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Organizzazione

LIDERSHIP: STARE A CAPO O ESSERE UN CAPO?

 
Ugo Righi è consulente di direzione aziendale, collaudato da una serie ormai lunga di esperienze in contesti complessi e di ampia dimensione: “ne ha viste tante”, potremmo dire, e conosce le sfaccettature più inattese delle dinamiche aziendali e dei rapporti che in esse quotidianamente si generano e si intrecciano. La concretezza dell’esperienza lo ha indotto a uno stile sintetico e asciutto, ma difficilmente controvertibile. Egli ci trasmette qui alcune interessanti osservazioni sul rapporto fra “capo burocratico” e “lider” in una organizzazione.
 
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La posizione di comando non coincide automaticamente con l’essere un capo: ci sono moltissimi soggetti che hanno un potere derivato dall’ufficio che occupano, ma non sono lider. Il punto è comunque che davvero i lider sono fondamentali per lo sviluppo dei sistemi socio-organizzativi.
 
I lider si riconoscono dagli effetti che ottengono e dai comportamenti che tengono, essi riescono a cogliere il centro delle cose, hanno visione d’assieme e capacita di mettere in relazione il tutto con la parte, e viceversa. Non solo, ma, strategicamente, agiscono tra le differenze evitando che queste diventino conflitti, e spesso riuscendo addirittura a trasformarle in opportunità.
 
Il loro potere è prima di tutto personale: è verso se stessi, in termini di autoregolazione e direzione, ed è riconosciuto e legittimato poi anche formalmente dall’esterno.
 
Va notato che in genere i sistemi, sia quelli micro sia quelli macro, sono tendenzialmente ipergestiti, ovvero pieni di manager, professional, tecnici,  ma sono anche ipoguidati: manca cioè il senso comune, l’adesione a uno scopo, il piacere e la voglia motivata di sorridere.
 
La dimensione oggettiva dei sistemi dovrebbe essere variabile dipendente da quella soggettiva: invece avviene il contrario; senonchè è impossibile produrre valore quando l’armatura soffoca l’anima.
 
Solo il lider riesce in realtà a intrecciare fra loro le situazioni complesse, generando valore come condizione per ottenere sviluppo. Ci sono (per esempio nella politica) soggetti certamente intelligenti ma, da questo punto di vista, stupidi, perché il loro comportamento, anziché diminuire il conflitto, lo aumenta e lo genera addirittura, e quindi distrugge il principale capitale umano, che è dato dalla capacità di stare insieme dialogando come esseri umani che non diventano nemici perché hanno opinioni diverse.
 
Il costo del mantenimento del nemico è pazzesco, e il nemico ha come principale scopo non quello di ottenere un risultato concreto, ma quello di far fuori il nemico.
 
Il problema è che in genere il potere non è in mano a dei lider (soprattutto in politica) ma a dei semplici capi: semplificando (ma mi sembra proprio che sia così) chi ha molto potere ha bassa competenza connettiva e lidership, e chi ne ha poco è un lider ma senza investitura di potere formale. Sembra quasi che per ottenere il potere occorra avere bassa competenza sociale.
 
Un lider non è tale perché convince i suoi adepti, lo è se riesce a dialogare anche (o soprattutto) con chi vuol essere nemico, evitando di entrare in un gioco che porta alla sconfitta di entrambi. La paradossalità è che negli scenari dell’odio, anche se le situazioni sono oggettivamente collaborative, la relazione soggettivamente conflittuale determina che lo scopo principale è comunque far fuori l’altro (il nemico) o almeno denigrarlo.
 
Quali sono, quindi, i riferimenti per una lidership di valore?

1. Il lider deve promuovere e consentire la diffusione di un sentimento di parità tra le persone creando senso comune e aumentando la condivisione culturale. Il lider deve aumentare i livelli di credibilità e fiducia tra i membri di un gruppo, in modo che essi possano mettere in comune rapporti professionali e affettivi e li utilizzino per un aumento della comunanza dei rispettivi spazi vitali. Il lider aiuta a far apprendere, a far estendere nel tempo l’apprendimento, e a storicizzare esperienze, percezioni, aspettative e speranze, realizzando la parità e credibilità reciproca senza perdere la identità individuale. Aiuta a gestire ergonomicamente la realtà, progettando e realizzando le forme e gli stili di comando, insieme con coloro che le “subiscono”. Aiuta in sostanza a concepire la lidership (e quindi il potere) come relazione, e anche a vedere le relazioni come conflitti: nel senso che l’incontro tra due persone o due o più situazioni è l’incontro tra differenze, e, perché tale, è un incontro conflittuale: ma la fisiologia del conflitto è il dialogo e l’incontro, la patologia è l’invenzione del nemico. Il lider deve saper, soprattutto, mobilitare altre intelligenze, altri comportamenti, collegare “sinapsi”, essere il centro e il raccordo, dinamicamente.
 
2. Il suo comportamento deve essere una risultante equilibrata di dimensioni che comprendono aspetti tangibili e intangibili: intuito accuratamente preparato, acume teorico risultante dal possesso di basi cognitive, intelligenza sociale, capacità di rischiare e prudenza decisionale, senso della storia e capacità di dare significato dinamico agli avvenimenti, semplificando ma non banalizzando.

Il lider vero percorre il viaggio con altri che lo seguono e realizza la storia in quell’ambiente con quelle persone, facendo cose insieme per uno scopo comune. Se non ottiene questo, il suo potere è solo arroganza dannosa.
 
                                                                                                          (Ugo Righi)