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Racconti di vita

CASTAGNE MATTE E GNOMI DEL BOSCO

Le testimonianze di vita continuano. In questo caso, si tratta dell’importanza estrema e duratura dell’esempio di vita e dell'affetto dei genitori nel processo educativo dei figli, che per la sua organicità  e immediatezza non appare delegabile né sostituibile del tutto, neanche da parte della scuola migliore...

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C’erano una volta, tantissimo tempo fa, un papà e la sua piccola figlia. Si amavano teneramente e il loro amore rendeva ogni gesto ed ogni parola speciali, quasi magici. Vivevano però, a volerla dire tutta, in un luogo che di magico non aveva quasi nulla: non c’erano tramonti incantati nelle serate estive; non si sentiva il profumo dei fiori di gelsomino quando maggio veste generoso le siepi dei giardini; non c’erano piccoli corsi d’acqua dove poter cercare rane e girini; soprattutto non c’era il mare, con il suo odore intenso e il suo rumore possente nelle giornate di tempesta. C’erano invece lunghe file di fabbriche grigie, adagiate nella periferia della grande città, apparentemente disabitate, ma rumorose, per un orecchio attento, a testimonianza dell’incontro operoso di uomini e macchine. C’erano anche lunghe strade che tagliavano la pianura; volendo seguirle con lo sguardo, si saliva verso le colline e poi più su, fino a raggiungere le cime delle Alpi, innevate per tutto l’anno.
La gente che vedeva passeggiare il papà e la sua piccola figlia tenendosi per mano (lei accompagnava lui o lui accompagnava lei non si sa) aveva espressioni di stupore e di meraviglia:
  • Guardate come sono belli, lui sembra un principe, con quel suo largo cappello e il passo elegante, e lei è sicuramente la sua principessina… Fate largo, fate largo… lasciateli passare!
La loro dimora sembrava, da fuori, un po’ fuorimoda con la sua forma stretta e allungata su due piani. A fatica sporgevano due piccoli balconi con la ringhiera di ferro; ma proprio da quelli il papà e la sua piccola figlia immaginavano spesso di affacciarsi per recitare la parte del re e della regina, fino a quando la mamma non chiamava:
  • Tutti a tavola, che è pronto!
Dall’interno della cucina poteva accadere che giungesse la musica di un grammofono e loro ne approfittavano, rientrando, per muovere qualche passo di danza: lei saliva con i piccoli piedi sulle scarpe di lui e insieme ridevano per quell’inganno innocente, mentre piroettavano fra le sedie e il tavolo immaginandosi nel salone di un grande castello.
Giocavano spesso insieme, il papà e la sua piccola figlia: lui era prodigo di invenzioni strabilianti, faceva giochi di prestigio che sembravano vere magie, ma si faceva piccolo come lei quando doveva assecondarla per una sua infantile richiesta. E così inventava favole con maghi e castelli incantati, faceva arrivare cavalieri invincibili che liberavano principesse prigioniere, e lei lo ascoltava rapita, gli occhi spalancati sul mistero, muta nell’attesa di ciò che sarebbe accaduto.
  • Papà, quando sarò grande voglio diventare una principessa e ti sposerò, perché tu sei il mio re…
  • Ohi, ohi…e come faremo a dirlo alla mamma? E’ lei la regina – rispondeva divertito il suo papà.
  • Ma starà con noi, staremo tutti insieme! – rispondeva lei.
In quella dimora c’era anche un piccolo giardino che in qualche modo permetteva loro di godere dei fiori di lavanda in estate e dei mille colori delle foglie in autunno. Non era molto, ma con un po’ di fantasia si potevano anche trasformare le file di formiche in ballerine e qualche coccinella in una fata buona. C’era anche un gatto bianco e nero, che passeggiava pigro su e giù, fra l’albero di cachi e qualche cespuglio selvatico, inconsapevole delle innumerevoli volte nelle quali aveva indossato stivali e cappello piumato per difendere il suo padrone o, per contro, aveva ingannato con furbizia una lucertola fingendosi cieco e innocuo, per tendere poi un agguato mortale! Sì, perché, come forse si è capito, questa favola è piena di favole. E come in tutte le favole le scene cambiano, i personaggi si trasformano, i buoni vincono i cattivi, e la fantasia si fa largo per interpretare la realtà a modo suo. Anche il papà buono di questa fiaba, che sapeva trascinare la sua piccola figlia in un mondo incantato, smontò pezzi del reale per ricomporli in una nuova storia del tutto irreale.
E quando, qualche tempo dopo, dovettero purtroppo cambiare dimora, si sentirono un po’ tristi nel dover abbandonare quel piccolo paradiso: ma né lui né lei si persero d’animo.  Anche se il palazzo nel quale erano andati ad abitare rendeva difficile riprendere il gioco del “facciamo che io ero la principessa e tu il re”, iniziarono subito ad andare alla ricerca di un luogo che permettesse loro di continuare a sognare. E gira e rigira lo trovarono: era un pioppeto che, sorprendentemente, si apriva al di là del cemento, quasi un miracolo della natura. Così, partirono in un pomeriggio di sole per andare a conoscere i misteri di quel bosco e alla piccola figlia di quel papà meraviglioso batteva il cuore per l’emozione. Fatti i primi passi tenendosi per mano, il sottobosco cominciò a crepitare sotto i loro piedi, e sui tronchi alti e sottili dei pioppi si innalzavano fronde leggere che si muovevano appena sopra di loro. Continuarono a camminare, facendo attenzione mentre l’aria intorno si riempiva delle loro voci spezzando il silenzio. Giunsero quasi alla fine del bosco, proprio dove alcuni ippocastani, con i loro tronchi imponenti, sorgevano a definire un viale che, passando di lì, portava quasi sicuramente lontano. A differenza dei pioppi, questi erano alberi maestosi, che reggevano chiome larghe e ombrose; le foglie fitte nascondevano ricci spinosi pieni di castagne matte: ma molti di questi erano già caduti.
  • Attenta, non toccarlo, con il riccio ti puoi pungere...
A lei piacevano tanto le castagne matte, così rotonde e lucide, e allora cercava quelle già uscite dal riccio, ce n’erano molte per terra, se le faceva rotolare fra le mani e poi ne raccoglieva fino a riempirsene le tasche.
  • Guarda papà, sono bellissime, le portiamo alla mamma, anche a lei piacciono, me lo ha detto un giorno… Ma che cosa sono questi buchi nei tronchi?
A questa domanda il papà buono liberava tutta la sua fantasia per volare con la sua piccola figlia nel loro mondo incantato.
  • Questi buchi nei tronchi li fanno gli gnomi del bosco.
  • E dove sono adesso? Ma…sono cattivi gli gnomi?
  • Certamente no! Gli gnomi del bosco non sono cattivi, anzi. Ma escono solo di sera perché temono gli uomini: si rifugiano in questi buchi e si fanno compagnia, si vogliono bene fra di loro. Nessuno però li ha mai visti, purtroppo! Chissà, forse noi potremmo essere fortunati e incontrarne uno…
La piccola figlia sbarrava gli occhi, si emozionava, ma la presenza rassicurante del papà le consentiva di abbandonarsi a immaginare serate di luna piena con gli gnomi seduti a conversare intorno a quei buchi nei tronchi. E alla sera si addormentava, cullata dall’ultima favola che lui le leggeva.
Un brutto giorno, però, accadde ciò che non dovrebbe mai accadere: il papà si distrasse? La piccola figlia si staccò dalla sua mano? Fatto è che non si ritrovarono più e… lei si perse, non in un bosco fitto di alberi e di pensieri fantastici, ma, molto più modernamente, in una libreria affollata di una strada del centro della città; perché, come è evidente, questa è una favola nella quale realtà e fantasia si confondono e qualche volta non si sa più dove finisce l’una e dove comincia l’altra. Fu allora che quel papà, disperato, cominciò a percorrere le strade della città invocando e gridando:
  • Chi ha visto la mia bambina? C’è qualcuno che me la può riportare?
Percorse in lungo e in largo portici e vicoli, incapace di immaginare la vita senza di lei. Si mise a correre senza meta, chiedendo a chiunque incontrasse:
  • Ha visto una piccola bambina, che sembra una principessa? E’ la mia bambina, è mia figlia, mi aiuti a cercarla…
Allora, uno dopo l’altro, uomini e donne e ragazzi, si unirono a lui, le strade si riempirono di gente che chiamava a gran voce il nome di lei in un unico coro disperato, ma tutto sembrava vano. Poi, finalmente una voce gridò:
  • Venite, venite! L’ho trovata, è qui!...
Oltre la porta della gendarmeria, due signori vestiti in uniforme ascoltavano, compiaciuti, una piccola bambina che recitava, in piedi su di un grande tavolo, una poesia imparata all’asilo: via le lacrime della disperazione nell’essersi vista sola, cancellato il ricordo di quel singhiozzo alternato a parole sussurrate in cerca di aiuto: - Ho perso il mio papà… voglio il mio papà… la mamma dov’è? 
Tutto finito, ora. Le parole rassicuranti dei gendarmi confermavano che la mamma sarebbe subito arrivata, e anche il papà. L’abbraccio del ritrovarsi fu accompagnato da grandi grida di gioia, i clacson delle automobili divennero scampanio di campane, la gente si mise a ballare nella strada: perché così succede nelle favole.
Da allora la vita riprese tranquilla il suo scorrere: il papà buono e la sua piccola figlia continuavano a volersi bene; lei cresceva e lui si adattava con complicità e… tanta pazienza.
Poi, un certo giorno di un certo anno, alla piccola figlia, ormai dodicenne, parve di udire dentro di sé la voce del papà che, a conferma di un presagio che si stava concretizzando, dava risposta alle domande che il suo cuore poneva: perché quei nuovi silenzi nella casa? Perché si erano interrotti i momenti di complicità? Perché erano state via via abbandonate vecchie abitudini, per fare spazio a nuove necessità, dalle quali si sentiva esclusa, quasi allontanata?
  • Forse dovrò partire per un lungo viaggio, piccola mia… - diceva quella voce; - forse non potremo attendere insieme di vedere, il prossimo autunno, il colore dei ricci degli ippocastani che cambia…
  • Perché, dove devi andare, papà?
  • E’ un po’ difficile da spiegare: quando sarai più grande capirai e forse accetterai. Ti ricordi quando ti raccontavo le favole con le principesse e i re? Ecco, noi resteremo sempre insieme, come nelle favole, e sarà come fare una magia: tu resterai nel mio cuore e io nel tuo, per sempre. Non piangere, la nostra sarà la favola più bella.
E così, piano piano, senza far rumore, il papà buono sfumò verso l’azzurro, nell’aria ferma di un pomeriggio estivo, lasciando però dietro di sé mille bagliori di vita per la sua piccola figlia.
Questo è il ricordo che ho di mio padre, mondato del dolore provato per la sua perdita. Oggi compirebbe cento fantastici anni. Buon compleanno, papà!... E grazie per aver dipinto la mia infanzia con tutti i colori della fantasia.
Questo ricordo è appunto dedicato a mio padre, memoria viva nel mio cuore, con immensa nostalgia, in questo 7 giugno 2012.
                                                                                                 
                                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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Esperienze

SCELTA DI VITA

L’autrice l’ha raccontata così, dal vivo. E noi ve la trasmettiamo. Non siamo in grado di dire se la protagonista avrebbe potuto far qualcosa di più per cercar di salvare l’amica dal suo naufragio umano, come forse avremmo desiderato. Ma ci sembra buona cosa raccontarvene la esperienza.
 
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Silenzio. Tanto silenzio.  Era ciò che negli ultimi tempi le teneva più compagnia. Come al solito, quella sera si era chiusa in camera, si era distesa sul letto e osservando il nulla incipriato dal bianco del soffitto cercava di dimenticare: dimenticare Valeria, gli amici, i suoi vent’anni passati così in fretta. Serrava quella porta della camera come per impedire al tempo di entrare e operarvi il cambiamento: eppure quanto era cambiata la realtà! A volte le sembrava così difficile poter continuare a sognare: non riusciva a bramare il futuro come le era accaduto in passato. Viveva in bilico, appesa alla costante sensazione di una decisione imminente da prendere e che tuttavia non riusciva a prendere. 
Come ogni sera i ricordi partivano dal proiettore della sua memoria per accavallarsi sul fragile lembo dei suoi azzurri occhi: e dall’oscurità qualcosa appariva sempre. Ora si vedeva seduta in riva al mare, con Valeria. Avevano trascorso un’ottima giornata insieme, e mentre il sole splendeva alto sui loro corpi magrolini aspettavano allegre che si asciugassero le ultime gocce d’acqua salata sui capelli scomposti e i bikini colorati, prima di tornare a casa, lavarsi e prepararsi per un’altra indimenticabile serata insieme. Sicuramente avrebbero incontrato Antonino e Marco. Valeria si sarebbe rabbuiata, sulle prime, per poi sfogare il suo malumore con colorite espressioni, mentre Maria alla vista di Marco si sarebbe limitata ad un lungo sospiro con gli occhi lucidi.
Erano così diverse, eppure talmente legate! Valeria, impulsiva e passionale, agiva sempre senza riflettere. Maria, riflessiva e calma, non si lasciava andare a eccessi di alcun tipo: composta, precisa, gentile. Manteneva la sua personalità e sembrava non essere un’adolescente soggetta al vento della crescita ma piuttosto un’adulta già formata. Questo aspetto affascinava Valeria e la istigava ad emulare l’amica: ma, per quanto ci provasse, Valeria non era come Maria.
Maria lo stava capendo solo adesso, da sola, nella sua stanza, mentre con la mente accarezzava un altro flebile ricordo: lei e Valeria si abbracciavano strette strette con una energia che da un momento all’altro sembrava esplodere in una scarica elettrica. Erano nella cameretta di Valeria, dove avevano parlato a lungo del futuro e dei loro sogni. Maria li aveva già “srotolati “davanti a sé come una larga strada sterrata da cui, in lontananza, si intravedeva luce, tanta luce. Sarebbe diventata una giornalista e avrebbe fatto di tutto per cambiare il mondo. Valeria, invece, si apprestava allora ad iniziare il viaggio e la sua strada era ripida, a tratti oscura, piena di fossi e brutte discese.  Maria cercava allora di illuminarla, con la sua enfasi oratoria e il suo piccolo mondo interiore. Ed in queste fuggevoli ore trascorse insieme a sognare, Valeria e Maria erano un tutt’uno, un vortice di idee, di sentimenti, di speranze: erano amiche, ma amiche in una maniera assoluta. Un’amicizia pura e radiosa che le circondava senza che loro neanche se ne accorgessero.
Maria ricordava la prima volta che si erano viste, e da allora non aveva mai abbandonato Valeria. Quando quest’ultima si era innamorata per la prima volta, timorosa di aprire il suo cuore, Maria le era stata accanto ricordando come era buffa la solitudine in momenti simili: infatti quando era stata lei a innamorarsi non c’era stato nessuno a capirla. E allora cosa la spingeva a fare quel bene all’amica? Maria non lo sapeva: era fatta così! Dava senza pretendere niente in cambio. Ricordava quante parole e quanto coraggio aveva trasmesso all’altra e non le era mai pesato perché credeva in ciò che faceva e riusciva a gioire della felicità dell’altra. Quando vedeva Valeria tornare fra le braccia di Antonino quasi si commuoveva. Ne gioiva come vedendo realizzato il sogno che non era riuscita a realizzare con Marco: tra loro non c’era stata nessuna Maria; Maria, invece, c’era sempre stata per Valeria. C’era stata quando quella le riempiva la testa di chiacchiere inutili, c’era stata quando aveva bisogno di una spalla su cui piangere, c’era stata per prestarle soldi e vestiti, c’era stata per darle tutto l’affetto che le mancava in famiglia. C’era stata persino quando avevano scoperto Antonino a farsi di cocaina nel bagno di un locale e Valeria ne aveva pianto per una settimana. C’era stata sempre, eppure questo sembrava non esser bastato.
Ma ora tra loro si era posto il mare. Un’altra immagine le appariva dinanzi: un’immagine in cui non distingueva più le futili parole che quella le borbottava. Per Maria non era stata una buona giornata. Valeria era cambiata: Maria lo stava capendo pian piano, eppure non riusciva a tagliare del tutto il legame. Non capiva come quella specie di sanguisuga fallita avesse potuto prendere il posto della sua buona amica. Non poteva credere quella trasformazione di Valeria: era diventata insopportabile, parlava, parlava, parlava ma di una realtà distorta e astratta. “Io potrei fare tutto… Sono la migliore… Ma che ci vuole a fare quello che fai tu… Sono stufa di tutto… Nessuno si accorge del mio talento assoluto, che noia!...”. E intanto nulla faceva delle sue giornate e del suo futuro: non lavorava, non studiava, non ragionava, non sognava.  
Sulle prime Maria non aveva voluto vedere. Era vissuta per anni con l’idea perfetta di Valeria e ora era impossibile accettare tacitamente quel mostro perverso. Scappare, scappare lontano… solo questo era il pensiero che affollava la sua mente dopo quella scoperta. E mentre un paio di lacrime clandestine scendevano veloci lungo le guance, Maria osservava la foto attaccata all’armadio e che ancora non era riuscita a staccare. Le piaceva quella foto: come era felice, Maria, in quella foto! Si perdeva in quel ricordo così nitido e straziante che quasi le veniva voglia di strappare furiosamente quel quadratino di carta in migliaia di pezzettini. Quelle due ragazze non esistevano più. Velocemente Maria vedeva passare una scena e poi un’altra e poi un’altra ancora: in ognuna di esse era triste. Aveva smesso di essere felice qualche mese prima, quando al posto di “Valeria l’amica” aveva trovato “Valeria la drogata” in discesa libera verso il baratro dell’animalità. Non capiva come quella avesse fatto a tuffarsi a capofitto in un tale gorgo. Eppure Valeria sapeva quanto sarebbe stato difficile uscirne! Avevano vissuto con Antonino quell’incubo: da perfetta egoista quale era diventata, Valeria aveva provato una volta e poi un’altra e un’altra ancora e adesso aveva trovato quell’ingannevole sogno che tanto anelava e ci si era perduta: quale sorpresa dovette provare Maria al sentirsi dare della bambina, della stupida, dell’immatura, della vecchia, della pavida! Dopo tutto quello che avevano passato insieme e il bene che le aveva unite come sorelle!
A questo pensiero, quasi immediatamente lo stupore fu sostituito da una rabbia furibonda a cui altrettanto rapidamente seguì un disgusto nero e una profonda sensazione di pena. Poi il silenzio. Il silenzio che non lasciava spazio neanche alla sofferenza. Valeria era lontana e irraggiungibile nel suo nuovo mondo di oche sgualdrine, di venditori di fumo, di nottate insonni nelle prigioni di menti impasticcate, di serpi insidiose di amici. Scheletri in attesa di un rantolo letale.
E quel mondo era lì ad un passo da Maria. Bastava dire sì. Bastava alzare il telefono ed assecondare l’irreparabile pazzia di Valeria. Ma Maria era destinata a ben altro: era cresciuta spingendo la carrozzina del suo migliore amico malato di distrofia muscolare e volato via troppo presto. Si commuoveva per strada quando constatava la solitudine e la sofferenza di un barbone o di una mendicante con figlio appeso al petto e già esausto d’essere al mondo. Sognava d’aprire un centro d’integrazione per famiglie straniere poco inserite nella comunità italiana: così Maria si era curata lungo l’intero anno di Yao, di Yuliana, di Ali, di Sued, di Majid, di Abbass. E nonostante le strade della vita li avessero portati altrove, Maria li portava nel cuore come pezzi della sua stessa esistenza, come motivi di crescita, di amore e di verità. Maria credeva in quell’oscura forza che muove il pensiero aspirando a migliorare l’animo umano e la realtà…Leopardi, Dumas, Dickens, Dante, Dostojevskji, Tolstoj, Pirandello… la prosa, la poesia, l’arte, l’amore, la verità…la vita! Questo era lei: il sogno e la speranza, il coraggio e la purezza, la giovinezza e la saggezza insieme. E non sarebbe cambiata.
Pensava a quelle indimenticabili presenze della sua vita: la zingara della stazione, il barbone del Tevere, la ragazza cinese dagli eterni inchini, la brasiliana scontrosa che si difendeva dagli uomini rozzi, il ragazzo del Bangladesh che a vent’anni era già sposato con due figli e frequentava la scuola solo per imparare la lingua italiana e trovare lavori migliori del venditore ambulante senza paga sicura, l’afghano  scappato da Kabul col fratello minore dopo che le bombe e i talebani avevano reciso la vita dei genitori e della bellissima sorella Parvana recatasi alla fonte dell’acqua nel momento sbagliato.
Maria pensava a sua sorella Elisa, adottata in un tempo in cui Maria stessa non era ancora nata. Elisa bella e introversa, con gli occhioni scuri e la carnagione olivastra che tradivano le sue origini orientali, e quello sguardo da cui traluceva una storia incredibile, una di quelle storie fatte di abbandoni, dolori, ricordi confusi, sfide continue, paure. Ma era una storia di verità. La verità che Maria aveva scoperto in fondo alla sofferenza acuta che serra la vita nelle sale d’attesa degli ospedali, aspettando che Elisa scendesse dalla sala operatoria per un intervento alle gambe, alla vista, alle braccia, al seno. Eppure era ancora qui, Elisa, con gli occhi vivi e la voglia di vincere nonostante la malattia e la beffa della vita. Elisa era ancora pronta a lottare nonostante nei mesi seguenti dovesse rientrare in ospedale. E portava sempre il sorriso lucente di chi ancora può credere. Poi Maria pensava ai suoi genitori giusti, forti, stanchi, silenziosi, amorevoli, coraggiosi. Li accompagnava nella difficoltà impegnandosi affinchè ogni sua vittoria potesse divenire la luce di un sorriso anche per loro.
Così Maria aprì gli occhi. Si destò da quelle immagini caotiche e il silenzio solitario della sua stanza bastò alla netta scelta, una volta per tutte. Non avrebbe più cercato Valeria. E, in quella scelta, fu la vita.
                                                                                                        

                                                                                                                     (Anonimo, Premiopratoraccontiamoci)
 
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                                                                                          MM

La dimensione compiuta

IL TRENO

Metafora della vita, il treno e il suo viaggio. Dove siamo diretti con la nostra esistenza complessiva? Può darsi che, concentrati semplicemente intorno a noi stessi all’interno del vagone nel quale ci troviamo, rischiamo di perdere il senso totale del viaggio e di quanto vive anche fuori del nostro treno? Valentina Tuccella ci invita con la forza delicata della sua immaginazione anche poetica a fermare la nostra attenzione sulla totalità  dell’esistenza (il treno della vita) e dei suoi significati.
 
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Quando arrivi per la prima volta in una stazione non sai dove questo viaggio ti porterà. Sei solo,
così inesperto, in mezzo ad una folla sconosciuta…
 
Quando sali per la prima volta su un treno ti guardi intorno, in cerca di un viso amico. Controlli le
tasche, il biglietto, le monete.
 
Quando il viaggio inizia ti accorgi del percorso così lungo e lineare, e ti chiedi se sarà
lo stesso per tutti i passeggeri.
Un viaggio già scritto, già vissuto, già raccontato.
 
Quando socchiudi gli occhi e ti lasci dondolare dal lento andare del treno immagini anche come sarà
la meta, cosa farai, chi incontrerai; e non ti accorgi di non riconoscere ancora la tua stessa
immagine riflessa sul finestrino.
 
Quando il treno arriva alla prima fermata sei pensieroso; potresti scendere adesso: in fondo,
perché arrivare così lontano? E poi molti stanno scendendo qui. Ma il treno riparte e tu stai
ancora lì a pensare. Non credevi ci fossero dei bivi, delle fermate, altre destinazioni.
Come sta diventando complicato, questo viaggio...
 
Al primo sobbalzare del treno sussulti e ti spaventi. La macchina si blocca improvvisamente. Che
sfortunato intoppo: non era previsto... Ci vorrà una lunga attesa. Come sta diventando, questo viaggio…
 
Ed ecco che il treno riparte, con il buio alle spalle, e sembra raggiungere il sole. Il tempo è
trascorso e tu hai pensato, meditato, sofferto, all'interno di quel vagone-treno.
 
Quando impari a coordinare il respiro, allora apri gli occhi e vedi anche fuori dal finestrino: che bel
paesaggio!
 
Non me ne ero mai accorta. Ero intenta a guardare all'interno del vagone dei miei pensieri.
Il paesaggio è lì fuori, la natura brulica di vita e forse è arrivato il momento di scendere.
Di raggiungere la meta.
                                                                                       
                                                                                                 (Valentina Tuccella)
 

Racconti di vita

LA PASSEGGIATA DI LUIGI

Famiglie che potevano essere e non furono mai: a volte la guerra, soprattutto, a volte l’emigrazione, o altri drammi, sconvolgevano pensieri, disegni, sogni. In un mistero che su questa terra forse non si potrà mai chiarire.

*****
 
Lassù, sotto le falde del monte, si sentiva qualcuno cantare una canzone che diceva: “Questa notte laggiù nella valle…”. Era un canto che si confondeva col rumore di un rio gorgogliante fra i sassi, dentro il corso che s’era scelto da sempre fra abeti e larici, olmi e maggiociondoli.
Il canto era intermittente, una voce maschile cadenzata al ritmo di un passo montanaro. A volte diventava mormorio, soffio, o si mutava in fischio, come se il cantore si sentisse improvvisamente più leggero o la china del monte diventasse meno impervia. I rumori e le voci del bosco continuavano ad essere sottofondo di quella presenza canora: il tonfo di una pigna caduta  dall’abete, lo scricchiolio causato da uno scoiattolo qua e là per i rami, il plaf-plaf di un ranocchio presso gli acquifoglio, lì alla “molinella”...

Sì, perché lassù l’uomo aveva costruito un leggero e semplice mulino di legno per lasciare un segno delle sue soste lungo l’acqua del rivo, un segno delle sue pause di riflessione in ogni passeggiata o scarpinada dentro quel bosco. Quelle pale, rozzamente abbozzate col coltello da tasca, giravano dentro il rivo e facevano saltare intorno zampilli e spruzzi d’acqua, e questi attiravano tanti passeri suoi amici, ai quali pure egli parlava o forse… confidava i suoi segreti. A quella polsa Luigi sostava spesso, e il cigolio ritmico della molinella, l’ombra dei noccioli, il sole che filtrava la mattina, creavano l’atmosfera adatta per pensare a Gianna. Luigi si sentiva parte dell’ambiente.

Solo lì era riuscito a dare ristoro alle sue urgenze, alle pene di giovane provato dalla guerra sul fronte delle Alpi Occidentali, verso Briga e Tenda, fra l’aggressione alla Francia e i bombardamenti notturni, la mancanza di notizie della sua famiglia e nessuno scritto della sua amata, e poi la cattura, l’internamento, le camminate di trasferimento obbligato in notturna, la ricostruzione delle casematte, la fame, i soprusi subiti dai prigionieri, poi gli inglesi, la fuga e l’avventuroso ritorno a casa, attraverso boscaglie interminabili per non essere rintracciati, i piedi che dolevano, la paura dei rastrellamenti, e infine… la morte di Gianna, lontana, in Argentina.

Quand’era nel bosco si trovava immerso in un’atmosfera panica, totalizzante, che gli incuteva rispetto per ogni cosa della natura. Lì conosceva quei grossi nidi che le formiche erigevano con cumuli di aghi di pino e piccoli stecchi, per un’intera stagione, con infaticabili andirivieni in file nere o rosse. Formiche che passavano fra sassi e sterpi, dritte alla fonte di risorse individuata quel giorno: per esse tutto procedeva senza alcuna distrazione o rottura di ritmo che non fosse un improvviso pericolo o la suola di un improvvido passante.

Il prato di primo mattino era come se fosse piumato per la guazza notturna: gli steli del fleon e delle graminacee erano chinati da una corona di perline trasparenti che, tutte assieme, formavano cuscini azzurrini sospesi sopra tutto quel verde. Luigi osservava e si soffermava rapito. Dentro sentiva un’urgenza sconosciuta tramutarsi in pensiero, parola, canto, grido. Si chinava a raccogliere dei fiori: erano a volte garofanini di monte, sfrangiati, posti lì su una balza, oppure  entauree al bordo del sentiero, o borraggine azzurro-lapislazzulo. Doveva guardarsi però dai bombici che, già di buon mattino, stavano rumoreggiando in cerca di nettare.

Luigi voleva mettere quei fiori ad un capitello, sul sentiero verso le baite; lo faceva quasi tutte le domeniche. Un rito? No, piuttosto un sentimento d’abbandono, di fiducia in quel Sant’Antonio lì effigiato, stinto dal sole e dall’acqua piovana, protetto da due scorzi messi a capanna. Anche quel Toni lì conosceva la solitudine in cui Luigi si trovava nel corso della settimana;  ma la domenica era un’altra cosa: nella sacca qualche frutto e un companatico, un filone di pane, e via in montagna, lungo la strada dei montanari  dei legnaioli, dei malghesi che portavano le bestie all’alpeggio e le riportavano poi in valle alle loro stalle.

Giù in paese, al negozio, le sue clienti quando lo sentivano accennare ad un motivetto, o arrivava il suo canto dalla dispensa in cantina, gli dicevano: “Ma voi, Luigi, siete sempre contento! Cantate, cantate allegro! Beato voi! Chissà chi sarà la fortunata…” e qualcuna di mezza età, come ce n’erano tante nel dopoguerra, lanciava lì una proposta sospesa, sospesa in aria come un sentimento accennato ma puntuale, non dichiarato ma allusivo. “Cantate… Cantate… Cantate… Sempre allegro, voi, Luigi!”; ma non approfondivano i motivi di quel suo cantare e fischiettare preciso, di quel suo modo di scherzare, di quel suo rispondere evasivo. “Canto alla Lilly Marlene”, diceva a volte, ed indicava un grande quadro con la figura di una cantante o di un’attrice americana che sorrideva da un paesaggio West. Lei aveva il sorriso di Gianna, della sua Gianna che era andata lontana, in Argentina, con tutti i suoi fratelli, prima della guerra: la sua Gianna che doveva tornare, tornare per lui, proprio per lui…e poi gli avevano scritto che era morta, banalmente, per una polmonite.

La guerra con le sue mille facce, le sue tragedie, i suoi sconvolgimenti, aveva portato anche in lui, che era di forte tempra, confusione e tristezza senza fine. Riusciva in qualche modo a camuffare quelle momentanee prostrazioni reagendo con il canto o fischiettando proprio nei momenti “dei cupi abbandoni del cuore”. Tutti erano persuasi della sua allegria ed invece la sua pena a volte cresceva a dismisura e così si rifugiava a piangere nella cantina del suo negozio. Perciò la domenica, quando ancora tutta la parte alta del paese dormiva, fatto il sacco, infilava il sentiero ed era presto alle falde del bosco.

Poco dopo incominciava a sentirsi meglio: per tutto il giorno era un altro modo di essere. Nasceva dentro di lui una rassicurante certezza che fluiva nel canto e nel fischiettare modulato. Erano quelli i momenti nei quali comunicava con la sua Gianna e la sua Gianna di sicuro lo aiutava a trovare la strada per disfarsi di quel fardello  che da tempo lo opprimeva. Il canto, che prima era affanno, sentimento angoscioso e inespresso, si faceva più disteso, armonioso, quasi un linguaggio gentile. E mutava: era adesso un fischio, ad esempio, che imprimeva alla canzone un’espressione precisa. Luigi era attento ai minimi scarti di note, a tutti i balzi e i rimbalzi della voce, ai passaggi del testo. Si serviva delle note per “comunicare oltre”, oltre le cime degli alberi, oltre i coni d’ombra che il sole proiettava sui viottoli del bosco, oltre l’affanno dei pensieri e dei ricordi, oltre oceano.

In quel breve paesaggio di vallette, di balze, d’ombrosi botri dirupati, arrivava infine al Ronco,  sotto gli alberghi e le baite. Trovava quel riparo che placava, almeno per quel giorno, una spina dolorosa che gli si era conficcata in petto a quella tragica, improvvisa e maledetta notizia: “Giovanna è morta”.

Nel bosco tutto poteva estinguersi, almeno per ora, dolcemente, in quel mormorio d’acque e tonfi leggeri, nello zirlare di merli acquaioli, nel canto e nel fischiettare armonioso che egli rivolgeva, sempre con attenta misura alla sua Gianna.
                                                                                                         
                                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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Persona e società

PERCHE'?

Non ci pensiamo mai abbastanza: il quesito e il mistero di esistenze che ci scorrono al fianco, che dipendono dalla nostra attenzione, che possono realizzarsi positivamente oppure perdersi proprio sulla base di come noi le affianchiamo: dipendono da noi, insomma. Adulti perduti misteriosamente nella demenza senile, malati cronici affidati a strutture con scarso coinvolgimento delle famiglie, bambini con il diritto alla vita sospeso da genitori padroni e non custodi. E’ l’immane dramma del silenzio sociale che circonda queste vite, che non possono difendersi da sole e spesso non vengono difese da noi. Possibile che il silenzio continui?
*****

Quel tavolino per scrivere è sufficiente. Certo, il computer era diventato per me un’abitudine inveterata, ma si vede che qui non posso tenerlo. Beh, nel caso mi venisse in mente qualcosa scriverò a mano. Del resto, ho sempre fatto così. Soltanto in un secondo momento ho bisogno di sviluppare, tagliare, spostare brani del lavoro, e farlo con i fogli è problematico. Allora chiederò che mi venga ridato il mio computer. In questa camera non c’è telefono. Eventualmente, per le connessioni di cui avessi bisogno, userò una chiavetta. Intanto però dovranno mettermi degli scaffali per un po’ di libri. Il posto per una piccola libreria c’è, proprio di fianco al tavolino.

Non capisco però come mi sia deciso a venire in questo posto. Non ricordo di averlo scelto. E poi, per quale motivo avrei dovuto sceglierlo? A casa mia avevo ogni comodità, e i miei libri, i miei quadri, il mio pianoforte, che sono parte di me, ma soprattutto mia moglie, che amo e che mi ama. Come ha potuto farmi uscire di casa e consentirmi di prendere alloggio qui? E i miei figli dove sono andati a finire? Sono confuso: sono troppe le cose che non mi tornano. Non mi pare di essere in ferie. Ci andiamo insieme, io e mia moglie. Siamo sempre andati insieme. Se poi lo fossi ci sarebbe il mare. Qui non c’è. Neppure campagna c’è, come io la intendo, come era quella dove avevo la casa una volta. Io però in ferie vado soltanto al mare. I monti non mi piacciono. Soprattutto non mi piacciono le strade che conducono ai monti e li percorrono. Non sopporto il vuoto visto da una strada. Posso guardare giù dall’aereo senza problemi, anche in fase di atterraggio, ma il vuoto visto da una strada… Ne consegue che certamente non sono in ferie. Non sono neppure malato. I miei mali li conosco fin troppo bene e non mi danno disturbi nuovi rispetto a quelli di cui soffro da più di vent’anni. Del resto, questo non è un ospedale. Gli ospedali li conosco bene come i miei mali. Come potrebbe essere diversamente? Ci ho passato mesi, complessivamente molti mesi. Li conosco bene.

Questo ambiente mi sembra più un pensionato. A tavola oggi avevo un commensale, abbastanza più giovane di me, che non si è presentato, non ha risposto al mio saluto ed è rimasto tutto il tempo con gli occhi fissi nel piatto, ma non mangiava. Hanno dovuto imboccarlo. Non so chi fosse la signora che lo ha fatto. Non era un’infermiera. Forse era una parente, ma anche lei non ha proferito parola. Sono sempre meno le persone capaci di comunicare, di rapportarsi agli altri parlando.

Quanti giorni saranno che mi trovo qui? Non mi ricordo quando ci sono arrivato e non so che giorno sia oggi. Un calendario…Ecco, sì, mi ci vuole un calendario, altrimenti come posso fare? A casa, anche senza calendario… sapevo dal computer che giorno era: la data, intendo, mi dava solo la data, ma non mi diceva il giorno della settimana. Però, meglio di niente, com’è invece in questo posto.

Ieri sono uscito. Lo ricordo bene. Sono sceso dalla camera e mi sono ritrovato in giardino. Mi sembra di esserci stato altre volte. Volevo andare in strada, ma in fondo al vialetto del giardino ho trovato un cancello. Chiuso. Senza bottone per aprirlo. Allora sono rientrato e ho chiesto alla portinaia che sta nell’ingresso di aprirmelo. E’ una bella ragazza, la portinaia. Non arriva a trent’anni. Oggi era dietro a quel bancone che c’è. Si notavano solo quei seni prorompenti che ha. Non molto grandi: staranno fra la terza e la quarta, più terza che quarta, ma che figura su quel corpicino snello! E un paio di glutei ben modellati e sicuramente sodi, così come deve avere le cosce. Porta i pantaloni e ieri l’ho vista bene. E’ anche gentile, e si è schermita, dicendo che non aveva modo di aprire il cancello al momento, e che le dispiaceva. Poi una signora ha suonato, il cancello si è aperto e, mentre lei entrava, io sono uscito in strada. Ci siamo salutati con un cenno della testa. Mi è parso che anche lei risortisse. Ma non mi sono girato. Ho fatto un bel giro. Insomma, un bel giro… un giro, per quanto mi consente di camminare, senza disagio, questa mia gamba sinistra, dove porto una protesi all’anca. Devo confessare che non conosco il rione dov’è il mio pensionato. Non credo sia nella mia città. Ma non mi sono perso. Ho fatto il giro dell’isolato, un isolato enorme, tenendomi sempre sul marciapiede. A un certo punto mi sono ritrovato al mio cancello. L’ho osservato bene di fuori. C’è il campanello vicino, ma nessuna targa che indichi come si chiama la pensione o albergo che sia. Non c’è neppure un’insegna con le stelle della categoria cui appartiene. Da come si presenta dentro, mi sembra assai scarso. Non credo possa meritarsi un fregio di più di due stelle. Solo Martina, così si chiama la ragazza in portineria, meriterebbe quattro o cinque stelle. Per poterle dare una classificazione di quattro o cinque stelle occorrerebbero esami che io ho smesso di fare da tanto e che non so se lei mi avrebbe permesso comunque di farle. Ma così, a occhio, credo che potrebbe salire al top.

Ho atteso che qualcuno volesse entrare. Ho aspettato più che per uscire, ma a un certo punto è arrivata a suonare una signora, una bella signora, di qualche anno d’età ma di quelle che portano la loro maturità con semplicità, che non mascherano i propri dignitosi capelli grigi con tinture di colori improbabili che, quelli sì, fin da lontano rivelano l’età tarda di chi li ostenta. Sono tornato con lei. Ho rifatto il vialetto e mi sono seduto su una delle panchine che ci sono in prossimità della portineria. Ho evitato tuttavia di farmi vedere da Martina. C’erano altri ospiti, seduti lì, tre donne e due uomini. Presumo che fossero ospiti perché una delle donne indossava uno spolverino di un celestino stinto, come usano in casa le donne di campagna, un’altra era piuttosto trasandata, con lo sguardo perso davanti a sé, e la terza entrava e usciva nervosamente dalla portineria. I due uomini, più giovani di me all’aspetto, indossavano entrambi quelle pantofole alte di stoffa a quadri colorati, tipo i kilt scozzesi, con il pelo dentro, come portano gli anziani, e si tenevano il collo ben coperto, anche aiutandosi con le mani, quasi fosse freddo. Era invece una calda giornata di primavera inoltrata, tanto che io mi ero sbottonato il colletto della camicia.

Dopo una mezzora sono venuti a chiamarci perché il pranzo era pronto. Non si mangia male in questo posto, ma non c’è possibilità di scelta. Solo quello che passa il convento, come si dice, e a sorpresa. All’albergo sul mare, dove andiamo noi, ci sono tre primi a scelta e tre secondi, sia a pranzo che a cena, ed è roba buonissima e abbondante, anche troppo, oltre a un buffet libero e ricchissimo. Eppure è soltanto un tre stelle. Ho valutato bene: questo non ne merita neppure due. Spero di rimanerci poco e comincio a chiedermi perché ci sono capitato. Sono qui dentro ormai da diversi giorni. Non so dire quanti, per il problema del calendario. Nel frattempo ho studiato com’è l’andazzo del pensionato: non si può uscire in strada, nessuno degli ospiti esce. Solo io ci riesco con il sotterfugio di stare in attesa in prossimità del cancello. 

Ora però ho un problema: non so come rientrare in camera mia perché non ne ricordo il numero. Ma è un giorno fortunato: si è affacciato nella sala della televisione Carlo. Caro è un giovane uomo che fa servizio all’interno da un paio di giorni, forse. Riguarda porte, finestre, rubinetti, bagni. Fa insomma tutti quei lavoretti di manutenzione spicciola che tanto sono necessari nelle grandi strutture. E’ disponibile sempre e ci si può parlare bene. Io, per la verità, non l’ho in grande simpatia perché mi pare che faccia la corte a Martina, ma soprattutto perché mi pare che Martina gli corrisponda, con quelle risatine che le ho visto fare alle battute insulse di lui. Mi sono dominato, ho ricacciato questa sorta di ripulsa che ho nei suoi confronti, mi sono allargato in un sorriso a quaranta denti (finti) e gli ho detto: “Carlo, ho un cassetto in camera mia che non scorre bene. Duro un po’ di fatica ad aprirlo e chiuderlo. Quando hai un minuto puoi venire a dargli un’occhiata? La mia camera è la numero… la numero…”
  • Ventisei: La Sua camera è la ventisei.
  • Oh, bravo Carlo! Sì, la ventisei. Ti aspetto.
  • Non dubiti. Vengo subito dopo che sarà ristabilito.
  • Grazie, Carlo. Grazie davvero.
Ecco, è la ventisei. Sono riuscito a farmelo ricordare senza destare sospetti. Se fossi andato a chiederlo a Martina o a qualcuna delle donne mi sarei fregato da solo. Qui dentro ho capito che se pensano che uno non abbia più mente ti tengono d’occhio, ti prendono di mira e non ti fanno fare più un passo. Non mi posso permettere che capiti anche a me. Come farei a uscire in strada? Se non potessi mi sentirei prigioniero e la paura, la claustrofobia di cui ho sempre sofferto, mi distruggerebbe. Ora però cosa gli invento a Carlo, su in camera? I cassetti scorrono tutti bene… Forse quello del tavolino per scrivere si può considerare un po’ difettoso ma non dà problemi, in realtà. Dirò che è quello che talvolta pare incastrarsi. Çi riguarderà e, al più, mi dirà che va bene. Tutto qui. A proposito del tavolino: devo ricordarmi di chiedere un paio di biro a Martina. Ne consumo molte a scrivere. Quasi non ho più neppure fogli.
Toc, toc.
  • Chi è?
  • Sono Carlo, per i cassetti.
  • Ti apro. Vieni, Carlo. Vieni.
  • Qual è il cassetto che le dà problemi?
  • Il cassetto, dici? Qual è? Non mi ricordo, Carlo…
  • Non si preoccupi. Li controlliamo tutti, così… Questo va bene… questi altri anche… E qui siamo a posto… Vediamo quello del tavolino. Capperi! Come fa ad aprirlo, questo? E’ incastrato. Una scartatina… Ecco, ora scorre bene. Tutto fatto. C’è qualche altro problema?
  • No, Carlo. Grazie
  • Di niente. Arrivederla.
  • Ciao, Carlo. Arrivederci. Ah Carlo…
  • Mi dica.
  • Quella ragazza, giù…
  • Quella ragazza… Chi? Sonia?
  • No, non Sonia. Sonia non la conosco. Dico di Martina. Sai, quella in  portineria? Martina!
  • Martina? Ah! Cosa ha fatto Martina?
  • Meglio perderla che acquistarla, quella, sai…
  • Perché?
  • E’ sempre al telefono. Fa tutto malvolentieri. Non è troppo educata…
  • Davvero è così? Meglio starle alla larga, allora.
  • Ecco, hai capito. Non vale proprio la pena.
  • Ha fatto bene a dirmelo. Io non ho tempo da perdere con chi non merita.
  • Bravo, Carlo!
  • ArrivederLa, di nuovo.
  • Arrivederci, arrivederci.
Tutto sommato è un bravo ragazzo, quel Carlo. E’ anche educato. Mi dà del lei, diversamente da altri che neanche conosco. Io gli do del tu, non per mancanza di rispetto, ma perché fra me e lui ci corrono di sicuro quasi cinquant’anni.
  • Sonia!
  • Che c’è?
  • Il vecchio, su, della ventisei…
  • Che ha fatto?
  • E’ innamorato di te.
  • Lo so. Tu come te ne sei accorto?
  • Mi ha parlato male di te. Ma era chiaro che lo ha fatto per cercare di sminuirti ai miei occhi. Una cosa strana, però: ti ha chiamato Martina.
  • So anche quello. Certi giorni passa le mattinate a guardarmi di sottecchi. Passerà cento volte davanti al banco, e mi osserva, senza parere. Mi ha spiegato la moglie che gli ricordo una ragazza che aveva in gioventù e che si chiamava Martina.
Quella povera donna di sua moglie, una donna squisita, è sempre qui. Abita vicino. Lui è abitudinario e tutti i giorni si prepara per uscire alla stessa ora. Non credo neppure che consulti l’orologio. Ce l’ha dentro, incorporato, come gli animali. Lei lo accompagna e gli fa fare un giro, anche se lui non cammina bene, come si vede. Lo fa uscire e lo segue per tutto il tempo. Lui è convinto di essere solo. Non la riconosce, così come non riconosce i suoi figli.
  • Me però mi riconosce e mi chiama per nome.
  • Sì, ma non ti meravigliare se a un tratto non saprà più chi sei. Ormai sono cinque anni che è ricoverato e ogni persona nuova che ha visto l’ha riconosciuta per qualche mese e poi più nulla. L’ho verificato di persona. Io per lui, come hai sentito, sono Martina. Sono stata Sonia per solo due mesi.
  • Poveraccio!
  • Sì, ma poveracci più che altro i suoi che rimpiangono l’uomo intelligente che era. Era un artista, sai?
  • Ah sì?
  • Era uno scrittore, un poeta, e pittore, anche bravo. Ho letto tutti i suoi libri e visto alcuni suoi quadri. Tutto notevole! Ora vuole sempre fogli bianchi, che tiene sul tavolo, e li imbratta di ghirigori con la biro fino a farli neri.
  • Allora è un peccato che sia ridotto così.
  • E’ sempre un peccato! Ma quando tocca a persone così… del resto, però…anche personaggi celebri…
Quel Carlo è stato bravo ad accomodarmi il cassetto. Ora magari esco. Mi metto la giacca ed esco. Controllo se ho le chiavi…Dove le ho messe? Non ce l’ho. E questo foglio in tasca, tutto arrotolato, consumato…Vediamo: c’è scritto “26”. Ventisei cosa? Boh! Buttiamolo via.
                                                                                                                            
                                                                                         (Anonimo, Premio PratoRaccontiamoci)

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MM

Democrazia Comunitaria

NASCE FORMAITALIA: SENZA CONFINI "PER TUTTO L'UOMO E PER TUTTI GLI UOMINI"

Il 7 dicembre scorso si è tenuto a Roma, in collaborazione con la Fondazione Internazionale per l’Aiuto all’Anziano, un incontro culturale e formativo sul tema “La politica in Italia: ieri e oggi a confronto per capire le prospettive possibili”.

Dal 22 al 26 gennaio appena trascorsi si è tenuta in Basilicata, in collaborazione con un Istituto Scolastico Superiore, una settimana di formazione e orientamento sul tema Motivazione e autorealizzazione nella scuola”.

Due eventi con i quali si è avviata concretamente e stabilmente l’attività di Formaitalia, la nostra piccola libera “università permanente per la formazione totale”.

Ai due temi citati se ne aggiungeranno via via altri, che verranno puntualmente comunicati; e insieme agli incontri verranno inaugurati anche, per chi sia interessato, veri e propri corsi organici di studio e formazione, della durata cioè di più incontri (fino anche a un anno) ciascuno su una tematica omogenea da affrontare come vera e propria materia di livello universitario.

Incontri e corsi potranno essere svolti sia per singoli partecipanti che lo richiedano sia per gruppi.
E verranno tenuti in qualunque sede esigano di volta in volta le circostanze o le preferenze dei richiedenti: un’aula scolastica o anche semplicemente un bar, un oratorio parrocchiale o anche semplicemente un giardino pubblico, o una sede di associazione professionale disponibile...

Lo studio-formazione, che avrà comunque sempre il connotato dell’alta qualità e organicità di contenuti, non prevede sostanzialmente costi per i partecipanti: viene chiesto semplicemente un simbolico euro a incontro, come valore morale di adesione e consapevolezza e per rispondere a qualche eventuale minima esigenza operativa, come potrebbero essere materiali da fotocopiare o simili.

La docenza vedrà spesso impegnato il sottoscritto ma coinvolgerà via via anche esperti e testimoni in diverse discipline e con diversi approcci, secondo i casi. E i temi verranno via via concertati secondo il criterio dello “scorrimento continuo” in una strategia condivisa e nel quadro di riferimento metodologico e valoriale che molti amici mi hanno sentito definire spesso come “modello monasteriale”.

Nella sostanza si tratta appunto di “formazione alta” ma… proprio perché alta non avrà nulla da spartire, anzi aborrisce esplicitamente, alti titoli e alti linguaggi, alte sponsorizzazioni e alti atteggiamenti accademici… e simili vuotaggini.

E’ formazione alta proprio perché… non va in alto bensì, al contrario, in profondità: costruisce nel profondo delle coscienze per far crescere, integrati, valori e competenze. Per questo anche il risultato sarà “alto”, ma solo nel senso più vero e pregnante.

Il pensiero di questa iniziativa viene in realtà da lontano, come viene da lontano il concetto di “formazione integrale” che lo anima: che ha appartenuto alla vicenda di vita e di crescita mia e di molte altre persone; e il cui merito non va a noi, pur avendoci anche noi messo la indispensabile nostra convinzione e buona volontà: ma va a quei formatori ed a quelle scuole di formazione che avevano (l’imperfetto è malinconico ma inevitabile, in quanto rare sono oggi simili realtà) come riferimento della loro azione proprio il concetto di integralità, cioè la idea che la persona è una creatura appunto integrale, composta di corpo, anima e spirito, e strutturata per essere contemporaneamente individuo e comunità; e che in tale integralità essa deve svilupparsi e realizzarsi positivamente, qualunque sia la materia più specifica di cui si occupa e l’ambiente più specifico in cui vive.

L’Italia ebbe simili scuole di formazione nel primo ventennio del dopoguerra, in campo politico ma anche in campo sindacale, aziendale, religioso, sociale, e la stessa scuola istituzionale dello Stato aveva in sé un nocciolo centrale di riferimento a tale cultura di integralità: uno dei segnali ne era la presenza nei programmi e in pagella della “buona condotta” collegata anche con la educazione civica, che implicava appunto attenzione specifica della funzione educativa alla persona nella sua totalità, e accentuata sensibilità alle dimensioni umanistiche di tutte le materie.

Successivamente tali scuole e tale metodologia sono state incredibilmente abbandonate a un progressivo declino e parte di esse sono addirittura scomparse, come è stato ad esempio per le grandi scuole dei partiti politici storici. La flebile e inadeguata figura dei ministri della pubblica istruzione succedutisi negli ultimi decenni ha sancito e generalizzato tale decadenza.

Molti di noi sono tornati però costantemente a chiedersi come fare a ritrovare la via (per usare le parole di Luigi Sturzo).  

Il nostro paese, peraltro, non ha in realtà bisogno di ritrovare semplicemente “una grande classe dirigente”, come a volte si dice: ha bisogno di ritrovare una più diffusa e profonda coscienza di sé, dalla quale si generi anche una nuova classe dirigente di grande levatura, in tutti i settori della sua vita.

Siamo nel 21° secolo: velocizzazione, mondializzazione, tecnologicizzazione, digitalizzazione, turbocapitalismo, intelligenza artificiale… fanno infatti diventare in parte un sorpassato luogo comune anche il concetto tradizionale di “classe dirigente”.

In realtà siamo tutti classe dirigente nella misura in cui siamo in grado di influenzare intorno a noi altre coscienze. Occorre dunque tornare a formare potentemente e diffusamente persone di alta levatura, più che “dirigenti” in senso formale.

Abbiamo cioè bisogno di costruire alte coscienze da mettere come sentinelle attive dovunque, direi in ciascun angolo di strada e in ciascuna stanza di ufficio o di casa o di fabbrica. Ciascuna di esse strategica per il semplice fatto che ne interseca altre, in tutti i settori della vita. Sentinelle appunto di qualità totale: altrimenti svanisce il sogno di una comunità che migliora nel suo insieme e nelle singole persone che la compongono. Se tali sentinelle sono di qualità… esse sono automaticamente classe dirigente a prescindere dai ruoli formali.

Anche a livello planetario si nota del resto, oggi, una non tranquillizzante tendenza al declino o alla stagnazione qualitativa del vivere individuale e sociale e del livello di sensibilità istituzionale, che comporterebbe una ben diversa e superiore attenzione ai sistemi formativi e al concetto di classe dirigente: dalla grossolanità di Trump alla inconsistenza di Biden, dall’umiliante resa della civiltà e dei diritti umani in Afghanistan o in Iran alla crisi ucraina con le sue vittime innocenti, all’incartamento burocratico-finanziario della realtà europea, alla povertà dell’Africa,  allo strapotere intrasparente della finanza, alla disattenzione complessiva verso il grande valore fondativo della vita, al malinconico fantasma dell’Onu che a oltre settant’anni dalla sua costituzione non riesce a diventare vero parlamento dei popoli, la “classe dirigente” formale, politica e non politica, dà oggi testimonianza prevalente di mediocrità anche, appunto, a livello planetario.

In materia più particolare di economia, ad esempio, mentre osserviamo che il capitalismo ha sconfitto il comunismo, e la tecnologia sta sconfiggendo il capitalismo, non possiamo non chiederci anche: ma… poi? Il futuro? La persona? La comunità? Dove sono? L’umanesimo capace di dominare la tecnologia e la emergente intelligenza artificiale, dove è? Il capitale umano, su cui è steso il più drammatico silenzio, dove è?… Dove sono l’impresa partecipativa e il lavoro di cointeressenza?

Urge insomma porre fine alla sterilità delle parole, delle ideologie, degli schemi e dei titoli formali che ubriacano il parlare quotidiano, e tornare a pensare e agire con pregnanza secondo il binomio “persona e comunità: tutto l’uomo e tutti gli uomini (per dirla con le parole di Paolo VI).

E’ infatti la persona concreta e integrale che ogni giorno “fa” la politica, la scuola, il sindacato, l’economia, l’impresa, la religione… Mentre partiti, istituzioni, classi, categorie, schemi, sono strumenti e non fini. 

Via, dunque, anche dagli insensati schematismi (come sono, ad esempio, in politica l’ottocentesco “destra- centro-sinistra”, nel sociale il retorico giovani-anziani e l’ingannevole uomini-donne, in economia l’eterno poveri-ricchi, etc.); e via anche dalla idiozia di semplificazioni concettuali come élites, classe media, borghesia, ceto intellettuale, etc. Il capitale umano e l’umanesimo, le persone concrete e la loro solidarietà, sono l’unico futuro accettabile per l’economia, per la politica e per tutta la vita sociale!

Ma, a questo punto, voi chiederete più concretamente: che idea più specifica avete e proponete per questa formazione integrale? Rispondiamo in sintesi quanto rispondevamo già anni orsono:

“E’ una idea molto alta.

La formazione infatti è il cammino della persona totale verso il proprio orizzonte infinito, in armonia con la comunità in cui essa vive e cresce.

Tutte le sue potenzialità di sviluppo e miglioramento si mettono in movimento.

Ci si forma perché migliorarsi è vocazione fondativa e irrinunciabile della persona.

E anche perché, se è buona formazione, essa mette insieme armonicamente crescita personale e crescita comunitaria: cioè l’unica crescita che abbia senso compiuto per l’uomo e per la civiltà.

L’uomo è infatti appunto, nella sua pienezza e contemporaneamente, “persona e comunità”.

La formazione non è indottrinamento.

Non è semplice aumento di nozioni nel nostro cervello.

Non sono professori che fanno conferenze.

Non sono esami e promozioni o dichiarazioni di idoneità.

Tanto meno sono bocciature.

Queste ultime, quando ci sono, caso mai bocciano la capacità della scuola di essere utile alla crescita delle persone.

La formazione non è un “master” conquistato in una prestigiosa università

Da esibire stupidamente in un curriculum

O da contemplare narcisisticamente incorniciato a una parete

O da segnalare allusivamente in un discorso pubblico.

La formazione è il tuo cammino di vita nel miglioramento continuo:

Quel cammino della tua anima e di tutto il tuo essere, che non finisce mai

Che non delude mai

Che non inganna mai

Basta che tu sia leale con testesso.

La formazione sei tu sempre più consapevole dei tuoi limiti ma anche delle tue potenzialità

E della loro concretezza

Del tesoro nascosto che possiedi e che… sei un irresponsabile se lo lasci perdere.

La formazione è la tua occasione di tutta la vita:

Qualunque mestiere tu faccia

Basta che faccia il mestiere di esistere

E di essere una persona che si vuol realizzare compiutamente.

Ti trovi a fare la scommessa decisiva della tua vita se ti prendi cura della tua formazione permanente o te ne infischi.

In una comunità che... forse ne è inconsapevole ma si vuol realizzare anch’essa

ed è chiamata a dire a sua volta sì o no a questa sua e tua realizzazione.

Qualunque mestiere tu faccia:

Lavoratore dipendente o disoccupato o studente o imprenditore o dirigente d’azienda o anziano in quiescenza o politico o amministratore locale o studioso o libero professionista o sportivo…

Ed a qualunque gradino tu sia in quella idiota e immorale falsificazione di vita che chiamano scala sociale.

In qualunque ambiente tu viva

Da qualunque punto tu parta

sei dunque chiamato a decidere se ti prendi cura della tua crescita permanente

o se ti infischi del destino della tua vita.

A volte mi chiedono in particolare cosa io pensi della formazione politica

Dato che la politica è dimensione essenziale per la vita comunitaria.

Anche la formazione politica rientra pienamente nei criteri valoriali e risponde alle esigenze di coerenza suddette.

Formarsi in politica, in particolare,

non significa imparare a far comizi efficaci turlupinando la gente

Né apprendere a creare manifesti elettorali più brillanti di quelli dell’avversario di turno

E neanche trovare la battuta efficace per controbattere l’ultima uscita di successo dell’avversario di turno.  

Formarsi in politica

Se davvero hai valori di ispirazione umanistica e tantopiù se si tratta di umanesimo cristiano

Significa imparare ogni giorno a capire più profondamente te stesso e contemporaneamente gli altri

A vedere di te stesso e degli altri un futuro lungo e non solo quello a dieci centimetri dal tuo naso

A saper affrontare tutti i problemi

anche eventualmente sbagliando, ma riconoscendo gli errori e migliorando sempre

Ad acquisire competenze crescenti, anche tecniche, nelle materie che hai scelto come tua specializzazione

Senza mai trascurare il miglioramento delle tue conoscenze più generali

E contemporaneamente a consolidare valori più alti per testimoniarli più fortemente

Mettendo tutto ciò a disposizione attiva della tua comunità

Oltre che di testesso.

E analogamente si può dire per la formazione sindacale, economica, scientifica, giuridica, e simili.

La formazione usa anche le aule ma se occorre sa farne a meno.

La formazione, se è davvero buona, deve costare pochi soldi e molta costanza di impegno

Deve chiedere l’aiuto di pochi professori e di molti maestri di vita

Deve mettere insieme teoria e pratica

Perché la teoria senza la pratica è priva di vita

Ma anche la pratica senza la teoria è un cammino a rischio di dispersione.

Per tutto questo la formazione non ha età

Né cariche sociali né gerarchie che esentino da essa

Né sapienti che possano farne a meno

Né “arrivati” che non ne abbiano più bisogno.

Beh… vi interessa?

Se sì, siete sulla strada giusta.

Se no, riflettete sui pericoli della vostra situazione.

Qualunque cosa pensiate,

la nostra formazione sarà così

o non sarà per nulla, perché, diversa da così, pensiamo che non valga la pena farne.

Solo così essa ha un senso di bene totale

Per noi stessi, per le speranze del nostro paese e anche oltre il nostro paese.

Un sogno?

Se volete, sì: un sogno. E che c’è di più concreto e utile di un sogno di bene, per migliorare davvero la realtà?

In fondo, alla chetichella, abbiamo già cominciato da molto a seminare il terreno:

ci siamo visti con tanti di voi, in diverse occasioni

giusto per cominciare a immaginarla, questa formazione

giusto per cominciare a dirci che puntiamo in alto

puntiamo appunto alla nostra persona totale da sviluppare

ed alla nostra comunità senza esclusioni

per migliorarle davvero entrambe e senza confini”.

                                                                                                                                              Giuseppe Ecca
Roma, 29 gennaio 2024
 
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I contatti, per chi è interessato, possono essere presi per ora direttamente con il sottoscritto, all’indirizzo giuseppe.ecca@gmail.com, o telefonicamente.

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Sono dunque disponibili fin da ora, concretamente:
 
INCONTRI (durata orientativa da due a cinque ore):
  1. La politica in Italia: un confronto fra ieri e oggi per capire le prospettive possibili.
  2. Motivazione e autorealizzazione nella scuola, nel lavoro, nella vita.
  3. La comunicazione fra persone e nella società: scienza e tecniche di base.
  4. Marketing e gestione aziendale.
  5. L’insegnamento della lingua italiana nella scuola come elemento fondativo per una formazione integrale: centralità  e metodi.
  6. Impresa: organizzazione e futuro.
CORSI (consistenza orientativa da dieci a venticinque incontri):
  1. Storia del lavoro e del sindacalismo in Italia e nel mondo.
  2. Un’esperienza lavorista e sindacale di eccezione: il settore elettrico e l’idea partecipativa in sessant’anni di dopoguerra.
  3. Formazione: il sentiero stretto.
  1. La comunicazione: scienza e tecniche nella vita e nel lavoro
  2. Econoimia: l’economia come bene comune.
 
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Racconti di vita

QUARTO DEI MILLE

A volte la nostra vita si specchia inattesamente in quella degli altri, magari per un episodio casuale del quale avevamo fino allora ignorato i protagonisti: e scopriamo che dietro quell’episodio c’è un insegnamento che fa anche per noi, o magari solo uno spunto di riflessione che è però occasione preziosa per farci semplicemente capire quanto è vasta e variegata la realtà umana che ogni giorno ci passa davanti e interseca i nostri passi; e quanto, in fin dei conti, valga la pena essere nei suoi confronti attenti e aperti.

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Il bambino che mi sedeva di fronte, sul treno regionale Genova-La Spezia, era mingherlino, aveva occhi castano-dorati, come i capelli, e gambette irrequiete. Quando si sentiva osservato si stringeva alla madre e reclinava la testa sul braccio di lei.

Lei, una giovane donna triste e pensosa, non badava al figlio né alle piccole stazioni dove il treno si fermava per pochi minuti: mentre lui ad ogni sosta si allungava verso il finestrino e leggeva ad alta voce il nome della stazione; la vocetta era squillante anche se tradiva una lieve incertezza nel sillabare il nome sconosciuto della località: uno scolaretto di prima elementare, ne dedussi.

Dopo Sturla, il bambino si inginocchiò sul sedile e appoggiò la fronte al vetro. La madre si preoccupò allora di controllare che i suoi sandali non sfiorassero le mie ginocchia. Ignorò la mia occhiata benevola di comprensione e riprese il suo silenzioso raccoglimento, con le mani intrecciate sulla borsa di rafia.

“Quarto dei Mille!” esultò poco dopo il piccolo viaggiatore, puntando il dito fuori. E voltandosi: “Perché Mille? Mamma, cosa vuol dire?”. La donna non cambiò espressione: muta e indecifrabile come una statua. Era mai possibile che non sapesse rispondere a una domanda così semplice? mi chiesi. Il bimbo ripetè la domanda calcando su quel “mille”, che forse gli sembrava strambo, per un paese. Non ottenne nessun risultato. Il treno ripartì. Colsi una sua occhiata rivolta a me: conosco bene la psicologia dei bambini, dopo trentotto anni di insegnamento, e capii subito che questo era un tipetto sveglio con una gran voglia di scoprire e imparare. Se mi fossi messa a spiegargli l’evento storico legato a quel nome, dopo aver bevuto le mie parole mi avrebbe tempestato di domande. Colta da un senso di rispetto per il silenzio malinconico della madre, preferii tacere. Intanto il bambino seguitava a fissarmi, per cui io finsi di dormicchiare. Durante il percorso udivo però la sua voce che elencava i vari paesi costieri; ma il tono era stracco e poi si spense. Evidentemente non gli piaceva giocare da solo. Tra un battito di ciglia lo intravidi osservare svagato il grigiore del cielo che si rifletteva nel mare, e smuovere smanioso le gambe.

Appena il treno sferragliò sul ponte sopra il fiume Entella la donna si rivolse al figlio con un piglio brioso: “Su, Nuccio! La prossima è la nostra fermata”. Lui balzò in piedi e si fece agganciare lo zainetto alle spalle. “Siamo già a Lavagna?”, si informò. “Proprio a Lavagna”, confermai io, rompendo finalmente il cerchio del mio riserbo. E lui con gli occhi sgranati: “Io sulla lavagna ci scrivo”. “E io ci abito da un sacco di tempo”, replicai scherzosa.

Scendemmo tutti e tre insieme. La madre portava un borsone nero a tracolla e sul marciapiedi sbirciò attorno, indecisa. All’uscita dalla stazione mi chiese dove fosse via Devoto, controllando un biglietto tratto da una tasca dei jeans. ”Che numero?” chiesi a mia volta. “Trentuno”, mi rispose. “Andiamo, è il caseggiato di fronte al mio”, la rassicurai. Parve illuminarsi: “Grazie, signora; è da anni che non vengo da queste parti: abito a Udine, e qui mi aspetta una mia amica”. “La Luisita”, specificò il bambino con gli occhi ridenti. Ci salutammo quando già le prime gocce di pioggia cadevano su via Devoto.

Quando arrivai a casa accesi una sigaretta e misi a posto alcune scartoffie inerenti alla mia visita al provveditorato agli Studi di Genova. Più tardi il frigo poco fornito mi indusse a prendere l’ombrello e uscire. Tornando dal supermercato mi volsi casualmente verso il civico 31: scorsi il bambino del treno che mi guardava attraverso il vetro del portone con aria sconsolata. Tornai allora sui miei passi e mi accostai: la madre era rannicchiata sulla prima rampa delle scale con nello sguardo la medesima delusione del figlio. Spinsi la maniglia: “Siete ancora qui?”, mi meravigliai. La giovane si levò in piedi imbarazzata: “La mia amica forse si è scordata del nostro arrivo, doveva lasciare le chiavi alla vicina, che però non sa nulla e al cellulare non risponde. “La Luisita è proprio scema”, mormorò il bambino scuotendo il capo. “E adesso?”, mi impensierii. “Aspettiamo ancora un po’, se non viene cercherò un alberghetto per la notte”, mi rispose lei a occhi bassi. Controllai l’ora al polso e decisi su due piedi: “Venite su da me, intanto dovete pur cenare”. Madre e figlio parevano stupiti dell’invito: lui fu però pronto a sistemarsi le cinghie dello zainetto, mentre lei esitava a raccogliere il borsone.

“Signora, non vorrei darle disturbo, lei è troppo gentile…”. Le allungai la mano come per stringere un patto di solidarietà. “Mi chiamo Teresa”, mi presentai. “Io sono Ortensia”, replicò lei con un filo di voce. Quindi aprii l’ombrello e alla benemeglio li feci mettere sotto tutti e due.
Nello svegliarmi la mattina dopo ebbi subito la sensazione di non essere sola in casa. Erano quasi le otto e certo Ortensia era già uscita: doveva prendere un treno per Genova. Mi aveva lasciato il bambino e il borsone; e non aveva potuto contattare l’amica al cellulare.

La sua storia me l’aveva raccontata la sera prima: quattro parole al tavolo di cucina mentre Nuccio dormiva nella cameretta che era stata di mio figlio Alberto. Una storia cominciata bene, che si era deteriorata recentemente. Il suo compagno – oh, quanto detesto questo termine in uso per le coppie di fatto – aveva perso il lavoro di gruista e l’inerzia lo aveva reso sfuggente e irascibile. Stava tutto il giorno fuori, rientrava tardi e ogni tanto portava un po’ di soldi di dubbia provenienza. Ortensia temeva che si fosse messo in un brutto giro e i suoi sospetti si confermarono allorchè fu arrestato perché in possesso di pochi grammi di cocaina. Raccontando questa vicenda lei fumava, e io pure. La nuvola di fumo creava una sorta di velo confacente a questa sua improvvisa familiarità con un’estranea.

“Il giudice non ha accettato l’alibi che si trattasse della sua dose personale e l’hanno arrestato per spaccio”. E dopo una pausa, con tono supplice: “Mi creda, signora, ha avuto un momento di debolezza in seguito al licenziamento, ma è un brav’uomo e ci vuole bene”. Il posacenere era pieno di mozziconi. Per il processo imminente Ortensia intendeva rivolgersi a un buon avvocato di Genova. “La mia amica si è offerta di tenere Nuccio, così io posso muovermi liberamente”, aveva concluso con un sospiro.

Nuccio comparve sulla soglia della cucina strofinandosi gli occhi e mi domandò della madre, con la quale aveva condiviso il letto a una piazza. Gli risposi che era partita e sarebbe tornata la sera. Lui si strinse nelle spalle: “E’ per papà, lo so; lavora a Genova. E’ tanto che non lo vedo”. Poi scostò una sedia e si sedette al tavolo dove avevo preparato il tazzone di latte con i biscotti. Ortensia lo tirava su bene, il suo bambino, sebbene adesso potesse contare solo sul suo lavoro in un’impresa di pulizie. Verso le dieci uscimmo e andammo a passeggiare sul lungomare sotto lo sfolgorante sole di giugno: Nuccio mi dava la mano fiducioso. Al suo sguardo acuto non sfuggiva nessun dettaglio di quel paesaggio da cartolina; però non faceva domande. Così toccò a me prendere l’iniziativa: “Ti ricordi che in treno volevi sapere perché una stazione si chiama Quarto dei Mille?”.

Lui mi guardò di sotto in su e mi fece, un po’ imbronciato: “Nessuno mi ha risposto”. Niente di meglio di una panchina un po’ in ombra per colmare la lacuna: e il mio racconto gli sciolse la lingua. “Questo Garibaldi era davvero un eroe”, osservò Nuccio, che aveva ascoltato molto attento la narrazione dell’impresa dei Mille. E poi con una timida occhiata: “Tu sei una maestra?”. “Lo sono stata… e tu hai una brava maestra?”. “Io ne ho due, la Lory è simpatica, l‘altra  è una streghetta con le unghie blu”. E si portò le mani alla bocca, pentito dell’impertinenza.
Nel pomeriggio Nuccio si mise a guardare i cartoni alla tivù e io presi un vecchio album dell’infanzia di mio figlio per mostrarglielo, ma cambiai idea e lo infilai di nuovo nel cassetto. Ortensia per tutto il giorno non si fece viva. Mentre cenavamo squillò il campanello della porta. Nuccio si strappò il tovagliolo e corse all’ingresso. Udii delle esclamazioni e lo seguii. Sulla soglia si stagliava una biondina sorridente che lo stava abbracciando: era la famosa Luisita che, una volta entrata, si scusò per le sue negligenze del giorno prima;  “Sto allestendo un piccolo stabilimento balneare, un grande impegno che mi ha mandato in tilt e ho scordato tutto il resto…”.

Nuccio la guardava con una smorfia di rimprovero. “Su, adesso saluta questa gentile signora, prendi la tua roba e vieni da me… La mamma mi ha telefonato, ma il cellulare era mezzo scarico e non ho capito quasi niente”. Nuccio non si mosse dal mio fianco. “Stanotte dormo qui”, disse; “la maestra deve finire di raccontarmi le ultime imprese di Garibaldi”. Non ci fu verso di fargli cambiare idea. La ragazza infine si arrese: sarebbe venuta a prenderlo l’indomani. Appena chiusi la porta Nuccio mi strizzò l’occhio: e rimase sveglio fino alle dieci ad ascoltare la lezione su Garibaldi. Prima di addormentarsi gettò un’occhiata verso la scrivania dove c’era la foto del mio Alberto. “ E’ tuo nipote?”, mi domandò. “E’ mio figlio a quindici anni”. “Dove è adesso?”. “All’estero”. “E non ti viene a trovare? ”Certo che viene, e anche di frequente”. Spensi la luce e uscii dalla stanza. Avevo il magone. Alberto era bello e bravo come appariva in quell’ultima immagine: ma quando suo padre se n’era andato via di casa per amore di una giovane turista inglese che viveva a Londra, era diventato duro e ribelle. Che si fosse messo in un brutto giro come il compagno di Ortensia me ne ero resa conto troppo tardi. Quell’estate particolarmente secca i boschi delle colline bruciavano e l’odore del fumo arrivava fino alla Via Aurelia. Incendi dolosi, scrivevano i giornali. Le guardie forestali scoprirono una piccola banda di minorenni che appiccavano il fuoco per divertimento. Alberto era fra loro. Cercò di scappare ma sull’orlo di un dirupo perse l’equilibrio e precipitò, facendo un volo di dieci metri.
Nuccio se ne andò la mattina dopo con “quella scema della Luisita”, lasciandomi dentro un’apprensiva tenerezza. La casa tornava vuota. Forse mi ero illusa che il bambino del treno restasse ancora un po’ a dare un senso alle mie giornate. Ma sarebbe stato come tradire Alberto che da decenni è l’ombra dolce che accompagna ogni istante della mia vita. Qualche volta scorgo Nuccio che gioca in spiaggia, allegro,  abbronzato, con altri bambini. Oramai di Garibaldi sa tutto e non ha più bisogno di me. Ci lanciamo un saluto da lontano. Ortensia ogni tanto mi telefona. Spero che tutto si risolva presto: così Uccio tornerà a Udine con i suoi genitori.
                                                                                                                             
                                                                                                                    (Anonimo, Premio  Prato Raccontiamoci)
      
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