacchierando ci avviammo verso il mio albergo, che non era molto distante. Nel salutarlo gli regalai 50.000 lire. Era così felice che mi prese fra le braccia e mi baciò, poi scappò via stringendo forte il pugno che forse non aveva mai stretto tutti quei soldi in una sola volta. In albergo feci una doccia, andai a letto e mi addormentai subito. Ma sognai che quella luce abbagliante mi aveva seguito ed ora stava dietro i vetri della mia finestra a guardarmi: mi svegliai di colpo, smarrita e madida di sudore, andai diritta alla finestra e scostai piano le taparelle; era buio fitto e nel cielo non c’era neanche una stella: ma quella luce grande era lì a fissarmi davvero e cambiava riflessi come per dirmi: “Ti abbiamo vista!”.

Percepivo ora un’intesa perfetta: appena io guardavo cambiavano i toni di luce e sapevo che i suoi misteriosi abitatori mi avevano vista. Dopo una mezzora di smarrimento chiusi le tende e andai a dormire cercando di levarmi dalla testa la luce e il suo strano movimento; erano le quattro del mattino e avevo bisogno di dormire per riprendere il mio giro turistico l’indomani. Alle otto del mattino ero infatti già fuori con il gruppo, composto di quarantatrè persone italo-australiane, e ci recammo verso gli antichi resti di Selinunte. Quanti campi enormi di limoni, aranci e mandarini splendevano al caldo sole primaverile e correvano veloci di fianco a noi! Poi il bus si inoltrava in distese gigantesche di carciofi e grano verdissimo che si piegava al  venticello creando onde sfumate di verde vibrante. Era bellissimo rivedere la mia Sicilia dopo venticinque anni e ritrovarla ancora più maestosa di prima! La Conca d’Oro era una delle meraviglie del mondo, con tutte quelle montagne intorno che la proteggevano da ogni intemperia e calamità.

Selinunte aveva subito la distruzione per mano dei cartaginesi, che vi avevano lasciato le loro orme nei secoli. Io guardavo estasiata il tempio G, il tempio F, la grandiosità del tempio E ricostruito con materiali preesistenti e riordinati da mani esperte. Sull’Acropoli , seduta tra le colonne, vidi di nuovo Abdul, il ragazzo africano che avevo conosciuto prima: “Ciao, come mai sei qui e non nella Valle dei Templi?”. “Ciao, Jenny: sono stato licenziato perché negli ultimi giorni ho venduto troppo poco; mi hanno cacciato dicendomi che sono un buono a nulla; sono venuto qui per parlarti. Ieri mi hai detto che saresti venuta a Selinunte e ti ho seguita: dove sei tu ci sarò anch’io, se vuoi”. “Senti, Abdul: io devo girare ancora tutta la Sicilia e non posso portarti con me. Tieni centomila lire e cercati un altro lavoro!”. Si sedette sopra la grande rotonda di pietra giallastra, rimasta affondata per metà nella terra perché impossibile alzarla e rimetterla al suo posto sul tempio ricostruito. E rimase lì a guardarmi, triste, mentre si passava dall’Acropoli al tempio D. e al tempio M. e poi al santuario di Malophoros.  

Lasciai Selinunte e tutto il suo fascino dorico. Per gli altri quindici giorni che rimasi in giro per la mia splendida Sicilia non vidi più il mio giovane amico africano. Lo rividi però a Vizzini, la mia stupenda cittadina, famosa per aver dato al mondo il grande scrittore Giovanni Verga, autore della Cavalleria Rusticana, di Mastro don Gesualdo, Jeli il Pastore, L’Amante di Gramigna, Pentolaccia, Libertà, Don Licciu Papa, La Roba, Il Mistero, Rosso Malpelo, Il Reverendo, Pane Nero, La Lupa... tutte opere  scritte appunto nei luoghi di Vizzini e rappresentate anche come opere teatrali nei posti dove sono immaginate le storie.

Mi trovavo in piazza Umberto I per visitare appunto i luoghi che parlano dello scrittore: il suo palazzo, che si erge maestoso in un angolo della piazza e che sul retro si affaccia nella piazzetta di Santa Teresa; la chiesa della Cavalleria Rusticana, la locanda di compare Turiddu, la casa di Santuzza e più in là la casa di Lola… Ma  davanti alla locanda di compare Turiddu c’era ancora Abdul, che appena mi vide corse ad abbracciarmi dicendo che aveva girato tanto per trovarmi, poi aveva ricordato che Vizzini era la mia ultima tappa e vi si era recato. Aveva cambiato tanti lavori e sempre li perdeva per futili motivi: ora era lì per la festa della ricotta e vendeva papiri provenienti dall’Egitto e non dal “Centro del Papiro” di Siracusa, dove pure si fabbricano i migliori papiri del mondo, provenienti dalla folta vegetazione curata lungo il fiume Ciane nei dintorni di Siracusa: ma nessuno comprava i suoi papiri. Quella enorme folla era attratta soltanto dal veder fare la ricotta e mangiarla. La sagra della ricotta a Vizzini si fa il 25 aprile e attira gente da ogni parte della Sicilia, con una manifestazione folcloristica dove centinaia di pentoloni, in piazza Marconi, nel piazzale di Santa Maria di Gesù e anche in viale Margherita, fanno bollire enormi quantità di latte da dove esce ricotta gustosissima e caldissima per tutti. Si mangia all’aperto e la folla enorme si accalca felice a mangiare, guardare e divertirsi mentre teorie di carretti siciliani stupendamente addobbati sfilano per il viale Marconi e il viale Margherita alternandosi a cortei d’auto d’epoca, a sbandieratori e a spettacoli dei Pupi siciliani, e mentre nelle sale, nella pace che qualcuno sogna dopo tutta quella baraonda, si rappresentano le opere teatrali del nostro Giovanni Verga. 

“Abdul – gli dissi – i papiri li compro tutti io, me li porto in Australia: faranno bella mostra nel mio salotto e nel mio studio, ma tu rimarrai a Vizzini, nel mio meraviglioso paese, dove sono nata e dove sono i miei cari. Te lo cerco io un lavoro sicuro”. Lo Lasciai allibito e andai da mio fratello, ragioniere commercialista, un bellissimo giovane che ha lo studio in piazza Marconi, mentre mia mamma e l’altro fratello anch’egli più giovane di me  abitano in Santa Maria di Gesù: tutte le feste si svolgono lì. Che meraviglia assistere anche ai fuochi d’artificio da una delle bellissime terrazze in casa di mia mamma! Mio fratello, ragioniere commercialista e revisore dei conti di parecchi comuni della Sicilia, ha un grande edificio tutto per sé, con uno stanzone dove c’è lo studio condiviso con sua moglie, anch’essa ragioniera, un altro studio in comune con sua moglie e con la sua segretaria, un ulteriore studio solo per mio fratello, una grande sala d’attesa, una stanza per l’archivio, una stanza vuota, una simpatica stanza da cucina e un bagno completo di ogni comfort, una bellissima terrazza affacciante su piazza Marconi con una vista stupenda su un panorama magnifico e in lontananza  la vista del monte Lauro e i boschi verdeggianti. Loro se volevano potevano abitare nello studio ma avevano anche una bellissima casa in fondo al viale Margherita, che non potevano lasciare inabitata: lo studio rimaneva perciò abitualmente vuoto alla sera e nei giorni festivi, con tutti gli impegni che mio fratello aveva in altre città, e i tantissimi clienti. Pensai che una persona che tenesse in ordine lo studio stesso e lo sorvegliasse di notte non sarebbe dispiaciuta a mio fratello. Chiesi allora  a lui e a mia cognata se volessero un ragazzo che tenesse in ordine lo studio e stesse attento di notte dormendo lì. Dapprima mio fratello credette che scherzassi, ma quando gli raccontai di quel ragazzo marocchino accettarono la mia idea: lo avrebbero aiutato mentre lui poteva aiutare loro, in uno scambio reciproco di cui peraltro avevano tanto bisogno; ci voleva davvero qualcuno che si prendesse cura della pulizia dello studio e vigilasse su eventuali ladri e vandali. Accettarono, dunque, e io mi recai a dare la bella notizia ad Abdul che ne fu felice e mi abbracciò dicendomi: “Tu sei il mio angelo italo-australiano!”.

Abdul cominciò la sera stessa. Non avrei più permesso che si coricasse sui marciapiedi o nelle rovine delle case diroccate. Portammo un lettino nella stanza vuota dello studio e lì avrebbe dormito da quella sera in poi. Era così contento che ci baciava tutti con tanta riconoscenza, specialmente quando mio fratello gli portò anche due paia di pantaloni con due camicie e un paio di scarpe nuove. Abdul, oltre a pulire, teneva in ordine e sistemava tutto con grande entusiasmo. Abitava lì e si prendeva anche una piccola paga mensile; era un tipo simpatico e intelligente, aveva anche un buon [G1] grado di cultura: era scappato dal suo paese solo perché non c’era lavoro e gli piaceva troppo l’Italia. Avrebbe fatto sacrifici di ogni genere pur di rimanerci. Ora il suo sogno finalmente si avverava.

Dopo un paio di settimane rientrai in Australia,  e lasciare i miei fu ancora una volta terribile: ma la speranza che sarei tornata in Sicilia mi dava ora il coraggio di partire. L’Australia era la mia seconda patria e l’amavo, era un paese stupendo, ma pensavo sempre anche ai meravigliosi  giorni trascorsi in Italia tra i miei cari che non vedevo da venticinque anni; e pensavo ad Abdul finalmente felice nel mio favoloso paese, il paese che avevo lasciato a vent’anni. Eravamo partiti con mio marito per un secondo viaggio di nozze in Australia e ci eravamo innamorati di quelle distese immense di verde, di quelle case tutte con splendidi giardini di fiori colorati, delle vastissime praterie e dei deserti immensi, delle strade larghissime e pulite e dei sontuosi grattacieli di Melbourne, che si specchiavano maestosi nel fiume Yarra, il quale divideva la città in due e ne disegnava un panorama da favola: meraviglie che ci avevano incantato al punto di farci decidere a rimanere. La facilità di trovare un lavoro, la fortuna inaspettata di poterci comprare una casa circondata da un giardino bellissimo, l’agiatezza della vita di tutti i giorni, hanno fatto il resto. Poi due bambini: e le loro esigenze dello studio ci hanno fatto decidere ancora più solidamente di restare per donare loro un avvenire sicuro in una terra in continuo sviluppo ed evoluzione.

Dopo parecchie settimane dal mio rientro in Australia ricevetti una lettera da Abdul, in cui mi diceva che fra pochi mesi si sarebbe sposato con la segretaria di mio fratello, una bella ragazza che si era innamorata subito di lui e l’aveva incoraggiato a coltivare quel loro bellissimo amore nato in uno studio di ragioniere commercialista fra scartoffie e computer, iva e faccende tributarie; un amore romantico tra una ragazza color di pesca, piccola e molto magra, e un ragazzo alto con tanti muscoli e color caffelatte.

Un mattino, dopo ore insonni, pensando ai miei cari lontani non riuscivo più a stare a letto e, sentendo il rientro di mio figlio che era stato al disco-night (erano le due del mattino del periodo pasquale del 1993) mi alzo e chissà perché scosto le persiane della mia finestra della camera da letto; c’era tanto buio, un cielo plumbeo, senza stelle nell’immenso firmamento sopra di me: ma una luce grande mi fissava cambiando toni; e io la fissavo stupita. Quella luce era stata tra i Templi di Agrigento: cosa ci faceva ora di rimpetto alla mia casa in Australia, altissima in cielo, bella in mostra, in un punto dove mi riusciva naturale portare il mio sguardo, proprio qui a Melbourne e precisamente nella mia città di Avondale Heights?

Chiamai mio figlio e anche lui rimase a fissarla stupito, mentre la luce continuava a sua volta a fissarci e cambiava riflessi. Non ci dicemmo niente, con mio figlio, ma entrambi sapevamo cos’era quella strana luce. Uscimmo in giardino davanti alla nostra casa ed essa ci fissava ancora di tra le folte chiome degli alberi. Rientrammo e aprimmo le persiane della finestra del salotto: essa era sempre lì, ombrata dagli alberi. Tornammo nella mia stanza da letto parlando dello strano avvenimento. Cosa più strana, mio marito con tutto quel nostro chiacchierio continuava a dormire placidamente senza sentire niente di tutto il rumore che noi due facevamo mentre continuavamo a fissare la luce da dietro le persiane aperte della mia finestra, perché  sapevo che solo da lì si poteva vedere chiara e precisa, in un continuo scambio telepatico intenso fra me e i suoi abitatori. Ad un tratto chiesi a mio figlio di telefonare alla polizia; ma lui non volle. Gli dissi allora di telefonare all’aeroporto domandando se il radar avesse avvistato una luce grande e strana nel bel mezzo del cielo buio di Keilor Avondale Heights, vicinissima all’aeroporto, ma lui mi disse di non pensarci più e di andare a dormire. Però a sua volta non andò a dormire: si mise a guardare la televisione e ogni tanto scostava le taparelle e sbirciava nel cielo e attraverso le fronde degli alberi la luce penetrava ancora i suoi potenti riflessi dorati anche su di lui!

Dalla mia camera continuai a guardare la mia sfera di luce stravagante, che mi fissava come corteggiandomi. Ora, guardandola, non avevo più paura: mi sentivo protetta e subentravano in me una forza ed un coraggio mai avuti prima, e mi prendeva una sicurezza inaspettata, guardavo estasiata e sentivo un’intesa perfetta da entrambe le parti. Tranquilla m’infilai allora nel letto, ma la mia mente mi chiedeva sempre di tornare ad alzarmi e scostare le persiane per guardare nel cielo buio la mia splendida stella luminosa e scintillante di luce fosforescente, con i raggi che mi entravano diritti al cuore e lo scaldavano come un sole d’estate, tanto erano diretti a me e solo a me.

Tutto questo durò fino alle quattro e trenta: col chiarore dell’alba i miei amici scomparvero, ma lasciarono in me un ricordo indelebile e la speranza che sarebbero tornati ancora. Sì, li aspetterò e ancora li aspetto,  ogni sera e ogni mattina, ed è diventato un rito per me spostare le persiane e fissare quel punto fantastico dove la mia grande sfera splendente ha lasciato la sua luce. La mia grande stella con gli occhi invisibili fissati su di me verrà.

Nessuno dei due, fra me e mio figlio, ha mai nominato la parola Ufo. Ma sappiamo che era un ufo, un extraterrestre venuto da lontano per manifestarsi a me, ed io sono qui che lo aspetto sempre; quell’intesa perfetta era nata a poco a poco e la cosa più strana è che la desidero tuttora e vivo nell’attesa di vederla ancora nel mio cielo di Avondale Heights Keylor per proteggermi e farmi diventare più coraggiosa.

Nei giornali del mattino, comunque, appariva un articolo in cui spiccava a grandi caratteri il titolo “Stanotte una strana, grande sfera di luce ha sostato per ore nel cielo di Avondale Heights Keylor”.

L’Ufo l’ho veramente visto, era la notte di Pasqua del 1993 e non dimentico mai la sua visione abbagliante di luce.

 
(Anonimo PremiopratoRaccontiamoci)
 
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Sanremo

LO ZIO ATTILIO E IL FESTIVAL

Da quando lo conosco, Silvano ha forbitissima penna, pensiero chiaro e opinioni che non temono di dichiararsi. Tre ingredienti che egli conferma in questo piccolo scritto a firma Silas, esprimendo una preoccupazione diffusa sulla dubitabile qualità educativa e culturale di musica e testi in corso di presentazione al festival di Sanremo.

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Dopo tanto tempo che non mi ero fatto più vivo, un po’ a causa del Covid, un po’ per pura pigrizia, sono riuscito ad andare a trovare mio zio Attilio.

Lo zio si è trasferito in un villino nella periferia sud di Roma, con un bel terreno dove lui riesce a coltivare una delle sue passioni preferite: il giardinaggio. E lì appunto l’ho trovato, seduto nel suo giardino ben esposto al sole, dove noncurante del freddo stava esaminando una scatola piena di vecchie musicassette, roba che andava per la maggiore neali anni settanta dello scorso secolo.

“Sai - mi ha detto -  nel fare il trasloco in questa nuova casa ho ritrovato tutte queste canzoni che erano successi di molti anni fa. Avranno un certo valore, visto che già da diverso tempo sono tornati di moda cantanti degli anni sessanta. Guarda il Festival di Sanremo, ormai – come parecchie trasmissioni – sembra un programma della terza e quarta età: vi sono cantanti che già erano famosi quando ero ancora un ragazzino, e sono passati più di sessanta anni, ormai la loro età arriva a settanta, ottanta, novanta anni!

Ti dico la verità, la cosa mi mette un po’ di tristezza: tutto ha una fine e c’è un tempo per tutte le cose. A cosa è dovuto questo eterno revival, a nostalgia, a rispetto per il passato, o piuttosto al fatto che ormai di giovani talenti non ne esistono più e dobbiamo riesumare i fantasmi del passato… con tutto rispetto per i fantasmi! Forse questo è dovuto anche ai testi e ai motivi delle canzoni di oggi: a parte qualche rara eccezione, spesso le parole non si capiscono, cantate o meglio sparate quasi con violenza, e la musica non rimane nemmeno impressa nella mente, c’è qualche motivo che riusciresti a canticchiare magari sotto la doccia, come si faceva una volta?

D’accordo, ormai deve essere tutto spettacolo e bisogna trovare qualsiasi cosa per attirare il pubblico ma… siamo sicuri che il pubblico gradisca veramente queste esibizioni e non vi sia invece costretto e ipnotizzato dallo strumento televisivo?”

“Beh, zio – gli ho risposto – questi spettacoli sono l’occasione per dare un po’ di leggerezza agli italiani, dopo tutte le notizie che ci danno i telegiornali!”

“Guarda, tu sai la mia opinione sui telegiornali, e in altra occasione te ne riparlerò, ma che insegnamento ci danno spettacoli come Sanremo? A parte l’esibizione di persone anziane, guarda anche l’abbigliamento dei cantanti,  va bene che bisogna attirare l’attenzione ma c’è un limite di buon gusto: non capisco perché per entrare in teatro – almeno negli spettacoli serali – bisogna indossare un abbigliamento adeguato e invece i protagonisti cercano di essere più straccioni possibile, in alcuni casi essendo addirittura di una volgarità eccessiva.

E guarda anche alcune signore che si qualificano come presentatrici… le donne si lamentano di essere viste come oggetti sessuali e poi si presentano, come è successo l’altra sera con quella blogger, vestita di una calzamaglia con disegnati i suoi attributi sessuali. Bontà sua, ha detto che non era nuda, come al principio sembrava, era solo un disegno, anzi una riproduzione fotografica del suo corpo al naturale… a me è sembrata solo una volgarità – e tu sai che io sono un amante delle donne e del corpo femminile ma in ben altre occasioni! A questo punto mi aspetto che anche il presentatore maschile si presenti con una calzamaglia con disegnato o fotografato il suo membro maschile, magari ben eretto, con la giustificazione che bisogna rendere omaggio alla Bandiera! Ma siamo seri!!!

Avrai notato anche l’esibizione di quel cantante rap o trap o come diavolo si definiscono oggi, che ha preso a calci tutto l’addobbo floreale del palco e poi con violenza l’ha distrutto scagliandosi contro le piante esposte. La motivazione? Non si è ben capita, ha tentato di giustificarsi farfugliando qualcosa, ma quello che mi ha colpito è stato l’atteggiamento del presentatore che quasi ha tentato di consolarlo, poverino, proponendogli di riesibirsi più tardi, magari allestendogli un altro addobbo da distruggere. Almeno il pubblico, stavolta l’ha fischiato!

Ma che insegnamento diamo ai bambini e ai giovani di oggi? Che tutto è permesso, tutto è dovuto, bisogna essere liberi di fare tutto quello che si vuole, di essere prepotenti e maleducati, anzi viva la trasgressione! D’altra parte questo è un paese dove il buonismo impera sovrano, vedi anche la delinquenza: cosa rischi oggi se compi un delitto? Potrei tranquillamente uccidere mia moglie, specie alla mia età e non rischiare praticamente nulla, magari gli arresti domiciliari, sai che bello! Potrei starmene tranquillamente in casa mia a fare giardinaggio senza uscire di casa per qualche tempo, e dovrebbero pure procurarmi l’alimentazione e badare al mio benessere: non esiste il Garante dei detenuti a questo scopo? Peccato che non esista il Garante delle Vittime che dovrebbe preoccuparsi dei diritti loro e dei loro familiari! Per fortuna che non sono sposato!

Ma ora entriamo in casa a gustarci un bel tè… e attenzione a non passare sopra quelle aiuole che ho appena allestito: non si sa mai, per sentirti come quello pseudocantante potresti pensare di calpestare qualche mia piantina fiorita ma stai attento che nonostante la mia età potrei sempre rincorrerti e affibbiarti qualche pedatona nel sedere…”

Entrando in casa l’ho sentito canticchiare un motivetto di Ornella Vanoni di sessanta anni fa...
                                                                                                                                             
                                                                                                                                              (Silas)
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MM
 
 

Il fascino della montagna

IL FASCINO DELLA MONTAGNA

Sono nato in un paese di mezza montagna della Sardegna e mio padre, contadino e pastore, mi ha fatto apprezzare la montagna con le sue foreste ed i suoi animali, il fascino di paesaggi incredibili, la salubrità di fonti d’acqua millenarie ed intatte, la solidarietà forte e poco ciarliera di chi nella montagna vive, e anche le fatiche che la montagna impone. Da grande ho conosciuto poi le Dolomiti, la superba bellezza delle loro altezze, lo stupore incredibile delle nevi a perdita d’occhio, l’essenzialità senza fronzoli delle comunità che ci vivono. Sono sensazioni forti ma a volte anche sfuggenti: per capirne il fascino nascosto e duraturo possiamo ascoltare chi della montagna ha fatto la sua casa stabile e, insieme, il suo lavoro e la sua passione. Come l’autore della testimonianza che segue.

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Da metà dicembre fin quasi a tutto gennaio il sole illumina il piazzale, a lato della diga, giusto per pochi minuti intorno a mezzogiorno. E questo grazie al colle che separa le due cime – la centrale e l’orientale – del Pizzo Tiranno; due cime angoscianti di ombre veloci anche nei pomeriggi estivi; e solo se il cielo invernale regala giornate serene: altrimenti, nella valle si susseguono lunghe  ore di ombra o di neve e bufera, o vento da restare tappati in casa a studiare da dietro i vetri il profilo arcuato della diga e saperci al di sotto il lago, gelato come un immenso campo di pattinaggio.

Sarà solo da febbraio che, nell’indugiare ogni giorno qualche minuto in più sul candore sconfinato, la luce animerà improvvise emozioni. Intanto, secondo gli anni e secondo le nevicate, i versanti ripidi avranno “scaricato”, e coi tuoni delle valanghe saranno esplose nuvole di polvere bianca; da altri pendii, meno inclinati, scivoleranno masse compatte nei giorni a venire: ma sarà solitamente verso metà marzo che i guardiani saliti alla diga del Pizzo Tiranno cominceranno a sentire crocchiare meno dura la neve sotto i loro scarponi. Sul piazzale il mezzogiorno accenderà temperature tiepide, il sole raggiungendo la casa riscalderà le stanze di un calore buono; sopra il davanzale ben esposto il ciclamino occhieggerà gemme minute, giù dal tetto i ghiaccioli perderanno dimensione e profondità, nell’aria qualche insetto ancora stordito affannerà i primi voli. Da allora i giorni alla diga scorreranno nuovi, più vivi.
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E’ pur vero che nel periodo freddo il bacino viene riempito d’acqua per meno di un terzo della sua portata, ed è pur vero che la centralina segnala e regola tutto: ma l’uomo ci deve essere sempre, non fosse altro che per verificare sul posto eventuali malfunzionamenti degli strumenti. Quest’inverno, caso non così raro durante la stagione, sono stato io il guardiano rimasto bloccato alla diga per più di tre settimane filate; con me era di turno Nestino.

Tutto è cominciato il sabato dell’Epifania, quando, subito dopo pranzo, nel cielo lattiginoso hanno cominciato a ondeggiare i primi fiocchi morbidi. Per il cambio mi sarebbe toccato rientrare in paese il giorno successivo, ma la domenica l’elicottero non ha volato; durante la notte sul piazzale della diga era sceso circa un metro di neve: e non sembrava proprio voler smettere.

Cristalli candidi, ossessivi, dondolavano nell’aria gelatinosa, fitti come un disturbo sugli occhi. Non riconoscevo più il parapetto, distante pochi metri da casa. Un silenzio ovattato avvolgeva la conca del Pizzo Tiranno; dentro i canaloni la coltre bianca gonfiava minacciosa fino a raggiungere spessori notevoli e sembrava bastasse un soffio per staccare valanghe: magari anche solo qualche grado in più di temperatura. Immensa, la quiete rivestiva l’immobilità precaria sulle montagne.

In questa calma carica di tensione, e a volte anche il silenzio è tensione, si aspetta quello che sai che deve succedere. Seduto in cucina davanti a un the caldo – Nestino, se non ci sono lavori, sta in camera sua a leggere – seguivo le previsioni meteo e intanto pensavo al bivacco artigliato alle rocce sopra la morena del ghiacciaio. Forse era già scomparso, sepolto dalla neve. Quattro ragazzi, con sci, piccozza e ramponi, c’erano saliti il giorno dopo capodanno: batteva traccia Marco, aspirante guida alpina, un armadio alto due metri e conosciuto da tutti in valle. Erano scesi prima che nevicasse, sapevano di quella perturbazione spessa. Avevamo bevuto insieme un vinbrulè, poi li avevo salutati fermandomi sul parapetto a seguire le loro serpentine sugli sci.
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In casa, alla diga, ci sono sempre scorte anche per una permanenza non prevista; così, quando dopo dieci giorni il caposquadra aveva urlato nella radio che il mio sostituto si era ferito a un piede spaccando legna, io gli avevo risposto che sarei rimasto su senza problemi: lui doveva solo ricordarsi di caricare le bottiglie di genepy – quello giusto – con il primo giro dell’elicottero. La domenica, in ogni caso, nessuno sarebbe potuto salire a causa di un’altra nevicata continuata copiosa fino a metà settimana.
Per Nestino, il mio socio, non era segnato il cambio: spesso lui rimane su anche tre turni di fila: in valle lo chiamano lupo bianco per via dei suoi trascorsi di bracconiere e per i capelli, velati d’argento da quando aveva trent’anni. Sono i suoi ultimi mesi di lavoro, vive solo, l’anno scorso ha perso il fratello in un brutto incidente che non è mai stato chiarito; al bar in piazza qualcuno, sottovoce, fa riferimento a parole forti e a minacce scambiate con la gente alla quale ha venduto la baita, pare costretto dai debiti. Beveva e giocava, il fratello, e la pensione era poca.

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Per necessità, dopo le notizie del mezzogiorno e la chiamata del caposquadra, un’occhiata ai sistemi di sicurezza o un giro con binocolo nei rari squarci di visibilità, tutti i giorni si usciva a spalare neve; con Nestino faticavamo quel tanto da permetterci di raggiungere, senza sprofondare fino al ginocchio, il piazzale dove si posa l’elicottero. Ripetevamo questa ginnastica ogni pomeriggio ma la mattina successiva puntualmente la traccia era già scomparsa. Allora toccava cominciare daccapo: infilavo i guanti e uscivo per primo, con la pala, e ben presto sudavo sotto il cappello e la maglia di lana, e il sudore si gelava alla barba. Una volta aperto il passaggio, Nestino mi offriva da fumare. Era uno dei rari momenti, ad eccezione dei pasti, in cui riuscivamo a scambiare quattro parole. Dopo la sigaretta rientravo e mi rilassavo a lungo nella doccia bollente, piacevolissima. Finalmente la terza domenica di gennaio, una giornata molto fredda e limpida, qualcuno salì per darmi il cambio.

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Sono anni che faccio il guardiano alla diga – quasi sempre in coppia con Nestino – e so convivere con i silenzi e la solitudine: ma a volte, durante la breve luce invernale, certi pensieri danzano sopra equilibri smarriti. Ho imparato a seguirli con razionalità, li raggiungo e li intontisco in una boccata d’aria gelida o nel privilegio di trascorrere momenti unici fuori dal mondo, e li fisso in appunti sulla mia agenda segreta. Così tratteggio disegni, improvviso canzoni che stonano metriche e rime, abbozzo paesaggi estranei a tutto quel candore, addormento desideri su spiagge coralline. Mi allontano nel sogno, cullato dal sole che filtra tra le palme. Vivo fughe rapide, necessarie, fughe in cui lascio sfumare  giornate eterne di nebbia, di vento e gelate, di confessioni profonde. La solitudine, accettata in una scelta, non è pazzia.

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Quando e dove la montagna lo permette, anche in pieno inverno c’è chi la sale calzando gli sci o le racchette da neve. Tuttavia è soprattutto in primavera che gli appassionati puntano al Pizzo Tiranno o ai colli aperti verso nord, terreni e passaggi che Nestino conosce come le sue tasche. I più preparati affrontano un percorso impegnativo che supera una seraccata, passa sotto il bivacco e s’impenna verso il passo di confine con la Svizzera; la scorsa primavera, solo a metà maggio le guide sono scese da lassù con i clienti. All’epoca la neve a copertura uniforme terminava cento metri sopra la diga; dopo, si camminava calpestando terra fin sotto il muraglione, e da lì, quelli abili, sfruttando la copiosa e puntuale colata della valanga nera saltavano e curvavano ancora con gli sci giù per il canale, incrociando al fondo il sentiero che porta in paese.
Per tutta la stagione della neve, però, quando il canale è pericoloso perché dai lati oltre la valanga nera staccano altre slavine, il collegamento da e verso il fondovalle avviene seguendo una via alternativa, che compie un dolce semicerchio. A fine settimana io la scelgo spesso: se ci sono buone condizioni significa una sciata lunga e piacevole. A inizio turno, invece, siccome non voglio perdere quel po’ di allenamento in salita, se il tempo è bello rifiuto il passaggio in elicottero e mi avvio con le pelli di foca sotto gli sci. Ho per me la mattina intera: studio le tracce degli uomini e degli animali, fotografo alberi in controluce e malghe abbandonate, fermo le nuvole che dissolvono sfilacciate. Con amore e gelosia penetro l’intimità della montagna, o almeno così credo. Ed è per questo che quei momenti, unitamente a quelli di altre gite, li voglio rivedere da solo, sfogliando le immagini nel mio egoismo silenzioso; a casa,  in paese, ho tappezzato una parete con ingrandimenti di particolari o di paesaggi in cui io non compaio mai, e non compare mai nulla di mio, a eccezione del primo piano scattato ai miei sci piantati nella neve in cima al Pizzo Tiranno. Sotto tutte le foto ho indicato la data e il luogo, e tutte mi appagano con sensazioni di libertà.

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Anche quest’anno, come gli altri da quando lavoro alla diga, il tempo è passato lento fino ai giorni di carnevale. Ora è primavera inoltrata, una primavera splendida, con il termometro costantemente sopra la media stagionale. Ed è nuovamente il mio turno alla diga. I crocus ravvivano i pendii bassi esposti a sud, la strada che arriva al muraglione è quasi tutta senza neve. L’inverno si sta allontanando: guardo indietro e mi sembra impossibile aver superato la sua immensità con la mia presenza adattata. Già s’avvicina maggio e, a seguire, la sempre troppo rapida estate. Certe sere senza vento potrò uscire in maglietta sui camminamenti della diga a riscoprire la luna piena specchiata nel lago, come una pallida chiazza tremolante. Durante il giorno lo scoiattolo verrà di nuovo a saltare invisibile tra i rami del pino in fondo al piazzale e sui prati in fioritura sgargianti si ubriacheranno le api. Sarà bellissimo vivere quella stagione fuggevole. Rifiuto il pensiero che accenna all’autunno, anche se so che tornerà inesorabile con le nuvole basse e le bufere ostinate sopra il ghiacciaio.  

Ora è primavera e la primavera è attesa, è un’esclusiva che m’illude. E’ primavera, la luce e i colori sono primavera. Otto giorni fa, giovedì della settimana santa, per la strada della diga è salita una famigliola: padre, madre e una bambina. Tutti e tre vestivano maglioni colorati e pedule nuove. Davanti a loro correva una cagna, una giovane lupa appena più grande di un cucciolo; l’ho seguita, balzava instancabilmente su e giù, drizzava le orecchie pronta a lanciarsi dietro al fischio d’una marmotta, o annusava eccitata la neve residua sotto i larici. Al sole, nella radura vicina al piazzale, l’uomo ha posato lo zaino e la donna ha disteso una coperta e preparato i panini. Dopo mangiato mi hanno chiesto una fotografia, li ho fissati che ridevano e la bambina inginocchiata abbracciava il cane.

Prima di scendere sono passai a salutarmi; sedevo davanti a casa e controllavo gli attacchi degli sci: l’uomo mi ha confessato di aver goduto ore serene e nelle sue parole ho colto la stessa forza che spinge l’erba fuori dal terreno. Mentre rientravano – e la bambina correva e chiamava la lupa – la donna ringraziava l’uomo per la giornata trascorsa insieme. Spero che conservino altri ricordi felici di questa primavera.

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Il fine settimana che viene – il tempo è previsto bello – certamente le guide svizzere caleranno dal passo con gli sci insieme ai loro clienti. Peccato che dalla diga in giù toccherà andare a piedi; il canale colmato dalla valanga nera comincia a bucarsi pericolosamente e l’acqua che corre sotto cresce ogni giorno più prepotente. Ma in alto, tra i seracchi, già m’immagino le curve pulite sulla neve assestata, già vedo il sole scintillare riflessi che illuminano vertiginose pareti di ghiaccio, già sento la montagna liberare il suo respiro nel mio respiro. Magari domenica, anziché tornare subito a casa per il turno di riposo, salgo al bivacco e il giorno dopo punto verso il colle. Sono sicuro: troverò la gita tracciata.
                                                                                                                   
                                                                                                                  (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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Famiglia

I NONNI: UNA PRESENZA PER SEMPRE

Famiglia

I NONNI: UNA PRESENZA PER SEMPRE
 
Ancora una storia di vita: affinchè impariamo sempre meglio a dare alla vita un valore profondo anche nei suoi aspetti più umili e intimi.

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L’estate era trascorsa e le prime foglie ingiallite cominciavano a cadere dagli alberi, addormentati dal sonno dell’autunno. Da due mesi mia nonna si era adagiata sul letto matrimoniale della sua camera, e coperta da una trapunta attendeva pazientemente che il velo del riposo eterno si posasse sul viso sereno. In alto, sopra la spalliera del letto, il Bambinello in braccio alla Madonna la guardava languidamente, quasi per rassicurarla che presto li avrebbe raggiunti in cielo. Il cancro accompagnato dalla senilità aveva assorbito tutte le sue energie vitali, lasciandola in una quiete apparente mentre interiormente compiva il suo sviluppo. In quel periodo avevo ricevuto una proposta di lavoro importante, da uno studio legale. Laureatomi in giurisprudenza a primavera, ero impaziente di avviare la professione d’avvocato ma sapendo che la nonna stava molto male decisi di prendermi cura di lei. Una nonna è troppo preziosa per essere sostituita con un impiego lavorativo.
Il comò appesantito dai tanti medicinali sembrava una farmacia ambulante, e dove un tempo lei si specchiava vanitosamente pettinandosi i lunghi capelli castani, la polvere si era posata lasciando un sottile strato. La sola traccia, presente nella stanza, della sua giovinezza, era una foto fatta insieme al nonno, prima di sposarsi. Spesso la guardava sospirando, come fosse una finestra che si affacciava sul passato, immortalando la bellezza di una volta, ormai perduta.

Il nonno amava moltissimo la fotografia, fin da giovane, e aveva coltivato per l’immagine in bianco e nero un profondo senso artistico. “Nelle foto – diceva – è possibile compiere un miracolo: fermare il tempo, strappando all’oblio i momenti più belli, e non invecchiare mai”. Fotografava tutto ciò che lo affascinava, dalle persone alla natura ogni soggetto era buono per essere immortalato. La sua cantina era un vero laboratorio fotografico, l’ordine e la cura con cui usava il materiale fotosensibile erano assoluti. Ricordo ancora le volte che mi prendeva in braccio e mi spiegava come avveniva il processo di sviluppo del negativo; mio nonno era insomma una vera risorsa, un concentrato di creatività e conoscenze, e grazie a lui ho scelto di andare all’università. “La sapienza – diceva – è la sola cosa in grado di rendere liberi, ma soprattutto consapevoli di chi siamo e cosa vogliamo essere”.

Nonna lo amava anche per questo suo talento, per questa capacità di vedere e percepire la bellezza nelle cose che, viste di sfuggita, ad occhio nudo, spesso non esprimono nulla se non ciò che sono materialmente, ma, se le si osserva con maggiore attenzione, in esse è possibile vedere la vita ed il tutto perfetto. Solo allora si capisce che meraviglia sono il mondo e l’esistenza, con le loro forme.

Una mattina mi avvicinai al letto per misurarle la pressione e le chiesi come si sentiva. Lo sguardo era immobile verso il soffitto, freddo come quello di una statua, e sembrava non aver ascoltato le mie parole.”Nonna, mi hai sentit…”: non feci in tempo a terminare la frase che lei scoppiò a piangere. “Voglio andarmene”, mi disse con voce commossa. In vita sua solo due volte l’avevo vista piangere: il giorno del funerale del nonno, e una sera dopo avere litigato con mia madre al telefono. E’ stata sempre molto orgogliosa e il pianto per lei era autocommiserazione. L’abbracciai trattenendo la forza per paura di stringerla troppo; il dolore l’aveva affranta. Sentivo le ossa fragili del suo corpo delicato e magro, rivestito da un pigiama di cotone, e in quel momento avrei dato la mia vita per salvare la sua. Si asciugò le lacrime con il lenzuolo e mi porse lentamente il braccio. Le inserii lo sfigmanometro elettronico: la pressione sanguigna e le pulsazioni erano regolari. L’aiutai a sollevarsi dal letto e sistemandole i cuscini dietro la schiena le feci appoggiare la testa accuratamente, accarezzandole la fronte. Tra le pieghe delle rughe era ancora possibile scorgere il fascino celato di una donna stupenda. Gli occhi azzurri e luminosi lasciavano trasparire una forza interiore particolare e il suo sguardo penetrava dentro il mio, riuscendo a cogliere ogni mia preoccupazione. Alzando il mento mi disse: “Sei stanco, dovresti riposarti”. Sorridendo le risposi: “Non ti preoccupare, sto bene”. In realtà ero quasi distrutto e assisterla significava dedicarle tutto me stesso non facendole mancare mai nulla.

Un giorno mi chiamò, dicendomi che doveva parlarmi. “Michele, devi andare via!”, esclamò con un’espressione seria. Non puoi rinunciare alla tua vita per me, io sono vecchia e tra breve lascerò questo mondo; ho realizzato le mie scelte, ora devi compiere le tue”. La guardai per un istante, poi uscii senza dire nulla. Mia nonna è stata per me come una seconda madre: fin da bambino sono cresciuto con il timore che i miei genitori divorziassero, in famiglia i litigi erano all’ordine del giorno, e così più di una volta sono fuggito di casa andando a stare da lei. Dopo cena ci sedevamo sul divano, in salotto, e insieme al nonno vedevamo la tv; prima di metterci a letto pregavamo e delle volte, quando non avevo sonno, mi raccontava una favola. Standomi vicino nei momenti difficili m’infondeva quel senso di coraggio necessario per andare avanti: la nonna aveva tutto quello che mancava a mia madre. Con affetto mi ha cresciuto amorevolmente, e accompagnarla nell’ultimo periodo della sua esistenza significava per me contraccambiare l’amore che mi aveva donato. Le nonne sono delle sante, perché compiono un doppio miracolo: prima mettono al mondo i loro figli, poi crescono i nipoti, con maggiore affetto.

L’assistetti per un mese; morì un tardo pomeriggio di novembre, quando gli ultimi raggi del sole stavano svanendo nel crepuscolo della sera e nel giardino la natura ormai spenta si lasciava bagnare dalla pioggia e il suo leggero e dolce suono aveva accompagnato ogni istante della giornata, rendendo ovattate le ore passate insieme. Come di consueto doveva prendere le medicine: aprii la porta della camera, accesi l’abatjour sopra il comodino e delicatamente provai a svegliarla. “Nonna… nonna, svegliati… devi prendere la medicina”. Nessun movimento né risposta seguì la mia incitazione. Alzai il tono della voce: “Nonna, sono Michele…la medicina… ti prego, apri gli occhi…”. Respirava a fatica. Il cuore batteva fiaccamente e le labbra avevano assunto un colorito violaceo. Iniziai a sudare; un nervoso improvviso mi fece tremare le gambe salendo fino alle mani. Provai a rianimarla, ma i miei sforzi furono inutili. Precipitandomi nel corridoio alzai la cornetta del telefono e chiamai il pronto soccorso. Rispose un’operatrice dalla voce squillante e metallica dicendomi: “Si calmi, mi dica dove abita e cosa le è successo”.

Non riuscivo a frenare la mia agitazione, sapevo che era troppo tardi e che stavo compiendo una corsa contro il tempo ma già persa in principio. Balbettando le lasciai l’indirizzo dell’abitazione, riattaccai il telefono e tornai nella camera. Inginocchiandomi accanto al suo letto e stringendole le mani pregai come quando ero bambino, come una povera anima in pena che dopo tanti anni ritorna alle sue origini cristiane, abbandonate dall’indifferenza dell’età adulta. Come un fiume in piena, le lacrime no riuscivano a smettere di inondare le palpebre e, scivolando fino alle labbra, con il loro sapore salato spegnevano l’amaro che avevo in bocca. Il silenzio glaciale che avvolgeva la stanza era rotto dal tichettio costante della sveglia, la sola a ricordarmi che il tempo non si era fermato. Davanti all’impossibilità di agire mi sentivo debole, bloccato in un limbo tra realtà e irrealtà. La vita continuava il suo corso, impassibile, e intanto in lontananza sentivo la sirena dei soccorsi che stavano arrivando. Sarei rimasto immobile al suo fianco, se non fosse stato per loro, e forse mi sarei lasciato morire, avrei condiviso anche quel momento della sua esistenza. Fino all’ultimo sperai che potesse farcela, ma quando il medico le coprì il viso con il lenzuolo e si fece il segno della croce, capii che non l’avrei mai più rivista.

Il giorno dopo, uscendo dalla casa in cui ero stato per molti giorni, andai in giardino e sedendomi ai piedi della grande quercia appoggiai la testa al tronco. Respirando profondamente chiusi le palpebre addormentandomi in quella pace naturale. Al risveglio ebbi l’impressione che fosse passata un’eternità, nel cielo plumbeo uno spiraglio di sole splendeva lontano e un arcobaleno di colori vivaci nasceva trafiggendo il mantello delle nuvole. Osservandolo mi tornarono in mente tante cose della nonna: per ogni colore un ricordo, un’emozione preziosa. Il rosso porpora del roseto che amava curare con tanta passione, l’arancione del suo grembiule da cucina, il giallo del buonissimo biscotto preparato la domenica per colazione, il verde smeraldo dell’anello regalatole dal nonno per i cinquant’anni di matrimonio, il celeste della sua vestaglia da notte vellutata, il viola del fermaglio tra i suoi capelli, il blu del maglione che ricamò a mano per il mio compleanno, l’azzurro intenso dei suoi occhi ed il rosa delicato e  morbido della sua carnagione.

Non so perché, ma da quel giorno ogni volta che mi capita di osservare l’arcobaleno ripenso a lei e alla sua infinita bontà di nonna. Credo che tutte le nonne ne abbiano una particolare, rara e unica. Come delle madri ci crescono, ci sono vicine, fanno sacrifici per noi, donandoci tanto affetto, poi quando muoiono, dopo tanto amore donato, si accontentano di un semplice fiore lasciato sulla loro tomba. La vita è proprio strana, non c’è quasi mai la giusta proporzione tra il dare e il ricevere, anche se, in cuor mio, sento di averle dato tutto me stesso per aiutarla e per vederla ancora una volta sorridere.

Oggi, dopo un anno dalla sua morte, i miei sentimenti sono rimasti immutati. Delle volte la nostalgia viene a trovarmi, ma è sufficiente che ripensi ai momenti belli trascorsi insieme e subito svanisce. Una persona cara che si spegne è come una stella cadente che smette di brillare in cielo e il desiderio più grande è che possa esserti vicina in ogni momento, mantenendo quel rapporto d’amore che va oltre la vita.
                                                                                                       
                                                                                                                        (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
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Storie di vita

L'ALBA DI UN SOGNO



Questa memoria della sua vita Cinzia la dedica alle figlie, quelle di cui nel racconto parla diffusamente, e che all'epoca dello svolgimenot dei fatti erano ancora bimbe piccolissime. Ora sono donne. E' una vicenda di cui Cinzia, che mi è amica, mi ha parlato più volte perchè più volte ho con mestesso cercato di immaginare che le coincidenze che la lasciano tuttora stupita e riconoscente siano state frutto di pura casualità: ma io stesso trovo in realtà in esse molta più traccia di possibile presenza di Dio che di banale casualità.
 
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Una notte in cui non riesci a dormire… la giornata non è stata delle più simpatiche e prendere sonno, vuoi per la tensione accumulata, vuoi per questa sensazione strana che ho dentro e alla quale non so dare una motivazione, beh… è difficile… il sonno non vuole proprio arrivare.
 
Improvvisamente un forte dolore al seno entra nel cervello; tocco il punto: è proprio sotto il seno, sembra un cordoncino lungo e contorto. E’ proprio nel punto in cui c’è il ferretto del reggiseno e penso sia quello il motivo del dolore. Io non sono molto brava a sopportare il dolore, non lo sono mai stata e poi nella mia vita ne ho avuto già molto: non è stata una strada spianata, la mia vita, anzi quasi sempre in salita. Prendo un sonnifero, tanto le bimbe sono con il padre… Io sono sola e posso permettermi il lusso di dormire anche pesantemente.
 
 Mi alzo: “Gesù, è tardi… farò di nuovo tardi al lavoro”. Il telefono squilla, è mio padre che, come tutte le mattine, mi sveglia, mi passa mia madre; le racconto del dolore e della sensazione strana provata, poi riattacco e corro a vestirmi.
 
Ore 10,00: ufficio; il cellulare squilla: è mia madre. “Cinzia, ho parlato con la mia amica del Policlinico, il professore è in sala operatoria e finisce tra circa un’ora, perché non vai lì? Gli ho parlato al telefono prima che entrasse in sala operatoria e mi ha detto che ti dà un’occhiata subito, se vuoi; sai, sono rimasta un po’ preoccupata dal fatto di vederti così agitata, perché tu non ti curi della tua salute ed è strano vederti tesa”.
 
“D’accordo, mamma, chiedo un permesso e vado”.
 
Ore 12,50, Policlinico: “Buon giorno, come va? Cosa è successo? Vediamo…”. Mentre il professore mi visita, vedo i suoi occhi cambiare espressione, la bocca fare una smorfia di tensione. Cosa succede? Perché quel cambio di espressione?”.
 
“Non ti sfugge niente, eh! Devi andare subito a fare una mammografia, qui non te la farebbero prima di un mese ed anche se la chiedessi con urgenza perderemmo comunque del tempo, quindi devi farla a pagamento, non importa dove ma trova un posto dove te le facciano subito, e domani mattina riportamela qui perché se è come credo (ma spero di sbagliarmi) dobbiamo ricoverarti immediatamente e operarti”.
 

“E’ maligno?” (Che strano pronunciare questa parola… mette paura solo il pronunciarla, ci vuole coraggio anche solo a dirla). “Credo di sì, ma devo averne conferma dalla mammografia e da altri esami, soprattutto da quello istologico, se dovremo operare; ma spero di sbagliarmi”.
 
“Ok, ci vediamo domani mattina”. “Tutto a posto? Ti senti bene? Sei venuta sola?” “Sì, e comunque vada non voglio che nessuno sappia nulla se non sono io ad autorizzarti. Se mamma dovesse chiederti qualcosa dille che sono dei noduli che vanno tolti, ok?”. “D’accordo, ma stai tranquilla, magari mi sono sbagliato”.
 
Una carezza sui capelli…Uno sguardo troppo dolce per una situazione normale… Esco dallo studio, percorro quei lunghi corridoi… Non lo so cosa penso, non riesco a descriverlo, non è una cosa sola, è una cascata di emozioni e di pensieri… il sole fuori… dovrei andare al lavoro, in fondo ho fatto presto, una mammografia: mmmm… dove potrei andare a farla? Da Luciano? Forse da lui: ma mamma scoprirebbe tutto… Sì, ma sarebbe la via più veloce e sicura… Potrei dirle che si tratta di noduli… Sì, ecco, questa è la risposta giusta…No, al lavoro non torno, vado in banca… no, meglio dal mio avvocato, voglio fare un testamento nel quale tutelo le bimbeLe bimbe… devo parlare loro… E che dico loro? Quella psicologa diceva di non mentire loro… E come si fa? Che dico loro? Forse mamma muore? Che strano, mi viene da ridere… se non fosse tragico sarebbe comico: ma non è affatto comico. Ok, ora vado in banca, ritiro, metto i soldi in cassaforte, così se… se… le bimbe non avranno problemi, i primi tempi, anche per il funerale… Poi dovrò preparare anche i miei e parlare con Massimo; e sì, devo parlargliene, è giusto per le bambine, dai, non sono mai crollata; come diceva mio nonno? La grandezza di un uomo non sta nel non cadere ma nel trovare la forza di risollevarsi con dignità.
 
Il cellulare squilla di nuovo: “Ciao, mamma: come stai? Ok, senti: ho pensato che vorrei fare una mammografia, ti ricordi quella sensazione strana? Il professore dice che potrebbero essere delle semplici cistine, ma, sai, vorrei fare una mammografia: oggi è già il 9 luglio e tra un po’ vanno tutti in ferie; sai, ho sentito Paola e ha insistito perché la facessi subito: mi ha detto che sono una pessima paziente, che non mi vede mai, che mi curo da sola, che prima o poi la farò radiare dall’albo perché non seguo mai le sue direttive… Insomma, lo sai, rompe sempre ma ogni tanto bisogna accontentarla; dai, mamma: così non si rompe”.
“D’accordo, ora ti do il suo numero: fissa l’appuntamento e poi fammelo sapere, che ti accompagno”.   “Ok, ciao: stai tranquilla, non preoccuparti anche per le stupidaggini, io sto bene”.
 
Ore 15,00: centro studi e analisi, sala d’attesa. Ci sono una miriade di quadri… non sono belli… quelli dei miei amici invece sono vere opere d’arte… ufffff, ancora non mi chiama…
“Signora, prego, tocca a lei…”.
Entro e davanti a me c’è un signore un po’ grassoccio, tutto sulle sue; Luciano invece non c’è: meglio, così non riporta immediatamente a casa...
“Si tolga la maglietta e il reggiseno e mi aspetti lì davanti”.
E’ sempre imbarazzante fare questo tipo di visite, e poi io odio farmi visitare… diciamo che ho un’avversione per il camice bianco… Intanto lui continua a dare ordini: “Si metta così… ora ferma… Respiri…”; ufffffff, ma quando finisce?
“Ecco, abbiamo finito: può accomodarsi di là, cinque minuti, le do la risposta e può andare”.
 
Di nuovo qui, in questa sala d’aspetto. Forse se leggo un giornale passa prima; la signora vuole parlare ma io non ne ho voglia, ho la macchina messa male, meglio affacciarmi; ufffff…questo non si sbriga…
“Signora… mi scusi…Il dottore dovrebbe rifare di nuovo la mammografia”… L’infermiera è un po’ imbarazzata.
“Signorina, lasci stare, ci penso io”, interviene il medico. “Signora, si accomodi, mi dispiace ma a volte, sa’… basta un niente…il macchinario poi… insomma mi dispiace ma dobbiamo ripeterla perché non è venuta bene…”.
“Dottore, cosa ha visto? E’ un tumore maligno, vero? Guardi, non servono tutte queste storie: sono qui per questo; il professore che mi ha visitata ha richiesto questo esame perché già se n‘era accorto ma voleva una conferma”.
 
E’ strano… è diventato diverso, sembra un’altra persona, gli occhi abbassati, la voce flebile, indica un punto e mi dice: “Vede, è qui… questo… ma ne parlerà con il Suo medico, è meglio…ma non è nulla, tranquilla… oggi queste cose si risolvono…”, e sforna un sorriso forzato.
Continua a farfugliare imbarazzato: so che è poco gentile da parte mia ma voglio andare via e tronco la conversazione, ho bisogno di aria e di silenzio, o forse… ho solo bisogno di me stessa.
 
Scendendo le scale comincio a ridere. Ma tu guarda se oltre le tasse che pago e lo schifo di stipendio che prendo devo anche andarmi a pagare 120 euro per farmi dire che ho un tumore. Torno a casa. Mi sembra di vedere la vita di un’altra persona, gioco con le mie bimbe, guardiamo la tv… un cartone animato…nelle fiabe c’è sempre un lieto fine… Che bello vederle così serene e sentirle ridere… sono tutta la mia vita e non posso morire: vorrei vederle crescere e… ho troppe cose ancora da fare, Dio non può volere questo…
La mattina seguente il professore, dopo aver visto la mammografia, mi fissa il ricovero per il giorno  dopo e l’operazione per dopo due giorni. E ora devo affrontare il momento peggiore, quello che non avrei mai voluto vivere: vado a prendere le mie figlie a scuola ma in questi giorni mi sembro un automa e continuo a chiedermi perché non piango… Ecco, è questo il momento più difficile ma devo farlo…
“Principessa, Cucciola, la mamma deve parlarvi di una cosa importante: posso avere la vostra attenzione?
Annuiscono, sorridono…come è bello il loro sorriso, c’è l’universo dentro…
“Quante ne abbiamo passate insieme, tantissime, vero amori miei? Ma insieme riusciamo sempre a superare tutto… il potere del Trio… giusto, Cucciola? Mamma è andata a fare una visita e il dottore ha detto che ho un problema… beh, non trovo il modo né le parole esatte o giuste per dirvelo… non credo ci siano, non credo che esistano… Hanno detto che ho un tumore. Domani mi ricoverano in ospedale e tra due giorni mi operano”.
“Mamma, ma tu muori?”.
“Non lo so, Cucciola… io non voglio morire e non so a che punto sia ma due mesi fa quando feci un’ecografia mi dissero che non avevo nulla: quindi forse il male è solo all’inizio perché se anche si sono sbagliati e non l’hanno visto devo dedurre che fosse piccolo, altrimenti non avrebbero potuto non notarlo”.
“Promettimi che non muori… io ho bisogno di te, mamma”.
“Principessa, non posso promettertelo ma posso giurarti che ce la metterò tutta e che farò tutto ciò che è nelle mie possibilità perché non accada, perché anche io ho bisogno di voi”.
“Sara, quando mamma dice che ce la metterà tutta ci riesce sempre”.
L’abbraccio che è seguito credo sia stato quello più intenso della nostra vita dalla loro nascita ad oggi. Non hanno pianto, sembrano più mature di quanto mi aspettassi.
 
La sera prima dell’operazione è stata la peggiore. Non ero mai crollata fino a quel momento, ma quella sera mi succede qualcosa che ha dell’inverosimile. E’ tardi, sono stata per delle ore al cellulare con Luisa, una collega, ma principalmente una vera amica che magari non vedo né sento per molto tempo ma che c’è sempre quando ho bisogno di lei e stranamente mi fa sorridere dandomi un po’ di forza e una parvenza di serenità. Ma quando attacco mi sento di nuovo sola e per la prima volta avverto la paura dentro che mi fa impazzire, comincio a piangere e scendo dal letto. E’ buio ed io sono sola in stanza… forse troppo sola… Metto la tuta ed esco fuori per le vie del Policlinico. Quest’ospedale sembra una città…è enorme… di notte poi sembra ancora più grande ed è deserto… Cammino non so quanto e non so dove, continuo a girare per i viottoli di questa strana “città”… continuo a piangere, vorrei avere qualcuno vicino che mi stringa forte… che asciughi le mie lacrime…che mi sorrida e mi dica che supererò anche questa… qualcuno che mi stringa forte fino a far sparire questa paura… ma non c’è nessuno…
 
Mi ritrovo seduta su un muretto tipo marciapiede, ma forse un po’ più alto. Non credo di aver mai pianto tanto. Continuo a chiedermi: “Perché proprio a me? Se esisti, Dio, perché proprio a me? Cosa ti ho fatto? Perché non smetti mai di prendertela con me? E pensare che continuano a dire che sei buono… Mi chiedo: e se fossi stato cattivo cosa avresti avuto in riserva per me? Che cavolo ti ho fatto? Non basta tutto quello che ho passato? Che le mie figlie hanno passato? No, tu non puoi esistere, non può esistere un Dio che permetta questo, se non altro per le mie bambine…”.
 
“Sei sicura che non esista?”.
“E tu chi sei? Di cosa parli?”
“Mi riferivo alle tue domande…”.
“E tu come fai a saperlo? Non stavo parlando… Ero assorta tra i miei pensieri tanto che non ti ho sentito neanche arrivare… Pensavo di essere sola….
“Lo so”. Il vecchio sorride: “ Me ne sono accorto…eri troppo assorta nei tuoi pensieri, e poi con tutte quelle lacrime come facevi a vedermi?”.
Mi asciuga le lacrime… che buon profumo che ha…
“Sai, so cosa stavi pensando perché pensavi a voce alta”.
“Non me ne sono accorta… mi spiace”.
“Beh, capita quando si è disperati e… capita anche di prendersela con Dio, ma lui lo sa che è perché siamo disperati e non se la prende…ora asciuga gli occhi, dammi la mano e stai tranquilla, è solo un brutto sogno…Lo supererai e sarai ancora più forte di prima. Ci vorrà del tempo, molto tempo, dovrai superare molte prove, ma ce la farai. Sei una bella persona, non è ancora il tuo momento…”.
“E come fai a saperlo?”.
“Sono un vecchio – sorride – e con la vecchiaia arriva la saggezza, tuo nonno deve avertelo detto, ne son sicuro…”.
“Io ho paura, mi sento sola, ho talmente tanta paura…”.
“Non sei sola, a volte siamo ciechi e non vediamo tutta la gente che ci vuole bene e che è lì con noi. Chiudi gli occhi e senti quanto amore hai intorno…Dammi la mano, voglio darti una cosa… Questa medaglietta tienila sempre con te, non lasciarla mai, mi raccomando”.
Abbasso la testa, mi sembra tanto pesante e sono tanto stanca.
Riapro gli occhi e… non c’è più, quel vecchietto non c’è più…Io cerco ma è tutto deserto, qui, e io comincio anche ad avere freddo. Apro la mano e guardo la medaglietta che mi ha lasciato… Se non fosse per questa penserei di aver sognato. Che strano, è la medaglietta argentata di Madre Teresa d Calcutta… Cosa vuol dire tutto questo? Chi era quel signore? Mi addormento con questo pensiero, con la medaglietta stretta in mano e con un po’ più di serenità.
 
La mattina mi sveglio ed ho ancora quella medaglietta, ma non ne parlo con nessuno: mi prenderebbero per pazza. Mi preparo, vado in bagno, mi pettino, mi guardo allo specchio…i capelli non mi piacciono e poi vorrei truccarmi, sono così bianca, mi vedo bruttissima… Prendo il profumo automaticamente, poi lo guardo, rido e penso dentro di me: “Ma che profumo… che trucco vuoi mettere?”. Sto bluffando con me stessa, faccio la donna forte, dura, e… vorrei piangere. Esco dal bagno; che strano: ho l’impressione di sentire il profumo di mio padre ma mi guardo intorno e non c’è… Io e lui siamo troppo simili… non verrà mai qui, ne morirebbe, non accetterebbe mai di vedere andar via la sua bambina e non sapere che destino avrà. Siamo troppo simili in questo: tanto forti nell’aiutare gli altri ma se accade qualcosa ai nostri figli la disperazione ci distrugge e subentra il nascondere la testa sotto la sabbia, lo sperare che così scompaia tutto… E’ assurdo, lo so, ma io in questo momento, pur avendo bisogno di lui, lo capisco e so con certezza che lui è qui…non so dove si sia nascosto ma so con certezza che sta piangendo e mi sta osservando, disperato per la sua bimba…
 
L’operazione va bene anche se era uno dei peggiori tumori al seno, un carcinoma infiltrante: ma era all’inizio e i linfonodi erano a posto e poi “non era esploso”, così mi ha detto un medico. Credo che neanche il professore sperasse tanto. Mi hanno detto che, finita l’operazione, mentre gli altri sanitari mi preparavano per riportarmi in stanza, lui si è tolto il camice e la mascherina ed è andato ad aspettarmi nella mia stanza; e in molti mi hanno raccontato che aveva le lacrime agli occhi. Un medico di tanta esperienza e di tanta professionalità e bravura che si commuove ancora… E’ bello scoprire che esistono ancora persone così. Ha lottato con me contro tutti e quando ho detto che non volevo la chemio mi ha appoggiata e mi ha prescritto solo la radioterapia contro il parere di tutti, e poi ha seguitato ad appoggiarmi anche quando non ho voluto la terapia del Novaldex e ho accettato solo l’Enantone. Lui non si ferma alla diagnosi medica ma va oltre… per dare una cura non sottovaluta l’aspetto psicologico ma fa un quadro completo della persona che ha davanti… Io per lui non ero un carcinoma infiltrante numero x, ma ero un essere umano, con molte paure e una soglia di sopportazione al dolore sia fisico che psicologico ormai provata e ridotta al minimo, e su questa base, oltre che sul carcinoma, lui ha deciso la terapia. Questo è un vero medico, uno che valuta sia i danni psicologici che quelli fisici, e le conseguenze di ogni terapia data sia a livello fisico che psicologico; lui aveva capito che su di me gli effetti della chemio e del Novaldex sarebbero stati più negativi che positivi. Sono stata fortunata ad averlo incontrato: ho una stima incondizionata di quell’uomo e non sono la sola. E mio padre? Mio padre mi dissero che comparve mentre la barella sulla quale mi riportavano in stanza usciva dalla sala operatoria; dicono che l’abbia fermata con il volto tumefatto dal pianto, che mi abbia riempito di baci… in silenzio, e che poi sia andato via di corsa. Il mio povero papà, quanto deve aver sofferto!
 
Per assurdo il primo periodo dopo l’operazione è stato il più bello dell’ultima parte della mia vita. Le mie giornate, ricordo, si svolgevano così: mi svegliavo, svegliavo le bimbe, facevamo colazione, arrivava mio padre, portava la piccola a scuola mentre la grande l’accompagnavo io con la macchina lasciandola davanti al cancello.
Alle 9,00 ero all’ospedale San Giovanni per la radioterapia: mai visto un reparto tanto bello, sia pur nella desolazione del luogo; chi ci lavora infatti è di una solarità unica. Un giorno mi chiamò il medico responsabile del reparto (tra l’altro giovane e carino) per il colloquio settimanale di rito, e mi disse: “Allora come si trova qui, signora? Come si sente? Ha qualche cosa di cui vorrebbe parlarmi?”.
Non so perché, ma gli risposi ridendo: “Beh, sì, devo dire che il servizio è scadente…perché non c’è musica e…la mattina ci vorrebbe del caffè… un cornetto… dei dolcetti…”.
“Ha ragione, ma non si preoccupi: provvederemo”.
Pensai: “Stavolta l’ho combinata grossa… Mi sa che si è arrabbiato, ho esagerato, ma non mi andava di parlare sempre di malattie e tumori e di come mi sento quando esco dalla radioterapia e vedo gli altri pazienti che hanno sempre qualcuno che li aspetta e io sempre sola e quella ragazza che quando esce ha il suo uomo che l’aspetta e l’abbraccia forte e la bacia; non ho mai invidiato nessuno, eppure l’ho invidiata… Quanto mi mancava in quei momenti un uomo che mi stringesse forte e che mi desse la forza di continuare a lottare… Ma… perché continuo a pensarci? Che gliene frega alla gente di quello che provo? Anzi se ti sentono lamentarti o dire sempre di star male si straniscono pure e ti evitano come avessi la lebbra… Meglio sorridere”.
 
Il giorno dopo, quando arrivai cominciai a ridere e giocare come facevamo sempre con le altre pazienti in sala d’attesa (che a volte era il corridoio); a volte ballavamo anche…mimando della musica, ma… quel giorno… sorpresa delle sorprese…tutti gli infermieri e i radiologi, quando toccò a me, mi guardarono e cominciarono a ridere, mi fecero entrare e… c’era la musica!...E mentre mi sdraiavo per prepararmi entrò lui, Raffaele, e disse: “Allora il caffè glielo avete dato? (Ehi, c’era anche il caffè!). Per i cornetti, signora, ci deve scusare ma oggi non abbiamo fatto in tempo”. Abbiamo riso tanto… Era davvero meraviglioso, so che sicuramente non mi credete o comunque non riuscirete a capire totalmente l’importanza ed il significato che aveva avuto quello che loro avevano fatto sia per me che per gli altri pazienti perché… nella disgrazia, trovare persone così… è davvero un dono di Dio…
 
Beh, ora continuo nella descrizione delle mie giornate, sperando che vogliate scusare il mio divagare ogni tanto in dettagli che tuttora mi rallegrano ricordandomi che esistono al mondo persone meravigliose delle quali non si parla mai e che non hanno mai ricevuto e mai riceveranno un grazie dalla nostra società.
 
Finita la terapia partivo per Rieti dove dovevo organizzare una manifestazione per il mio capo. Lì ero affiancata da una persona eccezionale, con la quale siamo poi diventati anche amici; c’è molto rispetto tra noi, ma non mi ha mai commiserata pur coccolandomi. E poi c’era un ragazzo, Alessandro, che mi faceva da assistente perché era di lì e quindi conosceva il luogo, me lo avevano affiancato dal comune e dal comando dei carabinieri. Era un ragazzo giovane ma molto maturo. E’ stato il periodo più duro ma anche uno dei più belli della mia vita. Non ho mai riso tanto… Con loro e con la mia amica Angela ho imparato anche a ridere di me stessa. C’era complicità, stima, rispetto…
 
Tuttora con quelle persone è rimasto un legame di amicizia e complicità molto intenso, poi Angela ha condiviso purtroppo con me anche la malattia. Alessandro invece, anche per la sua età, l’ho sempre considerato il mio cucciolo, lui si diverte con me ed è un po’ come “Cimabue” o “Pierino la peste” ma questo gli deriva dalla sua giovinezza, gli dico sempre che tutte queste donne lo porteranno alla rovina perché è sempre pieno di ragazze che gli girano intorno anche quando sta lavorando con me. Ma in realtà… quello che non gli ho mai detto è… che è in gamba, riesce a portare a termine ogni incarico che gli si dà, sa sempre trovare la strada giusta. Insomma, passavo tutta la giornata a lavorare a Rieti e poi la sera (tranne rare volte in cui avevo cene di lavoro lì) tornavo a casa dalle mie bimbe ed ogni sera era una festa. Un Pigiama Party (con tanto di libro di incantesimi e sortilegi) e infine a letto per essere poi pronti per il nuovo giorno. A pensarci ho ancora nostalgia di quel periodo, sembra assurdo ma è così.
 
Passa il tempo tra alti e bassi come per tutte le persone di questa terra. Un paio d’anni fa, durante uno dei controlli trimestrali ai quali mi sottopongono, si accorgono di qualcosa che non va ai polmoni: pensano siano partite delle metastasi… Di corsa vado a fare la tac. Ed anche qui mi accade qualcosa di strano… inverosimile… Sto seduta nella sala di aspetto di una clinica, a testa bassa, e continuano a passarmi per la mente duemila pensieri che, vi sembrerà strano, non ricordo o forse li ho cancellati… Ad un certo punto sento una voce, una donna giovane, scialba, che con la mano mi solleva il mento e mi dice:
  • Preoccupata?
  • Chi non lo sarebbe? Sai, tempo fa ho avuto un tumore e per fartela corta ora devo fare una tac ai polmoni per vedere se è partita una metastasi e… beh, chi non avrebbe paura?
  • No, tranquilla… non devi aver paura… non hai nulla… non è ancora venuto il momento per te… Ma se non ti offendi e permetti, io vorrei regalarti queste quattro medagliette, tienile con te e prega, non smettere mai di pregare… devi credere e pregare… devi aver fede in Dio”. Che strano, sono medagliette di Madre Teresa… Madre Teresa compare sempre nei momenti peggiori della mia vita… Sai, mamma ha tanto lavorato con lei per i bimbi, preparava triangoli per cambiarli, Madre Teresa glieli portava. Sai, è la seconda volta che mi regalano delle sue medagliette, mi successe la notte prima dell’operazione e fu una cosa strana… Ora tu ma… perché quattro, e perché tre argentate e una dorata?
Sorrideva: “Lo so, madre Teresa prega sempre per noi, tienile sempre tutte e quattro con te. Ti serviranno nei momenti peggiori per superarli”.
  • Ah, grazie, bell’augurio! Non basta tutto quello che ho passato finora? Quanto devo ancora subire e quanta forza ancora mi rimane? E se non riuscissi a essere così forte? Se crollassi?
Una voce al microfono: “Il numero 25 per la tac può entrare”.
  • E’ il mio numero: vado, grazie di tutto. Lei deve ancora aspettare molto?!
“Il tempo necessario”, sorride.
Entro e la tac non rileva nulla di maligno né preoccupante. Esco contenta e cerco quella donna per dividere la mia gioia con quella sconosciuta che aveva cercato di rasserenarmi, ma non c’era più e nessuno ha saputo dirmi nulla, anzi nessuno l’ha notata.
 
Io non credo di aver incontrato due angeli ma sono certa che quelle due persone esistano realmente e che madre Teresa, alla quale mia madre si raccomandava spesso per noi confidandole le sue preoccupazioni anche tramite le sue consorelle di Roma, credo abbia fatto in modo che quelle due persone fossero lì al momento giusto e con quelle medagliette per darmi forza attraverso un segno tangibile, materiale; d’altra parte lei quando le dicevano che era una santa sorrideva e ripeteva sempre di essere uno strumento nelle mani di Dio…Chissà… forse i santi sono semplicemente questo, e nel mio caso anche per ricordarmi quanto sia bella ed importante la vita e quanto fossi stata fortunata a scoprire in tempo il carcinoma, ad avere due figlie meravigliose e pochi ma buoni amici che mi vogliono un mondo di bene.
 
Ricordo spesso le parole dei miei nonni, con i quali sono cresciuta e che mi ripetevano sempre che bisogna dare e aiutare gli altri e solo per il piacere di farlo e non aspettarsi mai nulla indietro se non un semplice sorriso… semplice ma che riscalda il cuore ed è il dono più bello. Mio padre ogni suo compleanno ripeteva: “Vuoi farmi un regalo meraviglioso? Regalami un tuo sorriso: è il dono più bello che tu possa farmi”.
Io conservo ancora quelle medaglie; in realtà una l’ho data a mio nipote che ha avuto un problema di cuore pur essendo giovanissimo e sentivo di doverlo fare, ed un’altra ad una vicina di casa per il figlio in coma per un incidente e al quale avevano dato quasi inesistenti speranze, e che invece ora sta bene e nessuno si spiega il motivo della sua guarigione così veloce e totale mentre i presupposti erano tutt’altri; anche a lei sentivo di doverla dare… Ora continuo a chiedermi: le altre per quali motivi mi sono state concesse? Quali altre prove dovrò superare?...
Ma intanto ho imparato a vivere giorno per giorno e a non accontentarmi di sopravvivere ma a godere di ogni emozione, di ogni attimo di serenità e felicità che mi sia concessa; e non smetterò mai di credere che un giorno anche per me arriverà… l’alba di un sogno. Dopo la notte arriva sempre il giorno…
                                                                                                                                     
                                                                                                                                      (Cinzia Cammarere)
                                                                                               
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Storie di vita

STORIE DI VITA

Vite forti. Piene di una sapienza umile ma compiuta. Esistevano: io ne ho conosciute. Probabilmente ne esistono anche oggi. Da cercare forse in ambienti sociali meno sofisticati, adulterati e viziati di quelli prevalenti nella nostra società attuale. Anche quella che vi raccontiamo oggi è vera.
 
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Mi aveva insegnato ad amare la montagna, a dire le preghiere, a credere nei santi del paradiso, ad apprezzare certi profili delle cose, a comunicare con le persone, a saper chiacchierare; mi aveva insegnato che non siamo soli, neppure in uno stralcio lontano e dimenticato di mondo.
 
Era magrissima, non tanto alta di statura; una persona sottile, dal ventre concavo e dalle gambe muscolose come chi aveva davvero fatto tanta strada; aveva un naso un po’ aquilino, leggermente pronunciato e i suoi occhi castani, attenti e vivaci, sapevano guardare lontano.
 
Conosceva un’infinità di rimedi naturali o particolari, veramente singolari e inusitati, contro i mali fisici, di qualunque natura essi fossero, contro le malattie delle galline, la moria dei conigli, la scarsa lievitazione del pane, il freddo acuto ai piedi o le scottature alle mani. Sapeva fare benissimo un’infinità di cose e, anche se non eccelleva – devo dire – nell’arte della cucina, non ho più incontrato nessuno, nel percorso della vita, che sapesse sfornare un pane delizioso e fragrante come il suo. Lo conservava nella madia, anche per settimane… E manteneva intatto il suo inconfondibile sapore, a volte lo preparava anche nella versione dolce: lo mangiavamo ancora caldo, pizzicandolo con le dita e ce lo passavamo di mano in mano finchè, in un tempo incredibilmente breve, non era terminato.
 
Amava moltissimo le castagne, i funghi, la polenta, il pane, forse perchè sono doni diretti della terra che non hanno bisogno di grandi elaborazioni per essere gustati, forse perché erano stati parte integrante della sua vita e delle sue origini. Mi parlava sempre dei posti dove aveva vissuto e mi colpiva il fatto che di tutti i personaggi, protagonisti delle innumerevoli vicende che ricordava, citava ogni volta il nome, tanto che potrei dire anch’io, ora, di averli incontrati davvero sulla strada della mia vita. Aveva trascorso la sua esistenza in un paese di alta collina, che amava definire montagna, posto su un elevato pendio da cui si può ammirare la bellezza della valle, aveva avuto otto figli allevati a polenta, latte, verdura, rosari e preghiere. Aveva visto e vissuto due guerre, sospirato e pregato per un fratello alpino e un figlio partigiano; il primo caduto senza un saluto su altri monti, sconosciuti e lontani, il secondo allegramente ritornato all’ovile dopo che una raffica nemica di mitra gli aveva sbriciolato d’un colpo le suole delle scarpe lasciando miracolosamente intatti i piedi, oltre naturalmente al resto del copro, giovane fiorente e robusto, nonostante la dose giornaliera mai abbondante di pane, polenta e verdura. Da quel giorno la dose di un ingrediente soltanto era raddoppiata alla parca mensa familiare: quella dei rosari e delle preghiere.
 
La sua devozione e la sua fede erano rimaste incrollabili, anche davanti ad altri momenti di grande dolore; diceva che era stato suo padre ad insegnargliela, e a dargliene dimostrazione dopo che aveva venduto la mucca ed offerto tutti i proventi a beneficio della chiesa e dei poveri, quando gli era giunta la notizia della morte, in battaglia, del figlio. E per tutta la vita aveva conservato un oggetto da cui non si staccava mai: era un librettino di piccolo formato dalla copertina di finta pelle nera che definiva “il libro della messa”, scritto a caratteri rossi e neri, parecchio consunto in certe parti per la frequenza e l’assiduità della lettura, della quale avrebbe potuto fare benissimo a meno perché sono convinta ne conoscesse a memoria il contenuto, anche delle parti in lingua latina.
 
Anche successivamente, quando non viveva più nelle ristrettezze del passato, aveva mantenuto una sana repulsione per lo spreco o la spesa inutile; non buttava mai alcunché potesse, nella sua logica, essere riutilizzato, anzi riponeva gli oggetti in disuso in posti ben nascosti, in modo da poterli poi recuperare al momento adeguato. Una volta scucendo una camicia ormai rovinatissima aveva conservato i bottoni, riponendoli con cura nel suo cestino da lavoro; essendone rimasto uno alla fine dell’opera, lo aveva inserito in un bicchierino piccolo di liquore nella credenza a vetri: giunto subito dopo un ospite inatteso e volendo offrirgli qualcosa da bere, afferrò il bicchierino e lo riempì di grappa…Sulla sua superficie galleggiava allegramente il bottoncino colorato. L’ospite, come nulla fosse, bevve il contenuto lasciando sul fondo il corpo estraneo che, con una risata, una volta lavato il bicchiere fu collocato al suo posto, questa volta quello adeguato, il cestino da lavoro.
 
Così aveva mantenuto per tutta la vita un suo equilibrio interiore ed una serenità vera dell’anima, anche molti anni dopo quando, nelle sere d’inverno, attorniata da uno stuolo di nipoti, saliva piano le scale per raggiungere la camera da letto e, per rispondere scherzosamente alle risate e ai giochi rumorosi dei bambini, gridava dall’alto del pianerottolo con tono gioioso: “Seccamelica!”. Nessuno conosceva il senso della parola strana, ma pareva una formula magica, una specie di portafortuna, e dal buio del sottoscale tornava un’eco divertita, tra cori di risate, con questo misterioso “Seccamelica!”.
                                                                                                                                     
                                                                                                         (Maria Francesca Giovelli)
 
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Storia e storie

IL GERANIO DI MIO PADRE


Distraiamoci un poco dalla politica, non per deresponsabilizzarcene bensì… per ricordare sempre che essa deve avere come riferimento la persona, il suo servizio, la sua realizzazione compiuta, la solidarietà comunitaria. Per questo vi offro un’altra “storia vera”, una “storia di vita” fra le innumerevoli che altrimenti si consumerebbero in silenzio nella disattenzione di tutti: mentre invece sono cariche di insegnamenti e promemoria per la vita di ciascuno di noi, per il nostro impegno sociale e per la coerenza necessaria delle nostre istituzioni. Devo la storia, finora inedita, ancora una volta, agli indimenticabili amici del Premio Prato Raccontiamoci.

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Verso mezzogiorno la caposala si assentò dal reparto. Vi rientrò una mezzora più tardi, coi capelli sistemati e le labbra fresche di rossetto. Qualche minuto dopo, scortato dal solito drappello di assistenti, anche il primario fece la sua comparsa. Per cominciare, chiese alla caposala del paziente signor Caio. Una volta che la donna glielo ebbe indicato si avvicinò a lui e, presentatosi come il professor Taldeitali, lo invitò a passare nel suo studio di pomeriggio.
A qualsiasi altro paziente la cosa sarebbe suonata quantomeno strana, ma mio padre era un medico e tra colleghi, pensò, un minimo di riguardo sempre si conviene. Perciò, tranquillo, aspettò che si facesse ora  di andarsene. Alle tre del pomeriggio non gli restava altro da fare che mettere le sue cose nella borsa e recarsi dal professore. La porta dello studio era semichiusa. La spinse quanto bastava perché dall’interno qualcuno, accorgendosi di lui, gli facesse cenno di accomodarsi. Il professore sedeva comodamente dietro a una scrivania ingombra di carte e pacchetti di sigarette mezzo vuoti o accartocciati. Scusandosi per il disordine tirò fuori dal cassetto una cartella.
“Ho qui…”, esordì lasciando la frase sospesa.
“Allora?”, lo incalzò mio padre. A quel punto l’uomo tentennò il capo e iniziò a tamburellare con le dita sulla scrivania. Poi, rompendo gli indugi, con un tono didattico spiegò che per colpa di una malattia degenerativa, tecnicamente un “glaucoma ad angolo chiuso”, presto mio padre sarebbe diventato cieco.
“Come, cieco…?”, farfugliò il paziente.
Un silenzio di pietra riempì la stanza. Al culmine della tensione il professore fece: “Davvero mi spiace…ma tra colleghi è inutile girarci intorno…”.
“Cosa significa… cieco?”, chiese ancora mio padre, in preda all’angoscia. Caso volle che il telefono cominciasse a squillare, liberando l’uomo dalla spiacevole incombenza di dover fornire ulteriori dolorose spiegazioni. Si spicciò ad accompagnare il paziente alla porta e, dopo avergli messo tra le mani la cartella contenente gli esami, lo salutò con un colpetto consolatorio sulla spalla. Mio padre si credeva, e forse lo era, un medico d’altri tempi: di quelli che non hanno medaglie o lustrini da mostrare in pubblico e mai s’abituano all’umana sofferenza. Loro, i professori, hanno invece l’invidiabile dote di pronunciare terribili sentenze manco stessero facendo quattro chiacchiere sulle bizze del tempo. Mio padre, del resto, conosceva bene quel modo di fare sbrigativo e indifferente.
Per questo, prima di arrendersi all’evidenza sottopose il caso ad altri specialisti. Il verdetto, tuttavia, non cambiò di una virgola: pochi mesi, un anno a essere generosi, e sarebbe precipitato in una notte infinita. Si convinse che nessuno avrebbe potuto comprendere o mitigare la pena che gli pesava sul cuore. Per dovere ne diede notizia alla moglie e ai figli, certo com’era che se ne avesse parlato anche in giro un turbine di frasi stucchevoli e ipocrite sarebbe passato sopra di lui risucchiandolo anzitempo nella disperazione più nera. Si sforzò di vivere come se niente dovesse accadere. Ogni volta però che s’incantava davanti a un tramonto, la malinconia lo assaliva; una malinconia intima, dolorosa, che ora lo faceva sentire una pianta senza più radici, ora trasformava i suoi occhi in potenti obiettivi capaci di mettere a fuoco e fissare sul negativo della memoria il più piccolo dei particolari, la più sottile delle sfumature.
Nel periodo ch’ero mancato da casa, a parte naturalmente la malattia di mio padre, non vi erano stati grossi cambiamenti. Mia madre continuava a fare la vita di sempre: sbrigare le faccende domestiche, badare al menage familiare e giocare con le amiche a burraco il giovedì pomeriggio. Anche mio padre, sebbene avvertisse ormai il fiato del buio sul collo, perseverava nelle sue abitudini: compresa quella di svegliarsi ogni giorno alle sei e dieci precise. Continuò a farlo senza eccessiva fatica fino a un mattino quando, non sentendo provenire dal corridoio il consueto ciabattare, preoccupato mi buttai giù dal letto, uscii dalla stanza e lo vidi brancolare per la casa con le braccia protese in avanti.
“Scusa se ti ho svegliato… ma stanotte non riesco proprio a dormire…”, disse sentendomi arrivare.
“Ritorno in camera a aspetto che si faccia ora di alzarmi”, aggiunse non accorgendosi che il sole già rimbalzava dalle finestre al soffitto. A tentoni, sbattendo prima i ginocchi contro il comodino, riuscì ad arrivare al letto. Mia madre dormiva un sonno profondo e non s’accorse di nulla. Una volta nel letto egli tirò un lungo respiro e sussurrò: è finita… mentre due lacrime silenziose gli rigavano le guance. A vederlo mi si gelò il sangue. Quelli che seguirono furono mesi carichi di silenzio. Malgrado io e mia madre ci prodigassimo per calmarlo, mio padre se ne stava ore intere sprofondato in poltrona a frugare con la mente nel passato, a cercare di rimettere a posto quei tasselli della memoria che via via si andavano scollando.
Finchè, una sera, accadde qualcosa di nuovo. Forse destato dalla pioggia che batteva sulle persiane, fermò su di me i suoi occhi spalancati e all’improvviso prese a parlare della sua infanzia. Di quando, pur vivendo in un paese che pareva dimenticato da Dio, fantasticava di diventare un marinaio per girare il mondo. Con voce sognante raccontò del giorno in cui finalmente riuscì a vedere il mare da vicino: aveva diciannove anni ed era anche la prima volta che viaggiava sul treno. Stette tutto il tempo col naso schiacciato sul finestrino: calanchi d’argilla, boschi e fiumi si susseguivano veloci al di là del vetro, facendolo sobbalzare di meraviglia. Ma questo fu niente a confronto dell’emozione che provò non appena il treno s’affacciò sulla costa: il mare si svelò ai suoi occhi come per magia. Gli apparve immenso, meraviglioso, molto più di come lo aveva sempre immaginato.
“Così azzurro da confondersi col cielo…”. Accolse in viso un breve sorriso, quindi esausto s’abbandonò sullo schienale della poltrona. Mi sorpresi molto a sentire quel racconto. Sin da bambino ero stato indotto da mio padre alla passione della montagna: crescendo nella convinzione che solo il silenzio incantato dei boschi o la solitudine delle cime più aspre facessero stare l’uomo in armonia con l’universo. Eppure, adesso che ci riflettevo, non rammentavo una sola volta in cui avessi sentito mio padre fare un qualche discorso sul mare. Né per dirne bene né per dirne male. Tanto strideva questa considerazione con quello che avevo appena sentito dalla sua viva voce, che mi sedusse un’idea: e se avesse custodito in fondo al cuore un amore segreto per il mare? Talmente segreto da essere taciuto a tutti? Il giorno dopo quella rivelazione feci a mio padre una proposta.
“Ti andrebbe di andare al mare?”. Non rispose, ma dal movimento sorpreso delle ciglia fece capire che gli sarebbe piaciuto. L’occasione si presentò di sabato: era piovuto per l’intera settimana e con l’autunno alle porte quel mattino sembrava fatto apposta per starsene fuori all’aria aperta. Chissà come, lo convinsi a uscire dall’esilio in cui s’era ficcato.
“Dove si va?”, chiese pimpante.
“Si-va-al-ma-re!”, gridai quasi, sottolineando le sillabe.
“Al mare! Al mare!...”, ribadì mio padre sprizzando contentezza. Arrivati sulla spiaggia non trovammo che pochi ombrelloni sparsi qua e là, gruppetti di ragazzi intenti a prendere il sole, qualche viandante perso nei suoi pensieri. Egli mi prese sottobraccio e insieme ci incamminammo lungo la battigia, accompagnati da una leggere brezza.
“Senti che profumo…”, disse. “Lo sento, papà, lo sento!”.
Papà… Questa parola riecheggiò nella mia mente da lontano. Ebbi un sussulto nello scoprire che aggrappato a me si trascinava ora lo stesso uomo del quale un tempo avevo quasi venerazione. Mosso da un antico pudore ritrassi il braccio.
“Che c’è?”, fece mio padre. “Niente, mi si era slacciata una scarpa…”. Proseguimmo tenendoci a braccetto, mentre non lontano da noi gabbiani solitari perlustravano il mare. Mi ricordarono i falchi: capitava spesso in montagna che mi fermassi per seguirne il volo, ammirato dalla maestria con la quale, padroni delle correnti, dispiegavano le loro ali come vele nel vento. Questa similitudine tra falchi, dominatori del cielo, e gabbiani, sentinelle degli abissi marini, mi spinse a pensare che in fondo il mare altro non era che la cima di una enorme montagna capovolta le cui vette bucano profondità sconosciute e intangibili.
Passeggiando, giungemmo nei pressi di una pineta. Qui, su un campetto di fortuna, dei ragazzi giocavano a calcio. Sentendone le urla mio padre chiese quale fosse il motivo di tanto baccano.
“Ragazzi che giocano…”, risposi distrattamente senza fermarmi. Allora mi strattonò il braccio e tese l’orecchio. Rigore! Rigore! Un grido si levò sopra gli altri: i ragazzi si fronteggiavano dando l’impressione di doversele suonare da un momento all’altro. Poi gli animi sbollirono e dal gruppo uscì fuori uno col pallone tra le mani: sistemò la sfera sulla sabbia, quindi fece molti passi all’indietro. Informato da me su come stava mettendosi la faccenda, mio padre chiese lumi sul tipo di rincorsa che il ragazzo stava per prendere.
“Ha preso una lunga rincorsa!” gli dissi, “e dal piede d’appoggio credo che voglia battere col destro”. “Di sicuro sparerà in cielo!”, profetizzò mio padre. Un attimo dopo, calciata di punta, la palla s’impennò altissima sulla traversa. Stupito guardai mio padre, ma restai di stucco a una sua richiesta.
“Vuoi battere un rigore?!...”. “Sì, un rigore!”. “Ma andiamo, papà!...”. “Ti prego, chiedi ai ragazzi di farmi tirare un rigore!”. Usò un tono di voce tanto supplichevole da costringermi comunque a tentare. Individuai allora quello che tra tutti i ragazzi aveva maggiormente l’aria del capo e, presolo in disparte, tentai di ammorbidirne il cuore buttandola sul fatto che dopotutto non sarebbe costato loro nulla esaudire il desiderio di un anziano signore, per giunta cieco. Il ragazzo all’inizio pensò lo stessi canzonando, poi di fronte a tanta insistenza finì col cedere.
“Fermiamoci, che il vecchio vuol battere un rigore!”, urlò agli altri traboccando di sarcasmo. “Imbecille”, lo apostrofai tra i denti. Nell’attesa che tutto fosse pronto, i giocatori fecero capannello al centro del campo. Contai undici passi dalla linea della porta e con la mano spianai giusto un fazzoletto di sabbia per poggiarvi sopra il pallone. Un vociare divertito aumentava col passare dei secondi fino a scoppiare in una risata cattiva allorquando mio padre, nel tentativo di raggiungere da solo il punto di battuta, incespicò malamente su sestesso. In porta, con fare da spaccone, s’avviò il giovanotto che poco prima aveva fallito il rigore. Mentre camminava arrotolò a mo’ di benda la sua maglietta e con essa si coprì gli occhi, suscitando altra ilarità nei compagni.
“Piantala di fare il buffone!” Sbottò mio padre. “Dai nonno, sbrigati, che non ho tempo da perdere!”, replicò duro il ragazzo, che, liberati gli occhi dalla benda, si piazzò davanti alla porta ostentando impazienza. Mio padre sfiorò la palla col piede sinistro per verificarne l’esatta posizione, dopodichè arretrò di qualche centimetro rispetto a essa facendo così capire al suo avversario che avrebbe calciato nell’unico modo per lui possibile: senza rincorsa, da fermo. Questo rese il giovanotto in porta ancora più strafottente.
“Allora, vecchio…”. L’ultima vocale gli morì in gola. Con l’istinto e la rapidità di un falco quando piomba sulla sua preda, mio padre lasciò partire un rasoterra secco e angolato che il portiere neanche provò a respingere. Restai di sale. S’ammutolirono anche i ragazzi, eccezion fatta per il portiere che, rosso di collera, inveiva a più non  posso. Dalle sue imprecazioni mio padre capì ch’era riuscito nell’impresa: sollevò le braccia al cielo,  incurante di uno che ruminava “solo culo, vecchio, solo culo!...”.
Ebbi la strana percezione che quello appena visto in azione non fosse mio padre ma la sua controfigura. Dov’era l’uomo vinto e senza speranze che suscitava la compassione mia e quella degli altri? Addirittura mi balenò nella mente il sospetto che non fosse mai diventato cieco del tutto, che a un certo punto della sua vita avesse deciso di starsene separato dalla vita stessa, stanco di guardare il mondo dalle grate di giorni sempre uguali, ordinati e spogli come camere d’albergo, cosciente d’aver sgobbato una vita intera per pagarsi la casa e l’auto nuova, nient’altro. Pentito d’aver lasciato partire i suoi sogni senza aver fatto niente per trattenerli. Forse persino deluso della famiglia. Molto, molto meglio, fingersi malato, abbandonare la partita e rinchiudersi nel proprio mondo.
Per scacciare alla svelta tali assurdi pensieri, col pretesto che si stava facendo tardi misi fretta a mio padre. Nella luce del giorno che lentamente sbiadiva prendemmo la via del ritorno, lasciandoci dietro i ragazzi che ancora increduli commentavano tra di loro l’accaduto. Rimanemmo per un po’ senza parole. Poi di nuovo il tarlo che mi si era annidato nella mente prese a scavare il suo buco.
“Ma tu sul serio sei cieco?”: rivolsi al mio padre la domanda più stupida e cattiva che si possa fare a un cieco. “Sono cieco, figlio mio, com’è vero che a te in questo momento è dato di vedere la bellezza del mondo”, rispose. Sulle prime rimasi interdetto, poi volgendo lo sguardo all’incendio del sole sull’orizzonte…”eccola la bellezza del mondo!, esclamai tronfio dentro di me. Appena dopo però provai  pietà per chi, come mio padre, non poteva goderne alla stessa maniera.
“Sono stato davvero uno stupido…”, confessai ad alta voce mentre lo abbracciavo. Un senso di sconfitta mi travolse. In tutti quegli anni non era mai successo che fossimo stati così vicini da bagnarci all’unisono della stressa lacrima. Restammo abbracciati per un minuto, forse due. Un tempo infinitamente breve ma sufficiente a cancellare d’un colpo tutta la distanza che ci separava. Il mare appariva ora tenebroso e la spiaggia completamente nuda, abbandonata alla quiete della sera. Tornando verso casa, divorato dalla curiosità chiesi a mio padre come avesse fatto a indovinare quel tiro.
“Conosci Borges?”: eluse la domanda con un’altra domanda.
“Certo che conosco Borges…”, risposi non avendo ben chiaro dove volesse andare a parare. Al di là della circostanza che fosse cieco mi parve piuttosto un argomento buttato lì a caso, tanto per glissare a una domanda impertinente. Sbagliavo.
Mio padre abdicò alla vita trascorsi tre anni, due mesi e otto giorni da quel pomeriggio. E una domenica d’ottobre, mentre  stavo mettendo in ordine la libreria mi capitò davanti un piccolo volume dalla copertina quasi nuova. S’intitolava “La rosa profonda” e Jorge Luis Borges ne era l’autore. Leggendo quel nome mi si aprì la mente: col cuore in gola iniziati  a sfogliare il libro pagina dopo pagina. A un tratto l’occhio cadde su un verso sottolineato in rosso che recitava: Sono cieco e ignorante ma intuisco che sono molte le strade”. Sullo scontrino che a quelle pagine ancora faceva da segnalibro lessi una data: 20 marzo 1995. Ricorrendo a un semplice ragionamento dedussi con certezza che quello fosse stato l’ultimo libro letto da mio padre prima d’arrendersi all’oscurità. Come se, nell’atto di consegnarsi a essa, avesse voluto fissare dentro di sé tutta la forza e la bellezza che quei versi esprimevano. Più andavo avanti nella lettura, più coglievo la bellezza del mondo nella sua essenza. Prima pensavo bastasse solo guardarlo, il mondo, per farne parte: non capivo che non noi siamo nel mondo, ma è il mondo a stare dentro di noi. Mi sedetti sulla poltrona, la sua poltrona, e ripensando a lui mi lasciai andare alla nostalgia. Per meglio farmi cullare dai ricordi chiusi gli occhi. Quando li riaprii, tra le foglie del geranio che stava di fronte, sul davanzale della finestra, intravidi meravigliosi sprazzi di rosa. Per cogliere la “bellezza del mondo” questa volta non ebbi bisogno di spingere lo sguardo fin sull’orizzonte.
                                                                                                                 
                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)


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Anzianità

I MIEI NONNI: TRA RICORDI E SPERANZE

Semplicemente, preferiamo ascoltare con gioia meditativa questa memoria inviataci, ma anche raccontataci a voce, da Flavia, piuttosto che fermarci su qualche nota di stampa che in questi giorni ha riportato la proposta di una povera persona che vorrebbe togliere il diritto di voto agli anziani perché… “a che servono? Sono il passato”. 

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Ricordo sempre i miei nonni, con grande affetto e nostalgia, custodendo gelosamente tutto l'immenso tesoro che mi hanno donato!!!Tesoro rappresentato da esperienza, consigli, proverbi, da una cultura contadina oramai in via d'estinzione che dovrebbe essere preservata e tutelata come patrimonio mondiale Unesco...

Vivo costantemente con il ricordo dei proverbi di mia nonna, con il ricordo dei suoi profumi che inondavano la casa e dei suoi gesti quotidiani, frutto di grande manualità ed esperienza. Ricordo quel viso consumato dal lavoro, con quel fazzoletto che le copriva i capelli grigi, quelle rughe che le solcavano le guance fin giù al collo e le sue mani smagrite con l'immancabile fede matrimoniale, unico monile d'oro che si concedeva. Quel suo modo di vestire, serioso, con pochi fronzoli come a rispecchiare la sua austerità di donna forte e matriarcale.

Ricordo le mani di mio nonno, uomo dalle poche parole, basso in statura ma con le mani forti e callose di chi la zappa la usava molto nonostante esistessero già i mezzi meccanici, perché diceva sempre: " il trattore non arriva dove scava la zappa". Nonni che hanno vissuto ben due guerre e che conoscevano il valore del denaro, del sacrificio e della onestà. Valori e principi, questi, che nessuno mai ci ridarà e che ogni tanto riaffiorano alla mente come quel pesce che scorgi in superficie per esplorare cosa non si sa bene ma quando lo intravedi ti rendi conto che c’è sempre qualcosa oltre la superficie, oltre l'apparenza, oltre quello che vediamo. 
Grazie a voi, nonni, per quel patrimonio inestimabile che ci avete inconsapevolmente donato e che nessuno potrà mai cancellare.
                                                                                                                                                            
                                                                                                                                                   (Flavia Ciracì)
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Storia e storie

IL VIAGGIO DELLE MONTAGNE

Avete mai conosciuto davvero, visto davvero, avvicinato davvero, la povertà e la emarginazione? O avete soltanto letto qualche romanzo commovente o qualche cronaca sbrigativa? Vi offro la opportunità di pensarci un poco di più attraverso questo “racconto di vita”, vero e vissuto.

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Si chiamava Claudina e quando sorrideva mostrava due dentoni bianchi e lucenti a mo’ di paletta, che producevano, a mio parere, un gran bel sorriso. Vestiva male: un paio di calze smagliate ed una gonna verde, abbinata ad un maglione infeltrito color caffelatte, ricordo che le durarono per un’intera stagione.
Il pullmino ci scarrozzava per una buona mezzora ad ogni corsa, tra le stradine inghiaiate e polverose della pianura e, in quel frattempo, i ragazzini, un gruppo abbastanza numeroso di ragazzini rumorosi  e boriosi, dal piglio talvolta crudele,  si divertivano a prenderla in giro, canzonandola senza pietà. Talvolta infierivano anche sul fratello, un ragazzotto più giovane di lei di qualche anno, che la fantasia tutt’altro che dolce del gruppo aveva soprannominato poco simpaticamente “Mutando” per via di certi mutandoni di cotone a costa larga, talvolta crivellati di buchi, che i pantaloni smessi da un altro fratello, ed un po’ troppo larghi per lui, lasciavano intravedere ogni qualvolta calavano troppo in basso rispetto alla vita, già di per sé non troppo sottile, del ragazzo, fermandosi sul sedere.
Claudina non accettava passivamente quella sfilza di parole e gesti poco gentili; spesso si difendeva rispondendo agli attacchi e colpiva: talvolta volava qualche calcio ed il fisico, molto più alto e robusto del mio, per fortuna, la aiutava.
Qualche volta ricordo di aver preso le sue difese, a scapito del gruppo che, a seconda dei casi, la isolava oppure la attaccava: e fu così che, in qualche modo, io e Claudina ci avvicinammo, ma senza le confidenze un po’ romantiche e segrete che le ragazze, solitamente, a quell’età si scambiano.
Un giorno venne a trovarmi; la vidi arrivare dal fondo della stradina inghiaiata, con la sua gonna verde-acceso in un nugolo di polvere, inforcando, con poca grazia e tanta fatica, una bicicletta da uomo arrugginita. Restammo insieme un intero pomeriggio tra cortili assolati e fienili impagliati, dove ci esercitammo in una corsa a finti ostacoli e ci dilettammo in giochi più adatti a due ragazzacci che a due fanciulle adolescenti. Ma con Claudina era così: il divertimento era pura allegria, scherzo, risata da cui traspariva chiara una solarità dell’anima non rivelata o forse inesprimibile con linguaggio verbale.
Un pomeriggio, al termine di una scorribanda pazza sull’argine del fiume, verso sera, decisi di accompagnarla a casa; la sua abitazione non era lontana dalla mia e, non so perché, non avevo ancora pensato di ricambiarle la cortesia della visita. Ci avviammo lungo la stradina inghiaiata e, pedalando, restavamo alla pari; il sole moriva alle nostre spalle oltre l’argine del torrente dove poco prima avevamo scorrazzato senza ritegno. Eravamo stanche e l’animo rifletteva ora una serenità quieta, pacata, ma vera e percepibile. Arrivammo finalmente alla sua abitazione: una costruzione seminuova e molto piccola nel cui cortile regnava un silenzio poco reale. Senza proferire parola Claudina mi introdusse in casa; una stanzina al pian terreno dove, in ogni angolo, oggetti i più svariati e differenti affioravano da un disordine polveroso e trasandato. Persino le due figure che in quell’istante l’abitavano parevano parte di quel senso di desolazione, tanto che, ad una prima occhiata, neppure le avevo notate nel cupo colore della stanza. In un angolo accanto alla finestra una donna, vestita con un abito scuro punteggiato di minuscoli fiorellini grigi, si perdeva seduta su una sedia troppo bassa per la sua statura: l’acconciatura, per nulla curata, mostrava una massa di capelli grigi, raccolti in malo modo sulla nuca e pendenti in ciocche ribelli e disordinate sul volto. Cuciva un paio di calzini troppo bucati e, intenta nella sua attività, non distolse gli occhi quando feci il mio ingresso nella stanza. Sul divano, steso con le gambe accavallate, un uomo dall’aspetto più giovane della madre, ma con la stessa aria abbandonata e persa, guardava alcune scene di un vecchio film muto in bianco e nero. Salutai educatamente ed uno dei due genitori mi rispose sottovoce, senza però tralasciare quella immobilità in cui pareva calato. Imbarazzata scorsi velocemente con gli occhi gli oggetti e le cianfrusaglie che riempivano la stanza: una credenza a vetri anni Sessanta straripava di carte e cartacce frammiste a bicchieri, calici spaiati e vecchie tazzine scheggiate; in un angolo, sul pavimento, in una cassetta di legno, riconobbi i libri di scuola depositati in malo modo, gli stessi che a casa mia facevano bella vista nella libreria nuova che, proprio quell’anno, mio padre mi aveva regalato.
Poi lo sguardo si diresse verso l’unica fonte di luce della stanza, la grande finestra al centro della parete di fronte; era senza tende e proiettava, proprio come un grande schermo, l’orizzonte con il suo tramonto tinteggiato e lucente. Intravidi il verde della campagna filtrato dai vetri opachi e, lontano, la mia piccola casa là in fondo all’orizzonte, che oltre ancora, confusamente, si trasformava in una striscia indistinta di alberi, prati e cielo. Mi venne d’istinto il desiderio fortissimo di andarmene in fretta da quel luogo per riconquistare al più presto quel punticino perduto e lontano. Salutai di nuovo in fretta e Claudina mi riaccompagnò all’uscita; volai sulla bicicletta e pedalai fino a non avere più respiro, mentre il cuore batteva forte e quella piccola casa là in fondo al verde ritornava piano piano più grande.
Maggio era ormai terminato; giugno portò gli esami di terza media e poi giunse l’estate. Ogni tanto ripensavo a Claudina e alla sua casa; sapevo che da quella grande finestra avrebbe potuto in qualche modo vedermi da lontano, ma non cercai più la sua compagnia né feci nulla per non perdere la sua amicizia. Poi fu il tempo delle novità e dei cambiamenti; la scuola superiore non mi lasciava più tanto tempo per giocare e la caparbietà nello studio mi incollava ai libri; uscivo sempre meno.
Un giorno capitò all’improvviso a casa mia; me la trovai davanti alla porta col suo sorriso solare. La feci entrare, poi uscimmo verso la campagna a chiacchierare. Le sorridevo come un tempo, ma ormai ero cambiata e fremevo perché il giorno dopo avrei avuto un compito di latino e un’interrogazione di storia: non potevo permettermi di trascorrere l’intero pomeriggio in sua compagnia. Si accorse del mio distacco e mi salutò col suo consueto buonumore: Anche le montagne fanno il loro viaggio quando gli esseri umani non si spostano, disse. Capii solo allora la sua maturità e la profondità saggia e segreta del suo spirito.
La vidi allontanarsi lungo la stradina inghiaiata; le montagne, lontanissime all’orizzonte chiaro sembravano partire anch’esse, definitivamente, con lei.
                                                                                                       (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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Umanità

UOMINI-MACCHINE DA LAVORO?

E’ una storia vera. Appena sintetizzata, ma vera. Del resto, tanti di noi ne avranno conosciute di simili, o almeno sentite raccontare da testimoni diretti, dato che la società umana è ben lontana ancora dal raggiungere una concezione di fraternità nei rapporti sociali  e di lavoro. La nostra civiltà, per alcuni aspetti così avanzata, resta per altri incredibilmente barbara.
 
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Uscimmo dall’ufficio. Il grigiore del cielo di dicembre era sintonizzato sull’umore di Monia, il freddo e l’umidità pesanti erano presagio delle sue imminenti lacrime. Nell’osservarla provavo compassione. Il suo sguardo profondo tradiva la tristezza e delusione provata, e la rabbia che in lei stava per esplodere. I suoi begli occhi castani, così intonati con i biondi riccioli che ballavano al vento, le davano un’aria gioviale ma non mimetizzavano il suo scoramento.

“Non si preoccupi, il Suo inserimento nella lista della cassa integrazione è solo un proforma – le aveva detto il titolare – abbiamo dovuto aggiungere qualcuno dell’ufficio tecnico per giustificare lo stato di crisi”.

Lei lo aveva preso alla lettera, seppur dubitando: “Perché proprio l’unica disabile dell’impresa? C’è altra gente che ha molto meno da fare di me, qui; mentre io potrei sostituire altri, altri che non sono in grado di sostituire me; perché allora non ha inserito qualcun altro al mio posto?!”.

Lei lavorava quasi quotidianamente fianco a fianco con il titolare. Lui indirizzava e lei disegnava, e progettavano assieme case, ospedali, residenze assistenziali, alberghi. Si era sempre dimostrata all’altezza di ogni richiesta. Quel giorno però, lui non si era fatto vivo. E lei aveva ricevuto una lettera dall’ufficio del personale, con la quale l’azienda la informava che sarebbe stata in cassa integrazione per i successivi sei mesi. Lui non aveva avuto il coraggio di dirglielo, di parlarle a quattrocchi. Un affronto, un insulto, un atto che mancava del minimo rispetto.

Non parlavo perché non sapevo che dire. Lì fuori, davanti al parcheggio dell’azienda, sembravamo indifferenti al freddo, tanto gelato era il sangue nelle vene.

Marco, un nostro collega dirigente, parcheggiò e scese da un fuoristrada gigante. Portava uno spolverino in pelle nera in perfetto stile Gestapo, dal quale spuntava una testa ossuta di cinquantenne coperta da un berretto a calotta in lana nera; il suo passo rigido era sottolineato dai tacchi degli stivaletti, anch’essi in pelle nera; il suo sguardo annoiato e spento vagava intorno come foglia sospinta dal vento, evitando con accuratezza di incrociare quello di chicchessia.

“Però, Marco, che gran macchina! Nuova?”, dissi con finto fare interessato.

“Eh, sì! Proprio nuova; aziendale, però. Un affare! 47.000 euro di questo modello “full option”; e 16.000 ci è stata valutata quella macchina di tre anni”.

Pensavo alla mia auto 1.200 cc a benzina di undici anni con 240.000 km, e all’illusorietà del sogno di Monia, di trovar casa per stare con il suo compagno.

Marco ci guardava senza vederci. Continuando a vantare le caratteristiche di quell’auto, si diresse all’ingresso dell’ufficio davanti al quale si fermò, sorrise, e a mo’ di battuta ci salutò dicendo: “Il lavoro rende liberi!”.

Poi scomparve oltre, come inghiottito dalla bocca di un drago.

Faceva ancor più freddo, ora, perché il sole si rifiutava di recitare in quel dramma.

Monia mi guardò. Con un filo di voce affermò: “E’ costata 31.000 euro, il mio stipendio di due anni e mezzo!”.

Il tono glaciale e la plumbea pesantezza di quell’affermazione facevano intuire la verità recondita in quelle parole, mostrando quell’efficiente ambiente di lavoro per ciò che era: una fossa comune di cadaveri dai cuori espiantati.

Le mie corde vocali erano paralizzate. Monia si avviò con lenti passi, e in silenzio sparì dietro l’angolo similmente a un fantasma.

Mi guardai attorno. Il vento, la strada deserta, le case ingrigite dal tempo. Ed ancor più tetra mi sembrava l’umanità, capace di sacrificare una donna per una macchina, una persona per un capriccio. Con i primi fiocchi di neve a frustarmi il viso, rammentavo gelidamente l’ufficio, e il doverci ritornare mi parve come l’affrontare un rischioso viaggio verso il mondo disumano dell’Antartide.

                                                                                                  (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
                                                                                            
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Internazionale

UN SOGNO LUNGO PIU' DI MEZZO SECOLO

Cosa accade negli Stati Uniti? Una lunga serie di episodi di violenza razziale, ma non solo razziale (ricordiamo ad esempio le orribili stragi nelle scuole) sembra sottolineare crescentemente che nel paese di Kennedy e di Martin Luther King, della Nuova Frontiera e delle opportunità per tutti, il lungo processo di crescita di coscienza civile, umana, sociale, unita a sviluppo economico e a visione solidale del futuro del mondo, che ha alimentato aspettative e speranze di una immensa moltitudine di persone di ogni condizione nel mondo per decenni e decenni, si stia in questi ultimi anni come arrestando e inviluppando in sestesso fino forse anche a regredire.

Contemporaneamente, il grande paese americano pare dar cenni di tramonto anche nella lidership e nell’autorevolezza che ne hanno contraddistinto il ruolo politico e culturale lungo i settant’anni seguiti al secondo conflitto mondiale. La grossolanità di stile esteriore espressa dalla presidenza Trump ne è stata come un segnale simbolico; e propone un quesito generale gravido di incognite agli americani ma anche a tutti noi, dato che anche nei nostri paesi, Italia compresa, tendono a crescere gli episodi di violenza, intolleranza e superficialità, individuali e collettive, con autori e vittime in tutte le regioni e in tutte le condizioni sociali e di età.

Leonardo Guzzo ci ripropone, nella pagina che segue, quello che fu l’effetto del grande messaggio di conciliazione e fratellanza lanciato da Martin Luther King nel 1963 a tutto il popolo americano, quando l’impressione quasi universale fu che il processo di avanzamento dei valori di uguaglianza, tolleranza e fraternità non avrebbe più conosciuto ostacoli.  

Come poter riprendere il cammino di un umanesimo più attivo e diffuso, anche se non miracolistico? In Usa come in Italia, in Cina come in Urss, in Africa come in India?
 
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Cinquant’anni. Il sogno più celebre e celebrato del XX secolo compie cinquant’anni. Era il 28 agosto del 1963 quando il pastore battista Martin Luther King junior, leader del movimento per i diritti civili dei neri americani, pronunciò al Lincoln Memorial di Washington, di fronte a 250.000 persone assiepate sulla spianata, il suo più famoso discorso.

“I have a dream”, proclamava. "Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità. Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e di giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalità.[...] Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme."

A concepire il suo sogno Marti Luther King aveva cominciato negli anni ’50, quando, da reverendo nel profondo sud degli Stati Uniti, aveva sperimentato in prima persona le conseguenze brutali della segregazione razziale. Ancora nel 1955 a Montgomery, in Alabama, la negra Rosa Parks veniva processata e condannata al pagamento di una multa per essersi rifiutata di cedere il suo posto sull’autobus a un bianco. La risposta di King, pastore della locale chiesa battista, alla follia della discriminazione fu la nascita della Southern Christian Leadership Conference, un movimento per il riconoscimento dei diritti civili agli afroamericani, la scelta della lotta non violenta, l’elaborazione di un codice di comportamento che prevedeva “acutezza di intelletto”, per smascherare i pregiudizi, le false certezze e le astute convenienze dei segregazionisti, “tenerezza di cuore”, per infondere una superiore dignità alla sofferenza, per insegnare e ispirare negli animi più duri compassione, e poi condanna inflessibile del sistema vessatorio e insieme amore fraterno verso quanti pure erano colpevoli di alimentarlo.

In questa rivoluzione culturale risiede l’essenza del sogno di Martin Luther King, il suo capolavoro di fascinazione ideale e abilità politica, il seme di rinnovamento gettato nei meandri oscuri e putridi dell’America. È un sogno, quello di MLK, profondamente radicato nel sogno americano, nell’esaltazione dell’uomo, delle sue doti, della sua libertà, della sua aspirazione alla felicità, al di là dei limiti storici, economici e sociali; è un sogno coltivato da un perfetto eroe americano. Un idealista, uomo di fede e di testimonianza, e allo stesso tempo un abile comunicatore, lucido e determinato, un nuovo e più moderno Gandhi, capace di sfruttare la ribalta mediatica e la forza simbolica dei gesti per la sua causa di emancipazione. Da eroe americano, cinque anni dopo il trionfo di Washington, Martin Luther King sarebbe morto, assassinato a Memphis dalla pallottola di un fucile di precisione, vittima di un disperato, inutile colpo di coda dell’intolleranza razzista. Non prima, però, di aver ritirato a Stoccolma, nel 1964, il premio Nobel per la pace; non prima di aver propiziato l’adozione di leggi federali che sancivano la fine della segregazione nelle scuole, nei trasporti e nei locali pubblici e, benché solo in teoria, la piena partecipazione dei neri alla vita politica, sia come eletti che come elettori.

Dopo cinquant’anni il discorso del Lincoln Memorial resta una lezione di oratoria; spande, ancora, un’eco vibrante, vigorosa, a tratti dà i brividi. All’America, negli anni ’60, indicò la strada della “grande società”, più equa e inclusiva, fedele finalmente ai proclami illuminati dei Padri Fondatori, al mondo lascia per sempre l’immagine splendente della “grande famiglia umana” e un’idea raffinata e colossale: che la nostra libertà – la vera, esatta misura della libertà di ognuno – si realizza attraverso la libertà di tutti.
 
                                                                                                                                              (Leonardo Guzzo)
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Storia e storie

LA CASA SULLA BURE

Ancora un “racconto di vita”, vero e anonimo. Il periodo di ambientamento è quello del dopoguerra, la terra è quella toscana. Quando l’Italia intera si alzò in piedi dalle sue macerie e ricostruì sestessa, superando monarchia e fascismo e realizzando la più bella costituzione repubblicana del mondo e diventando il quarto paese economicamente più forte del mondo. La ricostruzione fu durissima e mise in luce immense forze morali diffuse e operanti in tutto il paese. Erano soprattutto forze di gente comune. Nello stesso tempo, come in ogni tempo della storia umana, accanto agli innumerevoli eroi di ogni giorno c’erano qua e là le carogne di ogni giorno. Ogni persona che nasce, in ogni epoca, è infatti chiamata alla scelta fondamentale se appartenere alla famiglia di Abele o a quella di Caino. Fra molti fratelli di Abele, in questa storia, troviamo anche una figlia di Caino: che alla fine, per fortuna, è stata sconfitta.
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Nelle vecchie case alte sulla Bure, attaccate l’una all’altra in fila come a sorreggersi, la sera, seduti alla nostra tavola, facevamo grandi progetti per quel futuro che ci trovava riuniti. Era il tempo in cui i sogni davano la mano alle speranze, anche se la fame faceva ancora a picca con la miseria: era il tempo di pace, tanto bramato in quei lunghi anni in cui il mondo e le persone erano stati sconvolti dalla guerra e ancora ne portavano i segni.
Nessuno voleva più parlare del passato; la gente era pervasa da una frenesia di rinascita e la parola “futuro” riempiva il tempo e lo spazio. A volte il babbo provava a parlare del tempo passato nelle trincee o nel campo di prigionia, ma tutti gli davano sulla voce; nessuno gli dava la soddisfazione di ascoltarlo, mentre ricordava i compagni e quello che avevano sofferto in quei lunghi anni lontano da casa: così le sue care ombre restavano sospese nello spazio riservato alle cose che non hanno più importanza e che possono attendere.
L’obiettivo del babbo fu subito quello di costruire una casa nuova, pur avendo un po’ migliorato la situazione di quella sulla Bure: dal suo ritorno non pioveva più nelle camere durante i temporali, era stata ripulita la cappa del camino e quell’inverno potemmo accenderlo per cuocere le rape nel grande paiolo attaccato al gancio sopra la fiamma, senza affumicare le poche stanze. Ma era comunque troppo piccola per la nostra famiglia, e mancava dei più essenziali servizi. Ciò che ricordo con più piacere di quella casa sono le grandi travi di lego sotto i tetti delle camerette, travi alle quali erano stati piantati dei chiodi da cui, appesi, pendevano grappoli d’uva messa ad appassire per l’inverno. Solo i miei sogni di bambina potevano essere dolci come quell’uva, poiché in quel tempo anch’io pensavo che tutto sarebbe stato possibile, ora che il babbo era a casa.
Il lavoro che il babbo aveva lasciato quando era stato richiamato alle armi non c’era più: così ora dovette cercarne un altro, che trovò a Prato in una filatura, dove si recava in bicicletta. Faceva turni di otto ore giornaliere, oppure notturne, e quando era possibile lavorava anche la domenica per mettere da parte i soldi per il terreno che doveva comprare per costruire la casa nuova. In famiglia si risparmiava anche sulla miseria, e non ho mai saputo come la mamma facesse a dividere un fiammifero di legno in due o condire il pane con un mezzo “C” di olio.
Aveva ripreso vita l’orto, un fazzoletto di terra sotto il muro della strada, dove si trovava anche un piccolo prato sul quale si aprivano altri piccoli orti delle famiglie che abitavano la borgata. In quello scampolo di terra mio padre aveva piantato due file di pomodori e in luglio, subito dopo la mietitura del grano e la pulitura delle aie da parte dei contadini, c‘era il rito della raccolta dei pomodori per fare la conserva da rimettere per l’inverno.
Ricordo che si mettevano quei frutti maturi nel paiolo e, dopo averli cotti, si strizzavano fino a farne una crema rossa e densa che veniva spalmata su tavole rettangolari: per lo più erano imposte di legno tolte dalle finestre, e così riempite si mettevano a seccare sopra dei pilastri rialzati nel prato adiacente l’orto. Sotto il sole di luglio quella crema diventava densa come sangue raggrumato e rosso scuro. E quelle tavole,  viste dall’alto della strada, sembravano tante bandiere rosse, sospese come le nostre speranze.
In ottobre cominciai la prima elementare; la scuola era situata in una stanza sopra il Circolino di San Niccolò; c’erano solo una decina di banchi e una lavagna, e in un angolo una stufa di legna che non funzionava. Nei giorni più freddi, quando si provava ad accenderla, la stanza si riempiva di fumo proprio come succedeva prima del ritorno del babbo a casa.
Un giorno il babbo annunciò che aveva comprato un pezzo di terra nel centro del paese, e lo annunciò con il tono orgoglioso e trionfante di chi ha raggiunto una tappa importante della vita, e con tutta la determinazione necessaria ad andare avanti, anche se il percorso futuro si annunciava faticoso e irto di incognite. Oltre che alla volontà, la riuscita era infatti legata anche alla salute ed alla solidità del lavoro che egli aveva in fabbrica.
Passò qualche mese prima che ci fossero i soldi per comprare il cemento e infine, non appena la primavera si fece viva, l’acqua della Bure perse il colore giallognolo e il suo scorrere non fu più limaccioso e veloce: allora il babbo prese la pala e incominciò a tirare su dal greto del torrente pietre e rena, facendone due monti che crescevano di giorno in giorno. Io andavo a fargli compagnia mentre egli affondava un poco il letto del torrente togliendone piccole pietre che poi impastava con rena e cemento, e dopo aver messo in una forma rettangolare l’impasto ne faceva uscire grossi cantoni grigi che metteva a seccare in lunghe file ai piedi del muretto, sotto il canneto che costeggiava la strada e dal quale si scendeva sul greto.
La gente si affacciava incuriosita dal muro della Bure a guardare quello strano pescatore di pietre e rena. In quei pomeriggi trascorsi sul greto del torrente, mentre il babbo così lavorava e io gli ero vicina, mi lasciavo prendere dall’atmosfera di quei luoghi come da una magia. In quel tratto le libellule scendevano dall’argine già verde per salutare i pesci volando a fior d’acqua in grandi cerchi; io guardavo incantata quella danza più leggera della brezza che increspava la trasparenza verde dell’acqua, attraverso la quale si vedevano guizzare pesciolini appena nati, in gruppi ondeggianti come piccole schegge d’argento.
Le grosse pietre che servivano da lavatoio erano di nuovo allo scoperto e le donne venivano a lavare i panni con grossi secchi e pezzi di sapone, facendo impazzire l’acqua in mille bollicine bianche che si perdevano in una lunga scia soffice e spumeggiante come panna montata. Il babbo aveva fatto una passerella con grosse pietre per attraversare il torrente nel punto dove faceva una strettoia e l’acqua era bassa, di modo che io potevo finalmente andare sull’argine “soprabbure” e immergermi in quella campagna tanto agognata; mi arrampicavo lungo il muro di sostegno, poi correvo per un viottolo fra due siepi di rovi, e via per i fossi, alla ricerca delle viole a mammola e dei maggiolini che si mimetizzavano fra i pampini sopra i teneri talli delle viti.
Il paesaggio era fresco e rigoglioso, con i campi che già ondeggiavano dei primi ributti del grano come una marea verde; io stavo attenta a non calpestarlo e passavo fra i fossi, anche perché le viti che li recintavano mi avrebbero nascosta alla vista dei contadini, attenti a guardia delle loro proprietà. Quei silenzi, interrotti a tratti soltanto dal rumore del treno che passava sulla vicina ferrovia, e quel senso di infinita libertà , mi facevano sentire la voce della campagna in tutta la sua armonia; il frusciare dell’erba e delle piccole serpi arrotolate al primo sole e che al rumore dei miei passi sgusciavano via veloci, il tremito delle foglie sulle piante mosse dal vento, i ronzii dei primi calabroni e i primi voli delle farfalle… Al tramonto, quando sentivo il fischio del babbo che mi chiamava, scendevo di corsa portando delle viole e dei cesti di rapicelli.
Il babbo si riposava seduto all’ombra del canneto, vicino ai suoi cantoni, fumando una sigaretta e contemplando il suo lavoro come un artista che avesse terminato la sua opera. “Domani” mi disse una sera “cominceremo a portare i primi cantoni sul terreno dove già ho finito le fondamenta, e speriamo che il Brescio (un nostro vicino) ci presti la barroccina”. La barroccina era di legno rosso, con due ruote; sulla bandina, dove erano attaccati i manici, c’erta scritto con la vernice bianca “Lo presto domani”. Fortuna volle che il giorno dopo per noi fosse domani, così partimmo con la barroccina carica di cantoni, passando per via Serragliolo, giù giù fino al terreno. Così, con una mestola da muratore e una livella, ebbe inizio la costruzione della casa.
Per fare il cemento c’era bisogno d’acqua, che il babbo andava ad attingere ad una fontana posta all’inizio di via Travetta, una viuzza vicina al terreno; e sebbene la necessità dell’acqua non andasse oltre un paio di secchi al giorno, i vicini che abitavano le vecchie case della via non videro di buon occhio quell’uomo che, sudato e con la voce roca di fatica, andava ad attingere alla loro fonte; così un giorno il babbo ebbe l’amara sorpresa di vedere arrivare la guardia comunale che, con cipiglio risoluto, cappello in testa, divisa e tanto di libretto in mano, gli intimò di non prendere più acqua da quella fonte perché, pur essendo essa comunale, non serviva per murare e lui doveva interrompere subito ogni e qualsiasi ardire contrario.
La guardia, certo Cecchi, non seppe mai quanto dolore, oltre che umiliazione, questa cosa costò al babbo, che, da uomo tutto d’un pezzo come era, non superò mai l’onta del rimprovero, che sentì come una grossa ingiustizia, né mai perdonò a colei (immaginava anche chi fosse) che gli aveva fatto l’offesa di mandare una guardia a fermare il suo lavoro, come se fosse stato un bandito. Così si fermò il lavoro che con tanto entusiasmo era iniziato, e si dovette attendere di avere i soldi per impiantare un pozzo artesiano sul proprio terreno, dal quale attingere l’acqua necessaria. Passarono molti mesi prima che uno zampillo d’acqua sgorgasse dal pozzo, che era stato costruito da uno zio del babbo che lo faceva di mestiere; e questo permise di riprendere la costruzione di quelle mura, che crebbero a vista d’occhio.
Il lavoro nella fabbrica, quando il babbo faceva le nottate, gli permetteva di dedicarsi alla casa per tutto il giorno, anche se così facendo dormiva pochissimo; e una notte, mentre puliva la filanda, non si accorse di aver premuto il pulsante della messa in moto: e la grande macchina partì schiacciandolo dentro.
Fui svegliata la mattina alle sei da un compagno di lavoro del babbo, che dalla strada andava gridando che c’era stato un incidente in fabbrica e che il babbo era in ospedale a Prato. Vidi partire la mamma in Vespa con lo zio Guido, seguita dalla disperazione della nonna Morina e mia.
Si era fratturato il bacino – ci dissero – ma non era in pericolo di vita; però ci sarebbero voluti molti mesi e molte cure per farlo camminare di nuovo. Allora non esisteva la cassa mutua per gli operai: così, se uno non lavorava non riscuoteva la busta-paga; ci salvò, in quel tempo, la solidarietà dei compagni di lavoro del babbo, che ogni quindici giorni ci inviavano, tramite Alemanno, il suo più grande amico oltre che compagno di lavoro, il ricavato di una colletta che ci permise di sopravvivere.
Le gambe del babbo erano tenute alte e avevano dei pesi alle caviglie per farle stare in trazione, e io, ogni volta che lo andavo a trovare nel suo letto, pensavo che solo Gesù Cristo sulla croce poteva aver avuto il suo sguardo desolato. Ma, come avevo sentito dire dalle nonne mentre sedute nell’aia facevano la treccia, “nella vita sempre bene non può andare e sempre male non può durare”; così anche questa burrasca passò e un bel giorno sereno il babbo, con la costanza e la forza del bisogno, riprese a murare finchè non arrivò al tetto della costruzione.
Erano trascorsi alcuni anni ancora e io avevo finito le scuole elementari e avevo incominciato a lavorare, prima in uno stanzone dove facevo i cannelli per i telai, e poi ai telai stessi. Questo mi permise di aiutare il babbo nella finitura della casa, e fui contenta quando lo sentiti dire che con i miei soldi aveva comprato le serramenta. Erano trascorsi circa otto anni dall’inizio della costruzione, durante i quali era nato il mio primo fratello e un altro era in arrivo; ora che la casa era finita, io ero una ragazzina di circa tredici anni e mi apprestavo a tornare a vivere, con la mia famiglia, in quella casa nuova.
Era a un solo piano, a baiadera, la casa nuova, e anche se non era molto grande aveva due belle camere, un salotto e i servizi, una bella porta d’ingresso di legno massello,  le persiane verdi e anche un poco di terreno sul retro e una striscia di giardino davanti, con tre piante di rose rosse che spuntavano dalla ringhiera sopra il muretto che la recintava. La casa aveva quelle comodità alle quali non eravamo abituati e che resero molto piacevole abitarvi. Ero contenta della luce soddisfatta che illuminava lo sguardo del babbo, in contrasto a quella della mamma sempre scontenta di qualcosa.
Mi sentivo tuttavia, nello stesso tempo, sradicata dal mio torrente e privata delle mie amiche, e mi sembrava di dover vivere con mezzo cuore, poiché l’altro mezzo era rimasto sulla Bure, accanto alla nonna Morina e a tutte le cose e alle persone semplici che avevano riempito la mia infanzia e che mi portavo dentro: i colori trasparenti dell’acqua della Bure in primavera, i bagliori e i falò sul greto quando si bruciavano le foglie secche del canneto, le voci delle persone che si chiamavano per soprannome, o quelle di noi bambini quando le sere d’estate si correva nelle prode del grano maturo dietro alle lucciole cantilenando: “Lucciola lucciola vien da me, ti darò il pan del re, pan del re e della regina, lucciola lucciola vien vicina”
                                                                                                    (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
 
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MM

Storia e storie

COME HO CONSCIUTO DON LORENZO MILANI

Pubblichiamo questa testimonianza con la semplicità di stile e l’anonimato con cui era stata presentata, molti anni fa, nell’ambito del “Premio Prato Raccontiamoci”.

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Mai avrei immaginato che quel pomeriggio di un sabato come tanti altri avrebbe segnato tanto la mia esistenza.
Quando, insieme alla mia ragazza, avevamo scelto quel film intitolato “Un prete scomodo”, avevo solo qualche vago ricordo dei discorsi sentiti in famiglia riguardo a don Lorenzo Milani.
Sarà stato che a diciassette anni ci si nutre ancora di grandi ideali e si crede possibile cambiare il mondo, sarà stato per la grande interpretazione fattane da Enrico Maria Salerno, fatto sta che all’uscita dal cinema mi resi conto che quello che avevo visto era già dentro di me, e adesso lo sapevo.
Nei giorni seguenti continuammo a parlarne e decidemmo di visitare Barbiana appena possibile; fu di domenica e un Mugello vestito d’autunno fece da cornice a quella esperienza indimenticabile; abbandonata la strada statale, dopo alcuni chilometri di strada immersa nel verde ci apparve Barbiana, il “Paradiso” di don Milani, una chiesa di campagna a cui si stringe la canonica: ecco tutto il suo mondo, la prima scuola di emancipazione dei poveri, la realizzazione di un modello che ancora oggi anima e scuote le coscienze degli insegnanti migliori.
L’anno seguente, alla fine dei miei studi, affrontando la prova di italiano don Milani “segnò” ancora la mia strada: era il decennale della sua morte ed una delle tracce dateci per i temi chiedeva di parlare della sua vita.
Non so dire se fu il mio miglior compito di italiano, ma fu certamente il più sentito e appassionato che abbia mai scritto. Era il 1975 e negli anni seguenti approfondivo quanto possibile la mia passione con la lettura dei pochi libri che questo straordinario uomo ci ha lascito; poi nel 2006 ci fu la nostra prima  "marcia di Barbiana".
Avevo scoperto l’esistenza delle marce per via della passione per lo scrivere, partecipando al concorso “Rilettura di Lettera ad una Professoressa quarant’anni dopo”.
Quando poi, a fine febbraio 2008, ricevetti un nuovo invito a scrivere quello che don Milani mi aveva lasciato dentro l’anima, fui assalito dal dubbio che questa volta la cosa mi riguardasse, visto che si trattava di concorso indirizzato “a singoli cittadini adulti, in particolare insegnanti”.
Una frase però mi aveva colpito in particolar modo: “Fate scuola, fate scuola; ma non come me, fatela come vi richiederanno le circostanze”; la leggevo e la rileggevo dentro di me, e infine trovai la risposta; a Barbiana la parola “insegnante” non era un titolo, ma l’accezione più semplice e genuina di chiunque trasferisce il proprio sapere ad un altro per aiutarlo a migliorarsi e si sente gratificato da questo; non è importante dove si insegna, è importante come lo si fa, lo spirito che ci anima; è importante insegnare quello che si sa, quello che abbiamo scoperto o che altri ci hanno insegnato: deve essere un modo di vita ed è questa la scossa di fratellanza che dall’epicentro di Barbiana fa crollare il muro della nostra indifferenza. In questo testamento pedagogico vi è tutto il significato dell’esempio di don Milani, tutta la sua modernità, il porre l’uomo al centro in una visione che lo avvicina al miglior Fromm.
Sotto questa luce così umana decisi di parlare della mia esperienza professionale senza timore di apparire un “maestro” ma felice di aver scelto un modo di vita ispirato alle nostre radici più profonde, dove il mutuo aiuto era la normalità e gli anziani ogni giorno insegnavano ai giovani, spesso senza necessità di parole, la loro esperienza nel lavoro della terra e nella cura dell’ambiente.
Nei primi anni Settanta, ancora studente appena quattordicenne, iniziai a lavorare di pomeriggio in una  officina e mi trovai abbastanza perplesso nel confrontare due mondi così diversi come quelli della scuola e della fabbrica: nel primo tutto era finalizzato, per definizione, all’insegnamento, mentre nel secondo, dove c’era veramente tutto da imparare, sembrava che tutti volessero insegnare il minimo.  
Mi accorsi subito che vigeva un sistema tipo “bottega medioevale”, cioè gli apprendisti, come me, ruotavano nell’orbita di operai anziani specializzati, veri maestri da cui attingere il mestiere ma chiedendo il meno possibile, perché, come nel Medioevo, l’allievo migliore veniva considerato quello che riusciva ad imparare “rubando con gli occhi”, mentre il chiedere spiegazioni era interpretato come indice di poco acume.
Nessuno lo ammetteva ma si avvertiva, più o meno forte a seconda del carattere del “maestro”, una forma di protezionismo del sapere, una paura di insegnare troppo, di perdere il primato, di essere superati dall’allievo.
Io, nonostante ancora non vedessi il mondo attraverso le lenti che poi mi ha regalato don Milani, avvertivo il disagio di questa situazione e soprattutto quanto fosse discriminante una selezione di quel genere in un ambiente dove si andava tutti per la necessità di guadagnarsi la giornata.
Inevitabilmente i meno dotati o i meno veloci nell’imparare venivano bocciati silenziosamente, destinati a compiti di sola produzione materiale o manovalanza, e finito il periodo di “apprendistato” simili compiti sarebbero rimasti appiccicati loro addosso come una condanna per tutta la vita senza altra possibilità se non quella di cambiare genere di lavoro.
Ebbi la fortuna di non essere fra questi, la natura mi aveva infatti regalato una grande passione per quel mestiere e una buona capacità di imparare, per cui con il passare degli anni divenni in grado di insegnare a mia volta quello che avevo imparato; nel frattempo avevo letto molto di Barbiana e le mie convinzioni avevano preso forza e adesso poggiavano su una base solida; scelsi allora di fare il capo officina nella convinzione che si potesse farlo meglio, diversamente da come vedevo intorno a me, puntando sul rispetto generato dalla capacità e non sull’autorità imposta, mirando alla crescita professionale dei ragazzi che sarebbero venuti a lavorare con me; non era un progetto speciale, era secondo me l’unico modo in cui si potesse lavorare umanamente, cercando per quanto possibile di sviluppare le capacità di ognuno, accettandone le diversità senza penalizzarle ma aiutando a far capire ad ognuno l’importanza del proprio compito all’interno  del gruppo di lavoro.  
Fu più precisamente al ritorno dal servizio di leva che iniziai a perseguire questo obiettivo; accettai l’incarico di formare l’officina interna di una piccola azienda di strumentazione elettronica; era quello che sognavo, partivo da zero, eravamo io ed il signor Dino, un pensionato tuttofare, un uomo di una semplicità unica nonostante fosse il padre del mio “principale”; poi arrivò mio padre, un tornitore eccezionale, a darmi una mano negli ultimi due anni che gli rimanevano prima della pensione.
Iniziai a far assumere giovani, uno alla volta, il gruppo cominciava a formarsi, ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie esperienze scolastiche o di lavoro, ed io cercavo di svilupparne le capacità insegnando tutto quello che sapevo e che imparavo ogni giorno dai nostri due “vecchi”.
Quando, dopo venti anni, decisi di concludere questa esperienza, insieme all’inevitabile malinconia per qualcosa di irripetibile che finiva c’era la grande soddisfazione di vedere che i ragazzi di un tempo erano cresciuti, insieme ci eravamo migliorati e adesso erano in grado di proseguire da soli e di insegnare a loro volta.
Oggi che, cinquantenne, lavoro in una realtà più grande, umanamente arida e molto diversa, ripenso spesso a quel percorso senza ricordare il peso degli anni lavorati duramente ma con soddisfazione, quella soddisfazione che dà il tempo speso bene; e continuo quando possibile ad insegnare quello che so perché sono convinto che quando non si ha più voglia di imparare ed energia per insegnare si è veramente vecchi ed inutili agli altri ma soprattutto a sestessi, una pianta che non dà più frutti e non si rigenera alla propria ombra.
                                                                           
                                                                                                   (Anonimo, in ricordo e per proseguire l’esempio di don Milani)

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MM

Esperienze

STORIA DI CLAUDIO

Lo conosciamo da tanto ed in tanti, don Viscardo, in questa nostra realtà romana. Prete per convinzione e vocazione profonde, ogni tanto ci racconta qualcosa di ciò che gli accade. Volutamente il suo linguaggio è sempre quello poco aulico e molto popolare della comunità nella quale vive e della quale condivide i problemi.
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Gesù disse anche questa parabola: "Un tale aveva un albero di fico piantato nella vigna e venne a cogliervi frutti, ma non ne trovò. 
Allora disse al vignaiolo: Sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico e non ne trovo mai. Taglialo. Perché sfruttare così il terreno? 
Ma quello rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai (Vangelo secondo Luca, capitolo 13).
  • Te la senti?
  • Che vuol dire “te la senti”? Non mi conosci?
  • Beh, andare venerdì non solo al processo, ma pure a trovarlo al carcere di Civitavecchia, non è proprio il meglio per te. Fai il parroco, mica sei in pensione.
  • Che discorso mi fai? È oppure non è importante che io vada là? L’avvocato sei tu; dimmelo chiaro: vuoi che vada, sì o no?
  • Scherzi? Per un affare del genere la testimonianza di un prete, per di più parroco e sulla breccia, conta il doppio, te l’assicuro.
  • E allora vado e stop. A che ora? Anzi, no no; aspetta: fammi appuntare le cose importanti che dovrei dire in udienza.
Michele è un giovane avvocato, non proprio alle prime armi ma, insomma… insomma a lui gliene danno parecchie di grane da “avvocato d’ufficio”. Certe volte senza beccare una lira.
 
  • Ecco, sì: prendi una penna che ti detto i passi più importanti.
È per un povero diavolo. Claudio. Claudio fa su e giù da Rebibbia a Viterbo a Regina Coeli e appunto a Civitavecchia. Piccole cose, un balordo. E pure sfigato. Quasi sempre lo beccano.
Quella volta l’avevano preso che guidava un’Ape, ovviamente rubata, mentre usciva da un vivaio dell’Aurelia Antica. Dodici vasi di ciclamini, aveva fregato. Pensa tu che reato... Lì vicino c’era stata in passato una rapina col morto… e allora avevano fatto due per due e ci avevano infilato pure il fascicolo di quello scemo di Claudio.
 
Udienza:
  • Reverendo, come lo conosce, che ci dice di Claudio?
 
Era entrato tutto incatenato a una ragazzina. Pensa tu: una zingarella che al Verano faceva razzia di borse alle donne che cambiavano l’acqua ai fiori. Incatenati come due schiavi del film Quo Vadis. Da morire dal ridere (si fa per dire).
 
  • Beh, presidente, Claudio…. Claudio è un ragazzo… che vuole… un po’ disturbato, incostante, nervoso. Praticamente randagio. Con un’infanzia non facile da raccontare. Qualche volta càpita in parrocchia da noi. Mangia e dorme da noi e poi… poi per un po’ sparisce.
  • Fa il sagrestano?.
 
 
- Ma no, presidente, che sagrestano, non so neanche se crede… A noi… non ci piace chiedere troppo. Se possiamo diamo una mano: un piatto, un letto,stop. Ora per Claudio abbiamo iniziato un progetto di lavoro. Farà l’arrotino, signor presidente. A giorni dovrebbe arrivarci una bicicletta attrezzata. Un ragazzo ingenuo, Claudio, in fondo un bravo ragazzo, stupido sì ma non cattivo. Presidente, rispondo io....
  • Lo affido a lei, reverendo… Guardi che è l’ultima volta. Lei lo sa che Claudio ha una fedina lunga come I Promessi Sposi?
 
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  • Perché non mi dici mai niente di te, Claudio? Sei nato a Roma?… Uhm non parli tanto bene il romanesco spinto… mi sa di no… I tuoi genitori?
  • Ma che me stai a chiede, ma che me voi prenne pel….a Viscà? Ma quali genitori. Io nun so manco dove so’ nato. Certo a Roma no, un po’ de romanesco lo mastico, sennò  sarebbero guai peggio. No, io so’ Claudio e basta. E nun so  gniente, nun conto gniente e nun ci ho niente. E soprattutto nun me ne frega gniente, vabbè?
  • Neanche, che so, una casa-famiglia?
  • Uuhhh, ancora. Peggio me sento. So’ scappato da tutte, Viscà, scappo sempre io, lo voi capì? Le quattro mura me soffocano e le regole…oh Dio le regole, e fai questo e non fare quest’altro e lo psicologo e l’assistente sociale e il mezzo giudice. No guarda, nun è… ste cose nun so’  proprio pe’ me. Te dirò: sto’ mejo in galera. Almeno ci ho un letto, tre pasti caldi, sigarette che nun mancano mai e di tanto in tanto sì, di tanto in tanto pure un po’ de roba. Quella vera però. Quella speciale quella costosa, ma pe’ noi lì dentro aggratis. Perché nun te crede, Viscà, il carcere, te lo dico in perfetto italiano, per chi ci sa vivere, è un mondo. Fai amicizie, gente sincera, di parola. A me m’avevano praticamente adottato. Che se fai il carogna te massacrano ma se fai il bravo vivi bene. Certo comandano i capi, mica le guardie. Che nun te se filano proprio. Mejo così.
    Che voi sapé? Dicono che m’hanno raccorto da un cassonetto ma nun è      vero, so’  tutte stron…io so n’artra storia. Viscà: sarà che mì madre, da poraccia che era, non ce l’avrebbe fatta a tenemme. Ecco. Che colpa je do? Che t’ho da dì, càpita no? Càpita a un sacco de gente, e lì dentro a quer mucchio ce sto pure io, Claudio. È andata così. Volontà di Dio: non dite così, voi preti?
 
La bicicletta arriva.
 
  • Claudio, beh come va, come ti trovi, va bene? Ti danno lavoro? La bici?
  • Ah, sí, la bici… la bici… la bici purtroppo s’è rotta, Viscà. L’ho portata dal meccanico. Me la ridà dopodomani.
 
Capisco subito che se l’è bella e venduta! Claudio era quello che era e, a suo modo, ci era grato, riconoscente. Serviva a tavola. Gliene fossero rimaste due sole di sigarette, una era per Franco, che a quel tempo ancora fumava.
 
Citofono.
  • Chi è?
  • - Sono Marco. Viscardo, vengo su?
 
È Marco, il maresciallo di polizia che lavora al Commissariato di via Cavallotti.
  • Vieni, Marco. Mangi con noi?
  • No, scappo: m’aspettano a casa. Per …
 
E ride. “Pure voi eh, pure voi avete messo su un piccolo business? Eh, reverendi?”.
  • Ma che dici? Marco…
  • E che ci ho, qui nel pacco? Ci ho un tesoro, Viscardo. Ma pensa te. Io a Porta Portese non mi ci allungo praticamente mai, la domenica mattina. Stamattina mi dico quasi quasi m’affaccio…. No, non è possibile. Che ti vedo? Di sguincio, oh Signore, mi pare lui, ma sì, è proprio lui, quel ragazzo che ogni tanto ospitate. Come si chiama… Eccola qua. Non è… come la chiamate?…”.
  • Sì è ‘una pianeta’ da messa, quelle ovali, noi le chiamiamo scherzando ‘le pianete a mandolino’. Si usavano prima del Concilio. Caspita, ma è di valore. Ma sì, credo un fine-Settecento. La regalò  Pio XI nel ‘35 quando inaugurò  la parrocchia qui al Gianicolense. Portata di peso dalla sagrestia di San Pietro. Arrivò insieme alla bella pala d’altare della scuola di Raffaello che vedi nell’abside.
  • E insomma, ti dicevo, stava già contrattando… che io comincio a strillare” Ferma, ferma, fermaaaa!”. E il bancarellaro che trema come una foglia, e lui…lui sparito in un lampo. Ma, dico io, li tenete così a portata di mano questi tesori, Viscardo?
Due-tre giorni e tornava. Feci finta di niente. Sarebbe servito solo a umiliarlo e io a passare da pappa e ciccia con gli sbirri.
  • Viscardo, stasera, ecco qua, pe’ cena v’ho portato una bella torta… come si chiama? Mimosa, ecco, sì, una bella mimosa. Oggi non è la festa di Franco? La prima fetta a Franco. Auguri.
La pasticceria Desideri a via Carini ancora la piange, la bella mimosa. Insomma, Claudio ladruncolo, sì, ma di cuore...

Così una bella mattina vado per dire la messa e in punta di piedi allungo il braccio per prendere il mio piccolo calice. Un regalo della mia ordinazione sacerdotale. Quando nel ‘61 feci l’ultima notte per lei al Policlinico, a mamma la fede gliela sfilai dal dito appena spirata: prima che gliela fregassero giù in sala settoria. La feci poi incastonare sotto la coppa del mio calice per tenerla sempre con me.
 
  • Dov’è? Franco, Andrea, sapete dov’è finito il mio calice?…
Mi guardano sconsolati.
  • No. Stavolta però glielo dico, ci tengo troppo alla fede di mamma.
  • Ma che, era d’oro? - mi fa lui con quel sorrisetto malandrino - . Perché non me l’hai detto? L’avrei venduta meglio, no?
 
Mi mette la mano sulla spalla.
  • Giuro, Viscardo, che stavolta avrai tutto e pure di più. Te la riporto, promesso, mano sul cuore e se non è quella, una che le somiglia.
  • Ma no, Claudio, no. Credo che non fosse… sì, la fede d’oro credo l’avesse regalata al duce nel ‘36 al tempo delle sanzioni. L’oro alla patria. Lascia perdere, per favore. Hai capito? Te lo ripeto, lascia perdere, Claudio.
Non mi sbagliavo. Lo fregarono per sempre in una rapina (a mano armata ma con pistoloni giocattolo) a una gioielleria di viale Marconi. Erano in tre. A lui, nel palmo della mano sinistra, gli trovarono una fedina d’oro.
                                                           
                                                                                                                         (Lauro Viscardo)
 
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Persona e lavoro

CASSAZIONE: ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO IN GRAVIDANZA

Risale al 2017 (fu scritta allora in seguito a una freschissima sentenza della Corte di Cassazione) ma la pubblichiamo ugualmente ora in estratto per il suo interesse sostanziale, questa nota della giuslavorista Manuela Lupi, specializzata di lungo corso nella delicata materia. Non sappiamo se nel frattempo la Corte di Cassazione abbia emanato sul tema altra sentenza: ma l’autorevolezza del ragionamento che questo tribunale supremo esprime resta comunque punto di riferimento per la chiarezza delle dinamiche generali in atto nel nostro mondo del lavoro, in relazione ai diritti e doveri fondamentali della persona.
 
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La Corte di Cassazione ha affermato la illegittimità del licenziamento adottato da un datore di lavoro durante il periodo di gravidanza della lavoratrice: licenziamento deciso per chiusura di reparto.
Nella sentenza la Suprema Corte motiva tale nullità in quanto l’art. 54 del D.Lgs n. 151/2001, nel prevedere una tutela delle donne in stato di gravidanza, vieta sia il licenziamento della lavoratrice dall’inizio della gravidanza fino ad un anno di età del bambino sia il licenziamento del padre lavoratore che fruisce del congedo di paternità in alternativa alla moglie.
E’ da notare che il divieto di licenziamento non si applica peraltro nei casi di colpa grave da parte della lavoratrice, tale da costituire giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro.
Nel caso che ha dato origine al pronunciamento della Corte di Cassazione di cui parliamo, il datore di lavoro aveva proceduto al licenziamento di una lavoratrice addetta ad un centralino (call-center), motivandolo con la chiusura del reparto nel quale operava: il tutto nel quadro di una procedura collettiva di riduzione di personale.
La Cassazione ha affermato appunto che le eccezioni rispetto ai principi generali che vietano il licenziamento vanno interpretate in senso rigoroso, atteso che la tutela specifica predisposta dal legislatore tende ad assicurare un bene, quello della maternità, garantito dalla nostra Carta Costituzionale.
Con tale decisione viene confutato un precedente indirizzo espresso in una sentenza della stessa Cassazione emanata nel 2004, con la quale si era sostenuto che la cessazione dell’attività aziendale, che poteva giustificare il licenziamento, fosse applicabile anche alla chiusura di un reparto dotato di autonomia funzionale.
                                                                                             
                                                                                                                                       (Manuela Lupi)

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Storia e storie

IL RAPTUS DI GSEPP

Triste storia vera, come tante altre. Esiste la bellezza, nel mondo, esiste il bene, ed esiste il male. Diffuso da sempre negli anfratti più impensabili della nostra società. La stupidità e la violenza, fra l’altro, hanno sempre colpito ciecamente i deboli: donne, come in questo caso, bambini, malati, anziani indifesi, poveri. Cambiano i tempi e le forme ma non siamo sicuri che si indebolisca la sostanza di tanta stupidità e violenza. Il racconto di vita che qui pubblichiamo ci presenta un quadro sociale risalente nelle sue linee generali a molti decenni fa, ma tuttora presente in qualche anfratto delle nostre realtà sociali.
 
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Oggi dal mio Ipod, mentre ero in macchina, ho ascoltato un vecchio motivo dei Rolling Stones: Heart Stone (Cuore di Pietra). E’ stato il mio gruppo preferito, il gruppo che mi ha fatto sognare e vivere storie indimenticabili. Nella canzone, Mick Jagger racconta che lui ha conosciuto tante ragazze che ha fatto piangere e soffrire, e tutto a causa del suo cuore di pietra. Ed è così che, ascoltando la canzone, è riemersa nella mia memoria una strana storia, quella di un heart stone bonefrano. Il mio paese natale è infatti Bonefro.
Qualche giorno fa sono andato a fare un giro da mio fratello Nicola. Eravamo fuori sul balcone a prendere un caffelatte e a raccontarci storie del passato quando ho rivisto, dopo tanti anni, un nostro compaesano, Gsepp Colomb. Abita di fronte alla casa di mio fratello. E’ sempre solo, mi dice mio fratello. Era seduto sulle scale della sua casa, tutto assorto in sestesso. Gsepp emigrò in Canada nel 1957 in compagnia di sua moglie Evelina e di suo figlio. Gsepp è una persona di poche parole. La sola volta che gli ho parlato mi ha raccontato di quando lui e suo fratello non si scambiavano una parola nemmeno quando mangiavano. Era la sua maniera di farmi capire che sarebbe stata l’unica conversazione che avrebbe avuto con me. Questo spiega che tipo di uomo era: un tipo ferreo, taciturno, tutto di un pezzo.
Per conoscere tutta la forza del carattere di Gsepp Colomb bisogna tornare un po’ indietro col tempo. Siamo alla fine degli anni Cinquanta. Evelina era una giovanissima ragazza e una delle poche fortunate: era andata a scuola. Aveva quasi terminato le elementari e abitava lungo il Corso Guglielmo Marconi, vicino al Pont Don Saverio. Era una bella ragazza, formosa. Negli anni ‘50 andavano di moda le donne formose: se volevano sposarsi, bisognava avere un fisico forte per lavorare la terra e crescere i figli; quelle troppo snelle restavano zitelle, a meno che accettassero di sposare un vedovo oppure… quello che passava il convento.
A diciotto anni Evelina aveva dei sogni come tutte le ragazze e i ragazzi della sua età. S’innamorava dei protagonisti dei fotoromanzi e leggeva ogni settimana Grand’Hotel. Si era innamorata del protagonista di Grand’Hotel Massimo Ciavarro. Un giorno, di nascosto, come tantissime ragazze, Evelina riempì il formulario per diventare attrice di fotoromanzi e lo spedì alla direzione di Grand’Hotel: ma per sicurezza aveva preso anche a seguire un corso di ricamo con telaio e uncinetto presso le suore, nel caso che il suo sogno non si realizzasse. Sperava di avere un ragazzo tutto per sé a cui pensare la sera, prima di addormentarsi. Finalmente si innamorò di Nicola Massa. Tutte le volte che la incontrava per strada lui le puntava gli occhi addosso. La sera si metteva vicino alla fontana aspettando che lei andasse a prendere l’acqua. Ogni domenica mattina si vedevano in chiesa. Lui cercava il suo sguardo. Lei sorrideva arrossendo. Questo era abbastanza per farla sognare.
Poi un giorno arrivò quello che Evelina non avrebbe mai immaginato. I suoi genitori avevano un progetto per lei: le dissero che la mamma di Gsepp Colomb era andata a casa loro per domandare se la ragazza voleva sposare suo figlio. Evelina non sapeva cosa fare né cosa dire. Era disperata ma non le lasciarono il tempo di pensare: “u’ ferr zi vatt quanne è call” (il ferro si batte quando è caldo) disse subito suo padre. Le spiegarono che Gsepp era un buon partito: aveva qualche pezzo di terra ed in più era uno dei fortunati che poteva emigrare in America, in particolare in Canada. Andare in America in quei tempi era come vincere l’Enalotto: tutta la famiglia avrebbe avuto la possibilità di emigrare.
Soprattutto la mamma di Evelina, la cui cugina lavorava e viveva da sola a Toronto, e le aveva scritto che in America le donne non sono schiave degli uomini e sono rispettate, insisteva. Quando Evelina cercò di dire che lei voleva bene a Nicola e che non se la sentiva di sposare Gsepp, suo padre la fece zittire subito dicendo che Nicola Massa veniva da una famiglia nullatenente e le ricordò che a decidere era lui, mentre sua madre le parlava dell’America. Accettarono l’offerta della mamma di Gsepp, e così si fece il matrimonio.
Nel frattempo, Nicola partì per il servizio militare. Fare il militare in quei periodi significava essere una persona normale, un vero uomo. Essere riformato invece era una disgrazia: chissà che malattia ha? Chissà se può avere figli? Per quelli che erano accettati nelle forze armate era come vincere al lotto: era l’occasione per andare fuori casa, andare in città, prendere il treno, imparare un mestiere, finire le elementari, ed in più si poteva andare a far visita alle donne “libertine”, quelle che operavano nei bordelli). Per molti era insomma l’occasione per vedere una donna come l’aveva fatta sua madre. A volte s’innamoravano di quelle donne. Nicola restò in varie caserme per 28 mesi: imparò a parlare italiano e finì le elementari. Ogni settimana comprava il suo fumetto preferito, Tex Willer. Alla fine del servizio militare tornò a casa e una sorpresa lo attendeva: la sua Evelina, che aveva immaginato accanto a sé nelle sue notti di solitudine in caserma, si era sposata con un altro.
Nessuno aveva previsto che al loro primo incontro accadesse quello che accadde. Un giorno di febbraio Gsepp ed Evelina erano a Santa Croce, paese vicino al loro, e aspettavano la corriera per tornare a Bonefro. Gsepp pensava di trasferirsi a Santa Croce, dove lavorava da qualche mese in una fabbrica di tegole. Il caso volle che anche Nicola aspettasse la corriera per far ritorno a Bonefro. Gsepp salì per primo per trovare due posti per lui e sua moglie: dopo entrò anche Nicola con l’altra gente, e infine entrò Evelina, che camminò verso il sedile dove era seduto Gsepp. Attraversando l’autobus lungo il corridoio incontrò Nicola che era rimasto in  piedi. Lui, dimenticandosi di essere a Bonefro e comportandosi come fosse in una città dove normalmente si saluta una persona che si conosce, la guardò e le disse buongiorno. Lei gli rispose abbassando gli occhi e andò verso il sedile dove era seduto Gsepp.
Ed è lì che successe il patatrac: Gsepp aveva visto la scena, Nicola aveva salutato sua moglie e lei gli aveva risposto. Le mani gli tremarono e il viso in fiamme. Appena il pullmann si mise in marcia, approfittando del rombo del motore, come preso da un raptus, ricordandosi che Nicola era stato lo sposo immaginario di Evelina sentì di colpo il suo cuore volergli uscire dal petto, tirò fuori di tasca un coltello (arma preferita dei bonefrani) e con un gesto fulmineo assestò una coltellata al fianco sinistro della moglie.
Evelina non gridò, non emise un gemito, e per un attimo il fiato le mancò. Nessuno si accorse del gesto fatto dal ferreo Gsepp; sorpresa, Evelina barcollò, ma non cadde. Con una mano si teneva il fianco ferito, e con l’altra afferrò il manico del sedile per sedersi. Si coprì con lo scialle lungo tutto il tragitto Santa Croce-Bonefro. Quando arrivò a Bonefro, scese per ultima. Suo marito uscì per primo, ancora sconvolto per quel comportamento di sua moglie.  Evelina scese dall’autobus lentamente, senza dare segno di debolezza, anche se pensava che era sul punto di morire, e andò a casa di sua madre. Entrò in casa e appena varcò la soglia cadde per terra. Sua madre, come se qualcuno l’avesse avvertita, capì tutto. La trascinò sul letto, la spogliò, lavò la ferita, la disinfettò con l’alcol e con molta pazienza la ricucì. Poi andò in casa del farmacista per chiedere dei medicinali per il dolore, per evitare che si creasse un’infezione. In quei periodo le donne bastonate, violentate, ferite, non si recavano dal dottore ma si recavano a casa del farmacista fingendo di essere cadute per le scale. Questo per evitare che il dottore facesse un rapporto sulla violenza subita dalla paziente.
Il giorno dopo, la mamma di Evelina uscì di casa per andare dai carabinieri e denunciare quel delinquente di suo genero; camminando sulla lunga strada ripida pensava al carcere, al disonore, alle donne di Bonefro e alla sua unica figlia. Confusa, si fermò per un po’ di tempo in chiesa. Disse il rosario, invocò la Madonna decine di volte. Infine decise di recarsi da quel farabutto di suo genero: andò per dirgli che aveva oltrepassato i limiti e per poco non gli ammazzava la sua unica figlia. Gsepp, ancora sotto l’effetto del raptus, appena la vide le disse: “Dove è quella puttana di tua figlia?”. La mamma provò a replicare ma lui subito aggiunse: “Questo è stato solo un avvertimento. Con il mio onore non si scherza. La prossima volta se si ripete la stessa cosa ti giuro che non rivedrai più quella zoccola di tua figlia viva”.
                                                                                                                     
                                                                                                                              (Anonimo, Premiopratoraccopntiamoci)
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Lavoro

IN TEMA DI FLESSIBILITA' DEL LAVORO

Il telelavoro (smartuorking, come spesso lo chiamate voi in dialetto) ha riaccentuato il tema della flessibilità del lavoro sull’onda emergenziale della pandemia da covid, rischiando di farlo percepire, appunto, come problema emergenziale, e non già come problema strutturale e stabile della economia e del lavoro nella società del ventunesimo secolo. Prima della pandemia, d’altro canto, il tema era prevalentemente distorto da una prospettiva ugualmente sbagliata e confusa, cioè quella di uno strumento, più o meno sindacalmente negoziato, da mettere a disposizione delle aziende per renderle più competitive nel mercato globale, compensandone in qualche modo i lavoratori. Giustamente Giambattista Liazza puntualizzava già, in questa riflessione del 2017, la natura assolutamente strutturale del tema, legata alla complessiva intelligenza ed efficienza della civiltà del lavoro.
 
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Proviamo a riflettere sinteticamente su ciò che si può intendere dalle affermazioni che circolano in bocca agli “addetti ai lavori”.
 
  1. flessibilità in entrata, ovvero disponibilità a fare qualunque lavoro;
 
  1. flessibilità in uscita, ovvero possibilità di essere licenziato anche senza giusta causa o giustificato motivo.
 
 
Un po’ di storia
 
Era già dagli anni Settanta/Ottanta che si riteneva in crisi la prospettiva del posto fisso e infatti si tentava di tutto nelle aziende per evitare le assunzioni a tempo indeterminato. Il mercato ne soffriva e la disoccupazione giovanile era notevole. Come logica conseguenza, infatti, cominciò l’epoca del contratto di formazione e lavoro che favorì appunto un sensibile incremento dell’occupazione giovanile. Quasi tutte le aziende vi facevano ricorso, era anche un modo per valutare in un periodo adeguato le capacità dei soggetti assunti.
 
Poi negli anni 1990 arrivarono le nuove forme di ingresso nel mercato del lavoro con diverse regole contrattuali come ad esempio il contratto a progetto. Questi provvedimenti furono introdotti dal ministro del lavoro di allora Tiziano Treu in accordo con le forze sociali e con la classe politica. Bene o male si capiva che il mercato del lavoro era ingessato e quindi inadeguato all’evoluzione socio-economica, tecnologica e generale del paese e del contesto mondiale.
 
La situazione non poteva reggere ma non c’era sufficiente coraggio da parte di tutti per affrontare radicalmente e seriamente il problema, lo stesso che ci fa tanto soffrire oggi. Non dimentichiamo che le Brigate Rosse (ma chi erano realmente costoro?) hanno ucciso uomini di competenza e valore che si occupavano per conto dei governi di allora (anni 1980/1990) di cambiare questo sistema. Ma invece di rafforzare l’impegno a riformare, i politici hanno continuato a pasticciare, e oggi siamo ancora qui alle soglie di decisioni che verranno prese comunque e sotto la mannaia del risanamento di un debito che pagheremo tutti in modo molto oneroso.
 
Vi è una considerazione da fare sul sistema del collocamento in Italia, il quale risaliva a matrici ideologiche e quindi era regolato da leggi inadeguate, concepite nell’immediato dopoguerra (uffici di collocamento, liste a chiamata numerica e limitatissima possibilità di assunzione a chiamata diretta, obbligo di nulla osta, ecc.). Non parliamo poi di un sistema di formazione professionale di tipo assistenziale, costosa, poco produttiva. Qualunque proposta di ammodernamento in questo strategico settore urtava contro gli interessi consolidati di sindacati, enti pubblici, privati, speculativi di ogni tipo (vi furono molti casi di manette), ecc. Un sistema ingessato che nessuno aveva il coraggio di cambiare, mentre l’economia e il mercato del lavoro mutavano radicalmente e cosi la società, che mostrava un più elevato livello di scolarità, di tenore di vita, di aspettative. Qui il ritardo e le titubanze della politica furono deleteri, quasi fatali, perchè hanno di fatto innescato quei problemi che oggi sembrano irrisolvibili o verranno risolti con compromessi o atti d’imperio che lasceranno  insoddisfatte tutte le parti in causa.
 
La flessibilità
 
Il posto cosiddetto fisso è superato da molti anni e resiste un equivoco sulle relative interpretazioni. Cerchiamo di fare chiarezza. Il cosiddetto posto fisso non esiste più. E’ da molto tempo ormai che diviene difficile se non impossibile pensare di fare lo stesso lavoro per tutta la vita o almeno nella stessa organizzazione per tutta la vita. Allora il problema è un altro: non il posto fisso ma la certezza di avere lavoro per tutta la vita. Lavorare per organizzazioni diverse, magari anche in luoghi diversi, ma per tutto il tempo necessario a garantire un percorso, una carriera, un traguardo pensionistico. Questo aveva già detto anche Monti ma la stampa aveva preferito enfatizzare una supposta ironia fuori luogo del premier. Ormai in Italia siamo fatti così, abbiamo bisogno di fare sensazione, è questo universo mediatico che ci rende difficile un’opinione seria sui problemi che ci riguardano.
 
Vogliamo nasconderci allora che molti pensionati sono ancora in grado di lavorare e lavorano in occupazioni diverse da quelle praticate fino alla pensione? E cosa dire di molti cassaintegrati che utilizzano il tempo divenuto libero in lavori diversi da quello usuale, e magari obbligatoriamente in nero? I giovani studenti poi si arrangiano in tutti i modi per mantenersi agli studi e non per meritarsi l’appellativo di sfigati da un politico inadeguato e raccomandato (diventato cioè per raccomandazione sottosegretario di Stato nello stesso governo Monti).
 
E’ questa la flessibilità invocata per superare la nostra crisi di competitività? Riteniamo di no. Così facendo si resta nella confusione e nella precarietà. E non riteniamo neppure che l’annoso problema si risolva modificando leggi e contratti sindacali: sono almeno trenta anni che sapientoni e maneggioni si esercitano sulla materia senza produrre risultati utili alla gente e alla nazione per un sistema più competitivo. Tarantelli, D’Antona e Biagi ci stavano provando con un approccio da studiosi seri, ma per questo ci hanno lasciato la pelle per opera di queste strane Br. Vogliamo riflettere su questa barbarie? Chi ha interesse che le cose non cambino in questo paese, chi vuole impedire che l’Italia si ammoderni per il bene di tutti?
 
La flessibilità delle risorse produttive non è nelle leggi e nei contratti che semmai, prendendone atto, ne devono regolare l’utilizzo. La flessibilità deve essere nelle persone, nel loro modo di pensare e di agire e per questo essere allevate e orientate a divenire flessibili per disposizione, per scelta e non per costrizione legislativa o contrattuale. Se un contratto obbliga alla flessibilità un soggetto rigido, immaginiamo il risultato da stress permanente. Oppure la situazione contraria. Crediamo che la natura si ribelli a certe scempiaggini.
 
A nostro avviso il problema è che per parlare di flessibilità si devono considerare innanzitutto le persone e la loro disposizione ad essere attivamente flessibili. Altrimenti, qualunque sia la legge che le riguarda, saranno passivamente scontente, insofferenti, terribilmente frustrate. Chi aiuta le persone, i giovani in particolare, ad essere flessibili?
 
La famiglia? La scuola? Il modello organizzativo prevalente applicato nei luoghi di lavoro? il management privato e pubblico arrivato spesso al vertice non per i meriti ma.......? La classe dirigente politica e amministrativa a tutti i livelli? Il sistema delle raccomandazioni?
Perchè chi lavora all’estero dice che lì è tutto diverso? La nostra prevalente cultura gerarchica e autoritaria a tutti i livelli esprime un sistema niente affatto flessibile ma è in questi sistemi che il soggetto ”flessibile” dovrebbe muoversi.
 
E’ vero che si valorizzano i talenti nelle organizzazioni?
 
Potremmo dilungarci ancora ma è meglio non perdere di vista il problema della flessibilità.
 
Se poi non pensiamo ai giovani ma ai quaranta/cinquantenni espulsi dal sistema produttivo, di quale flessibilità parliamo? Cosa ci aspettiamo in materia di flessibilità? Educare e formare persone predisponendole alla flessibilità, compatibili con un sistema meritocratico ad alta produttività e competitività, è davvero essenziale.
 
Abbiamo titoli di studio legalmente riconosciuti, cui si perviene spesso da percorsi tortuosi, diversi, addirittura illogici e incomprensibili. Allora che senso hanno? A nostro avviso è importante ciò che una persona è, cosa sa fare, quali responsabilità sa prendersi, quali risultati è in grado di produrre. Garantito il diritto allo studio per tutti, sono la natura, le opportunità, le qualità di una persona che fanno la differenza.
 
Temiamo che il sistema da noi non voglia essere moderno ed adeguato. Facciamo un esempio: capita che un operaio o un impiegato di un’azienda sia scarsamente considerato e ritenuto poco meritevole di valorizzazione; poi si scopre che nell’organizzazione della protezione civile, da volontario, è un ottimo organizzatore, un capo stimato e seguito, molto affidabile, un vero lider, ecc. Qualcosa non torna; cosa non va? Eppure ci sono moltissimi casi del genere. Perchè questo operaio è così bravo fuori dal luogo di lavoro e magari dimostra da volontario qualità che sarebbero utilissime alla organizzazione che lo retribuisce?
 
Forse non abbiamo abbastanza attenzione alla persona, al suo saper essere, al suo divenire, come pare invece che accada più frequentemente in altri paesi più pragmatici,  ad esempio in Usa. Se penso alle operaie licenziate dall’Omsa di Faenza, che successivamente nella loro lotta hanno rivelato temperamenti addirittura artistici, mi chiedo quali delle loro risorse siano state effettivamente utilizzate dalla loro azienda, che invece le ha lasciate in mezzo a una strada. E’ flessibile, il nostro sistema produttivo, oppure è tradizionalmente rigido e in ritardo,  almeno nella maggior parte delle imprese, soprattutto le piccole, che sono la maggioranza?
 
Anche il sindacato si è distinto spesso, in questi anni, per rigidità e conservatorismo. Se non  cambia non si dimostra una risorsa utile per cambiare il paese, per renderlo più moderno, agile e competitivo, nell’interesse di tutti e non solo di qualcuno.
 
Le persone si trovano, prevalentemente, di fronte ai contenuti del lavoro, scarsamente preparate, e debbono sforzarsi molto per muoversi agevolmente. La tecnologia ha camminato più velocemente dei sistemi scolastici e formativi in genere. Si impara in azienda secondo processi e prassi che vanno assimilate in fretta, spesso acriticamente. Più subendo che conquistando. Le procedure divengono le guide di comportamenti e prestazioni: si fa così, o cosà, e così ancora: ma non dovete chiedere mai perchè, chiederlo non è percepito come segno di partecipato interesse ma come segnale preoccupante di insofferenza all’ordine costituito. I capi sono fatti così nella maggior parte dei casi; non sono disponibili o capaci o disposti a spiegare, insegnare, convincere. Meglio far finta di aver capito.... Ma è proprio giusto così?
 
Conoscete diplomati che inseriti nel lavoro trovino la loro preparazione scolastica veramente utile, adeguata ed in linea con le mansioni cui vengono adibiti?  A nostro avviso la frattura fra scuola e lavoro è ancora significativa e non aiuta a risolvere il nostro problema.
 
                                                                                         (Giambattista Liazza)
 
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Storia e storie

MIO PADRE

Piccolo e disadorno quadretto di esperienza personale e familiare, che non fu premiato allo storico Concorso pratese, ma che ci segnala un problema sociale vero, a volte drammatico, antico e non del tutto raro. Per la nostra consapevolezza e responsab ilità umana ed educativa.

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Quest’anno febbraio è arrivato con il suo consueto fardello di neve, creando il solito bellissimo paesaggio. Ma quella sera il vento gelido ululava per la valle, adagiando qua e là i suoi fiocchi di neve. Rincasando dal lavoro mi affrettai ad accendere il camino e dopo un po’ la legna scoppiettava, esalando i suoi fumi. Il mio gatto Fuffi, sdraiato accanto a me, faceva le fusa, beato di assaporare il tiepido calore, ed io, seduta alla scrivania, ero impegnata nella correzione del compito in classe dei miei alunni.
Pensai a questo mio secondo anno da insegnante, che aveva appagato tutti i miei sacrifici, dato che avevo impegnato tutto il mio tempo tra lo studio e l’osservazione dei bambini che creavano ogni giorno novità da scoprire e meditare.
Il tema che avevo dato da svolgere riguardava la famiglia: titolo “I tuoi genitori”; nei racconti i ragazzi esaltavano soprattutto la figura paterna con trasporto e amore, anche se adoravano non meno la mamma.
Mi addolorai però leggendo l’ultimo compito: la bimba parlava del legame tra lei e la madre, di una reciproca devozione che però veniva rattristata dalla mancata figura paterna, che la piccola non aveva mai conosciuto. Lentamente, copiose lacrime rigarono anche il mio viso: capivo l’amarezza del cuore di quella bambina per l’inferiorità di quel sentirsi senza padre.
E come la capivo! Lo avevo già fatto, quel percorso pieno di tristezza, e per mia sensibilità questo argomento mi era di un dolore particolarmente acuto.
Mia madre, una donna taciturna, difficile da capire, aveva in me una figlia con scarsa abilità a leggere la sua mente, e del resto lei non parlava quasi mai, alle mie domande si chiudeva in un silenzio assoluto mentre io aspettavo risposte che non arrivavano mai.
Da quella ragazzina introversa che ero non avevo avuto amicizie, mi allontanavo da tutti per paura che si scoprisse questo mio segreto dolore. A scuola mi arrabbiavo se le ragazze, parlando a bassa voce, mi additavano con occhiate di compassione come forse solo i bimbi sanno fare.
Convinta di aver seppellito tutto in fondo al cuore, ecco, leggendo il piccolo tema della mia alunna,  riaffacciarsi ora lui, quel padre al quale la mia mente aveva dato mille volti senza nome, e che le righe scritte da una bimba avevano reingigantito con amari ricordi.
Chiusi il quaderno perché invasa da emozioni troppo forti; la mia vista si era un po’ appannata e pensai di chiedere ancora una volta di mio padre per capire se ero una figlia indesiderata, ma erano tante le domande collegate con questa… “Ma a che scopo? – pensai; - Al cuore non si può comandare, forse, e ci si deve rassegnare…”.
Con questi pensieri mi avviai verso la mia cameretta, lasciando tutto al nuovo giorno che bene o male, tra problemi e gioie, avrebbe riempito quel vuoto creato a me da una vita di quesiti senza risposta. Tuttora presenti.

                                                                                                                                    (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
                                                                                    
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Diritti e doveri

LAVORO: NON UN SEMPLICE "VALORE FRA GLI ALTRI"

Mi hanno detto che sono forse un poco esagerato: ma resto convinto che hanno torto. Anche gli amici più stretti. Ne sono veramente convinto: il lavoro è un diritto soggettivo in senso stretto, anche giuridicamente parlando, ed è, correlativamente, un dovere altrettanto stretto. Così è perché lo è, innanzitutto, in senso morale ed in senso politico. Se qualche amico, come pure è accaduto, vuole per questo tacciarmi di “comunista”, io, mai comunista e sempre democraticocristiano, preferisco accettare senz’altro la taccia e confermare la mia convinzione.  La paginetta che segue fu scritta nel 2013, se ricordo bene, ed era destinata a un convegno.
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Tutte le volte che mi hanno chiesto: “Quale è per te la cosa più importante nella vita?”, sapendomi cattolico si aspettavano che io rispondessi “la famiglia”.
Ma non ho mai risposto così. Ho sempre risposto invece “il lavoro.
Perché se non hai il lavoro la famiglia non puoi neanche creartela, e se ce l’hai non avverti davanti ad essa serenità e dignità. Né di padre, né di marito, né di adulto. E non puoi darle serenità e dignità. Come fai a farne la cosa più importante della tua vita e della società?
Senza lavoro non c’è dignità umana.
Dunque non c’è neanche società ordinata.
Dunque non c’è neanche ordinamento giuridico che meriti di essere rispettato.
Questo è lo stato d’animo tendenziale di chi è senza lavoro. Abituiamoci a esaminare i problemi, ogni giorno, mettendoci nei panni di chi li vive!
Non è affatto un caso se il lavoro è messo a fondamento della nostra Costituzione: al suo inizio e al suo centro.
Piero Calamandrei, padre costituente, in un suo famoso discorso agli studenti precisò bene, sostanzialmente, che il “diritto al lavoro” è un vero e proprio diritto soggettivo della persona, non una semplice legittima aspettativa del cittadino. 
Il diritto al lavoro è per il pensiero democratico cristiano coessenziale al diritto alla libertà, alla democrazia, alla giustizia.
Il lavoro è la prima forma di solidarietà sociale. Vincolante come diritto e come dovere.
Il pensiero di ispirazione cristiana è in questo senso naturalmente alternativo al pensiero dell’economia liberista pura e semplice.
                                                                                                                                    
                                                                                      (Giuseppe Ecca)

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Politica

CATTOLICI E POLITICA: E' RICOMPONIBILE IL DIVORZIO?

 
Il titolo può sembrare stantio, ripetitivo, persino noioso. Ma Giuseppe Bianchi lo sottopone ad argomentazione particolarmente solida, non limitata ai consueti rilievi sociologici, ma spinta alla ricerca di una risposta fondata su ragioni più strutturali e di lunga gittata. Del resto, a nostro parere, fino a che una risposta chiara non venga data dalla stessa oggettività degli eventi del nostro paese, il quesito resta di importanza altissima, e non solo per l’Italia.
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L’occasione creata dal centenario della fondazione del Partito Popolare, ad opera di Don Sturzo, ha riproposto l’impegno dei cattolici in politica che, come è noto, è proseguito con la Democrazia Cristiana, asse centrale del Governo per oltre quarant’anni.
Una cultura ed una rappresentanza oggi dispersa sul piano politico con significative presenze rimaste nelle organizzazioni di volontariato. Analoga sorte è capitata ad altri movimenti politici laici portatori di culture altrettanto solide e consolidate sul piano della rappresentanza.
Fenomeno questo evocato come crisi delle ideologie del Novecento di cui i partiti erano espressione con le loro identità collettive in cui motivazione, ideali e azione politica si sostenevano tra loro, almeno nella rappresentazione offerta al comune cittadino. Sarebbe inutile ora parlare di questo passato se il presente non evidenziasse segni di regressione nella vita politica e civile del Paese.
Il dato emergente è che la politica post-ideologica, avviata da Berlusconi e proseguita dalle successive maggioranze per arrivare a quella attuale, ha assunto un connotato fortemente utilitaristico basato su uno scambio tra benefici economici e consenso politico. Nuove offerte politiche, in concorrenza tra di loro, che si fanno carico di offrire protezione al cittadino, disorientato di fronte alle nuove sfide della precarietà sia essa economica che valoriale.
Due sono gli effetti di accompagnamento di questa evoluzione politica: il cittadino non più partecipe della galassia dei corpi intermedi che, soprattutto a livello locale, lo legavano alla politica, cerca nuove identificazioni in qualcuno che lo rappresenti e lo rassicuri; la nuova concorrenza tra i partiti per acquisire consenso si realizza nella generosità delle promesse che avallano una concezione totalizzante della politica, destinataria esclusiva dei bisogni dei cittadini.
Questa riaccreditata concezione di Stato Provvidenza, alla prova dei fatti non ha prodotto i risultati attesi: sia in termini di soddisfazione dei bisogni economici ed occupazionali dei cittadini, sia in termini di risposta alle inquietudini derivanti dalla messa in discussione di consuetudini e di credenze sfidate dai nuovi sviluppi scientifici la cui irradiazione coinvolge l’insieme del loro vissuto.
A questo punto diventa legittima una domanda: questa politica ha le energie morali per offrire un futuro al cittadino visto che non tutto è riconducibile a decisioni politiche ispirate dalla razionalità economica (reale o presunta) e/o dalla soddisfazione degli interessi individuali?  Conseguente l’ulteriore domanda che ci riporta al tema iniziale: la cultura cattolica può contribuire a rendere le nostre società più sicure e solidali? Dal punto di vista astratto la risposta non può che essere positiva: per la centralità che viene data alla persona ed ai gruppi in cui si riconosce che riposiziona la politica al servizio dei loro obiettivi; per il rilievo accordato ai valori del pluralismo sociale, della sussidiarietà con cui sconfiggere l’isolamento dei cittadini facendoli partecipi di una rete di aggregazioni comunitarie.
Sul piano pratico tale prospettiva si presenta più problematica. Improbabile un nuovo partito dei cattolici, oggi minoranza dispersa, improponibile un ritorno nostalgico alla Democrazia Cristiana esaurita dal troppo lungo governo, fragile l’ancoraggio alla dottrina sociale della Chiesa alla luce dei mutamenti strutturali intervenuti.
Una soluzione può essere offerta da un rinnovato appello, a cent’anni da quello sturziano, agli uomini liberi e forti che condividono ideali di libertà e di giustizia e che si riconoscono nei fondamenti dei valori cristiani.
Un appello rivolto ai cattolici praticanti, ma anche ai cattolici insofferenti nei confronti delle prescrizioni ecclesiastiche troppo limitative delle loro condizioni di vita.
Un appello per un comune impegno culturale, prima che politico organizzativo, che accresca la consapevolezza pubblica della modernità e dei problemi inediti che essa produce sui diversi piani della vita in comune, grazie ad un supplemento di virtù che l’umanesimo cattolico può portare alla politica. I cittadini per partecipare alla politica chiedono che non solo i loro interessi ma anche che i loro valori, i loro progetti di vita trovino accoglienza nel dibattito pubblico nella condivisione delle procedure democratiche che ne determinano l’esito.
Questo circuito virtuoso di partecipazione presuppone cittadini informati e consapevoli che la pratica dei doveri è il presupposto per il godimento dei diritti.
                                                                                                                (Giuseppe Bianchi)
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Storia e storie

SOLIDARIETA' PRATESE

Piccola storia vera di città, memoria da salvare nella sua semplicità affinchè le nuove generazioni continuino a imparare che c’è sempre qualcosa di buono che possiamo fare per noi e per la comunità in cui viviamo, e che in fondo è quasi sempre il cuore che fa i miracoli. La traiamo dagli “Inediti del Premio Prato Raccontiamoci.
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Questa è la storia di alcuni pratesi che nel gennaio del 1951 decisero di dotare l’Ospedale “Misericordia e Dolce” di Prato, del “Polmone d’Acciaio”. Si trattava di un macchinario all’avanguardia per quei tempi, usato con efficacia in tutti i casi in cui occorre la respirazione artificiale: e sono tante le patologie in cui può essere impiegato per salvare vite umane. La cittadinanza rispose con grande solidarietà all’appello, con donazioni piccole e grandi che in meno di due mesi raggiunsero la cifra record di due milioni delle vecchie lire. L’ospedale fiorentino di Careggi ne era già dotato e la stampa aveva riportato la notizia di questo macchinario che riscuoteva successo nel campo medico e salvava vite umane.
Per ritrovare questa storia pratese, rimasta viva dopo tanti anni nella mia memoria – io sono della classe 1927 e all’epoca del fatto che racconto ero milite della Pubblica Assistenza L’Avvenire – si deve tornare indietro più di mezzo secolo, quando Prato risorgeva dalle rovine della guerra e iniziava una nuova epoca che avrebbe cambiato la nostra città non solo nel tessuto sociale ma anche in quello lavorativo e generale, soprattutto con l’arrivo di tanti immigrati, e tutto il territorio avrebbe subito mutamenti grandi. Era l’anno 1951, appunto, avevo 24 anni ed ero appassionato di fotografia, ero impiegato alla fabbrica tessile Lenzi di Gabolana, a Vaiano. La sera quando tornavo dal lavoro mi fermavo volentieri allo studio fotografico dei coniugi Massai in via Ricasoli, a Prato, a fare quattro chiacchiere con la signora Nadina, che era una vecchia crocerossina e si occupava di volontariato.
Frequentava lo studio fotografico anche Giuseppe Giagnoni (detto Beppe) giornalista della Nazione, che ci informava soprattutto sulle ultime notizie. Il nostro argomento di conversazione una sera fu la novità del Polmone d’Acciaio già in funzione all’ospedale di Careggi. “Perché non attivarsi per acquistare anche per il nostro ospedale pratese quel macchinario così necessario?”. Decidemmo allora di costituire un comitato per raccogliere fondi e dotare appunto anche il nostro ospedale di questo prestigioso “polmone d’acciaio”.
In poco tempo aderirono al comitato il presidente della Pubblica Assistenza dottor Loengrin Payer, Giuseppe Giagnoni presidente del gruppo Stampa, Ferdinando Cetica, anche lui giornalista della Nazione, Nadina Massai crocerossina, Mario Baroni commerciante, il sottoscritto Renzo Tonfoni impiegato, Ivan Ventisette sottofilatore, Gloria Godi proprietaria del cinema Rosson, Manfredo Santini edicolante, Alimo Cocci industriale, Ferdinando Turreni rappresentante. Fu nominato presidente del “Comitato per il Polmone d’Acciaio” il dottor Marino Luchetti industriale. Spero di non aver dimenticato nessuno. E’ giusto ricordarli tutti.
Formato il comitato, per prima cosa interpellammo il ragionier Paris Masti, all’epoca direttore amministrativo dell’Ospedale, il quale accettò con gioia la nostra iniziativa. Essendo il ragionier Masti anche segretario amministrativo della Pubblica Assistenza offrì la sede per le nostre riunioni. All’inizio le offerte non furono molte e allora decidemmo di rivolgerci alla stampa per sollecitare i cittadini. La prima notizia dell’iniziativa venne pubblicata sul quotidiano “Il Mattino” del 21 gennaio. Spiegava l’utilità di questo apparecchio medico scrivendo: “L’iniziativa di dotare il nosocomio di Prato del Polmone d’Acciaio è sorta da alcuni militi della “Pubblica Assistenza L’Avvenire” e da alcuni cittadini che si sono uniti subito a loro. Ma l’apparecchio costa una cifra non indifferente, quindi il Comitato che ha preso questa bella e lodevole iniziativa ha sentito il bisogno di lanciare attraverso la stampa cittadina un appello ai pratesi, che in verità non sono mai rimasti insensibili di fronte a simili necessità. Ed ecco le prime offerte: C.C. lire 500; Calvano 150; Montemoni in memoria di Maria Poccianti 500. Ulteriori offerte possono essere versate all’edicola Santini in piazza del Comune sotto i loggiati, che ancora una volta si presta per uno scopo nobilissimo”.
Mentre sulla Nazione dell’11 febbraio 1951 si legge: “Molti consensi e interessanti iniziative per acquistare il Polmone d’Acciaio;  lo spettacolo Giramento del Mondo ritorna al Metastasio, all’Apollo si sta preparando una festa danzante. Si cammina a grandi passi verso il milione!”.
I pratesi risposero con generosità e velocità, e il 18 febbraio il giornale La Nazione pubblicò ancora: “La somma per l’acquisto del polmone d’acciaio è stata raggiunta ieri”, con nel sottotitolo “Le cospicue offerte di due industriali pratesi e l’attesa per la Rivista Goliardica al Metastasio (organizzata dagli studenti del Buzzi), nonché la festa danzante all’Apollo”. In seguito fu presa l’importante decisione ulteriore di acquistare anche il “Polmoncino d’Acciaio” (incubatrice). A sorpresa, due fratelli noti industriali pratesi, Agostino e Giuseppe Canovai, che avevano un lanificio in San Giorgio angolo via Cavallotti, consegnarono personalmente al comitato un assegno di lire 750.000.
Fu proprio questa ultima donazione che accelerò i tempi, oltre a quella della signora Godi che donò l’incasso di due serate del cinema Rosson, in Corso Mazzoni. Questo ci diede l’impulso a intensificare ancora di più l’attenzione della cittadinanza e finalmente la cifra fu raggiunta e anzi superata e fu deciso di acquistare perciò anche la “Culla Termica”, che ancora mancava in maternità; e addirittura avanzarono ancora dei soldi, che furono spesi per l’acquisto di biancheria, dato che l’ospedale ne era carente. Finalmente arrivò il fatidico giorno dell’inaugurazione, con nostra grande soddisfazione.
Il quotidiano Il Mattino del 27 febbraio 1951 riporta la notizia che “è stato inaugurato il nuovo reparto ortopedico ed è stato benedetto anche il “polmone d’acciaio” che la cittadinanza pratese, in pochi giorni, anche per il munifico contributo dato dai fratelli Agostino e Giuseppe Canovai, ha reso possibile realizzando l’iniziativa della Pubblica Assistenza L’Avvenire e del Gruppo Stampa Pratese.  
L’inaugurazione avvenne dunque il 26 febbraio del 1951, insieme a quella del nuovo reparto ortopedico. Il giornale del 27 febbraio riporta: “La cerimonia svoltasi domenica mattina ha raccolto una gran massa di invitati e di popolo. Gli onori di casa sono stati fatti dal Commissario Prefettizio marchese Degli Albizi, dal segretario dell’Ospedale rag. Pari Masti, dal direttore dell’Ospedale e del corpo sanitario. Fra i numerosi presenti abbiamo notato: il comm. Avvocato Vanni in rappresentanza del Prefetto; l’on. Senatore Guido Bisori; il pretore avvocato Massimiliano Malenotti e Mario Luchetti presidente del comitato per il “Polmone d’Acciaio”; il sindaco ragionier Roberto Giovannini con gli assessori Adriano Pucetti, Pietro Zella, Ugo Cantini, Tarquinio Fini; il commissario capo di P.S. dott. Cesare Tarantelli; il maresciallo Luigi Nesti comandante interinale della tenenza dei carabinieri; i consiglieri comunali Leopoldo Pieragnoli segretario della locale sezione della Dc e Pietro Giusti; il prof. Alighiero Ceri presidente della Pro Prato; Giuseppe Giagnoni presidente del Gruppo Stampa Pratese; il presidente della società Corale “Guido Monaco” e presidente del Conservatorio “S.Caterina”; Michele Vinattieri; il presidente della società Corale  Giuseppe Verdi rag. Fernando D’Agiana; il presidente dell’Istituto “Rosa Giorgi” Giovanni Bacci; rappresentanti del Cif; rappresentanti dell’Udi; Lorenzo Ferroni rappresentante dell’Onmi anche in rappresentanza del presidente; il direttore della Cassa di Risparmio cav.Gastone Lenzi; l’ing. Tommaso Gatti; il cav. Alfonso Carlesi ufficiale sanitario; l’ing. Lorini; Angelo Pugi presidente della Casa di Riposo, con il segretario cav. Gracco Bruschi; il segretario della Casa Pia dei Ceppi dott. Arnaldo Gradi; la signora Nadina Massai che tanta parte ha avuto in tutta la preparazione; il prof. Vito Mori consigliere comunale; il prof. Sante Pisani direttore sanitario dell’ospedale; il prof. Aurelio Angeli chirurgo primario con l’intero corpo medico; Dante Lastrucci proposto della Misericordia; il dott. Payar presidente della Pubblica Assistenza “L’Avvenire”; il comm. Silvano Bini presidente della Croce d’Oro; l’intero comitato del Polmone d’Acciaio. Dopo la benedizione del nuovo reparto ortopedico il vescovo di Prato e Pistoia, monsignor Giuseppe De Bernardi, accompagnato dal vicario generale della diocesi mons. Eugenio Fantaccini, si è recato a benedire il polmone d’acciaio. Nel discorso del commissario prefettizio poi si legge: “Il nostro Ospedale deve assai alla collaborazione dei cittadini, che, ad iniziativa della Pubblica Assistenza L’Avvenire e del Gruppo Stampa Pratese, hanno offerto il Polmone d’Acciaio”.
Alcune delle prime notizie apparse sulla stampa circa l’utilità di questo macchinario: sul quotidiano La Nazione del 20 gennaio nella cronaca di Firenze si legge: Per un caso di congestione, un paziente è stato sottoposto alle cure opportune fra le quali il trattamento con il polmone d’acciaio”. Mentre sulla Nazione del 15 marzo del 1952, in quarta pagina, alla cronaca di Prato, si riporta quanto segue: “La culla incubatrice in funzione al nostro ospedale. Quando si trattò di acquistare tra gli apparecchi spitalieri anche la culla incubatrice in virtù di quella non ancora dimenticata sottoscrizione per il “polmone d’acciaio” rilevammo la piena soddisfazione della nostra cittadinanza nel dare in donazione al nostro ospedale anche questo necessario mezzo moderno per i neonati prematuri per i quali prima si doveva ricorrere a Firenze al Mayer. In questi giorni un caso notevolmente specifico si è presentato agli occhi dei nostri sanitari, perché tale culla potesse essere usata nella sua essenziale funzionalità. Si tratta di due gemelli dati prematuramente alla luce dalla signora Zita negli Innocenti. I neonati, Piero e Paolo, grazie alle amorevoli cure dei medici e del personale ospedaliero, disposti immediatamente nell’incubatrice sono ormai salvi e continuano a sopravvivere in un ambiente come quello naturale, che potrà condurli al normale periodo di gestazione”.
Personalmente sono stato felice di aver contribuito anche solo in minima parte all’acquisto dell’incubatrice. Quando nel 1966 è nata la mia secondogenita ed ha passato il suo primo mese di vita nell’incubatrice, essendo nata sottopeso, ho capito quanto sia stato importante quello che avevano fatto i cittadini di Prato con la loro generosità. Il reparto di maternità, diretto con grande professionalità dal prof. Ruindi, già a quel tempo era dotato di diverse incubatrici moderne e funzionali.
                                                                                                                                     (Renzo Tonfoni)

(Ricerche di archivio alla Emeroteca della Biblioteca Lazzeriniana in Via del Ceppo Vecchio a Prato).

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Formazione

15 SETTEMBRE 2021: PARTE FORMAITALIA

La nota che segue è per tutti gli amici di Studisociali e per tutti gli interessati e appassionati alla grande e cruciale tematica della formazione profonda e integrata delle persone.

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Cari amici,

finalmente, dunque, parte Formaitalia, la formazione profonda e integrata per le persone (e per il paese).

Ne avevamo preannunciato l’inizio, volutamente e quasi provocatoriamente, per lo scorso luglio, alla vigilia del periodo delle vacanze,  con sede provvisoria… in un bar, proprio a significare l’assoluta libertà, il massimo decondizionamento, la dominante intenzione di qualità integrale, ma anche la non ulteriore procrastinabilità dell’iniziativa.

Le vicende covid hanno suggerito una piccola dilazione tecnica ma ora la data è fissata definitivamente per il 15 settembre 2021, alle ore 10, in Roma, al numero 51 della via Ostiense, duecento metri dalla stazione Piramide della metropolitana. Questa sede di inizio ci viene offerta dagli amici della Flaei, cui da tempo quasi immemorabile mi legano anche personalmente sensibilità, amicizia e attività di studio e formazione intensamente condivise.  

La domanda di una simile formazione integrata si è fatta sempre più intensa in questi anni, spinta particolarmente da ambiti legati alle iniziative di ripresa di un impegno politico di ispirazione cristiana per il nostro paese, ma anche da numerose persone di diversificati ambiti di impegno civile e sociale, accomunate dall’interesse al tema della crescita personale e comunitaria in chiave di umanesimo integrale.

In avvio, la formula prevede semplicemente un incontro al mese, in data e ora fissa, e della durata di non più di due ore, al massimo tre. Non è una formazione che prevede costi per i partecipanti: come per qualche altra iniziativa in passato (abbiamo utilizzato questa formula per la costituzione del piccolo gruppo di DemocraziaComunitaria) viene chiesto un euro (un euro, alla lettera) come valore simbolico di adesione e consapevolezza, e per rispondere a qualche possibile esigenza minima di materiali da fotocopiare o simili.

La docenza non si limiterà al sottoscritto ma coinvolgerà naturalmente via via esperti in diverse discipline ed approcci, secondo i casi, e valorizzerà esperienze e testimonianze. I tre temi di avvio, corrispondenti ai primi tre incontri, sono comunque:
1.           Prospettive della politica italiana: La dimenticanza più grave quando si parla di Democrazia Cristiana.
2.           Tornare a guidare l’Italia: Formare dirigenti o formare persone?
3.           Economia e lavoro:
Costituzione italiana tradita?

A seguire, i temi verranno via via concertati secondo il criterio dello “scorrimento continuo” in una strategia condivisa e nel quadro di riferimento metodologico che molti amici mi hanno sentito definire spesso come “modello monasteriale”, proposto già in passato anche per la citata e auspicata iniziativa di rinnovamento della politica.

Nella sostanza si tratta certamente di “formazione alta” ma… proprio perché alta essa non avrà nulla da spartire, anzi aborrisce esplicitamente, alti titoli e alti linguaggi, alte sponsorizzazioni e alti atteggiamenti accademici… e simili vuotaggini. E’ formazione alta proprio perché… non va in alto bensì, al contrario, in profondità: costruisce nel profondo delle coscienze per far crescere, integrati, valori e competenze. Per questo il risultato sarà anche “alto”, ma nel senso vero e pregnante. E per questo ogni incontro, pur essendo autonomo e dotato di valore proprio, è anche collegato agli altri dalla strategia della visione generale, che è appunto quella dell’umanesimo personalista e comunitario.
Scusandomi con voi per la relativa lunghezza di questo messaggio, mi permetto infine, per completezza conoscitiva dello spirito con il quale parte e con il quale fin dagli anni scorsi fu pensata l’iniziativa, di riproporvi la piccola sintesi di “filosofia della formazione” che fin dal 2016 era stata predisposta per i numerosi amici con i quali si cercava di porre le basi per la ripresa di un pensiero e di un’azione più specificamente rinnovati per la politica e per la società del nostro paese. Tale sintesi recitava:

“Che idea abbiamo della formazione?
Molto alta.
La formazione infatti è il cammino della persona totale verso il proprio orizzonte infinito, in armonia con la comunità in cui essa vive e cresce.
Tutte le sue potenzialità di sviluppo e miglioramento si mettono in movimento con essa.
E perché formarsi? Perché migliorarsi è vocazione fondativa e irrinunciabile della persona.
E anche perché, se è buona formazione, essa mette insieme armonicamente crescita personale e crescita comunitaria: cioè l’unica crescita che abbia senso compiuto per l’uomo.
L’uomo è infatti, nella sua pienezza, contemporaneamente, “persona e comunità”.
La formazione non è indottrinamento.
Non è semplice aumento di nozioni nel nostro cervello.
Non sono professori che fanno conferenze.
Non sono esami e promozioni o dichiarazioni di idoneità.
Tanto meno sono bocciature.
Queste ultime, quando ci sono, caso mai bocciano la capacità della scuola di essere utile alla crescita delle persone.
La formazione non è un “master” conquistato in una prestigiosa università
Da esibire stupidamente in un curriculum
O da contemplare narcisisticamente incorniciato a una parete
O da esibire allusivamente in un discorso pubblico.
La formazione è il tuo cammino di vita nel miglioramento continuo:
Quel cammino della tua anima e di tutto il tuo essere che non finisce mai
Che non delude mai
Che non inganna mai
Basta che tu sia leale con testesso.
La formazione sei tu sempre più consapevole dei tuoi limiti ma anche delle tue potenzialità
E della loro concretezza
Del tesoro nascosto che possiedi e che… sei un irresponsabile se lo lasci perdere.
La formazione è la tua occasione di tutta la vita:
Qualunque mestiere tu faccia
Basta che faccia il mestiere di esistere
E di essere una persona che si vuol realizzare compiutamente.
Ti trovi a fare la scommessa decisiva della tua vita se ti prendi cura della tua formazione permanente o te ne infischi.
In una comunità che... forse ne è inconsapevole ma si vuol realizzare anch’essa
ed è chiamata a dire a sua volta sì o no a questa sua e tua realizzazione.
Qualunque mestiere tu faccia:
Lavoratore dipendente o disoccupato o studente o imprenditore o anziano in quiescenza o politico o amministratore locale o studioso o libero professionista o sportivo…
Ed a qualunque gradino tu sia in quella idiota e immorale falsificazione di vita che chiamano scala sociale.
In qualunque ambiente tu viva
Da qualunque punto tu parta
sei dunque chiamato a decidere se ti prendi cura della tua crescita permanente
o se ti infischi del destino della tua vita.
Anche la formazione politica rientra pienamente in questi criteri e risponde a queste esigenze.
Formarsi in politica, in particolare,
non significa imparare a far comizi efficaci turlupinando la gente
Né apprendere a creare manifesti elettorali più brillanti di quelli dell’avversario di turno
E neanche trovare la battuta efficace per controbattere l’ultima berlusconata.
Formarsi in politica
Se davvero hai valori di ispirazione cristiana o comunque umanistica
Significa imparare ogni giorno a capire più profondamente te stesso e contemporaneamente gli altri
A vedere di te stesso e degli altri un futuro lungo e non solo dieci centimetri dal tuo naso
A saper affrontare tutti i problemi anche sbagliando, ma riconoscendo gli errori e migliorando sempre
Ad acquisire competenze crescenti nelle materie che hai scelto come tua specializzazione
Senza mai trascurare il miglioramento delle tue conoscenze più generali
E contemporaneamente a consolidare valori più alti per testimoniarli più fortemente
Mettendo tutto ciò a disposizione attiva della tua comunità
Oltre che di testesso.
La formazione usa anche le aule ma se occorre sa farne a meno.
La formazione, se è davvero buona, deve costare pochi soldi e molta costanza di impegno
Deve chiedere l’aiuto di pochi professori e di molti maestri di vita
Deve mettere insieme teoria e pratica
Perché la teoria senza la pratica è priva di vita
Ma anche la pratica senza la teoria è un cammino a rischio di dispersione.
Per tutto questo la formazione non ha età
Né cariche sociali né gerarchie che esentino da essa
Né sapienti che possano farne a meno
Né arrivati che non ne abbiano più bisogno.
Beh… vi interessa?
Se sì, siete sulla strada giusta.
Se no, riflettete sui pericoli della vostra situazione.
Qualunque cosa pensiate,
la nostra formazione sarà così
o non sarà per nulla, perché, diversa da così, non vale la pena farne.
Perché solo così essa ha un senso di bene
Per noi stessi, per le speranze del nostro paese e anche oltre il nostro paese.
Un sogno?
Se volete, sì: un sogno. E che c’è di più concreto e utile di un sogno di bene, per migliorare davvero la realtà?
In fondo, alla chetichella, abbiamo già cominciato da molto a tastare il terreno:
ci siamo visti con tanti di voi, in diverse occasioni
giusto per cominciare a immaginarla, questa formazione
giusto per cominciare a dirci che puntiamo in alto
puntiamo alla nostra persona totale da sviluppare
ed alla nostra comunità senza esclusioni
per migliorarle davvero entrambe e senza confini”.
(Giuseppe Ecca, giugno 2016)
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Ebbene, cari amici: chi di voi è interessato a vivere con noi questa esperienza può semplicemente scrivere per posta elettronica all’indirizzo giuseppe.ecca@gmail.com., o contattare il sottoscritto per telefono o secondo gli altri canali consuetamente utilizzati fra noi (compreso Feisbuc): ma sarà mia cura fornirvi in tempi rapidi e comunque fin dal primo incontro anche altri semplici riferimenti, ora in via di definizione.
A tutti voi un caro saluto.
                                                                                                                                     Giuseppe Ecca
Roma, agosto 2021
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Storia e storie

PORTO IL NOME DEL MIO PAPA' E MI SENTO SEMPRE ITALIANA

Ancora storie di emigrazione, ancora esperienze forti di vita, in semplicità di stile e di sentimento. Storie vere. E ancora Australia.

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Mamma mi raccontava sempre che a mio papà piaceva una famiglia grande, essendo lui figlio unico: aveva sofferto tanta solitudine nella casa dei suoi genitori, prima di sposarsi. Per questo la nostra famiglia era numerosa: eravamo sette femmine e due maschi. Mio papà aveva un tantino di amore particolare per me, mi è sempre parso. Ero la quinta dei nove figli ed eravamo comunque, così numerosi, una famiglia felice. Quando papà decise di partire in guerra, per l’Africa Orientale, i figli erano ancora soltanto quattro, tutte femmine. Papà decise di partire perché chi partiva volontario veniva pagato bene e qualche volta poteva tornare a casa in licenza. Insomma, per la famiglia si trattava di un bell’aiuto.
Essendo sempre innamorati, i miei genitori pensavano ancora di aumentare la famiglia e così mia mamma si trovò incinta della quinta figlia: ma questa gravidanza era diversa dalle altre quattro; tutte le donne le dicevano che sarebbe arrivato un maschietto; ma la risposta della mamma era invariabilmente: “Non m’importa che sia maschio o femmina: basta che ritorni mio marito dalla guerra e che il bambino sia bello e sano”.
Quando fu l’ora del parto, questo si presentò difficile: il bambino infatti aveva il cordone ombelicale attorcigliato intorno al collo. La mamma pregava Dio che si salvasse, e tutto andò bene; finalmente nacque la bambina: ero io! Mia mamma era felice e poiché papà si chiamava Vincenzo, quando andò al municipio per registrare la mia nascita fui chiamata Emilia Vincenza: ecco perché porto il nome di mio papà.
Subito dopo che fu registrata la nascita, il Duce, Benito Mussolini, mandò alla mamma il premio di lire 5.000, che in quei tempi erano tanti soldi, e così divenni “la figlia del premio”. Ancora più forte si fece il ricordo continuo di mio papà lontano dalla famiglia a combattere in guerra con il rischio di morire, per aiutare tutti noi. Il duce dava il premio a tutte le famiglie con bambini quando i loro papà erano in guerra come volontari.
Più crescevo e più la somiglianza con papà era forte; ero in particolare di pelle scura come lui; e mia mamma ripeteva: “Questa figlia suo padre l’ha portata dall’Africa e perciò è scura come lui”. Dopo di me, lei ebbe altri quattro figli, due femmine e due maschi: dunque, nove figli in tutto. Finalmente, con la nascita dell’ultimo finì la sua missione di avere bambini: non poteva averne più; in tutto aveva avuto diciotto gravidanze! E’ stata una mamma fortissima: oltre a crescere nove figli era anche sarta di uomo e di donna, lavorava all’uncinetto, faceva coperte da letto e centrini, lavorava il pane due volte la settimana e i biscotti tradizionali per Pasqua e Natale.
Quando ebbi compiuto diciotto anni di età decisi di partire per l’Australia: lì c’erano già due mie sorelle maggiori, sposate per procura; perciò anche io partivo contenta. Loro mi scrivevano sempre chiedendomi se volevo partire dato che lì si lavorava bene e la paga era settimanale. In effetti tutto procedette bene e in un anno di tempo per prepararmi partii: era il 29 ottobre del 1960.
Contentissima quando decidevo di emigrare, mi sono trovata triste all’atto di partire. Il giorno della partenza è stato in effetti il più triste della mia vita. Arrivata l’ora di lasciare mia mamma, le due mie sorelle più giovani di me e i due fratellini più piccoli, mi resi conto di quello che mi accadeva: ma ormai dovevo proseguire, e  così in compagnia di mio papà presi la corriera dal mio paese, poi il treno fino a Reggio e il battello fino a Messina. Finalmente arrivammo al porto, dove una grande nave mi aspettava: portava il nome “Roma”.
Quanta gente attorno a quella nave! Fra viaggiatori e parenti non si riconosceva chi erano gli emigranti, cioè chi doveva partire. Ad un tratto aprirono i passaggi per gli imbarchi nel grande bastimento, che fu subito carico di passeggeri, piccoli e grandi, giovani e meno giovani, uomini e donne. Mio papà venne con me dentro la nave, ricordo come fosse oggi; dopo pochi istanti la nave cominciava a dare i segnali di partenza e mio papà mi abbracciò forte forte, mi baciò e con le lacrime agli occhi mi disse: “Figlia mia, devo lasciarti; tu lo sai che devo ritornare a casa, questa partenza è stata la tua decisione: se ti piace stai nel luogo che hai scelto ma altrimenti ritorna qui, con tutta la ricchezza della tua bella giovane età; buona fortuna e a presto!”.
E mi lasciò. Io rimasi triste e con le lacrime agli occhi uscii fuori, dove tutti salutavano, col fazzoletto in mano, i loro cari. Vidi anche mio papà, col fazzoletto in mano, che diceva: “Ciao, Emilia!”. Man  mano che la nave si allontanava dal porto, le parole di tutti noi erano: ”Arrivederci, Italia mia, resterai sempre la mia patria!”. La giornata era al declino, il sole si nascondeva e incominciava ad imbrunire. Ognuno di noi cominciava a sistemarsi in cabina, perché avevamo bisogno di riposo, stanchi e straziati dopo una lunga giornata di lacrime per il distacco dai nostri cari.
I giorni passavano e il viaggio continuava con un tempo sempre variabile: un giorno sole, un altro burrasca. Si facevano nuove conoscenze e ci si raccontava il motivo di quel viaggio: alcuni perché sposati con procura, altri per trovare i familiari, altri per lavoro temporaneo ma con l’intenzione che se si fossero trovati bene si sarebbero sistemati definitivamente nella nuova terra. Dopo un lungo viaggio, ventotto giorni, siamo arrivati a Melbourne: era il 26 novembre 1960. La gioia che provai quel giorno del mio arrivo fu immensa soprattutto per la grande emozione nel vedere le mie sorelle dopo quattro anni di lontananza, insieme ai loro mariti e ai bambini. Ci salutammo e contenti, abbracciati a lungo come avevamo fatto prima di lasciarci, salimmo infine in macchina per andare a casa. Loro abitavano al numero 42 di Clifton St. Richmond.
Pranzammo e subito dopo cominciai a parlare di lavoro, contenta e piena di entusiasmo, e dicevo: ”Lo sapete che questo è lo scopo per cui sono venuta in Australia: lavorare!”. Per una settimana rimasi a casa per riposarmi, poi trovai lavoro proprio vicino all’abitazione delle mie sorelle: era un maglificio con pochi operai, lì si lavorava e si mangiava, e si faceva il tè, di cui mi diedero l’incarico nominandomi “tè girl”; dovevo preparare il tè tre volta al giorno, andare a fare la spesa con le note di ciò che i lavoranti volevano, scritte sulla carta in lingua inglese.
La paga era solo di sette sterline la settimana, ma io ero contentissima. Però un giorno, portando il tè, come al solito, al padrone per il suo pranzo, egli mi disse che non lo voleva sul tavolo e andò su tutte le furie, non so per quale ragione, chiamò una ragazza italiana e le ordinò: “Dì a questa girl che io oggi vado fuori per il lunch, perciò il tè non lo voglio”. La ragazza me lo riferì e io in quel giorno, con l’umiliazione che sentivo per questa scenata e per il fatto che non potevo replicare in lingua inglese, dissi a me stessa: “Che pazzia che ho fatto a lasciarti, Italia mia!”. In realtà l’Italia mi è sempre mancata molto.
                                                                                                      (Anonimo, Premio “Prato Raccontiamoci”)
 
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Storia e storie

1956: PRIMI GIORNI IN AUSTRALIA

Ancora una volta un racconto di vita inedito, tratto dalla serie “Prato Raccontiamoci”. Pubblichiamo questa storia e quelle simili così come ci pervengono, scritte da mani semplici di persone che hanno vissuto una vita intensa, nella prima metà del secolo scorso, quando ancora dall’Italia si emigrava quasi in massa;  e, il più delle volte, non hanno certo potuto permettersi lunghi studi letterari per scrivere con raffinatezza formale: ci raccontano la vita, semplicemente. E questo ci interessa più di tutto.

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Aprile 1956, Melbourne, Australia. Cielo nuvoloso, con la brezza che muove le foglie degli alberi. Il traffico non è pesante come a Roma. La casa che mi aspetta è sopra un negozio di generi alimentari. Dalla finestra vedo la Sydney Road, la gente che si appresta a salire sul tram per andare a lavorare nei vari sobborghi. La città è estesa, lunga e larga. Ci sono parchi, campi sportivi, polmoni di verde ben evidenti. Gli uomini hanno pantaloni larghi, camicie larghe, scarpe grosse e di color marrone, capelli tagliati corti e senza basette. Con la mano destra reggono borse pesanti. Molti si coprono la testa con enormi cappelli
Io trovo il mio primo lavoro in una fabbrica di scarpe. Sono giovanissimo e la paga è piuttosto magra. La fabbrica è gestita da una famiglia ebrea. Marito e moglie danno le direttive e comandano le operazioni del giorno; hanno un figlio che fa le scuole superiori, ma dopo scuola lavora anche lui per tre ore: poi va a casa per studiare. Una famiglia piccola, però unita e serena. I miei compagni di lavoro sono tre australiani. Uno di loro mi dice quando devo lavorare veloce e quando devo lavorare più lentamente e pigliarmi tempo. A mezzogiorno mi mandano a comprare il pesce e le patatine fritte con la Coca Cola.
Il cibo non è come il nostro… contiene tanto grasso! La carne di pecora non è che piaccia a tutti. Usano il lardo e non l’olio  d’oliva. E, invece del vino, bevono birra a non finire. Siccome i bar chiudono alle 18, dopo il lavoro scappano in questi locali onde poter bere la birra prima di ritornare a casa. Spesso ritornano a casa  un po’ brilli e litigano con le mogli… 
Le donne, quelle di una certa età, coprono le rughe con la cipria, tanta cipria! Non si fanno mancare il rossetto ed il cappellino, grigio o verde. Quelle giovani portano la gonna corta e mostrano la bellezza delle gambe. Un popolo di sportivi, questi australiani! Corrono anche sotto la pioggia, fanno ginnastica e nuotano come pesci.  Io ho una vecchia bicicletta e nelle ore libere giro per le strade di Coburg. Amo il ciclismo ed il calcio. Sognavo di diventare un portiere di qualità come Moro, Casari, Viola e Bugatti: ma dopo il lavoro non me la sento di andare a fare gli allenamenti. E poi incontro una ragazza italiana, Caterina, figlia di calabresi, ed incomincio a farle la corte. E’ più alta di me, più matura nel calcolare le cose della vita. Capelli lunghi e neri, due occhi vivaci, un nasino affilato, la bocca minuscola e con un viso fatto di lineamenti regolari. Mentre nel cielo brilla il sole e gli uccelli volano felici, decidiamo di fare una passeggiata al vicino parco. Ci buttiamo sull’erba verde, asciutta; ci guardiamo negli occhi come se fossimo imbarazzati, poi la mia mano trova quella di Caterina ed iniziano piccole carezze. Gioco coi suoi capelli, le bacio la fronte e subito sento le sue labbra sulle mie! I passeri saltellano sull’erba cercando qualcosa da beccare. Una ragazzina ci passa vicino e noi la smettiamo con le carezze. Due farfalle bianche si posano sui fiori. Il sole si avvia al tramonto ed è ora di lasciare il parco. Caterina non vuole che i genitori scoprano la nostra storia e rientra a casa con la solita puntualità: dice che i suoi genitori sono all’antica e quindi molto severi!
Certo, un bel paese, questa Australia! C’è serenità, allegria, lavoro, sole, pioggia e vento! A me però manca la piazza, il posto dove andare la sera per vedere gli amici, e manca il caffè corto. Qui fanno un caffè all’americana, cioè lungo e senza sapore: è come bere l’acqua sporca. Ancora non mi sono abituato a bere il tè, mentre gli australiani bevono tè e birra. Mangiano assai dolci e sono golosi. Adesso, finalmente, è arrivata pure la televisione! Appaiono le prime trasmissioni in bianco e nero, perlopiù sono pellicole americane oppure inglesi. Gli americani invadono l’Australia coi film western: sullo schermo appaiono cavalli, indiani, frecce, morti e feriti. La sera la famiglia si unisce attorno a questa scatola e commenta, di tanto in tanto, il corso delle azioni. C’è subito meno comunicazione di prima. Prima, di fronte al fuoco, si parlava di più e si raccontavano avvenimenti del passato realmente vissuti. Ora la Tv ci fa conoscere storie inventate e distanti dalla vita quotidiana. Divertimento in casa, cinema in casa. Le cose cambiano anche in Australia.
Frequento le scuole serali per imparare la lingua inglese. Bisogna conoscere la lingua inglese per fare la spesa, per capire cosa fare sul lavoro, per chiedere il nome di una strada, per pagare le fatture. A CoIburg c’è la chiesa cattolica di San Paolo. Molte donne italiane, la domenica, vanno a messa e a messa finita si trovano fuori e si scambiano le notizie. Parlano del marito, dei figli, della comare rimasta incinta prima del matrimonio, della casa da pagare, della nonna in Italia che sta male. Io sono cattolico, entro in chiesa e mi raccomando al Signore. Però al mio paese nativo era tutta un’altra storia! Al mio paese conoscevo i fedeli, il parroco, i santi, le varie cappelle. Qui, invece, non conosco nessuno. Nemmeno i santi mi sembrano veri, non mi destano fiducia. Il parroco non parla italiano e quindi io non mi confesso. Fortuna che di peccati ne faccio pochi! Quelli più gravi sono i baci che do a Caterina quando ci incontriamo sull’erba del parco: roba di poco conto, sfogo di gioventù! L’amore esiste anche a Melbourne, in Australia: lo si trova ovunque, l’amore. E non importa se uno vive in Australia o in Italia: l’amore è necessario e ci dà la forza di vivere, di combattere le avversità. Amo l’Italia dove sono nato, ma amo pure l’Australia dove lavoro e vivo: due amori, ma una sola vita.
                                                                                                             
                                                                                                                     (Anonimo, raccolta “Prato Raccontiamoci”)
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Società

L'INTEGRAZIONE INTELLIGENTE E RESPONSABILE

Non so se ancora operino, perché il mio incontro con loro risale a qualche anno fa e dopo di allora i contatti si sono diradati per esigenze diverse legate soprattutto ai miei impegni lavorativi. Ma la impressione lasciatami dal loro operare concreto, educato, portato direttamente sui problemi delle singole persone, e non sulle generiche posizioni astratte, mi aveva colpito e affascinato vivamente. Perchè cercava contremporaneamente il bene delle singole persone e quello di tutti.

 
La comunità si chiama Ripa dei Sette soli. Sono francescani e amici di francescani. Educati, senza insistere, ti offrono (così fu per me, nei paraggi di San Giovanni, a Roma, quando quasi casualmente li conobbi) questo loro piccolo pieghevole di presentazione: sono persone che hanno “trovato” l’unico modo davvero conreto e giusto concreto di affrontare il “problema immigrati” senza retorica e senza astrattezze. Il problema di quei profughi che sbarcano nel nostro paese, provenienti dall’Africa perlopiù, ed ai quali, una volta che abbiano messo piede in terra italiana, nessuno più dà una mano, lasciandoli a perdersi o a recuperarsi, per i fatti loro, altrettanto disperatamente, attraverso strade e campagne. Molti si salvano e molti si perdono, molti diventano risorse per la società ch eli ha salvati e molti altri diventano minacce e pericoli.
 
Mentre il resto d’Europa, generalmente, fa ancora peggio; da qualche parte (pare lo abbiano fatto più volte maltesi e spagnoli, ad esempio) sparano loro addosso perché non osino neppure mettere piede sul loro suolo.
 
Ripa dei Sette Soli ha letto il loro problema con semplicità ed efficacia immediata, con la semplicità di luce ispirata da San Francesco. Senza la barbara ostilità dei “nonvivogliamo” e senza la contrapposta stupidità irresponsabile dei “ venite-pure-venite-tutti-tanto-qualcuno-ci-penserà-basta-che-non-chiediate-nulla-a-me,  tipico di tanto pollame pacifista, buonista, sentimentalarcadico, compreso qualche cattolico dalla facile generosità retorica a carico dello Stato e in genere degli altri.
 
Da Ripa dei Sette Soli i ragazzi vengono invece raccolti e avviati immediatamente, con amore, a imparare piccolissimi mestieri di vita quotidiana, o a perfezionarli se per avventura già ne conoscono qualcosa. Di quei mestieri utili così spesso alla nostra vita cittadina, e, così spesso, introvabili o trovabili a prezzi esorbitanti fra i nostri connazionali: piccole riparazioni di impianti elettrici o idraulici, piccole riparazioni di falegnameria, tinteggiatura, intonacatura, muratura, pulizia di ambienti e cantine, lavaggio auto, raccolta ortaggi e frutta, piccoli traslochi, servizi di giardinaggio, assistenza ospedaliera, accompagnamento anziani alle commissioni di posta, municipi, medico, ospedali, e ancora taglio capelli e barba, servizi di igiene personale,  preparazione pasti, recapito a casa della spesa, pagamento bollette, cura animali, e vari altri  “problemucci”, come li chiamano loro stessi, per i quali tanti cittadini hanno bisogno di una mano di aiuto e… non sanno proprio a chi rivolgersi.
 
La relazione che si instaura non comporta rischi, nel senso che chi desidera avvalersi di questo “servizio garantito” non ha che da chiamare (così era quando ho conosciuto la comunitài) il numero telefonico 327.1790333, dalle ore 9,30 alle ore 17, o inviare una email a ripadeisettesoli@gmail.com: risponde una operatrice che prende in carico il problema, individuando la persona adatta alla sua soluzione. La prestazione non ha un prezzo o una tariffa: la regola è quella di una offerta libera lasciata al buon cuore di chi chiede il servizio. Si tratta di donazione, oltretutto fiscalmente deducibile, purchè il pagamento di essa avvenga attraverso operazione bancaria o postale.
 
Insomma, la parola d’ordine dei frati minori è: “Accogliamo nella nostra fraternità persone condannate alla vita di strada, per ridare una opportunità a chi non ha più lavoro né un luogo familiare dove vivere. Ma vigiliamo anche sui comportamenti”. La Fraternità di Ripadeisettesoli è in piazza San francesco d’Assisi 88, nel luogo, mi dicono, dove proprio san Francesco di Assisi amava stare in Roma.
 
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Italia

BELLISSIMA MA DISORDINATA

Circolano giustamente, in tv, su giornali e riviste, in films e documentari, nonostante il periodo di covid, immagini bellissime del nostro paese, delle sue attrattive incomparabili di arte, di storia, di paesaggio, di cultura, di spiritualità, di umanesimo. E’ vero: nessun altro paese al mondo assomma tanta bellezza e, in fondo, tanto bene.

Dirlo, raccontarlo, mostrarlo, tutto questo bene, è comportamento non solo legittimo al fine di riequilibrare tanta tendenza, a volte malata, all’autodenigrazione o all’autocommiserazione, ma anche doveroso in quanto gesto di responsabilità e di amore per ricostituire un’attenzione psicologica, morale, culturale e politica sulle dimensioni positive del nostro paese, e sulla loro sviluppabilità ulteriore a vantaggio anche di tutto il mondo.

Perché è questo l’approccio che, senza nascondere i limiti da correggere, consente un atteggiamento educativo e proattivo di incoraggiamento al fare per migliorare, al costruire il bene, che va oltre il limitarsi a criticare. Abbiamo cose immense e uniche da valorizzare, dunque, e abbiamo anche cose immense e uniche da recuperare: ricordiamolo, perché le cose belle, se non le custodiamo, rischiano pian piano e in silenzio di deteriorarsi. Abbiamo celebrato da poco il primo maggio, festa universale del lavoro e dei lavoratori: i tre sindacati confederali italiani, in genere non ricchissimi di fantasia negli ultimi anni, hanno coniato per l’occasione un bellissimo messaggio che incentra la sua attenzione sui due concetti del completamento delle vaccinazioni contro il carognavirus e della ripresa vigorosa e totale del lavoro (sia pure con rallentamento dei ritmi e distanziamento degli spazi) come metodo e via per il superamento decisivo del dramma pandemico.

Noi vediamo giuste queste due dimensioni: e ne allargheremo volentieri il significato verso una sanità nazionale pubblica nuovamente centrale nelle attività dello Stato come segno della civiltà solidaristica del paese, la sanità come servizio veramente per tutti e veramente efficiente, senza sprechi e senza parassitismi ma anche senza deleghe alla pur legittima sanità privata con fini di lucro; e verso il lavoro, in modo più specifico,  come diritto e dovere per ogni cittadino, effettivamente garantito senza assistenzialismi ma con reale sguardo permanente a una adeguata produzione di ricchezza e a una altrettanto adeguata redistribuzione  universale di essa. Non è tutto, perché a questo quadro di necessaria ripresa mancherebbero ancora altre dimensioni del bene comune e in particolare quelle della cultura e dello spirito: ma sarebbe già cosa immensa e davvero degna della grandezza di un paese che sa ancora e sempre migliorarsi. Comunque, godetevi le bellissime immagini che qui ho tentato (ci sarò riuscito?) di allegarvi. (No, non ci sono riuscito: devo ancora imparare... lo prometto).

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Economia e società

ECONOMIA E LAVORO: COSTITUZIONE TRADITA?

La centralità del lavoro, fondamento della nostra repubblica per dettato costituzionale fin dall’articolo 1 del nostro documento fondativo: eppure lottiamo ancora perché tale fondamento trovi attuazione vera e sostanziale. Giuseppe Amari, studioso di Federico Caffè e più in generale del mondo del lavoro e dell’ecponomia, se ne occupa in questo articolo, non per la prima volta, richiamandone la drammatica attualità.
 
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Il lavoro e del suo futuro; un tema sempre più centrale e drammatico, non solo in Italia, certo aggravato dalla Pandemia.
Possiamo cominciare dalla nascita della disciplina economica con Adam Smith che affermò, contro i mercantilisti, che la vera ricchezza delle
nazioni risiedeva, non nel denaro, ma nel lavoro e la sua produttività. Che dipendeva, a sua volta, dalla specializzazione del lavoro e dall'apertura dei mercati esteri come sbocco per la produzione. Purtroppo abbiamo visto un ritorno alla vecchia concezione; il
«neomercantilismo» con la pretesa di avere la bilancia dei pagamenti costantemente in attivo e con un ripresa quindi di egoismi nazionali. In
Europa è soprattutto la politica tedesca.

Smith, era anche consapevole che una spinta parcellizzazione del lavoro portava a conseguenze negative sul piano culturale e psicologico; quelle
che poi Marx chiamerà alienazione; approfondita in seguito da tanti altri intellettuali, economisti, sociologi, psicologi. Alienazione di prodotto e di
processo, che oggi si propone aggravata quando intermediata da un algoritmo. Dai tempi di David Ricardo, agli albori della Rivoluzione industriale, si discute se il progresso scientifico e tecnico distrugga o meno occupazione. Sappiamo che storicamente la quantità di lavoro umano è
progressivamente passata dal settore agricolo a quello industriale a quello dei servizi; investiti questi ultimi sempre di più dall'innovazione,
dall'intelligenza artificiale, dalla robotizzazione. Quale futuro per il lavoro?

Benedetto Croce chiamava «metereologiche» queste domande, e rispondeva: «I problemi morali, intellettuali, estetici e politici non stanno
fuori di noi come la pioggia e il bel tempo... Bisognando invece, unicamente, risolversi a operare ciascuno secondo la propria coscienza e la
propria capacità…». Il progresso scientifico deve essere al servizio dell'uomo e della collettività, servire a liberare dalla pena del lavoro faticoso, ma non dall'impegno a contribuire all'avanzamento della società: liberazione nel lavoro che evolve e non dal lavoro.

Secondo me questo è il vero senso e il vero obiettivo dell'art. 4 della Costituzione che «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e
promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta,un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». E se il lavoro del futuro sarà chiamato soprattutto
a quest'ultimo compito sarà un salto vero di civiltà, compreso quello in un mondo di pace e fratellanza dei popoli.

L'illustre storico dell'economia C. M. Cipolla chiede che il progresso scientifico e tecnico sia accompagnato a quello etico, perché si può
regredire allo stato ferino anche con tutta la «banda larga». Ma non si devono dimenticare i costi sociali che il progresso scientifico
comporta nei settori che ne sono investiti o penalizzati. Federico Caffè, concludendo un suo intervento all'Accademia dei Lincei
nel lontano 1968 sulle conseguenze dell'automazione, diceva: «Dopo tutto il fatto importante non è che si vada verso una società in grado
di avvalersi della moneta elettronica, ma che le già stridenti diseguaglianze sociali non vengano accentuate dai mezzi tecnici da noi stessi creati».
Nel secondo dopoguerra i paesi democratici e civili si posero l'obiettivo della «piena occupazione in una società libera».

Allora si usava molto il concetto di prodotto potenziale (oggi dimenticato): quel prodotto derivabile dalla piena occupazione degli
uomini e dei capitali disponibili. La differenza tra il prodotto potenziale e quello effettivamente realizzato, rappresenta la perdita di ricchezza sopportata. Ricchezza perduta per sempre. Perdita non solo materiale, ma anche spirituale per le persone, private di quel diritto e dovere, e per la intera società (art. 3 e 4 Cost.). La sensibilità sociale e democratica aggiunge alla piena occupazione la «dignitosa occupazione», nelle linee essenziali delineata tra l'altro dalla nostra Costituzione.

Joan Robinson, un'allieva di Keynes rilevava che oltre all'occupazione si doveva porre il problema di cosa, come e per chi produrre.
Questi sono obiettivi che non possono essere lasciati al mercato, ma appartengono alla responsabilità della politica, delle istituzioni e delle
stesse forze sociali in un contesto di democrazia progressiva e diffusa. Che investa anche il mondo della produzione e del lavoro (democrazia
industriale ed economica); un modo anche per rispondere all'alienazione. Ma è un problema di democrazia complessiva secondo il filosofo
Guido Calogero che afferma giustamente come «la più solida democrazia si fondi sulla pluralità delle democrazie» tra loro solidali, non meno delle
libertà.

Impegno politico e istituzionale se non si vuole tradire - diceva Caffè - «l'ideale che lo sviluppo civile e sociale non sia il sottoprodotto dello
sviluppo economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito». E aggiungeva: «una ripresa congiunturale che non comporti una
diminuzione della disoccupazione è una mera espressione contabile di scarso significato». Ma il «sistema economico in cui viviamo» (come Keynes chiamava il capitalismo, un concetto peraltro sfuggente) può sopportare la piena stabile e dignitosa occupazione? Gli studiosi hanno dato risposte diverse su cui non possiamo soffermarci.
Ne accenno a tre: Marx e coloro che a lui direttamente o indirettamente si richiamano, come Kalecki, Baran e Sweezy parlano di un «esercito industriale di riserva» necessario a tenere a bada i lavoratori e di ostacoli soprattutto politici; i neoliberisti (meglio pseudoliberisti) con il cervellotico concetto di «saggio naturale di disoccupazione»; i riformisti veri, come Keynes, Caffè e Roosevelt, concordando di fatto con le parole di Croce contro le domande «metereologiche», si ingegnano per raggiungere l'obiettivo di più avanzata civiltà. Oggi si cita il New Deal, ma il suo vero significato ce lo ricorda lo stesso FDR quando assicurava che «le attuali difficoltà economiche non devono fermare il nostro governo civile». E fece riforme civili e sociali insieme a politiche di ripresa economica. Prevedeva tra l'altro la diminuzione dell'orario di lavoro e il salario minimo.

Temi sempre attuali insieme a quelli del reddito di cittadinanza o meglio universale. Dopo i «Trenta Gloriosi» seguirono, con la Tacher e Reagan, i
«Quaranta Ingloriosi», o forse meglio i «Quaranta Miserabili». Da allora ad ogni crisi e recessione economica è seguita una regressione
civile e sociale. Della «Grande Regressione, il lavoro ne è stata la prima vittima: con disoccupazione e soprattutto con la mortificazione della sua dignità: anzi - con la responsabilità di economisti e ancor peggio giuslavoristi - si è preteso e si pretende di scambiare l'occupazione o meglio una minore disoccupazione con il peggioramente delle sue condizioni. Stiamo tornando alla condizione mortificante del bracciantato contro
cui si batteva Giuseppe Di Vittorio, ben rappresentata dalla canzone «Bella ciao» che nacque come un canto di liberazione delle mondine.
Oggi il padrone ha fatto dell'algoritmo il suo caporale, non meno violento ma più insidioso. Oggi analizziamo un caso emblematico di tale grave regressione civile e sociale; e che può rappresentare - se non fermato - la vera distopia del futuro.
                                                                                                         (Giuseppe Amari)

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Politica

DIZIONARIO PROGRAMMATICO A PARTECIPAZIOE DIFFUSA

I temi proposti non sono in ordine gerarchico bensì alfabetico: vogliono costituire infatti i tasselli di un lavoro collettivo di elaborazione “a scorrimento continuo” delle linee di programma dell’Associazione, con la partecipazione aperta e permanente di iscritti, esperti e cittadini. Soprattutto, di iscritti. E’ uno strumento di lavoro informale approvato dagli organi associativi e da essi vigilato, e che, con la loro approvazione ufficiale, acquista nei suoi contenuti, via via, il crisma del documento formale di impegno dell’Associazione.
 
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Acqua. E’ un bene comune, non privatizzabile. La responsabilità di garantirne qualità e quantità sufficiente a prezzi sociali appartiene alla mano pubblica in senso diretto. Alla mano privata non possono che essere riservati ruoli di carattere nettamente sussidiario, ininfluenti sulle politiche relative a questo bene. E’ escluso a priori che dall’acqua si possa trarre profitto privato a qualunque titolo.
Adesioni a DemocraziaComunitaria. Le domande devono essere presentate sul modulo predisposto dalla sede centrale e firmato dall’aspirante socio, con il corredo dei dati personali e della quota associativa o di una ricevuta del suo versamento. La domanda è perfetta ed accolta all’adempimento di tale modalità ed alla firma di accettazione del presidente nazionale. In ogni territorio comunale, il primo socio è anche referente organizzativo per la costituzione dei relativi organi non appena altri soci avranno perfezionato la loro adesione. In fase di avvio dell'Associazione possono essere stabilite modalità di adesione semplificate.
Ambiente. E’ un bene comune, non privatizzabile. La responsabilità di mantenerlo tale appartiene direttamente alla mano pubblica. La legge stabilisce la proporzione tassativa di superficie verde da salvaguardare in ogni opera manufatta, pubblica e privata.
Authorities. Le autorità di settore, gemmate, sul modello di organismi funzionanti negli Stati Uniti in diverso contesto culturale, sono venute manifestandosi organismi costosi e, alla fine, non adatti a costituirsi come garanti super partes nelle materie di cui si occupano: così da porre ormai la esigenza di un ritorno alle naturali fonti di garanzia costituite dal parlamento, dai comitati interministeriali e dai loro già storicamente sperimentati strumenti di lavoro. Risparmiando gran parte dei relativi costi.
Autonomia differenziata. DemocraziaComunitaria è contraria al principio delle autonomie differenziate. Le autonomie sono un immenso valore di democrazia, di personalismo, di solidarietà e sussidiarietà, e proprio per questo devono essere più che mai vere, forti, sostanziali, facilmente praticabili, tali da rinforzare uguaglianza, solidarietà e potere partecipativo fra cittadini nei confronti dello Stato di tutti: non devono invece mai essere fonte e pretesto di separatezza confonditrice fra normative e condizioni di cittadinanza. In questo quadro, anzi, DemocraziaComunitaria conferma anche che è ormai maturato il tempo di abolire la differenziazione storica fra regioni ad autonomia speciale e regioni ad autonomia ordinaria: tutte le regioni devono essere ricondotte alla medesima autonomia ordinaria prevista dalla Costituzione repubblicana, in quanto sono radicalmente superate le ragioni storiche che motivarono nel 1948 la nascita delle autonomie speciali in capo ad alcune di esse. Le regioni devono piuttosto venir sottoposte a più efficaci ed effettivi diritti di intervento, controllo e partecipazione da parte dei Comuni e dei cittadini, e dello stesso Stato, in materia di gestione delle risorse finanziarie ed economiche affidate.
Autostrade. La rete autostradale nazionale italiana, cioè quella che collega fra loro tutte le regioni italiane  in un unico sistema strategico, intorno al quale vivono e pulsano le altre categorie di strade (statali, provinciali, etc,), appartiene per stretta e intima natura alla categoria tecnica e politica delle “infrastrutture critiche” del paese: quelle infrastrutture, cioè, che costituiscono l’ossatura strategica, ineliminabile e indivisibile, che sostiene  e realizza l’unità sistemica e la sicurezza del paese. Essa non può pertanto, in via di principio inderogabile, essere altro che pubblica e statale sia nella proprietà sia nella gestione. Qualunque sia stata dunque a suo tempo la motivazione che ha malauguratamente e inefficientemente indotto lo Stato ad affidare tale rete in concessione a privati, essa va assolutamente riacquisita alla piena e contestuale proprietà e gestione dello Stato medesimo, quale integrante, diretto e insurrogabile strumento del bene comune.
Banca. Il miglioramento verso semplicità, controllabilità e trasparenza delle leggi relative all’attività bancaria parte dal ripristino di una netta differenziazione fra banca ordinaria di risparmio e investimento, e banca d’affari o speculativa. DemocraziaComunitaria vede con particolare favore il ripotenziamento di una cultura diffusiva delle forme bancarie popolari e cooperative, la riacquisizione allo Stato di una banca nazionale per la tutela del risparmio dei cittadini, e la valorizzazione del risparmio collettivo in sede d’impresa.
Conflitti d’interesse. DemocraziaComunitaria propone una più tassativa definizione dei casi nei quali si debba dare esito a una pura e semplice incompatibilità non sanabile.
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. DemocraziaComunitaria ne propone il superamento puro e semplice per esaurimento dei suoi compiti storici. 
Consumo del territorio. Anche l’Italia è diventata un paese che, specialmente in alcune regioni, vede ormai diventare preoccupante il problema del “consumo del territorio”, un consumo talmente vasto e nello stesso tempo abusato, da porre al paese stesso un quesito urgente circa il suo equilibrio ambientale di lungo periodo. DemocraziaComunitaria propone di stabilire un vincolo rigido alla percentuale di territorio consumabile (cementificazione e forme assimilabili di scomparsa del terreno vergine) per ogni unità di costruzione. Inoltre propone di rendere concretamente più severa e snella la funzione di controllo e salvaguardia attiva del patrimonio forestale e idrogeologico del paese.
Costi della politica. DemocraziaComunitaria propone l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, a favore di un finanziamento libero da parte di ciascun cittadino nei confronti del partito in cui si riconosca. Riconosce il valore politico-istituzionale dei partiti nei termini esplicitati dalla Costituzione, e il relativo sostegno, esclusivamente nella forma della fornitura, a ogni formazione politica che abbia rappresentanza in parlamento, di una sede operativa, unica per tutto il territorio nazionale, con spazi limitati alle esigenze di funzionalità essenziali, con corredo di linea telefonica, computer, stampante, collegamento internet e similari secondo ragionevole coerenza. Escluso ogni altro supporto, che è da considerare strettamente riservato alla privata organizzazione del partito medesimo.
Diritto e obbligo della formazione. Fino alla maggiore età la vita dell’individuo è dedicata in misura privilegiata alla formazione integrale della personalità, affidata innanzitutto alla famiglia con il sostegno della scuola: quest’ultima deve costituire, prioritariamente, un sistema pubblico a costi sociali fino all’università, aperto a tutti, nel rispetto per la eventuale scelta della singola famiglia che preferisca rivolgersi a scuole private; le quali ultime non avranno diritto a sostegno pubblico che vada al di là della corresponsione alle famiglie del costo che lo Stato sostiene per ogni suo alunno della scuola pubblica. Le scuole private non potranno comunque rilasciare titoli aventi valore di legge.
Emolumenti per incarichi pubblici. DemocraziaComunitaria sostiene una equa proporzionalizzazione reciproca fra gli emolumenti riservati alle cariche pubbliche, elettive e non elettive, a tutti i livelli compreso quello parlamentare e tutti quelli dirigenziali, assumendo a riferimento i trattamenti previsti dalle normative collettive generali e l’andamento complessivo del reddito nazionale, nonché i carichi di lavoro effettivamente affidati e gestiti.    
 
Esame di Stato per l’accesso alle professioni. Con il riconoscimento del titolo di studio istituzionale esigito per accedere a una determinata professione, ad esempio la laurea in giurisprudenza per lo svolgimento dell’attività legale, o la laurea in medicina per l’accesso alla professione medica, il cittadino acquisisce il diritto di accedere effettivamente a tale professione, senza necessità di ulteriori “esami di Stato” quali lasciapassare, che rappresentano un abuso sia concettuale sia morale sia politico da parte dello Stato e delle organizzazioni professionali nei confronti del cittadino stesso. DemocraziaComunitaria sostiene pertanto la pura e semplice abolizione di tali “esami di Stato” per l’accesso alle professioni, e sottolinea piuttosto la logica, ove sia il caso, di restituire ai titoli di studio rilasciati al termine dei curricoli scolastici istituzionali una adeguata rispondenza di preparazione effettivamente certificata negli studenti.
 
Etica pubblica. L’etica dei comportamenti anche personali è esigita con particolare forza in tutti i soggetti che svolgono funzioni pubbliche. Ogni ruolo pubblico è proprietà morale della collettività ed è incompatibile con qualsiasi comportamento che violi la fede pubblica. Tale eventuale comportamento va perseguito d’ufficio.
Europa. Il ritorno ai padri fondatori, in particolare De Gasperi, Schumann, Adenauer, che anteponevano la messa in comune delle risorse e della solidarietà valoriale alla dominanza economica e finanziaria, è obiettivo esplicito e vincolate di DemocraziaComunitaria.
Farmaci. Impensabile che possano essere ambito di puro e semplice mercato privato, lo Stato cura sia il corretto controllo della loro qualità scientifica ed etica rispetto alla loro funzione di servizio nei confronti della qualità della vita personale e sociale, sia la loro equa accessibilità economica a tutti i cittadini nel quadro del Servizio Sanitario Nazionale.
Finanziamenti pubblici. DemocraziaComunitaria sostiene l’abolizione di ogni forma di finanziamento all’editoria, compresa quella di partito. Sostiene inoltre una politica di rigorosa severità in materia di controlli, in corso ed ex post, sull’utilizzo completo e tempestivo dei finanziamenti pubblici in generale, e sulla loro coerente finalizzazione.
 Fisco, sistema generale. Il controllo della evasione deve diventare più severo in parallelo con la semplificazione normativa e la riduzione della giungla delle differenziazioni impositive. All’autonomia impositiva di regioni e comuni va preferita una partecipazione delle stesse pro-quota nella fiscalità generale. Un trattamento fiscalmente incentivante è giusto prevedere a livello di impresa per gli utili reinvestiti nell’impresa stessa rispetto a quelli distribuiti ad azionisti e lavoratori.
Fisco e trasparenza. Oltre alle imprese-persone giuridiche, anche ogni persona fisica è imprenditrice in senso sostanziale, partecipando al processo produttivo e alla formazione del prodotto interno lordo attraverso il suo lavoro e la conseguente attivazione e spendita del suo reddito nel circuito dell’economia. In tale quadro DemocraziaComunitaria ritiene efficiente, equo e trasparente un sistema fiscale che incentivi la fatturazione di ogni transazione e, tendenzialmente, la generalizzi. Ogni spesa sulla quale viene pagata l’iva deve poter essere dedotta dall’imponibile in sede di dichiarazione dei redditi. Tale sistema consente, oltretutto, attraverso il concreto interesse del cittadino alla fatturazione del bene o servizio acquistato, una lotta efficace alla evasione fiscale ed alla economia sommersa, generando una massa di risorse fiscali tale da consentire anche una significativa riduzione dell’attuale iniqua ed inefficiente pressione del fisco stesso su cittadini e imprese.
Formazione dei prezzi. Un intervento più stringente, soprattutto di controllo, da parte della mano pubblica, è necessario in materia di formazione dei prezzi relativi a beni di pubblica utilità rilevante, come ad esempio la casa, i carburanti, i medicinali, a evitare distorsioni speculative. La stessa mano pubblica non deve escludere il suo intervento diretto come imprenditrice di libero mercato nei casi in cui non vi siano diversi strumenti atti ad assicurare prezzi equi a beni essenziali.
Formazione interna. DemocraziaComunitaria: è soggetto di formazione permanente nei confronti di tutti i suoi aderenti. L’attività di formazione, oltre a essere concepita come permanente e diffusa, è anche articolata fra coordinamento centrale e autonomie del territorio. Tenendo conto della sua missione, l’associazione può offrire opportunità formative anche ai non iscritti.
Giustizia. Lo snellimento dei tempi processuali, la effettiva esecuzione delle sanzioni e la effettiva accessibilità dei costi per tutti sono elemento essenziale per la credibilità e la giustizia amministrata dallo Stato nei confronti di tutti i cittadini, ed hanno importanza fondativa pari a quella della chiarezza, semplicità ed equità delle normative di riferimento.
Imposte, progressività e proporzionalità. DemocraziaComunitaria sostiene un criterio severamente proporzionalista della imposizione fiscale, ritenendo che esso costituisca nel ventunesimo secolo la lettura più avanzata, efficiente ed equa del concetto di progressività espresso dalla Costituzione italiana. Se tutti i cittadini pagano la medesima percentuale di imposte sul loro reddito, ciò costituisce una semplificazione gestionale del sistema e una conseguente facilitazione degli adempimenti relativi, uno strumento di più facile controllo e correzione equitativa degli eventuali squilibri ingiusti nella distribuzione del reddito, e insomma un elemento di trasparenza dell’intero sistema.
Impresa. Essa va sostenuta come bene di inestimabile valore per tutta la comunità; ne va perciò semplificato il processo burocratico di nascita, e facilitata la propensione allo sviluppo, soprattutto attraverso un tangibile snellimento delle normative riguardanti le autorizzazioni, i controlli ed il credito. DemocraziaComunitaria favorisce il modello d’impresa partecipativa nelle sue diverse forme possibili, dalla cointeressenza nei risultati alla cogestione ed alle forme variamente cooperative.
Impresa privata e impresa pubblica. Superando i contrapposti eccessi storici di interventismo assistenzialista e di privatizzazione pregiudizialmente preferenziale, DemocraziaCooperativa è favorevole a una ottica diffusa di liberalizzazione senza privatizzazione, per quanto attiene al campo delle imprese pubbliche che si occupano di beni e servizi essenziali o primari per la dignità e lo sviluppo delle persone. Senza rinunciare alla propria partecipazione diretta nella erogazione di tali beni e servizi, lo Stato e gli enti territoriali di decentramento consentono che l’iniziativa privata, sia con scopo di lucro sia senza scopo di lucro, partecipi competitivamente a tale erogazione, senza sussidi pubblici.
 Innovazione. DemocraziaComunitaria è per introdurre forme di tutela semplice ed efficace per quanti depositano  brevetti o sono autori di importanti  realizzazioni o idee artistiche e culturali. Nei limiti delle risorse disponibili, una politica di premialità per la innovazione efficace è tra le priorità che DemocraziaComunitaria sostiene nel contesto delle politiche di sviluppo.
Intervento dello Stato in economia. E’ possibile ed è doveroso l’intervento dello Stato, come pure, ai rispettivi livelli, della regione e del comune, sia direttamente come imprenditore in regime di liberalizzazione quando si tratti di beni incidenti direttamente sulla qualità essenziale di vita delle persone, sia indirettamente con efficaci politiche di sostegno ai consumi, sempre nel campo dei beni relativi alla dignità e allo sviluppo della persona.
 Lavoro. Fonte essenziale di dignità e fondamento della repubblica, il diritto al lavoro è un diritto soggettivo e non una semplice legittima aspettativa. DemocraziaComunitaria sostiene in tal senso una lettura precettiva della Costituzione. La realizzabilità di questo diritto si fonda su una politica sicura di redistribuzione sia delle opportunità di lavoro sia dei redditi in generale, a cominciare dalla riduzione della forbice immorale attualmente esistente spesso anche all’interno delle imprese. Il trattamento economico della dirigenza deve essere in questo senso collegato e non scorporato da quello di tutti gli altri lavoratori. DemocraziaComunitaria propone la riorganizzazione del sistema pubblico tradizionale di collocamento per trasformarlo in moderno istituto dell’accompagnamento attivo al lavoro. Correlativamente, una concezione precettiva del diritto al lavoro esclude che esso possa venir interpretato come diritto al “posto fisso”. Con pari importanza rispetto alla sua dimensione di diritto, infine, il lavoro è un dovere primario del cittadino e di chiunque viva nell’ordinamento giuridico dello Stato.
Legge elettorale. DemocraziaComunitaria ritiene una democrazia non compiuta, e anzi vistosamente e negativamente limitata, quella che si esprime attraverso sistemi a liste bloccate. Occorre che i cittadini abbiano la possibilità di scegliere persone, o persone e liste, ma mai solo liste. Il sistema elettorale che DemocraziaComunitaria valuta meglio rispondente alle esigenze della democrazia italiana è quello che ha come punto di riferimento il “collegio uninominale secco”. Centralizzando l’attenzione sulla singola personalità del candidato da eleggere, sia egli espressione di un partito o meno, essa stimola il candidato medesimo ad assumersi diretta ed intera la responsabilità di rappresentare la comunità che lo elegge.
Mediterraneo. Il “lago comune” delle tre grandi religioni monoteiste, nostro comune “lago di Tiberiade” secondo la fascinosa espressione di La Pira, è per DemocraziaComunitaria una dimensione di pari dignità rispetto a quella europeista, per una politica del dialogo permanente e solidale.
Mercato. Lo Stato è chiamato a svolgere funzione di garante del mercato per tutte le componenti di esso, operando attivamente, in particolare, per il rispetto e la tutela dei soggetti deboli nei confronti di distorsioni speculative. 
 Numero chiuso nelle università. Va superato in considerazione del valore intrinseco della formazione universitaria, che non può essere concepita come finalizzata al mercato del lavoro ed alle sue esigenze, bensì alla formazione compiuta e integrata della persona ed alla massima valorizzazione concreta della ricchezza culturale di tutta la società.
Onu. Il cammino delle Nazioni Unite è verso un autentico parlamento dei popoli; in tale spirito deve venir sviluppato, gradualmente ma senza attendere, il rinnovamento delle norme regolative del consiglio di sicurezza, sottraendone composizione e metodo di lavoro agli equilibri ormai inadeguati scaturiti dalla seconda guerra mondiale.
Ordini professionali. La semplificazione dell’accesso e una più evidente esigibilità del codice etico sono, per DemocraziaComunitaria, passaggi necessari ma che non escludono il possibile superamento degli stessi ordini, a favore di istituti di più snella, accessibile e trasparente tutela delle garanzie di professionalità e di etica nei rispettivi settori. Anche l’assetto istituzionale degli ordini ha infatti come valore di riferimento il bene comune.
Pandemia 2020. DemocraziaComunitaria è convinta, in linea generale, che le emergenze di carattere straordinario vadano affrontate innanzitutto facendo funzionare bene le strutture, gli strumenti ed i servizi ordinari. Nel caso specifico della pandemia 2020 da coronavirus vanno innanzitutto perfezionate dovunque la efficienza e la qualità del servizio sanitario nazionale. A tale impegno va aggiunto dovunque un supplemento di valorizzazione delle sinergie positive con le realtà della sanità privata e del volontariato ovunque sia possibile. Per quanto attiene a quello che DemocraziaComunitaria ha sempre definito “rischio di pandemia economica e sociale come effetto della pandemia sanitaria”, DemocraziaComunitaria ritiene che le attività economiche ed il lavoro non debbano essere bloccate ma semplicemente e adeguatamente rallentate e distanziate, utilizzando comunque le eventuali misure economiche di ristoro per realizzare occupazione aggiuntiva e investimenti di sviluppo che consentano appunto gli accennati rallentamenti e distanziamenti fisici del lavoro attraverso prolungamenti idonei dei tempi di lavoro e di servizio: mai per realizzare misure di puro assistenzialismo passivo.
Parlamento. DemocraziaComunitaria propone la riduzione del numero dei deputati da 630 a 500, e dei senatori da 315 a 250. Propone inoltre l’abolizione della figura dei senatori a vita di nomina del presidente della repubblica, e la unificazione, in logica di tendenziale unicameralità del parlamento, di un significativo numero di funzioni fra le due Camere.
Pensioni. Così come per la forbice delle retribuzioni all’interno delle imprese, adeguati rapporti di equità vanno costruiti nel campo delle prestazioni pensionistiche, senza eccezioni di categorie e con la universalizzazione rigorosa del metodo contributivo. 
Persona e famiglia. DemocraziaComunitaria è associazione di personalismo sussidiario e solidale. La persona è centro di imputazione di tutti i diritti e di tutti i doveri. Essa si sviluppa innanzitutto nella famiglia, che perciò deve essere protetta a sostenuta attraverso la tutela attiva della paternità e della maternità responsabile, attraverso servizi di assistenza, cura e formazione dei giovani, attraverso una organizzazione del lavoro che oltre ad assicurare il diritto a una occupazione produttiva faciliti forme di telelavoro e flessibilità organizzativa tutte le volte che siano compatibili con le esigenze oggettive della giusta produttività aziendale.  
Posizione costituzionale delle regioni. DemocraziaComunitaria ritiene maturati i tempi per parificare la dignità costituzionale fra regioni attualmente a statuto ordinario e regioni attualmente a statuto speciale. Appaiono infatti ormai superate le ragioni straordinarie che storicamente giustificarono tale differenziazione.
Progressività di pene e sanzioni. Sia la consapevolezza della fallibilità umana in generale sia lo scopo pedagogico che sempre deve accompagnare pene e sanzioni, esige un criterio di oculata ed efficace progressività delle stesse. In tal senso la legge stabilisce per ogni infrazione, sulla base della relativa gravità, la pena o sanzione minima di base: su questa il giudice applicherà in ogni caso di reiterazione di colpa la misura aggiuntiva esigita da equità e giustizia.
Province ed altri enti intermedi. DemocraziaComunitaria propone l’abolizione pura e semplice delle province, e di tutti gli altri enti territoriali intermedi fra comune e regione, fatte salve le possibili libere semplici fusioni o anche associazioni o consorzi di comuni per la gestione di singoli servizi.
Reati economici e finanziari. La certezza e tempestività di esecuzione delle sentenze è prioritaria soprattutto per i casi di violazione della fede pubblica. Si impone comunque una revisione del sistema che restituisca prudenza ed eccezionalità agli istituti degli sconti di pena, dell’amnistia e dell’indulto, particolarmente nel campo dei reati commessi ai danni dell’intera società civile e della citata fede pubblica.
Riferimento culturale e valoriale dell’azione democratico-comunitaria. Esso è costituito essenzialmente da: a. la storia del cattolicesimo democratico in Italia, nella sua interezza; b. la dottrina sociale della Chiesa e gli insegnamenti del suo magistero; c. la Costituzione italiana e tutto il patrimonio culturale e ideale di testimoni ed esperienze di umanesimo laico di consonanti valori, .
Sanità. Il bene primario della sanità dei cittadini non è considerato da DemocraziaComunitaria come appartenente al campo del libero mercato privato bensì a quello del diretto intervento dello Stato attraverso un sistema sanitario nazionale unitario, che pur decentrandosi a livello di regioni e comuni non vanifichi la effettiva uguaglianza fra tutti i cittadini di fronte ad esso. La struttura centrale si sostituirà tempestivamente alle strutture regionali inadempienti o inefficienti, fino a che non siano ripristinate le condizioni di piena adeguatezza di esse. Ugualmente lo Stato farà nei confronti delle eventuali strutture cittadine ove non intervenga tempestivamente la struttura regionale di competenza. L’iniziativa privata opera liberamente e competitivamente nel campo della sanità, nel rispetto delle normative pubbliche che garantiscono la tutela e la promozione della salute dei cittadini come prioritaria rispetto al profitto d’impresa.
Stato di diritto. Ogni legge e normativa pubblica deve prevedere e garantire reale pari dignità e tutela tra il soggetto pubblico e il cittadino o entità sociale intermedia, in sede di contenzioso privatistico. In tal senso devono, ad esempio, essere garantiti i tempi e la certezza di pagamento da parte dello Stato e degli Enti pubblici verso fornitori e prestatori d’opera.
Strumenti e qualità della formazione. Prezzi e contenuti dei libri scolastici e degli strumenti didattici collegati devono andare rispettivamente in direzione di una evidente socialità i primi e di una altrettanto evidente caratterizzazione unitaria e integrata della formazione, i secondi, contrastando le spinte a una separatezza specialistica che DemocraziaComunitaria vede opportuna soltanto al livello universitario. Altresì, DemocraziaComunitaria annette valore essenziale e imprescindibile alla formazione permanente dei docenti, come di tutti gli adulti. 
Tassazione. Il criterio costituzionale della progressività, che trova la sua ragion d’essere nel principio valoriale della equità, va sempre ed in concreto misurato su di essa: vanno pertanto superate le condizioni inique prodotte tecnicamente sia dalla frantumazione distorsiva e sperequatrice delle norme sia da passaggi di aliquota mal calibrati quanto a gradualità.
Titoli di studio. La missione di formare la personalità dei ragazzi lungo tutta la loro vita fino alla soglia dell’università, è prioritaria rispetto a quella del rilascio di titoli di studio formali destinati al mercato del lavoro, e rispetto allo stesso mercato del lavoro, cui invece può essere più direttamente attenta l’università. In tal senso DemocraziaComunitaria propone di approfondire la ipotesi di superamento del valore legale dei titoli di studio, perché l’attenzione della scuola possa più e meglio concentrarsi sull’effettivo impegno formativo nei confronti degli utenti.
Tolleranza e rispetto in campo religioso. La laicità dello Stato si accompagna a una considerazione attentissima dei valori collegati con il riconoscimento della dignità integrale della persona e della dimensione trascendente della vita. DemocraziaComunitaria ritiene che la scuola, in particolare, debba accentuare la educazione alla citata importanza del trascendente ed al rispetto delle diverse vie attraverso le quali la persona realizza la sua esigenza di religiosità.  
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Democrazia Comunitaria

POLITICA: NOI RIPRENDIAMO LA VIA...

La espressione “ritrovare la via” fu di Luigi Sturzo, con riferimento ai grandi fondamenti necessari per una alta ed organica politica laica di ispirazione cristiana.
Il suo Partito Popolare, e la successiva Democrazia Cristiana che ne assumeva l’ispirazione e ne faceva evolvere  il programma, hanno costituito in questo senso esempi storici luminosi (basterebbe pensare allo stesso Luigi Sturzo e ad Achille Grandi per il primo partito, ad Alcide De Gasperi e ad Aldo Moro per il secondo): anche se, con il passare del tempo, hanno pure consentito, nei loro epigoni ed in un universo di adesioni diventato via via vastissimo e diversificato socialmente e culturalmente, esempi a volte mediocri e negativi. Come in genere capita nelle vicende umane, specialmente a partire dalla morte dei fondatori e dalla transizione della prima generazione. Del resto, ben pochi altri soggetti politici possono dire, nel mondo, di avere fatto meglio di questi due.
La storia di entrambi è ormai morta da tempo, come è morta la storia degli altri che, contestualmente con essi, determinarono la politica italiana per decenni. Ne rimangono oggi sparsi segnali soltanto a livello di singole testimonianze di persone e gruppi, anch’essi di diversificato valore morale e culturale; che manifestano sul piano complessivo caratteristiche comuni facilmente riscontrabili: molta buona volontà ma anche molta frantumazione, grande difficoltà ad autodisciplinarsi intorno a regole alte ed effettivamente vincolanti di comportamento e di metodo, prevalente orientamento alla critica degli altri soggetti politici piuttosto che alla costruzione del proprio, mancanza finale di un lider di sicuro e carismatico riferimento.
In questa situazione non sembra esserci molta e fondata speranza di conclusione positiva, a oggi 2021, del tanto auspicato progetto di ripresa organica del relativo movimento. Eppure non ci sentiamo di concludere neppure con un rassegnato quanto diffuso “non c’è nulla da fare, bisogna soltanto aspettare che qualcosa di meglio succeda”. Non possiamo accettare questo atteggiamento per due ragioni: la prima è morale, dato che ognuno deve comunque assumersi in ogni situazione la responsabilità di quanto dipende da lui, la seconda è politica, dato che è sempre meglio partecipare e sostenere le eventuali altre esperienze in atto nelle quali vi siano elementi di positività condivisibili e sviluppabili, piuttosto che limitarsi ad attendere passivamente “tempi migliori”.
Analizzando gli accadimenti degli ultimi trent’anni, ci sembra in realtà esserci stato un tentativo davvero organico e alto (uno solo) per caratura di impostazione morale, valoriale e programmatica, teso a riedificare un partito forte, nazionale e transnazionale, laico e di ispirazione cristiana: ed è stato quello che ha avuto a riferimento coordinativo Gianni Fontana, già deputato e senatore della Dc storica, ministro dell’agricoltura, studioso e cattolico impegnato. Nel novembre 2012 fu celebrato con il suo coordinamento il 19° congresso della Democrazia Cristiana storica, che avrebbe voluto riprendere giuridicamente, politicamente e culturalmente la eredità del partito già scomparso dalla scena politica italiana da oltre un decennio, adeguarne alle esigenze del ventunesimo secolo statuto e programma, riaffermarne ideali, valori e azione.
Ma fu un tentativo stroncato nel giro di poche settimane da un intervento annullatore della magistratura, sollecitato da controinteressati sulla base di istanze giuridicistiche formali, che rivelarono, a noi pare, l’esistenza marginale ma inquinante di ambigui interessi personali o di gruppo connessi sia al vetusto e disperso ma imponente patrimonio materiale della Dc storica (a partire dai non meno di cinquecento immobili) sia a inesauste speranze di riacquisizioni personalistiche e gruppuscolari di potere, sia infine, e soprattutto,  a una visione più ideologica che valoriale della ispirazione cristiana. Salve, naturalmente, le singole lodevoli eccezioni personali di diversi amici.
Da allora, la diaspora democratico-cristiana e popolare si è accentuata e si è dispersa ulteriormente. Avrebbe peraltro potuto venir ricondotta a sintesi alta e unificante, ancora una volta con il riferimento coordinativo di Gianni Fontana,  se non si fosse acceduto incautamente (la valutazione è nostra ma, riteniamo, ben comprovabile) a una scelta tendenziale di “ecumenismo organizzativo” che puntava ad accogliere in spirito di dialogo e unità di cammino tutte e singole le disparate, troppo disparate, realtà gruppuscolari e personali che aspiravano a partecipare all’impresa:  scelta rivelatasi tanto carica di ottime intenzioni quanto minata da mancanza di realismo.
A partire dall’impedito rilancio del 2012, e dal relativo documento di base di impostazione valoriale e programmatica, che era la relazione politica e programmatica presentata da Gianni Fontana, sono stati elaborati comunque via via documenti ulteriori di approfondimento, che consideriamo di alto valore e che fanno fede della piena e coerente adeguatezza e continuità della idea originaria di rinascita e rivitalizzazione del pensiero e dell’azione politica di ispirazione democratico-cristiana, cui manca, dunque, solo “capacità attuativa coerente”: sono stati elaborati, tali documenti, fino all’appuntamento del mese di ottobre 2018, quando parve che finalmente fossero maturate le condizioni di un pieno risanamento di tutte le questioni anche giuridiche frappostesi sul cammino di ripartenza, e fu indetto un nuovo congresso.
Ma toccò proprio a chi scrive la presente nota prendere formalmente atto finale, con rammarico, della assoluta e definitiva insussistenza delle condizioni statutarie e morali necessarie per tale ripresa, a motivo dello spettacolo avvilente di sotterfugi e forzature e falsificazioni e persino tentativi di violenza e proposte mediatorie fra interessi meno ideali e limpidi. Così dichiarammo definitivamente conclusa, almeno per quanto ci riguardava, la questione della Democrazia Cristiana storica. E tutto ciò che è seguito a tale data dell’ottobre 2018 è considerato da noi privo della caratura che occorre per poter rappresentare una speranza di ripresa strutturale per la qualità alta della politica nel nostro paese partendo da quella che fu la Dc storica-formale.  
E dunque, oggi? Oggi noi, con semplicità, umiltà e fermezza, ponendo fine a un tale tentativo rivelatosi sbagliato, decidiamo, semplicemente e onestamente, di riprendere la via originaria ma senza inquinamenti, la via che, dopo il blocco operato dalla magistratura nei confronti del congresso Dc del 2012, era già da noi sostenuta: dare vita cioè a una associazione e rete del  tutto nuova di cittadini di ispirazione cristiana, e laica di consonanti valori, decisi a riproporre semplicemente al paese, e a vivere essi stessi, la testimonianza di quegli ideali d’origine, convinti come siamo della loro altissima qualità intrinseca e della loro valenza e fertilità durature al di là di tutte le provvisorietà e contingenze della vicenda politica del paese, ma anche al di là di qualsiasi richiamo a un continuismo formale con quell’antica storia dei due partiti-matrice.
Non ci importa pertanto più, fra l’altro, il numero delle adesioni ma la loro qualità; non il successo elettorale ma la credibilità della testimonianza; non il ruolo di governanti ma quello di fertilizzatori di bene comune; non il colore delle possibili alleanze ma il loro orientamento effettuale al bene comune.
Ripartiamo con novità, dunque, Urge ripartire. E il modello più specifico intorno al quale ci organizziamo è quello che più volte abbiamo definito “monasteriale”: centralità della persona e insieme solidarietà comunitaria, statuto snello e insieme inderogabile nei confronti di tutti per la sua valenza etica e formativa ancor prima che organizzativa, formazione permanente e insieme integrata e per tutti, programma a scorrimento continuo ma orientato sempre dai valori e principi del bene comune, linguaggio semplice, chiaro, costruttivo.
I documenti principali di avvio di questo rinnovato impegno intendono essere lo Statuto, compresa la sua Premessa di Valori,  e il Vocabolario di programma, entrambi allegati alla presente nota. Si aderisce all’associazione con contestuali: a. accettazione integrale dello statuto stesso; b. versamento della quota annua di libero ammontare (a partire da un simbolico euro), c. firma personale per adesione. L’autore della presente nota provvederà, come ha già in parte fatto nei mesi trascorsi, a completare e mettere a disposizione di chiunque sia interessato la susseguenza storica degli altri documenti che testimoniano e fondano l’itinerario compiuto della presente iniziativa, a partire dalla già citata relazione introduttiva  congressuale del 2012 presentata dall’amico Fontana, e via via attraverso le successive fasi e analisi sviluppatesi presso la sede di Santa Chiara e fino alla evoluzione verso Democrazia Cooperativa e ora Democrazia Comunitaria, senza trascurare il notevole processo ancora in atto di Politicainsieme, di cui pure siamo stati, con Gianni Fontana, iniziatori e animatori.  
Come ogni corpo sociale vivo che nasce, i punti di partenza di questa nuova ripresa di cammino sono dati e certi attraverso questo documento e gli altri poco sopra citati, mentre la loro evoluzione possibile è affidata ai meccanismi di democrazia associativa, partecipativa e pluralista, ivi contenuti, secondo lo spirito ancora una volta sempre idealmente condiviso con l’amico Gianni Fontana.  
Crediamo soprattutto nella vocazione a sviluppo integrale della persona e della comunità, nel bene comune, nella ispirazione cristiana, nella fraternità universale, nel diritto e dovere al lavoro e alla formazione permanente per tutti, nella impresa partecipativa e nella economia di cointeressenza, nella famiglia e nella vita fin dal suo concepimento, nel ruolo attivamente equitativo dello Stato, nella democrazia personalista e solidale. Siamo “Democrazia Comunitaria”.
                                                                                                                                     (Giuseppe Ecca)
Roma, 10 maggio 2021.
 
                                                                                                       °°°°°

P.S. DemocraziaComunitaria, pur operando già da alcuni anni come libero gruppo di amici che condividono ideali, discutono e propongono, ha avviato dunque la procedura di regolare registrazione giuridica della sua realtà associativa. Comincerà pertanto fin dai prossimi giorni la sua graduale attività anche statutaria.
Chi desidera prendere contatto, ricevere il testo dello statuto o il Vocabolario di programma (già ricco di un certo numero di voci ma destinato naturalmente a crescere con gradualità secondo il metodo citato della democrazia associativa) può rivolgersi fin da ora, oltre che al sottoscritto, all’amico Maurizio Principali (democraziacomunitaria@gmail.com) il quale assume in questa fase di avvio il ruolo di referente operativo e politico insieme con lo stesso sottoscritto, salve le determinazioni che verranno fin dai prossimi giorni assunte e comunicate dagli organi provvisori anche per quanto riguarda tutti gli altri amici che concorrono a questa speranza e a questa impresa.
Mi è intanto gradito preannunciarvi che alla unanimità il gruppo di amici citati ha espresso, su mia doverosa proposta, l’auspicio che Gianni Fontana voglia assumere in tale impresa comune il ruolo di presidente onorario a vita, sancito dalla sua storia e dagli ideali condivisi.
Infine, a quanti leggeranno questo messaggio va la nostra richiesta di una ragionevole comprensione per la gradualità con la quale, in prima fase, saremo in grado di far fronte alle sollecitazioni di informativa e di iniziativa, in quanto l’associazione nasce (e di questo ci vantiamo) in assoluta e francescana povertà di mezzi. Siamo tutti volontari e… disponiamo per ora soltanto della nostra sincera buona volontà e dedizione personale. A tutti voi il nostro grazie per l’attenzione prestata anche soltanto a questo messaggio.
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Cultura e società

DAVANTI AL FENOMENO DELL'"IMBAGASCIMENTO DEL LINGUAGGIO"

Quando sentii la parola per la prima volta, pronunciata in un ambiente di studio tutt’altro che maleducato, come è da sempre il Censis di Giuseppe De Rita, rimasi interdetto: avevo capito bene? Eppure sì, la parola era proprio “imbagascimento” e si riferiva alla crescente banalizzazione, a volte trivializzazione, spesso sciatteria, e inzeppamento istupidito di gergalismi e inglesismi, all’interno della bellissima lingua italiana, da parte anche di giornalisti e divulgatori di ogni settore. Fenomeno strano, che in una certa misura ci riporta a tempi lontani, quando l’Italia insegnava arte e civiltà al mondo ma nessuna città italiana, orgogliosamente repubblica o signoria a sé, riusciva ad andare d’accordo con nessun’altra e tutte preferivano un dominatore straniero a un’alleanza con altri italiani. Il fenomeno preoccupante riprende in chiave linguistica? Non è davvero strano che questo fenomeno sia oggetto di studio da parte di autorevole istituto come il Censis, a sottolinearne la gravità. Nel 1917, in particolare, il Censis organizzò sul tema un intenso convegno, del quale riportiamo qui uno degli interventi significativi.
 
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Nel nostro paese è in corso, per dirla con Gadda, un processo di imbagascimento del linguaggio, che è un atto socialmente eversivo.
 
Il linguaggio per noi ordinario (quello dei lettori di libri e giornali… quello degli atti pubblici…) “è sempre meno connotante e unificante: tende a essere sostituito da un lessico gergale, strutturalmente povero, senza articolazioni, segnato da istinti pauperistici e nei fatti vocazionalmente plebeo; diventa sempre meno utilizzabile, quindi, per mobilitare scambi e convergenze di pensiero e opere”.
 
E’ comprensibile che fra noi cittadini italiani non si riesca a stabilire significativi rapporti di dialettica, o almeno di relazione. Il turpiloquio che inonda la nostra vita collettiva non aiuta a capirci, rimuove le relazioni fra i soggetti, anzi è fatto apposta per romperle (si pensi al valore a dir poco distanziante del “vaffa”).
 
Nella storia italiana sono arrivate prima le idee e le parole, e solo dopo sono arrivate le opzioni politiche, l’azione programmatica, l’azione operativa. Le parole che hanno guidato le trasformazioni sociali sono state fatte di atti amministrativi per costruire la macchina pubblica, di libri di testo per fare lo sviluppo scolastico, di retorica indipendentista per fare le guerre…
 
Allora il linguaggio modellava il corpo sociale, oggi sembra avvenire il contrario: la società si disarticola, si scompone, si deteriora, e tutto ciò induce silenziosamente la crisi della lingua.
 
E’ come se la società non volesse o non potesse più crescere, ma volesse restare così com’è, lasciando la lingua a logorarsi nella sua diminuita funzione, nella propensione a esasperare i toni per coprire il vuoto crescente di contenuti.
 
Si scorrazza a piacimento con una grande carica di soggettività anche etica e non senza una forte componente di rancorosità che è dentro i messaggi.
 
L’evoluzione degli ultimi decenni ha creato un enorme, indistinto ceto medio ma non ha costruito una borghesia capace di iniziativa autonoma e di responsabilità.
 
Si può arguire che la cetomedizzazione abbia lasciato come eredità in queste persone un atteggiamento più o meno consapevole di rancorosità per la incompiutezza di un processo che ha messo in circolo anche paure di regressione e di passività economica e culturale.
 
A oggi sembra di poter dire che si vadano delineando due realtà: una di soggettività ancora più spinta, vera “coriandolizzazione” dei comportamenti e dei linguaggi, un’altra di moltiplicazione di nuove tribù di interessi e identità, che a loro vota segmentano il linguaggio.
 
Va tentata l’impresa di risemantizzare la nostra lingua. Ancora, infatti, è la lingua che fa la nazione: se la lingua è povera, anche la società rischia di essere povera.
 
Si è detto che si tratta di impresa “difficilissima dall’alto perché ci vorrebbero troppi cicli di esercizi spirituali di stampo ignaziano”. Si può però egregiamente lavorare per un arricchimento del lessico quotidiano e della sua correttezza, in ottica di ricca poliarchia linguistica.
 
E’ stato detto che:
“Viviamo nel paese dove, sciatto, L’ok suona.
Il maestro mixa fuori delle sale di missaggio.
Il padre cancella panzane e passa a fake news.
Il bidello sbraita voci onomatopeiche.
Il compagno si crogiola nelle trivialità.
Il nonno convivente gronda burocratese.
La mamma non incoraggia lettura idonee”.
 
L’impoverimento nell’uso delle parole è il tema vero di oggi. Che avvantaggia i costruttori di false verità, i propagandisti, i populisti, le tecnostrutture che dietro gli specialismi e gli inglesismi nascondono interessi e poteri. Per uscirne serve rimettere buoni libri in mano ai ragazzi, fin dalle scuole elementari. E insegnare a leggerli, a raccontarli, a farne punto di partenza per una scrittura esatta. Essenziale, ricca di valori e di senso.
 
La lingua ha un potere ordinante (interpretativo) e mobilitante (emotivo) che, insieme contribuiscono a creare identità e destini comuni.
 
Togliatti (per non citare sempre Gramsci), aveva ordinato ai suoi redattori di non evitare le parole difficili e le complicazioni insite nella lingua colta: che gli operai imparassero e non gli si rendesse la vita artificialmente facile.
 
Probabilmente Togliatti immaginava che la classe operaia avrebbe fatto lievitare i suoi valori positivi e profondi: ma accadde che invece essa si imborghesì puntando ai falsi valori della borghesia, consumismo, macchina, frigorifero, vacanze e tinello.
 
Nella scuola andrebbe reintrodotto un principio di severità: ma si concilia il principio di severità con la ricerca del consenso sui cui è basato il nostro gioco politico?
 
Tra il Milleduecento e il Millequattrocento il rapporto fra latino e lingue volgari della penisola fu alto: il latino era correttamente parlato come lingua veicolare e le lingue volgari non venivano volgarizzate. Dante è stato maestro in questo, tanto è vero che oggi capiamo benissimo Dante, mentre un inglese e un francese o un tedesco non sono più in grado di capire le coeve lingue dei loro paesi.
 
Asor Rosa arriva a dire che nel Risorgimento italiano vinsero i moderati e non i radicali perché ai primi il Manzoni aveva dato una lingua capace di dialogare con lessici specialistici e dialetti, cosa che i secondi non avevano.
 
La decadenza linguistica fa parte di quel pensiero unico che ha rivoluzionato la cultura europea negli ultimi quarant’anni. La cosiddetta morte delle ideologie non è che una ideologia più forte delle altre perché si sottrae a qualsiasi verifica critica. E questa ideologia si è impossessata del nostro presente soprattutto a partire dalla rivoluzione mediatica che ci ha travolti.
 
Carlo Freccero osserva: “L’ibridazione della nostra lingua con l’inglese, che non è una lingua neolatina, e la trasformazione della lingua da fini teorici a fini pratici, hanno voluto rappresentare un veicolo per interagire con i nuovi media. La nuova scuola trasferisce l’obiettivo della istruzione dalla “formazione del cittadino” all’”avviamento al lavoro”, da un ideale astratto a finalità concrete, dal pensare al fare”. E lo fa ridimensionando la nostra lingua rispetto ai nuovi miti della comunicazione: l’inglese e il computer. Già adesso è prevista la discussione in inglese di testi classici.
 
La lingua italiana è transitata da strumento di pensiero critico a strumento del fare. E da strumento di letteratura a strumento di manualistica.
 
Oggi la cultura europea non è insidiata tanto da culture diverse, come l’islamismo, ma da appiattimento e depotenziamento, e additata come obsoleta dal pensiero unico.
 
Purtroppo prosperano tribù poliglotte che usano uno standard english ancora più povero dell’italiano standard “scritto come parlato”, da cui partono.
 
Nella primitivizzazione del dialogo si segnala un dettaglio che colpisce: l’immenso uso del turpiloquio nel dialogo tra i ragazzi nei contesti urbani, con particolare maniacalità nelle ragazze, fino all’uso, che purtroppo non è desueto, della bestemmia.
 
                                                                                                                   (Censis, anno 2017)
                 
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Politica e Società

IL CITTADINO IN AFFANNO CON IL SISTEMA SANITARIO PUBBLICO

Ampio estratto da una riflessione di Giuseppe Bianchi, svolta prima che la pandemia rompesse gli argini alterando tante valutazioni diffuse nei tempi di normalità, ed evidenziando punti deboli insospettati, come ad esempio quello lombardo. Tuttavia la riflessione torna a segnalare la necessità giusta di restituire al sistema sanitario pubblico ed alla politica sanitaria una centralità che non è soltanto affermazione necessaria dello Stato sociale ma anche fattore vivo di sviluppo economico e occupazionale.  
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Il rapporto cittadino-sistema sanitario, e soprattutto cittadino-sistema ospedaliero, è decisivo nell’influenzare la qualità del rapporto cittadino-Stato.  Rapporto che oggi viene vissuto in condizioni di stress reciproco: stress dello Stato le cui offerte di prestazioni sono sottodimensionate rispetto alla domanda; stress del cittadino nel percorrere le strade impervie per accedere alle prestazioni richieste.

Stanno così allargandosi alcune crepe nel sistema pubblico sanitario su cui intervenire per mantenere la sostenibilità dell’impianto complessivo.
La prima crepa riguarda il suo carattere universale e ugualitario. Gli squilibri tra domanda ed offerta stanno diffondendo pratiche oblique di accesso alle prestazioni sanitarie e soprattutto a quelle ospedaliere, basate su relazioni privilegiate. La visita privata del primario, la conoscenza di operatori interni, le raccomandazioni importanti, invertono spesso l’ordine di priorità con la penalizzazione dei ceti sociali più deboli.
La seconda crepa è l’arroccamento, a fini di autodifesa, delle strutture burocratiche di gestione (medici e figure ausiliarie) nei confronti di una pressione esterna alimentata da una domanda insoddisfatta. Situazione che provoca stress nelle condizioni di lavoro interne, ma che, nello stesso tempo, dilata l’area della intermediazione clientelare.
Tutti i dati disponibili di natura demografica, finanziaria, tecnologica, concorrono nel dire che le suddette crepe sono destinate ad allargarsi, compromettendo la conquista sociale più importante del secondo dopoguerra.
Non conforta il cittadino l’ormai cronica contrapposizione nel dibattito politico fra sanità pubblica e sanità privata che non rimuove le sue alternative nel caso del bisogno: indebitarsi per lungo tempo se ricorre alla sanità privata o attendere i tempi lunghi (non sempre disponibili) della sanità pubblica a costo zero.
Nel mezzo c’è un’ampia fascia di cittadini che vorrebbe soluzioni intermedie accollandosi una parte ragionevole dei costi. Si tratta di allargare l’offerta di servizi sanitari, integrando investimenti pubblici con investimenti privati, grazie a nuovi modelli di regolazione nell’accesso alle prestazioni sanitarie. E’ il caso del cosiddetto welfare aziendale che vede impegnate soprattutto le medio-grandi imprese nel creare fondi per una sanità integrativa a favore dei propri dipendenti. E’ anche il modello Lombardia la cui politica per la sanità, basata sul regime delle convenzioni, ha dato vita ad una struttura di eccellenza come il S. Raffaele anche se, nello stesso tempo, non ha impedito iniziative truffaldine promosse da investitori privati disonesti.
Ricondurre il sistema sanitario alle sue funzioni inclusive originarie non è un problema solo di regole che attraggono nuovi investimenti pubblici e privati e di più avanzate capacità manageriali ed organizzative. Occorre dare centralità all’autonomia di chi ha la responsabilità di vertice di queste strutture ponendo anche le strutture sanitarie pubbliche al riparo dalle interferenze politiche e da appesantimenti normativi e burocratici superflui.
In questo contesto va recuperata e valorizzata la funzione del controllo interno, non solo nella sua dimensione contabile per evitare ruberie rilevate ex post dalla magistratura anche in Lombardia, ma nella sua funzione di programmare, per poi controllare, un percorso di recupero di sprechi ed inefficienze così da combinare la migliore soddisfazione del paziente con il minor costo delle singole prestazioni sanitarie.
La prima conclusione da trarre è che il tema della salute deve tornare al centro del dibattito pubblico, come lo fu negli anni ’70, anche perché milioni di cittadini traggono dai loro rapporti con le strutture sanitarie il loro giudizio sullo Stato e le sue politiche.
La seconda conclusione deve prendere atto che il sistema sanitario è parte di una filiera produttiva (ricerca, industria, servizi) in grado di concorrere alla ripresa della crescita per soddisfare una domanda interna ed internazionale di salute in continuo aumento. L’Italia ha le competenze per aprirsi alle potenzialità della nuova sanità digitale.
In sintesi il tema della salute non è solo spesa pubblica da contenere ma pilastro potenziale di sviluppo di un sistema articolato e complesso che richiede una gestione pubblica e privata accorta e programmatica.
Una strada perché lo Stato ritrovi la fiducia dei suoi cittadini.  
                                                                               
                                                                                                                     (Giuseppe Bianchi, Isril)

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Personaggi

A PROPOSITO DI DON CAMILLO E PEPPONE

“Peppone e don Camillo…”: e giù risate. Ancora, il grande capolavoro di Guareschi fa sorridere, rasserena e infonde positività. Ma per il misterioso destino che a volte colpisce autentici capolavori e i loro autori, si pensa diffusamente a Guareschi e alla sua opera come a una sorridente descrizione bonaria della realtà dell’Italia dell’immediato dopoguerra, tesa a togliere, quasi per principio, drammaticità e importanza effettivamente decisiva agli eventi che in quella società si svolgevano. Vale invece assolutamente la pena di sottolineare che Giovannino Guareschi è una grande personalità umana, civile e politica, e la sua opera, e i personaggi particolari di Don Camillo e Peppone, oltre che un capolavoro d’arte sono un capolavoro di cultura civile e politica, raffinato e impegnato. Ne riproponiamo una interessante segnalazione specifica.
 
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Guareschi è famoso soprattutto come autore del Don Camillo. Non molti, però, conoscono l’ampiezza della sua produzione, e soprattutto la sua forza di carattere.
 
Quest’uomo ha affrontato ben due prigionie: la prima in un campo di concentramento tedesco, la seconda nelle carceri italiane. Ed entrambe per una pura questione di principio (nel primo caso, in particolare, perché rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò).
 
Moralmente, inoltre, egli era una delle colonne portanti del campo, nonostante la salute declinante (quando arrivò pesava 86 chili; quando se ne andò, 46). Fondò persino una sorta di giornale clandestino: scriveva articoli che poi diffondeva oralmente, leggendoli nelle baracche per rialzare il morale dei compagni. “Signora Germania” fu, appunto, uno dei pezzi più fortunati.
 
In questo brano troviamo la stessa semplicità dei racconti di Don Camillo (una semplicità, peraltro, non priva di ricercatezza, perché tutto il testo è costruito su metafore e simmetrie). Guareschi stesso, infatti, si vantava di usare in tutto 300 parole per scrivere i suoi racconti. E tuttavia è riuscito a comunicare un’incredibile profondità di sentimenti. Ma da dove viene questa forza?
 
Sicuramente le sue scelte lessicali sono provocatoriamente incisive, e lo stile affabile cattura il lettore senza che se ne accorga. Ma non solo: Guareschi si sforza di trovare parole che abbiano un’eco diretta nell’esperienza del destinatario. Parole, cioè, tanto vitali da poter sopravvivere anche in contesti in cui ogni retorica si disgrega.
 
E non sceglie parole di odio, la cui potenza è più immediatamente percepibile. Sceglie invece di richiamarsi ad altre risorse: la dimensione affettiva (il ricordo di casa) e spirituale (la fede religiosa). Questo infatti è, secondo Guareschi, il nucleo profondo e universale dell’anima umana.
E dunque a partire da questo si può costruire un ponte tra gli uomini, ricordando loro la propria dignità. Una vera «fregatura» per ogni riduzionismo ideologico.
 
Ecco il suo pezzo “Signora Germania”, tratto da Diario clandestino:
 
Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. È inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. […] Entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti. […] Tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. È inutile, signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d’importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. […]
L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te, signora Germania.
 
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Internazionale

PAPA FRANCESCO IN IRAQ TERRA DI ABRAMO

Nakia Matti Pauls è una carissima amica irachena, cristiana: di quell’antichissima comunità cristiana irachena che, mi ricorda sempre con commozione ed orgoglio, risale fino ai tempi degli apostoli, all’apostolo Tommaso in particolare. Nakia porta oggi dentro di sé le ferite di questa terra, una terra da anni senza pace, vittima del terrorismo ma, prima ancora, delle macerie lasciate da dubitabilissimi interventi della politica internazionale anche occidentale, dopo secoli di convivenza costruttiva fra religioni. Di grande cultura (fu docente e dirigente scolastica per lunghi anni prima di trasferirsi in Italia) Nakia vede nel viaggio-pellegrinaggio di Papa Francesco che oggi è cominciato, il segno di un inizio di ricostruzione di pace finalmente credibile. Forte del dialogo fraterno che in quel territorio le tre religioni monoteiste seppero testimoniare così a lungo: e ce ne parla in questo articolo, pubblicato nei giorni scorsi per la rivista “San Bonaventura”.

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Il logo del viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq reca, in alto, la dicitura “Voi siete tutti fratelli” (citazione dal Vangelo di Matteo 23,8), scritta al centro in aramaico, a destra in arabo e a sinistra in curdo, a forma di sole sorgente sull’Iraq, con i due fiumi, il Tigre e l’Eufrate, e le bandiere del Vaticano e dell’Iraq con il suo tricolore orizzontale rosso, bianco e nero e al centro la scritta “Dio è Grande”, sormontate da una colomba che porta nel becco un ramoscello di ulivo. Alla base una palma e Sua Santità in atto di benedire questa terra, martoriata e ferita da aggressioni e violenze.
Papa Francesco intende, con questo viaggio desiderato da anni e voluto anche dal suo predecessore san Giovanni Paolo II (che aveva rinnovato senza sosta e con la massima chiarezza i suoi appelli alla pace nel 2003), portare il proprio amore paterno verso un popolo da anni sofferente, e trasmettere il significato della pace e del vivere in armonia e rispetto fraterno, seppur nelle differenze religiose, etniche, culturali, ecc..., perché l’amore e la misericordia di Dio sono più grandi di ogni differenza. Le immagini del logo simboleggiano per questo la pace, l’amore, l’unità, l’armonia e il rispetto.
Il logo speciale del viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq e, in particolare, a Baghdeda (Qaraqosh), è frutto della creatività del giovane Ragheed Nnwaia e della convinzione che “è un dovere usare i simboli storici ispirati alla storia di Baghdeda, e questo è ciò che abbiamo fatto”. L’arco a volta presente nel logo è uno dei più importanti simboli di Baghdeda, denominato “Qantarat Al-Ina”, o “Arcata della Famiglia di Ina”, ora non più presente, ma che resta scolpito tuttora nella memoria e nella coscienza di tutti gli abitanti del Paese.
L’arco a volta fa da cornice all’immagine di papa Francesco, racchiudendola sotto di sè. Tale arco è stato, in passato e per lunghi secoli, un passaggio di accesso al centro di uno dei vicoli della città antica, prima della sua scomparsa, fino a diventare, durante tutti quei secoli, uno dei simboli identitari della città e dei suoi abitanti che l’hanno costruita con le proprie braccia. Al centro di questo arco vi è il Santo Padre nell’atto di benedire. L’arco delinea, nella sua forma generale, anche il profilo della Chiesa cattolica, simboleggiante la storia del Paese ma anche l’antico disegno delle porte lignee delle case di Baghdeda, a richiamare come il Papa entri nelle case di tutti gli abitanti dell’area, come segno del loro amore per Lui. Al centro dell’arco a volta è rappresentato il Santo Padre che porta sulle spalle una stola tradizionale ricamata a mano tipica di Baghdeda (tuttora indossata nelle festività), i cui disegni raffigurano la storia di questo popolo e del Paese, la profondità della sua civiltà e delle sue radici storiche.
L’anziana donna vestita di nero, nell’angolo inferiore a destra, sta a significare la terra che dona con generosità, la madre Baghdeda, madre dei martiri di tutti i tempi e, pertanto, indossa un abito nero, come vuole la tradizione del lutto nel Paese. È rappresentata nell’atto di lavorare all’uncinetto, per sostentarsi e poter sopravvivere in assenza degli uomini, come madre che deve ricostruire la storia di Baghdeda, come dovesse “ricamare”, appunto, e ricostruire la storia stessa del Paese. Si fa riferimento anche al sangue dei martiri come seme di vita: il martirio è un atto normale per i Baghdedani, in quanto cristiani fin dall’origine. Si ricorda il martirio dei due sacerdoti di Baghdeda per mano degli Ottomani, la cui commemorazione cade il 29 giugno (festa dei santi Pietro e Paolo). Essi sono il simbolo di tutti martiri del Paese, compresi quelli della guerra con l’Iran, che ha strappato alla vita migliaia di giovani e, ultimamente, i martiri uccisi dalle bande terroristiche di Daesh/Isis. Viene poi richiamata l’immagine dell’esodo e del ritorno, degli sfollati e degli esuli, fuggiti soprattutto nella metà del 2014, quando gli abitanti del Paese hanno dovuto lasciare le proprie case, le proprie Chiese e la propria storia, in una scena di vero e proprio esodo.

Ma quali sono le aspettative del viaggio del Papa? Si tratta di un viaggio molto importante, una tappa motivata dalla fratellanza universale. Fratelli tuttiè un messaggio molto forte e profondo, una prospettiva che fa abbracciare la civiltà antica con il presente massacrato dalla violenza, dalla crudeltà, dalle guerre e dalle sofferenze. Papa Francesco è il primo pontefice a visitare questa terra e il popolo iracheno che, provato dopo tanta sofferenza e distruzione, ha bisogno di questa visita con la quale il Papa porterà la pace, l’amore, la tenerezza di un Padre verso i suoi figli smarriti e sfiniti dagli eventi vissuti durante tutti questi anni.

Il viaggio del Santo Padre significa tanto per un popolo che proviene dal diluvio, cosi sofferente e provato da lunghi anni di guerra, afflizioni, attacchi, aggressioni settarie e terrorismo, ed è un punto di partenza per intraprendere un dialogo interreligioso, un incontro tra tutte le religioni, rompere la catena del rancore, gli ostacoli e le barriere che si frappongono, al fine di suscitare il sentimento della fratellanza, della collaborazione costruttiva tra tutte le comunità del popolo iracheno, sia a livello religioso che politico, per creare e costruire uno Stato Iracheno moderno e forte, e ridare lo spirito di speranza a tutti gli iracheni e, soprattutto, ai giovani che attendono un futuro migliore.
Il Papa aprirà per tutto il popolo iracheno una porta sul dialogo e il rispetto reciproco, come era una volta: un popolo che conviveva in maniera pacifica con tutti, prima che si intromettessero i nemici nel Paese; prima dell’azione divisiva di alcuni gruppi. Il dialogo e l’intesa tra i cristiani e i musulmani in Iraq non si erano mai interrotti: il Patriarca cristiano seguiva il Califfo musulmano quando questi cambiava la propria residenza, per continuare i loro incontri nell’ambito di un dialogo continuo.
La presenza del Santo Padre rafforzerà i rapporti tra tutte le componenti del tessuto sociale iracheno, sia dal punto di vista religioso, grazie all’incontro tra rappresentanti cristiani, musulmani sunniti e sciiti, ebrei, mandei, yazidi, bahai, ecc ..., sia a livello politico: un evento straordinario, che ridisegnerà gli equilibri interni ed esterni del mondo islamico e cristiano.

Questo viaggio sarà un incoraggiamento ad andare avanti e a restare attaccati alla terra dei propri antenati: alla Mesopotamia, terra del primo uomo Adamo, nel giardino di Eden; terra del padre delle genti Noè, e terra della prima rivelazione di Abramo, nato a Ur dei Caldei; terra della prima legge di Hammurabi, re di Babele; culla dei profeti Ezechiele, Daniele, Naum e Giona (nella cui ricorrenza i cristiani ancora oggi osservano il digiuno tradizionale locale di tre giorni, chiamato digiuno di “Ba’uth Ninawa”, ovvero “Rinascita della gente di Ninive”).
La presenza del Papa esorterà i profughi e gli esuli a tornare nella terra dei loro padri, dei loro nonni e dei loro avi. Il Cristianesimo in Iraq ha messo radici fin dal primo secolo dopo Cristo, per mezzo di san Tommaso apostolo. In passato, i cristiani dell’Iraq raggiungevano quasi 1,5 milioni di abitanti, ma dopo la comparsa di Daesh, si sono ridotti a circa 300-400 mila; nonostante ciò, l’elemento cristiano rimane una presenza meravigliosa e luminosa.

A Mosul, nella Piana di Nineve, il Papa pregherà per tutte le vittime della guerra, nella Chiesa costruita dai Padri Domenicani italiani nel 1762, chiamata Chiesa dei Padri Domenicani; successivamente, vennero i padri domenicani francesi, i quali portarono con sé un grande orologio che fu innalzato su un torre nella piazza della Chiesa e, da allora, la Chiesa prese il nome di “Chiesa dell’Orologio”.
A Qaraqosh, il Papa reciterà la preghiera dell’Angelus nella Chiesa dell’Immacolata (Al-Tahira), costruita nel XIII secolo; sin dall’avvento del Cristianesimo nel Paese, tale Chiesa prese il nome di “Chiesa della Madre di Dio” e, successivamente, “Chiesa della Vergine” (1129), mentre oggi viene chiamata “Chiesa dell’Immacolata” ed è, attualmente, un santuario afferente all’Ordine del Sacro Cuore di Gesù; accanto ad essa, venne costruita la nuova “Chiesa dell’Immacolata”, la cui prima pietra venne posta nel 1932, per essere,
in seguito, costruita dagli stessi fedeli, mossi dal proprio zelo e collaborazione reciproca. Le Chiese presenti a Qaraqosh, in ordine di antichità storica, sono la Chiesa dell’Immacolata (o Chiesa Vecchia dell’Immacolata, attualmente santuario dell’Ordine del Sacro Cuore di Gesù), Chiesa di Mar Zena, Chiesa di Sarkis e Bakos (Chiesa di Sergio e Bacco), Chiesa di Mart Bshmoni, Chiesa di Mar Korghis (Chiesa di San Giorgio), Chiesa di Mar Yuhana Al Ma’madan (Chiesa di San Giovanni Battista), Chiesa di Mar Yacob Al Muqatta’ (Chiesa di San Giacomo l’Interciso), Chiesa Nuova dell’Immacolata, Chiesa dei Martiri Bahnam e Sara (2008), Chiesa della Speranza, di cui è stata posta finora solo la prima pietra.
Nell’area si trovano anche diversi santuari e conventi: Santuario e cappella della Regina del Rosario dei Padri Domenicani (Ordine di Mar Abd al-Ahd), Santuario e cappella dell’Ordine di Maria Vergine Concepita senza peccato, Santuario e Cappella dell’Ordine di Mar Polos (San Paolo), Convento di Mar Yohanna Al-Daylami o Muqertaya, Convento di Mar Qiryaqos, al cui interno è stato, di recente, costruito il “Convento della Croce”, Convento di Gesù Redentore, costruito nel 2009, afferente alla Comunità di Gesù Redentore dei Frati di Gesù Redentore.
è anche interessante ricordare come Qaraqosh è una parola turca che significa “passero nero” e il Paese
ha assunto questo nome durante l’occupazione ottomana; alcune leggende attribuiscono tale nome agli
abiti neri che indossavano gli uomini e le donne del posto. Baghdeda è, invece, una parola persiana che
significa “Casa di Dio”, o“Casa degli Dei”. È difficile parlare dell’identità e dell’antichità di Baghdeda, perché essa comprende molteplici etnie, data la sua funzione di ponte che ha visto il passaggio di moltissime generazioni e di diversi popoli. Si tramanda anche che il borgo di Baghdeda sia di origine aramaica, mentre, secondo altre versioni, sarebbe di origine araba; la lingua parlata è l’aramaico, nella sua versione dialettale locale.
 
                                                                                                                      Nakia Matti Pauls
                                                                                               (lavora presso l'ambasciata della Repubblica dell’Iraq in Roma)

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Magistratura e politica

MBEH... E VOI?

Ministro della giustizia nel nuovo governo Draghi è Marta Cartabia, che viene dalla esperienza prestigiosa e autorevolissima della Corte Costituzionale, e della quale pare fondata una opinione largamente positiva. Costituisce dunque la speranza di un ministero autorevole e rigoroso, attivo, credibile e responsabile. Il paese ne ha bisogno, davanti a una situazione lenta, burocratica, a volte inaffidabile, quale è attualmente quella della giustizia italiana. A sintetizzarne le problematiche di fondo ci sembra utile ripubblicare una riflessione risalente al 2016, che prendeva spunto dalla recente (in quel momento) nomina di Pier Camillo Davigo alla presidenza dell’Associazioni Magistrati.
 
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Piercamillo Davigo, diventato da una manciata di giorni presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, alla notizia della sua elezione mi ha immediatamente fatto tirare un respiro di sollievo: perché quella di Mani Pulite, alla cui squadra storica egli appartiene, fu una fase di forte presa di coscienza del nostro paese su sestesso e sul suo incamminamento civile e politico da correggere.
 
Perciò, in un lampo, ho pensato (e per la verità penso tuttora) che un nuovo tassello di speranza si possa inserire nella travagliata situazione italiana proprio grazie alla sua azione.
 
Certo, furono anche commessi degli errori, da parte di quella squadra di magistrati, e specialmente da parte dell’irruento Di Pietro (basti ricordare il gaglioffo avviso di garanzia consegnato a Berlusconi proprio nei giorni nei quali il tronfio ma povero arcorino rappresentava, come capo del governo, il nostro paese in una importantissima assise mondiale; oppure qualche probo cittadino chiamato in causa e mandato avventatamente in carcere, e scosso nella reputazione, prima che il fondamento delle sue responsabilità venisse davvero chiarito): ma fondamentalmente vivemmo, in quella stagione storica e grazie a quella squadra di magistrati, una fase per la quale il paese ebbe un soprassalto di coscienza che avrebbe potuto costituire l’inizio di una grande ripresa anche etica, solo che la classe politica, la scuola, il movimento sindacale, altri gangli importanti della vita italiana, e la stessa magistratura nella sua complessività, avessero saputo coglierne l’opportunità per innescare potentemente e costantemente un’azione correttiva e moralizzatrice sui comportamenti pubblici e privati.
 
Non fu così ma, per le coscienze limpide, “Mani Pulite” resta tuttora un esempio di iniziativa reattiva di responsabili della cosa pubblica davanti a momenti di crisi, da non dimenticare e da cercar di reiterare, in ogni settore della vita nazionale, a cura di ciascuno di noi per quel che a ciascuno di noi sia possibile.
 
Piercamillo Davigo, dunque, con la sua elezione a presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati  ha riacceso oggettivamente una speranza che io credo possa ancora essere coltivata. Ma non posso negare, nello stesso tempo, che dopo appena qualche giorno dalla sua elezione, in questo stesso scorcio di fine aprile, egli ha riacceso anche un inquietante quesito. Se ho capito bene il riferimento della notizia televisiva che ho colto quasi per caso in quei giorni, egli ha rilasciato una dichiarazione, o intervista, nella quale ha perentoriamente ed esplicitamente affermato che “la classe politica italiana, dopo Mani Pulite, ruba più di prima e si vergogna di meno”.
 
Una dichiarazione pesantissima, che è assolutamente rispondente al vero anche nella mia coscienza: è infatti la medesima opinione che io stesso mi sono costruito in questi lunghi anni di esperienza di vita, immerso nel mare agitato della nostra società, comprese vicende e uomini e donne politici, amministratori, accademici, operatori economici, insegnanti, professionisti di ogni settore, semplici cittadini di ogni specie e territorio e ruolo.
 
Rubano assolutamente di più, e si vergognano assolutamente di meno. Per scrupolo doveroso di coscienza ho provato a chiedermi, molte volte, di fronte a tale drammatica constatazione, se non possa trattarsi in realtà di altro fenomeno: quello secondo cui, come a volte viene osservato, “non è che si rubi di più: è che ora le cose si sanno di più…”. Ma ogni verifica effettuata mi ha smentito: è vero che si ruba proprio di più, e ci si vergogna proprio di meno.
 
E questo terribile stato di cose non è l’effetto paradossale di Mani Pulite, come pure è stato insinuato da qualche superficiale: Mani Pulite è stato un banco di prova che ha semplicemente dimostrato alla parte peggiore del paese che, se si lasciano crollare contemporaneamente tutti i sistemi formativi del paese stesso, e se altri gangli vitali del paese non concorrono attivamente nella ripresa morale del costume diffuso, questa è la fine che il paese tende a fare: cioè, le cose non soltanto non migliorano ma possono peggiorare.
 
Ora, i sistemi formativi del paese, appunto, sono stati fatti crollare: tutti e contemporaneamente. Nel giro di trent’anni. Quelli dei partiti, quelli dei sindacati, quelli aziendali (dove c’erano), quelli amministrativi, persino quelli militari (almeno in parte, a me pare) e quelli generali e istituzionali, a cominciare dalla scuola di Stato (ma non esclusa la scuola cattolica: non si illudano i miei fratelli di fede!). Né altri gangli vitali del paese hanno testimoniato una capacità reattiva di fronte alla china negativa: non il sindacato, ad esempio, né la pubblica amministrazione… In questo quadro è comprensibile e logico, dunque, che si rubi di più, e che rubino di più soprattutto i politici, per il semplice fatto che tendenzialmente hanno più occasioni e più potere per farlo.
 
Nonostante ciò, Piercamillo Davigo ha sbagliato il suo intervento (e questo mi è molto dispiaciuto) in  almeno due dimensioni:
 
  • Quella dell’analisi; in effetti non “ruba di più” la classe politica, ma la più complessiva classe dirigente del paese, a cominciare da quella amministrativa (dirigenti e funzionari con poteri di rappresentanza e firma, centrali e periferici, a volte di fatto più potenti dei politici a cui formalmente rispondono: e mi pare addirittura che, in proporzione, le regioni e le realtà locali siano più pasticciate dello Stato) e rubano non meno, secondo le loro possibilità, tanti impiegati, pubblici e privati, giovani e vecchi, acculturati e non; rubano anche tanti operai, quando capita, fra gli attrezzi di lavoro, ruba in generale tanta “gente comune”; lo fa diffusamente: si ruba la carta igienica nelle scuole da parte dei bidelli, si rubano fotocopie negli uffici pubblici da parte degli impiegati, si rubano ore di lavoro facendocisi timbrare il cartellino di lavoro da colleghi corrotti, si rubano dichiarazioni false di malattia facendocisi prescrivere diagnosi false da medici di famiglia impossibilitati a verifiche – se io mi presento al medico accusando forte emicrania è oggettivamente difficile che il medico riesca ad accertare la mia bugia - si rubano, al contrario, da parte di sanitari corrotti, parcelle per prestazioni mediche non necessarie ma prescritte a pagamento per suddividerne i proventi con altri colleghi sanitari ugualmente corrotti, si rubano garze e medicamenti vari da parte di infermieri; e credo di capire che si rubi persino tra i militari, dalle dispense delle mense di caserma o da occasioni similari; hanno colto in flagrante persino il prete sbagliato di Montecassino, abate per gli onori del mondo, che rubava sulle elemosine….
 
E lo si fa effettivamente con sempre minore vergogna e con sempre minore scrupolo nonostante che si possa constatarne facilmente una delle più macroscopiche conseguenze nel fatto che, per limiti di bilancio, vengono poi fatalmente a mancare i giubbotti antiproiettile per i militari esposti in servizi pericolosi, o la carta igienica per i bimbi nelle scuole…).
 
Vi prego, ora, mentre leggete, di non eccepire un eccesso di genericismo in queste mie parole: non sto dicendo che “rubano tutti”; il nostro paese infatti è anche stracolmo di persone oneste, positive, e non raramente eroiche (altrimenti non avrebbe spiegazione la montagna di cose belle che esso continua a esprimere ogni giorno); sto dicendo che il vizio del rubare, diretto e indiretto, è diffuso e trasversale; ruba in tal senso, infatti, ad esempio, anche il direttore generale che usa il suo potere per attribuirsi lo stipendio che gli aggrada senza rapportarlo in alcun modo al quadro generale dei trattamenti economici  della sua azienda; ruba anche l’alto dirigente che approfitta della macchina aziendale per mandare in gita sua moglie a far compere, a volte persino accompagnata dall’autista; ruba il sindacalista che utilizza il suo permesso sindacale metà per assistere i lavoratori e metà per andare a pesca, ruba il vigile urbano (qui a Roma ne hanno arrestati un paio anche i giorni scorsi) che, mellifluo e sornione, entra ogni giorno proprio in quei bar a prendere cornetto e cappuccino e lancia messaggi ammiccanti e infastiditi al gestore che non ha ancora capito che quei cornetti e cappuccini lui non deve pagarli, ruba l’amministrazione comunale che fa truccare i segnali di traffico limitato per indurre in errore gli automobilisti e “fare cassa” …
 
Molto meglio avrebbe fatto Davigo a precisare il carattere davvero trasversale di questo scivolamento civile ed etico diffuso nel paese: chiarendo certo, come è giustissimo, che i politici hanno maggior colpa e maggior responsabilità in quanto hanno più potere; e chiarendo coraggiosamente anche, nello stesso tempo, che… rubano pure i magistrati! Come le cronache recenti ci fanno vedere con crescente chiarezza, e come anche a noi pare di capire dietro troppe cose che non funzionano e che non chiamano affatto in causa scarsità di mezzi o di organici: magistrati che chiedono sistemazioni per parenti in cambio di condiscendenza nelle sentenze, magistrati con tenori di vita poco facilmente compatibili con i pur dignitosi stipendi, magistrati con elenchi di consulenti tecnici un po’ troppo ricorrenti, magistrati le cui telefonate intercettate dichiarano sensibilità tutt’altro che indubitabili…;
 
  • Quella del metodo; nella sua nuova responsabilità di rappresentanza, Davigo ha un potere preziosissimo, che può usare con grande efficacia positiva, educativa e di giusta pressione culturale, professionale e morale, nei confronti della politica e della opinione pubblica, proprio per il passato forte e credibile da cui proviene: ma questo deve dettargli la saggezza di giocare la partita, nella guerra contro la corruzione, attraverso i suoi atti e comportamenti concreti di rappresentanza, che sono appunto, per loro natura, suscettibili di esercitare effetti pesantissimi di condizionamento benefico nella cultura istituzionale e giuridica del paese e nei conseguenti comportamenti; rispondendo caso mai con la consueta chiarezza alle domande che in relazione a tali suoi comportamenti gli vengano fatte dalla stampa: non deve invece servirsi di dichiarazioni o interviste polemiche rivolte alla pubblica opinione, scendendo nel campo della contesa miserabile fra fazioni (nel caso specifico, quella dei magistrati e quella dei politici, che tali diventano quando pongono il dibattito su questo piano), come è accaduto crescentemente negli anni a noi vicini.
 
Perché tale modalità gli fa correre il rischio altissimo e immediato di squalificare sestesso, le sue intenzioni e la sua credibilità, e di far perdere al paese la grande e preziosa occasione che il suo ruolo può rappresentare: quella della ripresa generale, appunto, di una speranza e di una coscienza civile alta e diffusa, capace di tornare a esprimersi anche attraverso rappresentanti ben visibili e credibili per esempio di vita e non per dichiarazioni televisive o interviste alla stampa.
 
 
Detto questo per rammaricata riflessione personale, mi pare però utile, nello stesso tempo, riproporre alla riflessione di tutti noi un altro pensiero fondativo di grande positività espresso dallo stesso Davigo lo scorso anno 2015:
 
“Mi è stato detto che è troppo difficile fare indagini sulla corruzione. Negli Usa, dopo le elezioni, mandano agenti sotto copertura a offrire denaro agli eletti: coloro che lo accettano vengono arrestati. A ogni elezione ripuliscono la classe politica.
E… quando qualcuno mi dice che rubano tutti, gli chiedo se ruba anche lui. Siccome mi dice di no, gli rispondo: “Neanche io. Come vede, non è vero che rubano tutti”. Occorre saper distinguere e prendere le distanze da chi ruba, anche se è della nostra parte politica”.
 
Questo sì, mi pare un pensiero e un approccio davvero giusto.
 
                                                    
                                                                                                                             Giuseppe Ecca
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Racconti di vita

LE PALME SICILIANE

Con semplicità di stile e linguaggio, le emozioni di una coppia di siciliani che dopo tanti anni di vita in Australia riescono a rivedere la terra da cui, ancora giovani, dovettero emigrare. Emozioni semplici ma profondissime. E  l'intramontabile dualismo della Sicilia e di altre regioni d'Italia: bellezza a profusione, quanto in nessun'altra terra al mondo, ma disordine e negligenza organizzativa. Il racconto è semplicisismo, sincero come una testimonianza commossa: non ha velleità letterarie ma il sapore della vita vera ed intensa. Fu la caratteristica nobile del "Premio Prato Raccontiamoci"
 
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Le palme di Palermo si protendevano maestose contro il cielo di un azzurro terso, un azzurro così intenso che forse solo la Sicilia può vantare. Era un raggiante mattino di primavera e svettavano festose come per dare il benvenuto a quell’aereo che arrivava da molto lontano e che stava per atterrare all’aeroporto di Punta Raisi. Fu in questa atmosfera radiosa che giungemmo in Sicilia e dall’aeroporto ci accompagnarono al “Grand Hotel Villa Igiea”. Dopo avere sistemato i bagagli e fatto colazione, intraprendemmo la nostra indimenticabile gita per le vie di Palermo: prima tappa il Teatro Massimo, paradiso dell’Opera. Una sola parola mi viene in mente per definire Palermo:  “incanto”; perché è proprio un incanto per gli occhi e per l’animo poter ammirare e godere delle sue superbe e grandiose opere antiche che ti scaldano il cuore. Fonte inesauribile dove poter bere per placare la bramosia di chi è sempre in cerca della perfezione.
E cosa dire dei quartieri caratteristici che abbiamo visitato dopo pranzo, i Quattro Canti e Vucciria, dove batte particolarmente frenetico il cuore di Palermo e dei suoi abitanti? E’ proprio lì che abbiamo comprato i souvenir da portare ai nostri amici rimasti in Australia. Anche quel giorno la città di Palermo era stupenda. Un corteo brioso di palme ci accompagnava nella nostra passeggiata  per rallegrarla e accoglierci con calore nella nostra terra, la nostra amata Sicilia che un triste destino ci ha costretto a lasciare e dove il nostro cuore è però sempre rimasto. Se ci penso, un dolore immenso mi stringe e amare lacrime mi solcano il viso e non riesco a fermarle. Le palme di Palermo, con la discrezione di chi non vuole entrare prepotentemente nei sentimenti della gente, e con timidezza, si avvicinano a me, raccontando il dolore della nostra amata Sicilia alla quale sono stati strappati i figli; e il mio dolore, mescolato al dolore della mia terra, si cheta.
Le palme di Catania si rincorrono per le vie, in fila come soldati in marcia sotto l’occhio vigile dell’Elefante, che dall’alto del suo piedestallo le guida, le guarda con stupore  e meraviglia, mentre gode alla vista del vibrante paesaggio disegnato con maestria dal pennello del Creatore. Nel nostro cammino incontriamo il teatro Vincenzo Bellini, che ci saluta allegramente e con ansia ci attende per applaudire i nostri grandi artisti siciliani: e il loro spettacolo è un inno alle maestose bellezze cittadine, e un invito a visitarle.
E Catania ci sorride col suo Duomo e con Sant’Agata, e su tutto sovrasta maestosa e imponente l’Etna. E’ difficile sottrarsi al suo fascino, alla magia di un paesaggio che la lava ha reso quasi lunare con crateri profondi dappertutto. Il rantolo della montagna ci accompagna, non si ferma un attimo, essa è viva, brontola ed è presente col suo forte respiro su di noi, la sua naturale bellezza e maestosità rimane impressa nella mente e nel cuore di chi ha la fortuna di visitarla e bearsi della sua bellezza ammantata di neve bianca e pura.
Siamo in cima, oltre i 2.500 metri, e sotto di noi si dondola Catania, bella e splendente tra l’azzurro mare e le sue palme che fiancheggiano il litorale svettando gioiose: un caloroso saluto è rivolto a noi, e i rami delle palme mossi dal vento si tramutano in braccia che attendono il nostro ritorno per stringersi a noi nella confusione della città. Anche l’ombra delle palme dell’Etna sovrasta i nostri sogni: esse sono cadute nello sfacelo delle eruzioni e risorgeranno quando brillerà per sempre il sole e la tranquillità regnerà suprema.
Quella sera, al termine della passeggiata, come sempre corsi a letto per leggere un pesantissimo libro che avevo comprato in una delle librerie di Catania; il mio hobby preferito, leggere a letto, mi accompagna sempre: non posso dormire se non ho un libro tra le mani; ma questa volta la stanchezza mi fece addormentare di colpo e il libro volò pesantemente sul mio viso facendomi strillare dal dolore, le mie mani si tinsero di sangue e mio marito, che guardava la tv, mi raggiunse subito e alla vista del sangue sulla guancia si spaventò e corse a chiamare il direttore dell’hotel, il quale mandò un’infermiera a medicarmi;  ci vollero anche due punti. Mio marito mi disse accorato: “Spero che adesso ti passi il vizio di leggere a letto, visto che per giorni dovrai andare in giro col cerotto in faccia!”. Ma il vizio non posso toglierlo, è radicato in me da sempre e pazienza se ogni tanto un libro cade sul mio viso provocando anche fragorose risate successive quando qualcuno s’accorge che porto i segni del reato.
A Caltagirone, poi, la bellezza delle palme rigogliose si confonde con quella dei mosaici e delle ceramiche che si propongono superbi, nella maestà della loro arte, per ammaliare i visitatori; ma palme bellissime e tante, tutte in fila, fanno bella mostra anche nel moderno Centro dei Negozi dandogli un fascino esotico e un’attrazione speciale per il turista, che esulta di felicità.
Sicilia mia, ad ogni passo bellezze rare, immagini superbe che s’imprimono nell’anima e che ci portiamo dentro, nella fortezza inespugnabile del cuore, per illuminare, con la loro luce, i nostri giorni nel ricordo delle meraviglie che un lontano giorno abbiamo lasciato, inconsapevoli di quanto dolore avremmo dovuto sopportare.
Due settimane favolose in giro per la nostra Sicilia, e sempre le palme ci hanno abbracciato con amore e calore, fedeli, seguendoci come nostri compagni di viaggio ovunque! Le palme di Vizzini ci hanno stretto al cuore come il figliol prodigo al suo ritorno, baci e carezze con il sole caldo di giugno che profumava di oleandri e gelsomini, e il calore della nostra casa che ci aspettava con l’ansia dell’attesa più viva.
Poi la passeggiata in piazza Umberto I, nell’atmosfera tesa delle elezioni regionali e dei comizi, che come al solito ci hanno messo davanti a uno spettacolo diverso con ingiurie e parolacce, fra i diversi partiti, che volavano come mosche ronzanti nell’aria diventata pesante.
Vota per questo, vota per quello, vota per lui e la Sicilia brillerà di luce e sfolgorerà di benessere perché questo gran signore è carico di generosità verso i siciliani tutti, specialmente verso quelli che vivono all’estero come voi...”. Okay, voteremo per questo gran signore che porterà ulteriore paradiso in Sicilia…  
L’indomani, domenica, ci siamo incamminati, colmi di buona volontà, per il Viale Margherita, sotto la protezione delle palme cariche di gioia fra i raggi di sole di un brillante mattino. Cammina e cammina, non trovavamo la sede delle votazioni dove ce l’avevano indicata. Chilometri e chilometri ma non la trovavamo, non sapevamo dov’era ed eravamo  di nuovo stranieri nel nostro paese!
Non c’era nessuno per le strade, dato che si passeggia con le macchine; io e mio marito continuavamo a camminare non sapendo dove andare di preciso. “Ma chi ce l’ha fatto fare ad accettare di votare? Nessuno in realtà penserà a noi, non ci hanno mai dato niente, siamo noi che abbiamo dato tutto, anche il cuore che è rimasto impigliato qui nonostante tutto”.
Finalmente una macchina si è fermata: era un amico, che ci ha chiesto dove andavamo; ci ha indicato poi a gesti la direzione giusta ed è ripartito come un razzo. Noi allora, camminando ancora tra mille sospiri e qualche imprecazione, siamo arrivati ad un edificio nuovo dove però non c’era nessuno ad accogliere questi poveri votanti stanchi: tanto qui il voto non è obbligatorio, se non voti non t’appioppano una pesante multa come da noi in Australia, e quindi se ne fregano tutti: ecco l’Italia dei menefreghisti che salta fuori. Gira di qua e gira di là, finalmente un giovane ci ha indicato dove andare per votare e quindi abbiamo fatto il nostro dovere, anzi siamo forse stati gli unici a farlo, dato che tutto era immerso nel silenzio più assouto.
Stanchi e sudati siamo tornati per riposarci sotto le palme del Viale Margherita, con un bel gelato da gustare prima della passeggiata alla villa e in piazza Marconi, a due passi da casa nostra; ci siamo seduti aspettando i miei fratelli, che ci avrebbero portati a mangiare al meraviglioso ristorante delle grotte della Cunziria, dove Alfio e Turiddi hanno duellato nella Cavalleria Rusticana. Nessuno ci ha ringraziati per aver votato, dopo averci pregato di farlo, e perciò ci è sembrato giusto dire “grazie” al nostro amico deputato rilevando che ci aveva mandato a votare nella più lontana sede che c’era, a noi del tutto sconosciuta; vicina però almeno al cimitero, dove invece delle palme ci hanno salutato i cipressi, che cupi e solitari sfilano in lunga processione per proteggere i nostri morti.
Ora, finita la bellissima gita, ci rimane comunque il dolce ricordo delle tre settimane straordinarie che abbiamo trascorso nella nostra bella Sicilia, bella ad ogni passo, un tesoro inestimabile scolpito per sempre nel nostro cuore nonostante abbia sulla guancia anche il ricordo del bacio un po’ violento di un libro. Un ricordo del tutto speciale rimane nel nostro cuore per la splendida settimana trascorsa nella nostra bella Vizzini, dove le radici sono rimaste per sempre ben attecchite e rigogliose. E tuttora un fluido magnetico mi scorre nelle vene pensando a quei momenti di grande gioia ed euforia. Stare insieme ai miei fratelli, ai miei nipoti e alle mie simpaticissime cognate è un evento raro che rallegra i cuori di meravigliose rimembranze adesso che la lontananza ci separa di nuovo come un castigo.
Ammiro anche le palme di Melbourne, verdissime, vibranti di luce e di mille sfumature, e quando sfrecciano svettanti verso il sole io mi sento in Sicilia. La mia Sicilia, colma di spassosissimi ricordi giovanili che m’inebriano di emozioni i sensi e l’anima.
La mia Sicilia luminosa di storia millenaria che è racchiusa nelle chiese, nelle cattedrali, nei templi e nei teatri greci, nelle catacombe, negli edifici in genere e in ogni via, anche nell’aria che è sempre esultante di magia. La mia dolcissima Sicilia, per sempre, nel cuore!
                                                                 
                                                                                                                                 ("Premio Prato Raccontiamoci", autrice anonima)

 
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Religione

DIO MIO PADRE

Il cristianesimo chiede adultità di adesione senza accomodamenti, e offre risposte senza trucchi a tutto l’uomo su tutti gli interrogativi dell’uomo: anche quelli che, di primo acchito, ci sembrano più complessi da affrontare. Il Padre Nostro, ad esempio… Comincia a rifletterci, introduttivamente, Viscardo Lauro.
 
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Credo in Dio Padre Onnipotente… Sublime, spinoso, inquietante, il Dio Padre ha sempre affascinato e fatto discutere. Il problema di Dio che si complica coi mille incerti della figura del padre, pensa tu…I maestri della psicanalisi hanno pagine indimenticabili sul personaggio-padre nella religione. Su tutte, il rapporto Dio-Abramo: fede a mille e mille domande senza risposta. E la figura del Padre, fondamentale nelle religioni, resta decisiva all'interno della nostra coscienza. Padre nostro che sei nei cieli: che scossa stringere a messa un'altra mano tremante come la mia. Padre nostro che sei nei cieli: pochi secondi, un minuto al massimo, ed è un piccolo paradiso.
 
Eppure…
 
Eppure in tanti di noi (e quasi ci vergogniamo ad ammetterlo) quante volte è affiorata una
punta di dubbio o di incertezza e perfino, ahimè, di rifiuto. Da rileggere l'inquieto romanzo di
Albert Camus La peste. La città di Orano è isolata, la paura dilaga di strada in strada, il
gesuita padre Paneloux è sotto accusa da parte del suo amico medico: come spiega la
religione una sciagura così grande? Dov'è il Padre vostro in questi giorni? Resta forse nei
cieli e abbandona i suoi figli? Dov'è finita la Provvidenza che tanto aveva illuminato le
pagine della peste nei Promessi Sposi?
 
Dio mio Padre. Chi è il Padre a lettere maiuscole, chi è quel personaggio che mi porto
appresso dall'infanzia? Chi è Il Padre. Attenzione, ho detto Padre, non semplicemente Dio.
Il Dio Padre delle antiche religioni nasce sulla figura rassicurante e temuta del capoclan, il grande anziano a cui spetta l'ultima parola: lui dice e decide, lui benedice e condanna. Nozze, parentele, guerre, patrimoni, transumanze e alleanze: a tutto provvede il Padre. Tutti lo venerano e tutti gli obbediscono. Tutto può il Padre Patriarca perché tutto dipende da lui. Questo il modello mentale che costruisce l'antica religione del Padre Onnipotente e soprattutto questo il modello religioso di figliolanza. Il figlio dipende e china la testa; il figlio forse rivolge domande ma alla fine subisce; a occhi chiusi il figlio accetta e si fida. È il Padre che decide il suo bene e dalla sua mano qualsiasi cosa. Il Padre promette la terra, il Padre sceglie la moglie e il Padre garantisce il futuro, magari prospero come un firmamento di stelle o una sabbia del mare. Dio mio Padre, mio calice e mia eredità reciterà poi il salmo. Scorrono sotto i nostri occhi le storie indimenticabili di Abramo, di Isacco e Giacobbe nel libro di Genesi; scorrono le strabilianti vicende di Mose nel libro dell'Esodo: la colonna di fuoco, la nube, la manna dal cielo, l'acqua dalla roccia, il serpente di bronzo che guarisce le piaghe. Premuroso, amoroso, sempre presente, il Padre.
 
Tutto facile, tutto bello, tutto scontato? No, non tutto torna e non tutto convince. Vediamoli
più da vicino quei testi e facciamoci pure qualche domanda (che spesso ci resta sulla
punta della lingua).
 
Il Dio di Abramo. Un Dio migratore che fra mille incognite guida clan e famiglia verso la
terra promessa: acquisti, piccoli scontri, alleanze. Un Padre assoluto al quale non si fanno
tante domande e una figliolanza vissuta talvolta in un vuoto di stomaco. Già estatico sotto
il cielo stellato Abramo è ora tremante e incredulo di fronte al tragico destino di Sodoma e
perfino atterrito alla voce che gli chiede il sacrificio dell'unico figlio. Una figliolanza incerta
e sofferta, quella di Abramo
, altro che facile.
 
Il Dio di Mosè, un Dio nomade e guerriero che non si fa scrupolo a invadere distruggere e
conquistare. E una figliolanza ancora più traumatica aspetta il giovane condottiero che
aveva sfidato Faraone. Lanciato in un'avventura senza margini chiari, pressato da clan e
da famiglie sempre più insofferenti, Mosè ha un continuo bisogno di interrogare il Padre.
Una missione, la sua, sempre più intessuta da angosce. Lo stesso colloquio che ogni tanto
riesce a strappare al Dio Padre si rivela un evento faticoso, appartato, segreto,
interminabile, quasi uno straziato oracolo da sibilla. Non tanto un privilegiato, Mosè, quanto un solitario e tormentato arrampicatore delle creste del Sinai. O magari un taciturno frequentatore della famosa Tenda del Convegno, il cubo vuoto e muto dove il Padre
pastore gli parlerà senza mostrare il suo volto. Ogni volta sarà supplica, trattativa impari,
grido: un'autentica lotta per strappare una clemenza e per ottenere un perdono quasi
impossibile. E per chi? Per gente ingrata, incredula, inquieta, scontrosa, insopportabile. Da
quel colloquio col Padre Pastore, Mosè esce prostrato, esausto, intrattabile: profeta
sconfitto, mediatore senza gloria e (ultima grande amarezza) mai gli sarà concessa la
terra promessa. Figliolanza non facile e proprio non incontra i nostri desideri. Da rivedere il
Dvd Moses et Aaron di Arnold Schoemberg: mentre il popolo corre ormai appresso ad
Aronne, il nuovo accomodante profeta, Mosè si accascia perdente al centro della scena.
Un finale da brivido.
 
La paternità di Dio resterà per secoli il lato più fascinoso ma anche il fianco più esposto
delle religioni che da lì a poco tenteranno di svincolarsi dalla stretta. Difatti. Non appena le
scuole pitagoriche, stoiche o socratiche si lanceranno a vagliare e a discutere la realtà,
fiorirà anche la critica serrata alla vecchia religione. E gli ambienti giudaici della diaspora, i
più disposti alla discussione nelle piazze e nelle scuole greche, non si tireranno indietro e
raccoglieranno la sfida. Così si evolve, così si trasforma, così cambia, anche radicalmente,
la figura del Dio Padre all'interno stesso della Bibbia. Anche presso Israele nascerà la
grande letteratura di critica religiosa: Qohelet, Giona e soprattutto Giobbe, il poema degli interrogativi spietati.

 
Perché Giobbe sta soffrendo? Da chi è colpito Giobbe? Giobbe è un giusto, Giobbe non
ha fatto male a nessuno, Giobbe è un servo fedele. Perché Giobbe, perché Auschwitz,
perché i bambini passati per un camino?
Un seguito ossessivo di saggi, di films, di
romanzi. Un processo senza appelli: unico imputato Dio e, conseguenza inevitabile, il grande Padre pastore che non esiste più.
 
Ancora. Uno, forse due secoli, e siamo ai vangeli. Orto degli Ulivi: si apre uno dei capitoli chiave, un vero spaccato sull'anima della religione. Non solo preghiera, non solo confidenza, non solo invocazione: la voce di Gesù è una discussione accanita: perché a me questo calice. Spasimo, corpo a corpo, sudore di sangue. Cosa è accaduto? Dov'è il Padre di Abramo? E soprattutto dov'è quella figura di Padre che tanto aveva appassionato e travolto Gesù per interi capitoli del Quarto Vangelo? Pagine che trasudano emozioni, è il caso di dirlo. E anch'io ho bisogno di riprendere fiato. Dio mio Padre. Credo in Dio Padre Onnipotente.
 
                                                                                                            (Viscardo Lauro)

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Gestire il 2021

SEMPLICITA' E CHIAREZZA MA ANCHE PROFONDITA' E LUNGIMIRANZA

Responsabili e nello stesso tempo consapevoli. Attenti e nello stesso tempo sereni. Disciplinati e nello stesso tempo correttamente liberi... Insomma, il difficile avvio del 2021 ci richiede un atteggiamento e un comportamento maturo, equilibrato e integrato. Da "costruttori di bene", insomma.
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Il presidente della repubblica, Mattarella, ha rivolto il suo messaggio di fine anno agli italiani con la sua abituale pacatezza e positività di tono e di contenuti. Un messaggio per “costruttori” di bene comune, come li ha chiamati, e non per divisivi protestatari. E’ bene tenerne conto, ma nello stesso tempo ci sembra doveroso delineare con concretezza immediata anche alcuni necessari punti operativi che urgono, fin da questi primi giorni del nuovo anno, alla ripresa del nostro paese, se tale ripresa vuole essere duratura ed equa. Mi permetto di dirlo a titolo personale ma anche a nome del piccolo laboratorio di DemocraziaComunitaria. E per cominciare osservo che:
  1. Il carattere nuovo e straordinario, per origine e diffusione, della pandemia da coronavirus;
  2. i tempi eccezionalmente rapidi di realizzazione dei vaccini proposti per combatterlo;
  3. i tempi più specificamente problematici di sperimentazione per testarli;
  4. la dimensione pervasiva e non bloccabile, a livello planetario, delle relazioni economiche e finanziarie, particolarmente commerciali, e di quelle personali (lavorative, di studio, politiche, etc.) che fanno da veicolo al virus;
  5. l’accresciuto peso degli interessi organizzati, diretti e indiretti, di carattere politico, economico e di potere (multinazionali e multisettoriali) coinvolti nella sua gestione;
  6. l’inadeguato sviluppo degli studi inerenti ai possibili effetti collaterali di più lungo periodo dei citati vaccini:
 
sono le sei ragioni più essenziali che suggeriscono, allo stato attuale delle cose, criteri di tempestività ma accompagnata da intelligente gradualità e da non rigida obbligatorietà iniziale nella somministrazione dei vaccini stessi. L’obbligatorietà, in particolare, potrà essere raggiunta eventualmente dopo un ragionato e ragionevole periodo di attenta osservazione e studio dei progressivi effetti dei vaccini.
Per converso, il distanziamento fisico (mai sociale!), l’igiene attenta, l’utilizzo delle mascherine, o schermature trasparenti, restano i tre criteri essenziali per l’affrontamento della pandemia a livello di comportamenti personali, mentre il funzionamento più efficiente delle strutture sanitarie ordinarie e una politica severa dei controlli lo sono a livello collettivo; per questo ultimo criterio, in particolare, cioè il controllo, è giusto e maturo e responsabile che venga utilizzato ormai anche l’esercito in funzione di ordinaria polizia di prevenzione e sanzione: più che mai sono infatti maturati, e in verità da ben prima che scoppiasse il coronavirus,  i tempi per una concezione molto più integrata del concetto di sicurezza del paese.
In sintesi, la grande medicina per le emergenze, il grande rimedio per le condizioni eccezionali, ancora una volta, vanno cercati nella maggiore efficienza delle strutture ordinarie, non nella brillantezza inventiva delle formule emergenziali; nella cultura della gestione evolutiva, non nella schizofrenia maniacale delle riforme. Questo vale anche per la gestione del sistema sanitario pubblico, irresponsabilmente impoverito in questi ultimi anni a vantaggio di dubitabilissime privatizzazioni e aziendalizzazioni.
Per quanto poi riguarda la pandemia parallela a quella sanitaria, cioè la pandemia che fin dall’inizio abbiamo chiamato economica e sociale, e che si concretizza soprattutto nella drammatica precarizzazione lavorativa e reddituale di molti cittadini, e nel frequente infragilimento psicologico di tante persone, da cui vengono anche suicidi e violenze familiari e destabilizzazione genitoriale ed altri gravi e a volte permanenti malanni familiari e sociali, ribadiamo che il problema non va affrontato chiudendo e assistenzializzando le attività economiche bensì rallentandole e prolungandole contemporaneamente: cioè facendo esattamente il contrario di quanto si fa.
Ad esempio, un ufficio postale o una banca, ma anche un ristorante o un ufficio amministrativo aperto al pubblico, non soltanto non devono accorciare l’orario di apertura agli utenti, come purtroppo stanno facendo, ma, esattamente al contrario, devono prolungarlo per consentire di servire con maggiore distanziamento gli utenti stessi, rassicurandoli e facendo fronte all’impegno, esattamente, attraverso assunzioni e collaborazioni cui vanno finalizzate le risorse della “politica dei ristori”, oggi irrazionalmente, assistenzialisticamente e improduttivamente, cioè scioccamente,  destinate a una miserevole e umiliante politica di elemosina diffusa e neppure equamente distribuita. Va ristorata l’economia sostenendo il lavoro, incrementando i servizi e rallentandone i folli ritmi, non vietandoli o limitandone la durata e la fruibilità.
Infine, un dramma che rischia di lasciare un segno negativo grave di disinvestimento umano e sociale per il futuro, è anche quello che vede chiusa o altalenantemente aperta la scuola, punto di riferimento psicologico e formativo fondante – per quanto impoverito – dei nostri ragazzi e della società. La scuola deve essere, anch’essa, permanentemente aperta e non chiusa: aperta riducendo ad esempio gli orari dei singoli turni a due o tre ore, aperta riducendo il numero degli alunni per classe a cinque o a dieci invece dei soliti venti o venticinque, e dunque rendendo gestibile e controllabile il distanziamento fisico, aperta riducendo i docenti per classe a uno o due rispetto agli attuali cinque o dieci, e…  ma calma, ragazzi: non tornate a ripetermi la grande sciocchezza secondo la quale un insegnante di italiano non può fornire un accompagnamento di base al ragazzo che studia matematica, perché stiamo parlando di elementi-base della formazione e non di specialismi universitari: dobbiamo formare i ragazzi, non tecnicizzarli specialisticamente, compito che tocca appunto all’università. Che se poi un insegnante non è in grado di fare questo, cioè di svolgere il ruolo di formatore-accompagnatore del cammino dei ragazzi, significa che insegnante forse  lo è ma formatore certamente no, e che bisogna dunque tornare a indirizzarlo in senso corretto e urgente a questa primaria e basilare funzione: e lo si può e lo si deve fare lasciando aperta la scuola.
Insomma, per far funzionare servizi ed economia non bisogna abolirli ma… organizzarli ancora meglio!
La brutta pandemia potrebbe in sintesi trasformarsi, in realtà, in una costruttiva opportunità di crescita, se adottassimo una decorosa base di scienza e coscienza, che sembrano invece latitanti e sostituite da verbosità e appariscenza.
In questo spirito, buon 2021 a ogni buona volontà. Anzi, fraternamente, buon 2021 a tutti: anche a quelli che di buona volontà non ne hanno molta, o non hanno molta fiducia in essa, affinchè vengano a far parte della nostra famiglia di volonterosi. Che per definizione accoglie tutti. Coraggio, forza e luce per tutto il 2021, anzi per tutta la vita!
                                                                                                         
                                                                                                                                 (Giuseppe Ecca)
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Racconti di vita

L'AMORE OLTRE LA VITA

Come abbiamo avuto modo di dire in occasioni precedenti, molti “racconti di vita” venuti alla luce grazie alla storica rassegna del “Premio Raccontiamoci Città di Prato”, cessata da alcuni anni ma vissuta a lungo e animata da figure autorevoli quali quella di Pamela Villoresi, sono rimasti sfortunatamente anonimi in quanto non  rientranti nel ristretto numero dei lavori premiati, ma ci pare giusto pubblicare via via quelli che riusciamo a recuperare dagli archivi del Premio, della cui giuria fummo componenti, in attesa che la organizzazione promotrice possa nel tempo realizzarne una più organica raccolta. Sottolineiamo che i racconti sono effettiva “vita vissuta”, essendo questa una delle caratteristiche vincolanti del Premio; e perciò particolarmente interessanti.  “L’amore oltre la vita” è omaggio vissuto alla presenza così spesso provvidenziale dei nonni nel contesto familiare.
 
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L’estate era trascorsa e le prime foglie ingiallite incominciavano a cadere dagli alberi, addormentati dal sonno dell’autunno. Da due mesi mia nonna si era adagiata sul letto matrimoniale della sua camera e, coperta da una trapunta, attendeva pazientemente che il velo del riposo eterno si posasse sul viso sereno. In alto, sopra la spalliera del letto, il Bambinello in braccio alla Madonna la guardava languidamente, quasi per rassicurarla che presto li avrebbe raggiunti in cielo. Il cancro, accompagnato dalla senilità, aveva assorbito tutte le sue energie vitali, lasciandola in una quiete apparente mentre interiormente compiva il suo sviluppo. In quel periodo avevo ricevuto una proposta di lavoro importante da uno studio legale. Laureatomi in giurisprudenza a primavera, ero impaziente di avviare la professione di avvocato, ma sapendo che la nonna stava molto male decisi di prendermi cura di lei: una nonna è troppo preziosa per essere sostituita con un impiego lavorativo.
 
Il comò, appesantito dai tanti medicinali, sembrava una farmacia ambulante e dove lei un tempo si specchiava vanitosamente, pettinandosi i lunghi capelli castani, la polvere si era posata lasciando un sottile strato. La sola traccia della sua giovinezza, presente nella stanza, era una foto fatta insieme al nonno, prima di sposarsi. Spesso la guardava sospirando, come fosse una finestra che si affacciava sul passato immortalando la bellezza di una volta, ormai perduta.
 
Il nonno amava tantissimo la fotografia, fin da giovane, e aveva coltivato per l’immagine in bianco e nero un profondo senso artistico. “Nelle foto”, diceva, “è possibile compiere un miracolo: fermare il tempo, strappando i momenti più belli all’oblio, e non invecchiare mai”.
 
Fotografava tutto ciò che lo affascinava: dalle persone alla natura ogni soggetto era buono per essere immortalato. La sua cantina era un vero laboratorio fotografico, l’ordine e la cura con cui usava il materiale fotosensibile erano assoluti. Ricordo ancora le volte che mi prendeva in braccio e mi spiegava come avveniva il processo di sviluppo del negativo; mio nonno ea una vera risorsa, un concentrato di creatività e conoscenze, e grazie a lui ho scelto di andare all’università. “La sapienza – diceva – è la sola cosa in grado di rendere liberi, ma soprattutto consapevoli di chi siamo e cosa vogliamo essere”.
 
Nonna lo amava anche per questo suo talento, questa capacità di vedere e percepire la bellezza nelle cose che viste di sfuggita, ad occhio nudo, spesso non esprimono nulla se non ciò che sono apparentemente, ma, se le si osserva con maggiore attenzione, in esse è possibile vedere la vita, il tutto perfetto. Solo allora si capisce che meraviglia è il mondo, e l’esistenza con le sue forme.
 
Una mattina mi avvicinai al letto per misurarle la pressione e le chiesi come si sentiva. Lo sguardo era immobile verso il soffitto, freddo come quello di una statua, e sembrava non aver ascoltato le mie parole.
 
“Nonna mi hai sentit…”.
 
Non feci in tempo a terminare la frase che subito scoppiò a piangere.
 
“Voglio andarmene”, mi disse con voce commossa.
 

In vita sua, due volte l’avevo vista piangere: il giorno del funerale del nonno e una sera dopo aver litigato con mia madre al telefono. E’ stata sempre molto orgogliosa e il pianto per lei era autocommiserazione.  L’abbracciai, trattenendo la forza per paura di stringerla troppo: il dolore l’aveva affranta. Sentivo le ossa fragili del suo corpo delicato e magro, rivestito da un pigiama di cotone, e in quel momento avrei dato la mia vita per salvarla dal triste destino. Si asciugò le lacrime con il lenzuolo e mi porse lentamente il braccio. Le inserii lo sfigmomanometro elettronico: la pressione sanguigna e le pulsazioni erano regolari. L’aiutai a sollevarsi dal letto e sistemandole i cuscini dietro la schiena le feci appoggiare la testa accuratamente, accarezzandole la fronte. Tra le pieghe delle rughe era ancora possibile scorgere il fascino celato di una donna stupenda. Gli occhi azzurri e luminosi lasciavano trasparire una forza interiore particolare, il suo sguardo penetrava dentro il mio riuscendo a cogliervi ogni preoccupazione.
 
Alzando il mento mi disse: “Sei stanco, dovresti riposarti”. Sorridendo le risposi: “Non ti preoccupare, sto bene”. In realtà ero distrutto e assisterla significava dedicarle tutto me stesso, non facendole mancare mai nulla.
 
Un giorno mi chiamò, dicendomi che doveva parlarmi.
 
“Michele, devi andare via!” esclamò con espressione seria. “Non puoi rinunciare alla tua vita per me, io sono vecchia e tra breve lascerò questo mondo, ho realizzato le mie scelte e ora devi compiere le tue”.
 
La guardai per un istante, poi uscii dalla stanza senza dire nulla.
 
Mia nonna per me è stata come una seconda madre; fin da bambino sono cresciuto con il timore che i miei genitori divorziassero, in famiglia i litigi erano all’ordine del giorno, così più di una volta sono fuggito di casa andando a stare da lei. Dopo cena ci sedevamo sul divano, in salotto, insieme al nonno vedevamo la tv e prima di addormentarmi pregavamo. Standomi vicino nei momenti difficili, mi infondeva quel senso di coraggio necessario per andare avanti: la nonna aveva tutto quello che mancava a mia madre. Con affetto mi ha cresciuto amorevolmente, e accompagnarla nell’ultimo periodo della sua esistenza significava contraccambiare l’amore che mi aveva donato.
 
Le nonne sono delle sante perché compiono un doppio miracolo: prima mettono al mondo i loro figli, poi crescono i nipoti, con maggiore affetto.
 
L’assistetti per un mese; morì un tardo pomeriggio di novembre, quando gli ultimi raggi del sole stavano svanendo nel crepuscolo della sera e nel giardino la natura ormai spenta si lasciava bagnare dalla pioggia: il suo leggero e dolce suono aveva accompagnato ogni istante della giornata rendendo ovattate le ore passate insieme.
 
Come di consueto, doveva prendere la medicina: aprii la porta della camera, accesi l’abatjour sopra il comodino e delicatamente provai a svegliarla.
 
“Nonn… nonna, svegliati, devi prendere la medicina”.
 
Nessun movimento, né risposta seguì la mia incitazione. Alzai il tono della voce dicendo: “Nonna, sono Michele… la medicina… ti prego, apri gli occhi, ti prego…”.
 
Respirava a fatica, il cuore batteva fiaccamente e le labbra avevano assunto un colorito violaceo.
 
Iniziai a sudare, un nervoso improvviso mi fece tremare le gambe, salendo fino alle mani. Provai a rianimarla, ma i miei sforzi furono inutili. Precipitandomi nel corridoio alzai la cornetta del telefono e chiamai il pronto soccorso. Rispose un’operatrice dalla voce squillante e metallica, dicendomi: “Si calmi, mi dica dove abita e cosa le è successo”.
 
Non riuscivo a frenare la mia agitazione, sapevo che era troppo tardi e che stavo compiendo una corsa contro il tempo, già persa in principio. Balbettando le lasciai l’indirizzo dell’abitazione, riattaccai il telefono e tornai nella camera. Inginocchiandomi accanto al suo letto e stringendole le mani, pregai come quando ero bambino, come una povera anima in pena, che dopo tanti anni ritorna alle sue origini cristiane, abbandonate dall’indifferenza dell’età adulta. Come un fiume in piena le lacrime non riuscivano a smettere di inondare le palpebre e scivolando fino alle labbra con il loro sapore salato spegnevano l’amaro che avevo in bocca. Il silenzio glaciale che avvolgeva la stanza era rotto dal ticchettio costante della sveglia, la sola a ricordarmi che il tempo non si era fermato. Davanti all’impossibilità di agire mi sentivo debole, bloccato in un limbo, tra realtà ed irrealtà.
 
La vita continuava la sua corsa impassibile, intanto in lontananza sentivo la sirena dei soccorsi che stavano arrivando. Sarei rimasto immobile al suo fianco se non fosse stato per loro; forse mi sarei lasciato morire, avrei condiviso anche quel momento della sua esistenza. Fino all’ultimo sperai che potesse farcela, ma quando il medico le coprì il viso con il lenzuolo e si fece il segno della croce capii che non l’avrei mai più rivista.
 
Uscendo di casa andai in giardino e sedendomi ai piedi della grande quercia appoggiai la testa al tronco e respirando profondamente chiusi le palpebre, addormentandomi in quella pace naturale. Al risveglio ebbi l’impressione che fosse passata un’eternità, nel cielo plumbeo uno spiraglio di sole risplendeva lontano e un arcobaleno dai tanti colori vivaci nasceva trafiggendo il mantello di nuvole. Osservandolo mi tornarono in mente tante cose della nonna, per ogni colore un ricordo, un’emozione preziosa. Il rosso porpora del roseto che amava curare con tanta passione, l’arancione del suo grembiule da cucina, il giallo del buonissimo biscotto fatto la domenica per colazione, il verde smeraldo dell’anello regalatole dal nonno per i cinquant’anni di matrimonio, il celeste della sua vestaglia da notte vellutata, il viola del fermaglio tra i suoi capelli, il blu del maglione che ricamò a mano per il mio compleanno, l’azzurro intenso dei suoi occhi ed il rosa delicato e morbido della sua carnagione.
 
Non so perché, ma da quel giorno, ogni volta che mi capita di osservare l’arcobaleno ripenso a lei e alla sua infinita bontà di nonna. Credo che tutte le nonne ne abbiano una particolare, rara e unica. Come delle madri ci crescono, ci sono vicine, fanno sacrifici per noi, donandoci tanto affetto; poi quando muoiono, dopo tutto l’amore donato, si accontentano di un semplice fiore, lasciato sulla loro tomba.
 
La vita è proprio strana, non c’è mai la giusta proporzione tra il dare e il ricevere, anche se, in cuor mio, sento di averle dato tutto me stesso, per aiutarla e per vederla ancora una volta sorridere.
 
Oggi, dopo un anno dalla sua morte, i miei sentimenti sono rimasti immutati. Delle volte la nostalgia viene a trovarmi, ma è sufficiente che ripensi ai momenti belli trascorsi insieme, che tutto svanisce.
 
Una persona cara che si spegne è come una stella cadente che smette di brillare in cielo, il desiderio più grande è che possa esserti vicina in ogni momento mantenendo quel rapporto d’amore che va oltre la vita.
 
                                                                                                                (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
 
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Democrazia

SENSO DI INSICUREZZA E CLIMA ICONOCLASTA

Cosa succede alla nostra democrazia senza più partiti fortemente strutturati, che affrontino con una visione alta e nazionale i problemi del paese, e costituiscano un riferimento affidabile e stabile per i cittadini? Dal 2017, quando Giuseppe Bianchi scriveva questa riflessione, il problema non soltanto non ha avuto risposta ma sembra essersi acuito. Insomma, siamo in attesa più che mai di democrazia diffusa e partiti strutturati.

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C’è in giro una furia iconoclasta che non risparmia alcuna istituzione e chi la rappresenta. Un processo avvolgente che si è espanso a macchia d’olio. Ha progressivamente coinvolto le istituzioni della democrazia rappresentativa, la classe politica, i partiti, i sindacati, le istituzioni indipendenti di garanzia (per tutte la Banca d’Italia) l’alta burocrazia statale, per arrivare alle istituzioni locali che gestiscono i servizi di prossimità qualI scuole, trasporto, sanità. Riflesso di un disagio e di un senso di insicurezza che si esprime anche con lo sciopero elettorale da parte di molti che presumono di poter vivere meglio in una società senza politica, “impolitica”.
Presunzione errata perché da quando si sono costituite le società organizzate, il bisogno degli uomini di tessere relazioni sociali, di darsi libere regole di convivenza, ha portato alla nascita della politica e delle sue istituzioni quale condizione per risolvere problemi non risolvibili a livello individuale. E ciò non è meno vero oggi a fronte della constatazione che l’individualizzazione del conflitto, la guerra privata di tutti contro tutto, accresce la frustrazione dei cittadini ma non porta soluzioni.  Rimane la distinzione tra la buona e la cattiva politica, fra le istituzioni che funzionano e quelle che non funzionano.
Senza troppo assottigliare, i regimi politici sperimentati possono essere distinti fra regimi politici democratici e regimi politici autoritari e va anche detto che i regimi democratici sono stati nella storia un intervallo tra regimi autoritari, spesso camuffati sotto forme diverse, come oggi avviene con la democrazia del web.
Il problema è che la democrazia, nella sua forma pluralista, è difficile da gestire in società complesse ed articolate negli interessi espressi, con l’effetto di rendere tortuosi e lenti i processi decisionali della politica.
Da un lato ci sono sfide, quali la globalizzazione, la velocità delle nuove tecnologie, che aggravano i problemi sociali quali la disoccupazione, le ineguaglianze, dall’altro trovano limiti le tradizionali politiche socialdemocratiche basate su investimenti pubblici e welfare generosi. Questo perché il nostro Paese è entrato a far parte di una società politica più ampia, la UE (e non poteva essere diversamente) che ha offerto nuove opportunità, ma imposto nuovi vincoli.
In sintesi c’è un nodo di problemi irrisolti che pone la nostra democrazia in un bivio: o rilancia su sé stessa, ricostruendo ed allargando le sue istituzioni rappresentative, o si apre a nuove soluzioni autoritarie, largamente presenti nel mondo di oggi.
Ricostruire le istituzioni democratiche significa dire che le tradizionali istituzioni politiche rappresentative devono essere rafforzate con la diffusione di micro democrazie dal basso che allarghino la partecipazione dei cittadini nei luoghi di lavoro e nella gestione dei servizi di prossimità (scuole, trasporti, sanità) il cui funzionamento, più o meno efficiente, determina la qualità della loro vita. Si dice che il cittadino non è interessato: ma quale offerta di partecipazione gli è stata data? Non è forse vero che negli USA la democrazia sostiene la sua vitalità nell’amministrazione delle comunità locali?
Ricostruire le istituzioni democratiche significa anche far recuperare alla politica un sano realismo. Il gioco delle promesse elettorali al rialzo, se ripetuto nel tempo, sfiducia la partecipazione del cittadino ad un gioco palesemente truccato. Stiamo vivendo una stagione elettorale i cui esiti incerti alimentano preoccupazioni nel nostro Paese ed in Europa. C’è un dato nuovo. Il riallineamento di gran parte dei giornali e dei media su posizioni quasi massimalistiche. Un Corriere della Sera (11 novembre 2017) che parla di “crisi di regime”, di “vuoto di legittimazione che sta inghiottendo il sistema democratico”... Un messaggio ambiguo che può sollecitare il lettore all’impegno politico o al disimpegno a fronte di una situazione compromessa. Questa ambiguità non può essere condivisa dalle forze politiche, economiche e sociali, che hanno concorso alla costruzione dell’attuale sistema democratico. O diventano parte attiva nella sua necessaria ricostruzione, rafforzandone le fondamenta, o, quando si sveglieranno, troveranno una società politica in cui, per alcune di esse, non ci sarà più posto, o un posto di passiva rappresentanza.
                                                                                              
                                                                                                                                     (Giuseppe Bianchi)
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Società

NUOVA CLASSE DIRIGENTE PER UN MODELLO DI SOCIETA' PIU' UMANO: COME CAMBIARE LA FORMAZIUONE

E’ addirittura nel 2015 che Gianni Liazza scrive questa riflessione, facendo il punto sui pericoli del progressivo e preoccupante declino delle politiche formative nel nostro paese. Cinque anni dopo la riflessione di Liazza è uscito anche il mio libro di analisi e proposta (“Il sentiero stretto: formazione è un'altra cosa”), ma è da alcuni decenni che condividiamo, con lui e con tanti altri operatori sociali e studiosi dell’educazione, la medesima preoccupazione e i medesimi orientamenti di proposta. Dell’ampio scritto di Liazza pubblichiamo un significativo estratto che ne sintetizza spirito e contenuto.

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L’unico modo di uscire dalla crisi consiste nel cambiare il modo di fare formazione. Da troppi anni abbiamo inglobato acriticamente modelli anglosassoni, poco consoni alla nostra cultura e soprattutto alla nostra realtà imprenditoriale, fatta per lo più da piccole e medie imprese a carattere familiare. Ma lo stesso si può dire per le istituzioni e gli enti pubblici.  Dagli anni ‘80 ad oggi la formazione si è concentrata sull’acquisizione di tecniche e questo ha alienato le persone. Se facciamo dei bilanci, gli effetti sono nulli, se non addirittura devastanti. Le tecniche per fare cosa? Qualcuno ha mai insegnato ad un imprenditore o ad un manager ad essere più che a fare? Se non si torna alle origini e non si parte dalla ricerca autentica e creativa di sé, di ciò che vogliamo realizzare, apprendere una tecnica è solo tempo perso (e anche perdita di soldi…).
Occorre formare una generazione di nuovi imprenditori e manager saggi, solidali ed etici. Occorre ritornare all’essenziale: più alla sostanza e meno alla forma. Tutto questo per educare le persone alla libertà di essere se stesse e di amare sé, gli altri e l’ambiente che le circonda, quale premessa necessaria per innescare un cambiamento radicale del modello economico attuale, rendendolo più umano, liberandolo dalla subordinazione al profitto e magari riuscendo addirittura a renderlo socialmente responsabile e metterlo al servizio della comunità.
La strada è impervia, perché oggi la politica è arrivata a servire l’economia nella stessa maniera in cui i grandi paesi, gli industriali e le istituzioni commerciali o finanziarie si sono infiltrate o hanno subordinato i parlamenti e i governi. Non solo, le regole del gioco della nostra economia politica implicano ormai una subordinazione di ogni cosa a considerazioni meramente finanziarie, subordinazione che disumanizza e finisce per causare notevoli sofferenze. Il potere economico infine, attraverso le imprese a cui appartengono la maggioranza delle emittenti, ha reclutato i mezzi di comunicazione al servizio di una politica che serve all’economia e ai politici della nazione; eppure c’è uno spiraglio di luce: la speranza di un’iniziativa che parta dalle persone che ricoprono un ruolo di responsabilità e punti a sovvenzionare una riforma educativa di massa. Lo stesso vale per i sindacati, che dovrebbero rappresentare le vere istanze della gente ma oggi sembrano aver perso un contatto reale con la base.
Serve formare una nuova classe dirigente imprenditoriale, manageriale e politica.
Serve una riforma dell’educazione, i cui punti cardine devono essere il superamento dell’impronta patriarcale, delle azioni repressive volte a indurre l’essere umano a temprarsi per diventare una “macchina da guerra” in difesa o in offesa e dell’indottrinamento al conformismo nei confronti dell’ordine stabilito. Tutto questo perché se aspiriamo ad umanizzare le imprese, gli enti pubblici, la politica, le scuole, le istituzioni in genere, nulla sarà più rilevante quanto il progresso personale di coloro che le formano.
La crisi della civiltà, di cui oggi si parla, è, all’origine, una crisi della coscienza, che non può essere superata solo con il cambiamento politico ma richiede una trasformazione più profonda, interiore. Una nuova educazione che miri ad una formazione completa, che non si limiti ad un sapere nozionistico, ma fornisca competenze esistenziali in grado di migliorare il contatto e l’armonia con se stessi e gli altri, di sviluppare la creatività e l’intuizione, può essere il seme di luce, la spinta che favorisce il mutamento profondo di cui abbiamo bisogno. La coscienza che ha creato i problemi del mondo attuale non può essere la stessa che li risolve.
Il rapporto individuo–società, come recita uno dei principali assiomi della comunicazione, è circolare. L’individuo non può essere compreso fuori dal suo ambiente ma, a sua volta, il suo modo di percepire se stesso e la società contribuisce a creare, o meglio a dare forma al contesto che è in continuo movimento. La società è quindi un insieme dotato di senso ed è un organismo vivente che per sua natura si trasforma. Come la vita dell’individuo è segnata da situazioni di crisi, momenti traumatici e passaggi fondamentali, così avviene per la società nelle fasi di transizione da un’epoca ad un’altra. Nel nostro momento storico sembra esserci un’intensificazione di tale mutamento come se ci trovassimo a vivere tra due mondi: il mondo conosciuto che stiamo lasciando e quello sconosciuto verso cui tendere. Un cambiamento importante, o forse più una metamorfosi evolutiva, di rinascita, che segna il ritmo dell’ordito storico. Una fase di espansione della coscienza, di creazione, è seguita da una di contrazione, di ritiro, come nel battere e levare, nella inspirazione ed espirazione o nelle pulsazioni del cuore. In questo eterno ritmo vitale di ritiro ed espansione, nessuno è mai rinato prima di morire, prima di aver attraversato il vuoto (che i gestaltisti chiamano non a caso “vuoto fertile”) o, in senso ancora più profondo, quella che S. Giovanni della Croce chiama “la notte oscura dell’anima”. Riuscire a lasciar andare ciò che è diventato obsoleto e poter percepire, scoprire ciò di cui abbiamo realmente bisogno, sono le questioni di base da cui partire. Molti sono gli elementi obsoleti o che vorremmo di primo acchito lasciare indietro. Per esempio una politica delegittimata in cui personaggi scarsamente consapevoli non riescono a distinguere tra le proprie ambizioni personali o altre forme di nevrosi e la volontà di servire il bene pubblico.
Rappresentanti eletti così lontani che difficilmente possono rappresentare qualcuno, fosse anche sè medesimi. Anche l’idea di Nazione è ormai obsoleta da tempo. Il primo nazionalismo è parso positivo come modalità di unificazione dei popoli: tuttavia, la nazione di per sé è un noi che si distingue rispetto ad un essi. Una forma di amore di parte venuto meno con la presa di potere del mercato globale. E così è stato anche per l’idea di progresso legato ad una forma economica centrata sullo sfruttamento del pianeta. Ci si è resi conto, nella postmodernità, proprio con la questione ecologica, che non tutto ciò che possiamo fare è bene farlo, in quanto il rischio è di distruggere noi stessi.
 
La fine dell’idea di progresso ha generato un ulteriore vuoto di senso, molto profondo, ed un contemporaneo bisogno di trovarne uno nuovo. Tuttavia, per trovare l’origine del disagio e della crisi attuale è necessario andare più in profondità. Se si considera la società attuale come specchio di una situazione interna all’individuo, si scopre come da tempo sussista una condizione di dominio in cui una parte (l’ego) prevale sul tutto (il Sé). Viviamo in una dittatura interiore che si è accentuata in modo estremo nella modernità anche se al contempo si iniziano a cogliere i segni della sua messa in discussione. Sono piccoli segni che illuminano il buio, voci ancora troppo sottili che hanno a che vedere con la questione ecologica, il bisogno emergente di autenticità dell’individuo, la richiesta di risposte di senso, e di sacro, il ritorno ad apprezzare i valori del femminile come la solidarietà, l’accoglienza, il senso di comunità. Nonostante questi timidi segnali di speranza che caratterizzano il post moderno, attualmente siamo ancora come chi, pur possedendo una casa con molte stanze, ne abita solo una perdendo gran parte delle reali potenzialità della casa.
(…).
 La nostra società è sorta dal potere violento e dalla minaccia che oggi è incarnata dal denaro e dal potere commerciale. Si può ammazzare con decisioni economiche che hanno come conseguenza la morte di migliaia di persone. Morti che ormai sono solo dei numeri rilevati dalle statistiche. Si contano le vittime senza conoscerne il volto, senza la possibilità di riconoscere nell’altro il sestesso sofferente (Levinas). Abbiamo da secoli guardato il mondo e contemplato noi stessi dal punto di vista del razionalismo che dà attenzione ai dettagli, che misura, che segmenta, ma non permette di cogliere l’insieme, il contesto, il fenomeno che può essere rappresentato, percepito ma non capito intellettualmente. L’infinito non può essere pensato e chiuso in una scatola. Non essere capaci di cogliere “la forma” equivale a non essere capaci di comprendere ovvero di entrare in empatia, di sentire noi stessi, gli altri, il mondo di cui siamo parte. Senza empatia, che è una “distanza abitata” ovvero un movimento tra contatto ed osservazione, vicinanza e lontananza, non c’è conoscenza né valori e una vita senza valori diventa priva di senso. L’intelligenza intuitiva che comprende l’insieme, considera la coscienza individuale come matrice della realtà, dell’universo intero, per quella razionale la coscienza è come una secrezione del cervello che non serve.
 
Così la nostra società tende a porre un’enfasi su ciò che serve, soprattutto alla produzione e al consumo. Enfatizziamo ciò che è utile al mercato tralasciando ciò che ha valore e che è legato alla relazione, all’amore, all’essenza della persona umana. La nostra civiltà è quella dell’homo sapiens che idealizza la sua saggezza, anche se non ha tanta saggezza per capire che non è saggio. Idealizza tanto la saggezza che poi diventa, come dice Edgard Morin, homo demens, un incosciente attivo o un idiota che sa tutto e fa danni.
 
Cosa dobbiamo far entrare nelle nostre vite? E’ la domanda da cui deve partire una sana e responsabile formazione della classe politica oggi. Per riscoprire ciò che abbiamo smarrito e riempire questo vuoto siamo pronti a tutto, ma non sapendo bene dove cercarlo ci comportiamo come l’uomo descritto in uno dei più famosi racconti di Mullah Nasrudin: ”Una sera un amico lo vede mentre, carponi, cerca qualcosa sotto un lampione. “Cosa stai cercando?”, gli chiede. “La chiave di casa”. Così l’amico si china ad aiutarlo. Dopo diversi minuti di ricerca infruttuosa, gli domanda: “Nasrudin, sei sicuro di averla persa qui?” “No, l’ho persa dentro casa”. “Ma allora perché la stiamo cercando qui?” “Perché qui c’è più luce”. Cerchiamo nel luogo sbagliato perché in fondo non sappiamo bene cosa cercare e di cosa ci sentiamo vuoti.
 
L’essere di per sé è relazione, l’anima è ciò che genera relazione tra le parti sia a livello fisico che psichico e lo stesso vale per la società in quanto organismo vivente. A sua volta nessuno potrebbe vivere in virtù di se stesso ma solo all’interno di un contesto naturale ed in relazione con altri. Quindi, come dovrebbe cambiare la formazione? Una prospettiva educativa dovrebbe centrarsi maggiormente su abilità relazionali e personali dell’essere. Molte nozioni di per sé diventano presto obsolete, ma una persona completa, formata, sa essere resiliente rispetto ai cambiamenti della vita che oggi più che mai le vengono richiesti anche dal mondo del lavoro e da una società sempre più liquida e interculturale. Guardare alla persona, all’essere, in senso olistico. Significa educare alla conoscenza esperienziale della propria mente, fornire competenze relazionali e sociali, promuovere la libertà, la spontaneità e favorire la crescita spirituale e di senso coltivando i valori e l’etica (amore per ciò che è più grande di noi e di cui siamo parte, come afferma Viktor Frankl). In sostanza, si deve promuovere una formazione che permetta alla persona di diventare ciò che è seguendo l’imperativo “conosci te stesso”.
                                                                                                         
                                                                                                                           (Giambattista Liazza)
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Sindacalismo

VARIABILE INDIPENDENTE E' IL SINDACATO. MA I SINDACALISTI?

E’ del 2015, il pezzo qui pubblicato, che viene riprodotto per consentire a mestesso ed ai lettori il punto della situazione in materia di sindacato e in particolare di sindacalismo Cisl, a cinque anni da quando fu scritto. Devo subito dire che… avevo riposto male la mia speranza viva in un inizio di ripresa del pensiero alto e forte di quel sindacalismo. Annamaria Furlan ed i suoi amici non ce l’hanno fatta. Finora, almeno. Non nego certo la loro buona volontà e le loro buone intenzioni, ma mi paiono di nuovo piuttosto persi nella palude tatticistico-esistenziale di tutta la nostra società. Una speranza che viene delusa e ancora una volta rinviata. Speriamo che riprenda concretezza presto.
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Una felice sorpresa
 
Appena ho cominciato a leggerlo mi ha lasciato di stucco e felice, e per qualche momento anche incredulo, questo documento della Cisl intitolato Verso la Conferenza Programmatica Organizzativa, predisposto dalla grande confederazione sindacale di via Po per il suo più importante appuntamento interno dell’imminente autunno, e forse dell’intero anno.
 
In effetti, di primo acchito pare quasi incredibile: la Cisl, dopo oltre quarant’anni di storia, sta riuscendo a guardarsi davvero, almeno in sintesi e implicitamente, allo specchio profondo del suo passato, ed a farlo con parole e pensieri di una nitidezza non più vista da molto; sta riuscendo, in particolare, a guardarsi allo specchio implicito di quelle che furono la sua ragione originaria di nascita, la sua peculiare natura, la sua primigenia visione del lavoro e dei lavoratori; e, di conseguenza, sta riuscendo a riconoscersi nella missione ideale che ne motivò la fondazione, e che oggi sembra tornare a illuminarne anche il futuro possibile.
 
Quello che mi è stato fatto leggere è infatti un documento articolatissimo, di oltre quaranta pagine, dedicate ad analisi nella prima parte, e a programmi nella seconda: una carta di riflessione in cui – attraverso i contenuti di analisi organicamente affermati nelle pagine iniziali – la confederazione di via Po salta culturalmente a piè pari, appunto, oltre quarant’anni della sua storia più vicina: storia difficile da guardare in faccia, in quanto è stata in gran parte smarrita, in altra parte incoerente, quasi sempre superficiale, quasi mai all’altezza dei problemi; e riafferma piena consapevolezza e volontà di ritorno a quella sua originaria natura e missione, tuttora modernissime, con quei valori fondativi di riferimento che furono unici nella vicenda del sindacalismo italiano, e che nell’immediato dopoguerra lo cambiarono radicalmente, rendendolo non solo avanzato ma decisamente avveniristico.
 
E’ un evento importante da tenere sotto osservazione, dunque, questo documento, che rinforza decisamente piccoli e isolati segnali minori che nei tempi recenti lo hanno in qualche misura fatto presagire come possibile; è importante perché importante è la Cisl nel contesto del sindacalismo italiano, importante è il sindacalismo italiano nel contesto del mondo del lavoro e dell’economia italiana, e ben significativa è l’esperienza italiana nella prospettiva del lavoro e dell’economia mondiale.
 
L’inattesa carta cita giustamente, fin dall’inizio, il ventunesimo secolo e le sue tipiche tensioni e complessità, quali punto di riferimento doveroso per la riflessione sul ruolo che attende il sindacalismo italiano negli anni che sono davanti a noi, e lo fa non solo liberandosi da ingombranti pastoie passatiste inutili, ma adottando di nuovo il tipico e storico “metodo Cisl”: guardando cioè in faccia i lavoratori e il mondo del lavoro nella loro oggettività strutturale e nella loro persistenza etica, senza bende ideologiche, senza luoghi comuni, senza collateralismi partitici, senza contingentismi, senza sociologismi alla “università-di-Trento-anni-Sessanta” rivisitata: al contrario, con identità di nuovo inequivocabile e di nuovo fondata su una idea piana, chiara e duratura di uomo e di mondo del lavoro, concepiti come stabile comunità di persone a vocazione semplicemente integrale, liberi, democratici, pluralisti. Ed è davvero, questa, nella storia sindacale recente del nostro paese, una novità quasi incredibile, e una ripresa incoraggiante di maturità e ampiezza di riflessione.
 
Non che tutto quanto ha detto e fatto la Cisl negli ultimi quarant’anni sia robaccia da buttare via: qua e là sono balenati anche, come nel resto del sindacalismo italiano, atteggiamenti lucidi e adeguati, e scelte degne della grandezza delle origini; ma si è trattato proprio di singoli episodi stagionali, quasi lampi in un cielo generalmente bigio; e quasi “casuali”; comunque sempre contingenti e disarticolati a livello di sistema.
 
Nella realtà strutturale delle cose, dopo la incredibile distorsione, distruttiva e autodistruttiva, sviluppata a partire dal disgraziato 1969, la Cisl, come il resto del sindacalismo italiano, non ha avuto più né profondità, né continuità, né organicità, né coerenza; a partire da allora, cioè da un congresso confederale che fu ideologicamente ebbro, e forsennatamente giocato sul filo di due voti, o forse di tre, incerti fino alla fine e negoziati nottetempo fra i congressisti (c’è sempre una storia parallela che viene ignorata dagli atti ufficiali) la confederazione travolse, in una truce macumba mentale, quasi tutto quello che di originale e di grande aveva rappresentato fino allora, e, cambiando repentinamente sestessa e il sogno di Pastore, di Romani, di Saba, impose al sindacalismo italiano ed al paese, oltre che ai suoi lavoratori, tante bestialità da diventare parte direttamente corresponsabile della generale irresponsabilità e bassura che ha caratterizzato diffusamente la classe dirigente italiana nel citato quarantennio.
 
Bestialità concepite e diffuse prevalentemente in buona fede, è vero, sotto la guida di Storti, Carniti, e innumeri compagni e successori di ogni livello e regione: ma che sono state pur sempre del tutto cancerogene per l’economia e per il lavoro in Italia; dal salario variabile indipendente al potere contro potere, autentiche assurdità senza tempo contro cui né buon senso né senso di responsabilità hanno potuto nulla, per tanti anni.
 
Dopo una storia inadeguata
 
Nel momento in cui un così enorme stravolgimento, come risultato congressuale, si rivelò in tutta la sua distruttiva portata davanti agli occhi attoniti del paese e dei lavoratori che avevano conosciuto la Cisl delle origini, il grande Mario Romani, padre culturale della Confederazione come Pastore ne era stato il padre politico, informato di tale esito mormorò con malinconia: Questa non è più la Cisl.
 
E in effetti, da allora la grande Cisl delle origini, con la sua fresca e ineguagliabile novità di messaggio sociale e lavorista, e con la sua integralità di cammino, cessò quasi di esistere, se non in singoli isolati momenti e uomini. La testimonianza della espressione lucida e amareggiata di Mario Romani è, moralmente e storiograficamente, la più autorevole possibile: è quella di Vincenzo Saba, che con Romani, Pastore, e gli altri liders, aveva vissuto momento per momento tutta la esperienza confederale fino allora, e non aveva mai mancato di continuare a dialogare con tutti i suoi protagonisti, anche quelli che andavano perdendosi nella notte folle di un sessantottismo privo di luce e di guida; e non mancò mai, neanche successivamente, di riconoscere in tanti sindacalisti di allora il nocciolo di una buona fede, anche se  sbalorditivamente smarritasi in tanto ubriacante sballo e superficialismo ideologico che percorreva quasi tutto l’Occidente. Certo in buona fede erano i Luigi Macario, il giovane Morelli, lo stesso Carniti e moltissimi altri: ma il precipizio era diventato oggettivo e comune.
 
Da allora, in concreto, e guardando alla storia del paese nella sua complessività, la Confederazione si è trascinata a scatti, stizzosamente e bizzosamente, nelle vicende lavoriste italiane, guidata da tutti i vizi e da tutte le scipitaggini comuni al resto della società e della classe dirigente del paese lungo gli stessi decenni: a partire, per fare un solo esempio ma ben presente ai quadri ed ai lavoratori, dalla bislacca, devastante pretesa interna di imporre dall’alto a tutti gli iscritti, senza sostanziale democrazia, la forma associativa delle “federazioni accorpate per settori” secondo astruse concezioni elucubrate a tavolino per ragioni tattiche (caso tipico, quella che puntava a unificare i lavoratori elettrici, nientedimeno, con i lavoratori… delle ceramiche, della chimica e di altri comparti ancora più lontani da qualsiasi comunanza storica e merceologica con il mondo elettrico, “per mettere gli elettrici in condizioni di non nuocere nella dialettica interna”, come bofonchiò, senza giri di parole, un uomo vicinissimo all’allora lider Pierre Carniti).
 
Un tentativo di basso e volgare dirigismo anticislino che ha portato inevitabilmente frutti sostanzialmente fallimentari ed è stato in effetti, successivamente, in significativa parte rivisto e variamente ricorretto. Ma intanto ha seminato frutti profondamente diseducativi sul piano della cultura interna.
 
La bislacca pretesa interna era derivata da una mentalità ormai senza grande orizzonte neanche morale,  e trovava perciò bilancio speculare in altrettali vuotaggini esterne a crescente frequenza, a cominciare da quella dei permanenti o semipermanenti “tavoli delle trattative” o della “concertazione”, formali o non formali che fossero, tanto mediaticamente autocelebrativi quanto sostanzialmente improduttivi, culminanti in qualche caramellina salariale e in un crescente accumularsi di curriculum di amici e familiari sui tavoli delle dirigenze aziendali, al prezzo di vistosi arretramenti di ruolo sostanziale del mondo del  lavoro, e del totale fallimento di quello che era stato il sogno della Cisl delle origini: la partecipazione dei lavoratori nell’impresa, cioè l’impresa come comunità partecipativa, e il diritto al lavoro come diritto non programmatico ma precettivo.
 
A questo furfanteggio interno avviato con il 1969, e sviluppato fino circa alla metà degli anni 1980, cominciò a far seguito, gradualmente, una lenta, impacciata, confusa, claudicante, e mai concludente, presa d’atto del fallimento inesorabile di tali drammatiche scemenze; una presa d’atto avvenuta con scatti improvvisi di resipiscente dubbio e lucidità, qua e là, di buona volontà, e anche di orgoglio saltuariamente ritrovato sulla missione originaria: ma senza più qualità né anima profonda ed organica; infatti nel frattempo la Cisl aveva anche, semplicemente, smesso di studiare e di fare formazione (come del resto accadeva contemporaneamente a tutte le grandi organizzazioni politiche, sociali, ed anche imprenditoriali, e persino religiose, nel paese, salve le eccezioni personali). Contava ormai la sociologia di Trento e poche altre cianfrusaglie senza senso ma di grande sciccheria salottiera: un mondo di culturismo e non più di cultura. Un mondo di lauree e di masters, non più di studio. Con conseguenti effetti sul paese.
 
Parliamo di studiare e formarsi davvero, proprio nel senso impegnativo, serio, onesto, e doverosamente terragno di incollare strutturalmente le natiche ad altrettante sedie e studiare senza soluzione di continuità su libri e relativi approfondimenti, e verifiche sul campo, ed esercitazioni, e confronto di esperienze, e affiancamento agli anziani migliori: e fare tutto ciò a tempo indeterminato, in vera “formazione permanente”, fino a che si è sulla scena delle responsabilità sindacali. Perché è così che si connota il vero “sindacalista che funziona”. Ed è così che, in effetti, operarono i padri.
 
La Confederazione ha mandato invece i suoi quadri sempre più, con atteggiamento soddisfatto e beota, a laurearsi in quei postriboli della cultura che sono le università più o meno rinomate, e spesso rinomatissime, nazionali ed estere, possibilmente arricchite di quei master anglofonizzanti pieni delle tronfie baggianate che hanno rovinato, lungo il corso degli stessi anni, l’economia e la società italiana e mondiale, sfociando infine i loro risultati ultimi nella infame crisi del 2007. Fatte sempre le dignitose eccezioni personali, ancora una volta.
 
Sorgeranno indignati, a questo punto, sindacalisti grandi e piccoli della confederazione, orizzontali e verticali, e tanti loro veri e falsi amici, diversamente interessati, a respingere offesi queste osservazioni ricavate dalla semplice, palese e sofferta vita di ogni giorno: dai, Giuseppe, non esagerare…
 
Ma, cari amici veri della Cisl, andate a osservare, con doverosa serenità e umiltà, anche i concreti tenori di vita, le garantite sicurezze di carriera, i tranquillizzanti distacchi aziendali, le serene famiglie sistemate, le studiate frequentazioni televisive, il personale restar fuori da ogni crisi, i pasticci giudiziari di enti di emanazione sindacale per fatti di banale corruzione, il girare attorno alle frasi consunte dei fallimentari economisti di grido, nel tentativo di accreditarsi operando dei distinguo senza mai affrontare la sfida realmente costosa e strutturale e vera dei lavoratori…
 
E andate a fare il paragone con i tenori di vita dei loro padri sindacali, con i loro rischi, con le loro amarezze, con la loro condivisione, passo passo, di vita e rischi e faticosi successi dei lavoratori stessi, con la concretezza tangibile e poco accademica delle loro acquisizioni contrattuali e culturali, con i rientri a casa sotto minaccia, con i pasti condivisi fra gli operai a mensa aziendale… come fu per i Pasquino Porcu e Dante Bizzaro e mille altri, che, “orizzontali” o “verticali”, segretari generali o attivisti di sas che fossero, sempre lavoratori ed esempi di vita per i lavoratori sentivano di essere, non commentatori televisivi in attesa di successo.
 
Perché, cari amici, alla fine di tutti i conti, è pur sempre la vita personale ed esistenziale e quotidiana di ciascuno, che conta e testimonia davvero. Ed è su di essa, innanzitutto e soprattutto, che davvero possono formarsi le nuove generazioni.
 
Non è, insomma, l’insieme di tante lente trasformazioni del piccolo quotidiano costume sindacale, qui segnalato, un pretesto per rilevare il rischio di un pizzico di “moralismo” in noi che ce ne addoloriamo: è invece la considerazione che, nella storia plurimillenaria degli uomini, a tutte le latitudini, i cambiamenti interni delle società avvengono tendenzialmente proprio così: un po’ come accadde per la lenta e quasi inconcepibile consunzione dell’impero romano, a suo tempo… E del resto ciò vale anche per le conquiste positive.
 
 
La grande ripresa possibile
 
Infine, pur fra tanta confusione e ambiguità amareggiante, negli anni recenti la Cisl è venuta cominciando gradualmente, come si accennava, anche a mettersi su una sua via di Damasco: e ne sia data ampia e gioiosa lode alla onestà e buona volontà di diversi suoi uomini e donne, che non hanno mai cessato di vivere con una coscienza sanamente inquieta fra tante incongruenze, e di continuare a “cercare di nuovo la via”, anche alla luce di quegli antichi maestri più grandi.
 
Tanto che oggi accade, appunto, il piccolo miracolo che può essere prodromo del miracolo grande: questo documento della Cisl, che, a chi sappia guardare lungo, sintetizza bene, forse addirittura senza rendersene conto esso stesso in tutti i particolari, il travaglio ed il senso di fondo del cammino complessivo, e può essere visto veramente come la aperta, lucida, complessiva, finalmente non ambigua confessione di una Confederazione che riconosce di dover ritrovare sestessa in pienezza, e di volerlo fare senza indugi, pronta a riagganciare la potente scia che fu delle origini: il cammino di un grande soggetto nazionale collettivo dedicato totalmente alla promozione solidale della persona che lavora, ma con il metodo associativo e democratico e con l’obiettivo ideale di una impresa partecipativa e di una società fondata su equità corresponsabile. Un esempio di nuovo umanesimo, per essere completamente fedeli alla speranza e alla testimonianza dichiarata dei padri.
 
Nessuna segreteria confederale, in questo più che quarantennio, aveva mai saputo fare un passo tanto  coraggioso e così implicitamente organico, a parte la cauta e tattica annunciazione permanente datane, con circospetti e misurati passetti e passettini in tal senso, da Franco Marini, che in realtà aveva capito benissimo fin dall’inizio la sostanza della situazione storica, e la testimonianza sincera ma quasi isolata di Savino Pezzotta, un vero sindacalista cislino: quella annunciata dalla prima parte del documento firmato ora da Annamaria Furlan per l’assemblea organizzativa 2015 è invece, finalmente, di nuovo la prospettiva possibile della Cisl di Pastore, di Romani, di Saba, modernissima e pienamente adeguata alla realtà che il paese e i lavoratori vivono, in questo ventunesimo secolo ormai galoppante ed esigente nuova maturità vera e nuova corresponsabilità non accademica del mondo del lavoro e sindacale.
 
Non so chi abbia contribuito alla stesura del documento, né l’ho chiesto: ma certo si tratta di persone dotate di meditativa consapevolezza, ben indirizzate e sorrette dalla segreteria confederale di Annamaria Furlan (che personalmente non conosco): una lider capace dunque di indirizzare cammini di rinnovamento, o quantomeno di sostenerli, anche se a volte ella stessa appaia ancora indecisa se abbandonare del tutto l’antica e deleteria abitudine acquisita in questi decenni da un sindacalismo confederale gratificato dal suo sedere in permanenza, in palese goduria anche personale, davanti ai gradevoli schermi tv, a dare al governo ed a tutti lezioncine di economia non richieste e non utili, mentre la propria organizzazione svolge inadeguatamente il suo mestiere: ma, tutto sommato ed in sostanza, avendo pur sempre, ormai, chiara la forte visione autocritica necessaria e la volontà di rinnovamento annunciata.
 
Il documento parla dunque, in tutta la sua prima parte, di bellissime cose: e soprattutto traccia una analisi onesta, chiara ed attenta, delle incertezze e contraddizioni anche sindacali e cisline della lungasituazione di guado”, di cui urge affrontare i termini e superare i limiti senza più scarichi di responsabilità, concludendo alla necessità della ripresa franca dell’antico cammino verso l’obiettivo dell’impresa corresponsabile, partecipativa e solidale.
 
Ed è atteggiamento centrale e decisivo, questo, in quanto la piena riassunzione di coscienza è il primo pilastro di ogni ricostruzione; e, nel caso specifico, è il primo elemento di credibilità della riassunzione di missione annunciata dalla Cisl.
 
 
Ma c’e’ anche una seconda parte
 
 
La seconda parte del documento, invece, diventa improvvisamente cosa molto diversa: con la medesima buona volontà espressa nella prima, essa scade subito di qualità nella parte attuativa e torna a perdersi nel meandro disgraziato dei disegnini tecnici elucubrati a tavolino per la desiderata “modernizzazione anche operativa” del sistema confederale, quella che dovrebbe cioè servire al disegno politico ed etico espresso nella prima parte del documento; mentre in realtà lo sterilizza.
 
E’ una mancata “sapienza attuativa” che dice tutto della fatica del cammino coraggiosamente intrapreso: ma va aggiunto che, se la volontà espressa nella prima parte del documento sarà dotata di coerenza e costanza di impegno, vi sono i connotati perché il cammino possa proseguire fortemente anche nella dimensione attuativa.
 
Come si configura, più particolarmente, il limite della seconda parte del documento?
 
Il disegno operativo immaginato sterilizza il respiro politico e organizzativo della prima parte del progetto puntualizzando innanzitutto, con una meticolosità da ragionieri adusi solo alla scrivania e non al dramma dei luoghi di lavoro, il modo e il numero con il quale si comporranno tutte le segreterie territoriali e verticali della Cisl, il modo e il numero con il quale esattamente entreranno negli organismi della Cisl i rappresentanti degli immigrati e dei lavoratori “atipici”, il modo e il numero con il quale verrà assicurata la parità di genere (resiste ancora questa idiota e abusiva decrepitezza di concetto, al posto della limpida “cultura della persona” che era propria della Cisl, e anzi dei costituenti italiani quasi tutti…) negli organismi Cisl, quante volte alla settimana o all’anno si riuniranno gli stessi organismi, come il territorio dovrà essere suddiviso… e insomma tutto quello stagno oleoso e putrefacente di minchiatine tecnicistiche che fanno la goduria dei ragionieri sociali dimentichi totalmente dell’essenziale e dominati da abitudini che sono fissazioni personali, o, peggio, distillato di qualche costoso e sciocco master nordamericano, regolarmente anglofonico e convinto che la ragioneria tecnica di breve periodo salvi il mondo, esattamente come a Bildeberg sono convinti che la speculazione finanziaria salvi l’economia planetaria.
 
Non sono gli “schemini di breve” a far crescere l’organizzazione, bensì la cultura organizzativa! E questa si forma… con la profondissima ripresa della formazione! Dalla quale, e soltanto dalla quale, scaturiranno anche gli schemi efficacemente operativi per un sindacato di nuovo grande in mezzo ai lavoratori, a sostituire gli attuali esercizietti da parole crociate.
 
Tanto semplicismo culturale è ancor meglio mascherato in quanto… vuoi mettere? Si tratta, ancora una volta, di cose sentite, scritte e viste in inglese nei balordi salotti scolastico-manageriali, per i quali è così chic pronunciarle in tv e nei convegni… Solo a poter dire a voce alta davanti a un uditorio parole come skills oppure as-is-to-be oppure empowerment, la commozione porta a volte questi sindacalisti fino alle lacrime, e solo allora si sentono davvero all’altezza della situazione e abbraccerebbero commossi anche le controparti aziendali, inondati da un sentimento di deliquio per tanto work management e return on investments e cento non meno eteree cazzate, apprese all’università o da essa mutuate: gabbati, con i lavoratori,  ma… arrivati e gratificati, infine.  Vivono di questo.
 
Nel caso della Cisl, in fondo, non c’è vera malizia: tanti suoi quadri sono semplicemente cresciuti come adolescenti innocenti e un po’ vanitosi, perciò a tratti inevitabilmente tonterelli, nel vuoto di processi di formazione ormai a tenuissima sostanza: ad essi il trastullo del disegnino dà appagamento pieno, esattamente come per tanti tifosi della Roma è l’immagine di Totti appesa in camera da letto. Sindacalisti che hanno da troppo tempo, appunto, smesso di studiare e di fare formazione. Hanno fatto l’università ma hanno letto troppi libri e poche rughe, come dice un personaggio della cultura italiana  attuale. Si sono troppo preoccupati di laurearsi e poco di studiare. Hanno riempito la loro mente di formule e svuotato la loro anima di ideali. Hanno cessato di parlare in corretto italiano per non essere obbligati a pensare con corretta logica, e hanno imparato a parlare in inglese per sentirsi accettati nei salotti mentalmente borghesi, dove il dio che conta non è il nostro Dio degli uomini ma un dio che odora di denaro, successo  e riconoscimenti sociali.
 
Però, ripetiamo, potranno fare il loro magnifico cammino di recupero, se la riflessione e la volontà della prima parte del documento offerto a loro ed a tutti noi dalla confederazione è sincera e forte, come mi è sembrato.
 
E un problema di chiarezza
 
Senonchè, mentre scrivo queste note e mi ringalluzzisco nel sogno di una Cisl, e dunque di un sindacalismo italiano, che torni a essere una speranza strutturale per i lavoratori e per l’Italia, mi giunge anche, altrettanto improvvisa, la  notizia rattristante di uno scandalo di dirigenti Cisl i quali, in lunghi anni di poco lavoro e di molta carriera (di servizio ai lavoratori, essi dicono; di servizio a se stessi, altri dicono) hanno largamente approfittato, a quanto sembra, del loro ruolo di angeli sociali per cumulare, anche personalmente, redditi di diversi e contestuali incarichi “al servizio della collettività” (essi dicono, ancora una volta): patronato, centri di assistenza fiscale, istituti di formazione professionale, enti di turismo, rappresentanze istituzionali, e simili. Hanno adottato cioè il vecchissimo trucco di tutti i mediocri e di tutti i corrotti di ogni tempo: politici o sindacalisti o dirigenti d’azienda o alti burocrati o “trombati di lusso” e furbi di ogni settore, che siano.
 
Chi mi dà la notizia ha quasi le lacrime agli occhi per uno spettacolo semplice, e in verità agghiacciante: che la stessa confederazione, e gli ambienti sindacali in generale, invece che semplicemente prendere tempestivo, sereno e pubblico atto della relativa denuncia, e renderne essi stessi edotti i propri lavoratori e la pubblica opinione, e assumere i provvedimenti conseguenti del caso (non c’è nulla di che scandalizzarsi: ogni organizzazione è fatta di uomini e ogni uomo può cadere in tentazione: persino il papa ha fatto arrestare e incarcerare un monsignore pedofilo all’interno del Vaticano) si preoccupa, invece, di mettere le mani avanti e rassicurare la opinione pubblica che “si tratta di mosche bianche, il sindacato è pulito…”.
 
Ahi ahi, ancora la vecchia malattia… Ma che ci importa mai che il sindacato sia pulito? Ci mancherebbe che “il sindacato” fosse sporco!?! Sarebbe come dire che la politica è sporca: ma non è affatto sporca, la politica, sporchi sono invece i moltissimi politici corrotti o parassiti; la politica è, al contrario, servizio del prossimo e carità comunitaria, come insegnava Paolo VI. Immaginate oggi Papa Francesco che, con il suo sorriso bonario, si affacciasse al balcone di piazza San Pietro e, invece che provvedere a risolvere i casi concreti accennati, spiegasse ai cristiani del mondo che… “si tratta solo di qualche monsignore sbagliato, la Chiesa è pulita…”. Ci mancherebbe che la Chiesa fosse sporca!?!...
 
Giulio Pastore si trovò ad affrontare qualche caso relativamente simile, nella Cisl, già ai suoi tempi: e… quei sindacalisti si trovarono fuori della Cisl in poche settimane, anche se Pastore sapeva benissimo che, nel caso specifico più noto, un tale provvedimento avrebbe portato la Cisl a giocarsi gran parte della sua presenza nella più grande azienda automobilistica del paese. Se la giocò. Ma la Cisl restò grande e credibile. Oggi, con questi comportamenti diversi, non lo è più.
 
Ci importa in effetti ben altro: e cioè che di fronte a un accadimento, isolato o non isolato che sia, il quale tradisce ideali e norme, e tradisce le promesse fatte solennemente ai lavoratori ed al paese, l’organizzazione custode di ideali, norme e promesse, intervenga con serenità e pubblicamente, faccia giustizia con equità, e riprenda il suo cammino con credibilità: perché tale è il cammino delle organizzazioni guidate da ideali credibili e da responsabili onesti. Il resto, a cominciare dal mettere le mani avanti, è figlio del nascondimento, dell’incoerenza, della menzogna, del profitto usurpatore, della non credibilità, e soprattutto della manipolazione.
 
Ho sentito riecheggiare, in un improvvido sindacalista negatore del problema, la stupida affermazione che… “chi attacca un sindacalista della Cisl attacca la Cisl”. No, fratello mio: chi attacca un sindacalista della Cisl attacca semplicemente quel sindacalista della Cisl, e niente affatto la Cisl: anzi, probabilmente egli sta difendendo la Cisl da un suo cancro interno, che la sta rodendo, sfigurando e uccidendo. Non nasconderti dietro la Cisl per tradire la Cisl, fratello mio della Cisl!
 
E, fratello mio della Cisl (ma, in questo caso, anche della Cgil tutte le volte che è il caso) torna con forza a pensare con un pensiero elevato e compiuto, se non vuoi fare il male di te stesso, del sindacato, dei lavoratori e del paese insieme: non esiste affatto neanche un “diritto a riunirsi”, stupidone dirigente sindacale dei servizi turistici del Colosseo: sarebbe come dire che “esiste un diritto a votare” e ne volessi cavare la conseguenza che puoi  recarti a Montecitorio e decidere che lì voti, impedendo il normale svolgimento delle funzioni di quella istituzione: che è di tutti, non tua; il “diritto a riunirsi”, come il “diritto a votare”, e tutti gli altri diritti, vivono non solo dentro il contesto dei correlativi doveri ma anche dentro il contesto del “bene comune” e di tutti e singoli i “beni comuni” (che sono proprio di tutti, ma davvero di tutti, e niente affatto tuoi, anche se ne hai la custodia!).
 
La quale Cisl, per tornare al documento importantissimo in vista della sua prossima assemblea organizzativa, e in particolare all’analisi e alle prospettive annunciate nella sua prima parte, ha comunque appena cominciato, lo ribadiamo, il suo promettente, e, ci sembra, sincero, cammino di rinnovamento: questo resta, e noi le auguriamo di saperlo sviluppare con forza quotidiana e con lucidità di ideali testimoniati ogni giorno anche a livello dei singoli sindacalisti, senza troppi comunicati stampa, senza troppa ragioneria burocratica, senza troppe mani avanti, e senza troppe excusationes non petitae; altrimenti non giungerebbe alla meta ma continuerebbe a fare del male ai lavoratori ed al paese. E non vale davvero la pena che ciò accada.
 
Nello stesso tempo, nessun altro sindacato, né alcun’altra organizzazione del sociale o della politica, oggi, in Italia, possono ritenersi in diritto di guardare con sufficienza all’impegnativo guado cislino: essi sono esattamente nella stessa situazione sostanziale, anzi, nella maggior parte dei casi, sono un po’ peggio. E’ tempo che anch’essi riassumano le loro responsabilità e i loro ideali, insieme con l’esempio dei padri migliori, che in gran parte alle origini illuminarono anche loro: e si decidano a riprendere la via. E lo decidiamo tutti. Per il bene comune.
 
                                                                                                                                      (Giuseppe Ecca)
 
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Democrazia Comunitaria

SCUOLA: NON DIDATTICA A DISTANZA MA PRESENZA DISTANZIATA

Si susseguono i dpcm, strumento leggero per mentalità e impostazioni non profonde. Non inseguiremo l’ultimo in ordine di tempo, appena emanato, in ogni sua giravolta, a cominciare da quella che stabilisce confini regionali per un virus che cammina su frontiere ben più articolate; ma responsabilmente cercheremo di approfondire via via, con critica costruttiva e propositiva, le tematiche toccate da questo tipo di provvedimenti e dalle politiche normative in generale, meritevoli di attenzione e gestione meno superficiali. Per aiutare una maggiore responsabilizzazione concreta di tutti. Cominciamo con la scuola, e con chiarezza.
La “didattica a distanza” non è una didattica efficace, anzi, come didattica che sostituisce la normale presenza a scuola, è pessima. Questa constatazione è tanto più incontrovertibile quanto più l’età degli studenti è bassa. Nei bambini delle elementari la sua efficacia è quasi nulla e ampiamente aleatoria, nei ragazzi del liceo è scarsa ed in ogni caso, per tutti, è discriminatrice perché legata alla disponibilità di attrezzatture, di logistiche familiari e di capacità tecniche, per le quali non c’è stata alcuna preparazione significativa di lunga ed equa gittata negli anni scorsi.
Se poi, invece che di didattica, parliamo di pedagogia, che è il termine più appropriato per affrontare il tema della scuola, la situazione è ancora peggiore: a distanza non si fa pedagogia, per i ragazzi della scuola: la “pedagogia a distanza” non funziona se non per singole evenienze di brevissima portata e durata (un giorno, o al massimo una settimana).
Nello stesso tempo, sospendere la scuola è la peggiore cosa che si possa fare, subito dopo la pessima fra tutte, che è sospendere il lavoro. Come chiudere la vita, come chiudere il paese.
Allora? Allora il lavoro e la scuola vanno tenuti aperti. Ma come si fa? Oggi ci limitiamo a tornare sul tema della scuola (da anni, e ben prima della presente pandemia, andiamo trattando anche di come si fa a non chiudere il lavoro: e riprenderemo presto l’argomento). Come si fa, dunque, a non chiudere la scuola? I “banchi con le rotelle” sono l’emblema della scipitaggine estrema cui la mente priva di esperienza ma ricca di saccenza, priva di cultura ma ricca di superficialità, giunge ormai fra i politici anche più titolati (ma non solo fra i politici). E’ ovvio che non è affatto questa brillantezza superficiale di idee che consente di affrontare la serissima problematica della scuola (a parte la considerazione di costi, sprechi e affari non trasparenti collegati con simili ideuzze).
La scuola va tenuta aperta, dunque; ma perché funzioni bene senza cadere preda del carognavirus, l’orario di ingresso va scaglionato per singole classi e dunque l’orario complessivo di apertura della scuola va allungato; l’orario di presenza della singola classe va ridotto a non oltre due ore (più che adeguate per ogni didattica e per ogni pedagogia anche in tempi ordinari); ogni gruppo classe va a sua volta affidato a un solo insegnante che accompagna i ragazzi nello studio di tutte le materie; e ogni gruppo classe, specialmente nelle classi inferiori, data la istintiva e difficilmente controllabile spinta dei piccoli a non tener conto del necessario distanziamento fisico (fisico, balordini di politici e giornalisti che siete: fisico, non sociale!!), ogni gruppo, dicevo, va ulteriormente diviso non soltanto in sottogruppi più piccoli e controllabili, anche soltanto di cinque o sei persone, ma se occorre anche in tanti individui singoli per altrettanti incontri personalizzati di docenza: dentro la scuola, però, non a casa!
Ed è del tutto inaccettabile che si obietti sulla non preparazione degli insegnanti a guidare un ragazzo in tutte le materie: come si potrà pretendere infatti che il ragazzo diventi sufficientemente bravo in tutte le materie dando per scontato che il medesimo obiettivo è proibitivo per l’insegnante?! Ogni insegnante è particolarmente bravo in una materia ma è sufficientemente bravo in tutte, tanto quanto basti ad essere guida dei ragazzi per questo obiettivo: per definizione, altrimenti non è un insegnante!  
E naturalmente un simile adeguamento della organizzazione pedagogica e didattica esige che gli insegnanti si coordinino fra loro sui singoli ragazzi, e conseguentemente che il capo di istituto (preside o direttore didattico) sia effettivamente un “capo” di istituto, cioè un responsabile che curi effettivamente coordinamento e aggiornamento permanente dei docenti; ed esige che i livelli superiori di regione e di ministero sostengano tutto questo lavoro (sostengano, e smettano di sfornare circolari con la frequenza e la mentalità dei dpcm!). 
La realtà si affronta allontanandocisi il meno possibile da essa e governandola per quello che è, non travisandola e creando realtà diverse.  Solo in questo modo si può avere un anno scolastico eccezionale per difficoltà ma tutto sommato di normale efficacia, e forse anche di accresciuta efficacia formativa sulla coscienza dei ragazzi. Che è obiettivo essenziale, altrimenti si rischia di perdere un anno di formazione per una intera generazione e per il paese, con danni gravi e in qualche misura anche irreparabili. Non è lecito, con la scuola, giocare a rimpiattino né politico né professionale.
                                                                                                         
                                                                                                                                   (Giuseppe Ecca)
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Democrazia Comunitaria

UN DPCM DISTANTE DALLA REALTA'

Pubblichiamo l'ultima nota di DemocraziaComunitaria, rilasciata a immediato ridosso del più recente decreto del presidente del consiglio dei ministri in materia di covid. Nota nettamente critica, che riteniamo utile pubblicare in quanto gli accadimenti reattivi a tale dpcm confermano, con le manifestazioni vandaliche di protesta in corso in diverse città, e nello stesso tempo con le civilissime proteste di cittadini e operatori irrazionalmente impediti di lavorare, il carattere preoccupantemente astratto e inesperto anche di tale provvedimento, e la sostanziale assenza di un reale dibatitto parlamentare su tutta la tematica della lotta antipandemica: suggerendo una riflessione su come riprendere un più misurato e realistico modo di concepire la gestione del paese e il relativo potere normativo.


La chiusura di ristoranti, teatri e altre categorie di pubblici esercizi alle ore 18, denota nel governo buone intenzioni unite a lontananza palese e pericolosa dalla realtà concreta della vita economica e sociale: il provvedimento del governo avrebbe dovuto andare, caso mai, esattamente nella direzione opposta: allungare l’orario di chiusura possibile di tali esercizi, vincolando semplicemente i locali ad apporre ben in vista la loro scelta di orario e obbligandoli al distanziamento ed alla igienizzazione puntuale di clienti, personale e locali stessi. Perché è così che l’economia vive e il sacrifico comprensibile chiesto a tutti è solo quello di… lavorare più a lungo, se lo vogliono, per compensare la maggiore distensione di tempo e di persone degli utenti e dei collaboratori.
I sostegni economici in termini di elargizione di soldi pubblici, a loro volta, devono essere riservati alle aziende che adottano contratti di solidarietà o di compartecipazione ai risultati. Altrimenti si ha una semplice (e spesso politicamente clientelare) azione di sostegno parziale e aleatorio a una sopravvivenza grama e deprofessionalizzata senza alcun consolidamento strutturale né difesa della economia complessiva.
In una situazione che tende ad aggravarsi è giusto anche chiedere alle nostre forze armate di svolgere ordinarie funzioni di polizia in affiancamento alla insufficiente presenza di carabinieri, polizia di Stato e polizie locali, che si sta traducendo in deficit di controlli sugli assembramenti e sulle altre violazioni delle norme di sicurezza collettiva. Gli assembramenti infatti stanno continuando e con essi continua la irresponsabilità di tanti giovani ma anche di tanti genitori e operatori di diverse realtà sociali. Le imprese e le persone colte in reato di non osservanza delle norme di distanziamento e igienizzazione vanno semplicemente (soltanto esse) assoggettate alla sanzione della chiusura immediata, con durata di progressiva gravità, o della clausura personale stretta.
Anche la scuola può e deve essere organizzata in efficace distanziamento fisico, che non significa affatto didattica a distanza. A parte la sintomatica incongruenza del parlare di didattica a distanza mentre il concetto giusto è quello di “pedagogia a distanza” o “scuola a distanza” (improprietà linguistica che la dice lunga sulla confusione mentale circa la funzione della scuola, diventata nozionificio e titolificio incapace di educare), la non equiparabilità della scuola a distanza con la scuola in presenza è chiara a chiunque nella scuola abbia vissuto. Il problema si risolve aggiungendo al ragionevole e controllato distanziamento fisico dei ragazzi fra loro, lo scaglionamento dell’entrata delle singole classi lungo la giornata, tenendo conto di due elementi essenziali per la rivitalizzazione anche pedagogica dell’attività scolastica: 1. l’incontro in presenza non ha alcun motivo né pedagogico né didattico di durare oltre le due o al massimo le tre ore, il che fa guadagnare appunto la possibilità di tenere scuola in presenza per più classi distanziate; 2. va reintrodotta gradualmente la figura del docente unico per ogni gruppo-classe, affiancato dove possibile da un assistente o tutor che è anche naturale supplente quando occorra. Necessita infatti una figura univoca e unitaria di educatore per i ragazzi e per il gruppo, non l’affastellamento di diverse figure spesso di fatto educativamente incoerenti fra loro. I docenti, bravi ciascuno nella sua (o nelle sue) materie particolari, è bene che riapprendano l’antica capacità e umiltà di essere sagaci ed educativi accompagnatori dello studente in tutte le altre materie. Altrimenti non sono educatori.
I provvedimenti di chiusura pura e semplice di attività economiche decisi dall’ultimo dpcm, in sintesi,  suonano come arbitrii, oltre che dannosi all’economia, ingiusti se si pensa che vengono indiscriminatamente castigati anche  i migliori operatori, cioè quelli che per ingegno o moralità riescono a far funzionare correttamente attività esposte all’assembramento. Si castigano i bravi e non si controllano gli irresponsabili! E rischia così di crescere quella che all’inizio della pandemia medica, diversi mesi orsono, chiamavamo “la pandemia più rischiosa: quella economica e sociale”. Ogni giorno è buono per tornare a imboccare la via del buon senso e della giustizia, se davvero lo si vuole.
                                                                                                                                             
                                                                                                                                                      (Giuseppe Ecca)

                                                                                                       
                                                                                            °°°°°                                                                                                       
                                                                                                      MM
                

Comunicazione

SE QUESTO E' COMUNICARE... PREFERISCO IL CINESE

Uno dei modi in cui la lingua può uccidere: il burocratese. Ne abbiamo fatto cenno anche sulla pagina Feisbuc, per i profili della crescente difficoltà che la complicatezza espressiva causa ai cittadini. Il problema è antico, molto più antico di questa nota, che fu scritta nel 2015 per la rivista “50&Più”e che riproponiamo per la sua confermata attualità.
 
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Da decenni innumerabili l’Italia è dotata del legislatore più prolifico e più bislacco di tutto il mondo avanzato: un legislatore che fa troppe leggi, e per giunta quasi mai sono leggi che il cittadino, da solo, riesce a decifrare (parlo proprio di decifrazione della lingua italiana). La conseguenza è il più micidiale stato di pericolo permanente di fronte al quale il cittadino stesso si trova, e il più abbondante pascolo lucroso per legulei e profittatori di ogni risma.
 
Ma la disdetta veramente lacrimevole è quando gli “spiegatori” della legge, commentatori, docenti, divulgatori, chiosatori, giornalisti, persino sindacalisti, vogliono “delucidare” il significato delle norme a favore dei cittadini, della “gente qualunque”: e invariabilmente, a loro volta, lo fanno imitando il legislatore.
Sentite questa, ad esempio: è la “spiegazione” che un sindacato dà ai lavoratori su alcune norme previdenziali di legge. Me la ritrovo tra le mani, oggetto di una discussione di qualche anno fa, e mi obbliga a constatare che il vizio della comunicazione astrusa non è nel frattempo migliorato in nulla, anzi…
 
…Ciò determina, però, come conseguenza, che l’ipotesi delle lavoratrici del comparto scuola e AFAM che, ai sensi dell’art. 1 comma 9 legge 243/2004 optano per il metodo di calcolo contributivo e accedono, entro il
2015, al pensionamento ad età inferiori rispetto alle regole generali, dal momento che sono fatte salve dal
comma 14 dell’art. 24 della legge 214/2011 (e non rientrano tra i commi da 6 a 11) non godono della disapplicazione della finestra e, pertanto, se maturano questi requisiti dal 2012 si vedranno applicato l’art.
1 comma 21 legge 148/2011 con la conseguenza che l’accesso al pensionamento viene differito al 1 settembre o 1 novembre dell’anno successivo.
Quest’ultima interpretazione, seppure fondata sul tenore…
 
Vi supplico, chiunque voi siate: non spiegate più. Non commentate. Non raddoppiatemi la difficoltà di capire. Lasciatemi alla mia disperata lotta con la masnada criminosa dei legislatori. Caso mai, piuttosto, aiutatemi a farli rinsavire…
 
Una mia carissima amica, che fa l’avvocato, e che più o meno la pensa come me, ha inventato un bellissimo modo per