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Orizzonti

GLI ANZIANI HANNO SOPRATTUTTO IL DOVERE DI RESTARE GIOVANI. I GIOVANI HANNO SOPRATTUTTO IL DOVERE DI INVECCHIARE CON SAGGEZZA

Fra poco mi concederò una manciata di giorni in Sardegna, terra dei miei avi e della mia casa paterna. E non farò a meno, andando a trovare i vecchi amici che vivono nell’isola, di fare una visita anche verso Ozieri e Thiesi, nel cui piccolo cimitero riposano, in attesa della resurrezione dei giusti, i resti mortali di Vincenzo Saba, mio grande maestro di cultura sindacale e di vita.
 
E mi piace, mentre penso a questa visita, riandare in compagnia degli amici di Studisociali alla riflessione che stendevo nel 2012, ad appena un anno di distanza dalla morte di Saba, per fissare fra noi suoi allievi ed amici il suo più insistente messaggio culturale e di vita nei nostri confronti.  Eccolo, dunque.
 
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A un anno di distanza dalla sua morte, ricordare Vincenzo Saba significa per me riassumere una sensazione che ebbi immediata, pensando alla sua dipartita, appena ne ebbi notizia: “Saba – mi dissi – mi ha insegnato il sindacalismo ma mi ha insegnato che vale la pena essere uomini completi, nel fare i sindacalisti come nel fare qualunque altra cosa nella vita”.
 
E questa in realtà considero la sua eredità principale per me, insieme allo spirito dal quale traeva il modo di incarnare questo impegno: lo spirito cristiano creduto profondamente e vissuto personalmente.
 
Come ci si forma a diventare uomini completi?
 
Tra Vincenzo Saba, morto a oltre novantacinque anni di età, e noi, che operiamo ancora nel pieno delle nostre energie, passa in qualche caso una generazione, in qualche caso più di una: eppure i ragionamenti che egli ci ha lasciati da meditare si manifestano di giorno in giorno di validità altissima per tutte le generazioni: era un’altra delle sue caratteristiche, questa: ragionare per concetti che fossero validi non solo per l’oggi ma anche per il domani. E in questo modo mettere insieme le generazioni, farle alleare fra loro, arricchire le energie dei giovani con la esperienza degli anziani, e viceversa. Ricordo che ogni tanto mi ripeteva: “In fondo… gli anziani hanno soprattutto il compito di restare giovani, i giovani hanno soprattutto il compito di invecchiare bene”.
 
Noi abbiamo in effetti, fra gli altri, il compito importante di restituire alla società il sentimento di una solidarietà che non ha ragione di essere divisa per generazioni, né per sessi, né per religioni, né per censo, né per altre categorie. E’ importante, dire questo, perché l’ansimare della crisi attuale e la difficoltà di strumenti culturali atti ad affrontarla con efficacia stanno operando variamente per dividere ulteriormente il paese in categorie che competono fra loro per contendersi la presunta sicurezza o prosperità che ancora il paese possiede, danneggiando in realtà il contesto del quale esse stesse hanno bisogno per svilupparsi. Caso esemplare può essere la questione delle pensioni e del mercato del lavoro, ad esempio: anziani che vogliono restare al lavoro contro giovani che vogliono entrare, e viceversa. “Contro”, non in collaborazione.
 
Sono problemi né piccoli né pochi. Un ulteriore esempio è la vera e propria menzogna istituzionale che ci dipinge la grave crisi che ci attanaglia dal 2008 come una crisi economica: non è una crisi economica, ma solo una crisi finanziaria! Diverse aziende non sono state toccate dalla crisi o ne sono rapidamente uscite: sono quelle che hanno saputo sottrarsi da tempo alla morsa della piovra finanziaria che passa attraverso il sistema bancario, a sua volta vittima della finanza speculativa. Un caso di successo che è riuscito forse meglio di tutti, in questi anni, a venire alla ribalta dell’attenzione di una pubblica opinione attenta anche se numericamente limitata, è quello dell’azienda Loccioni, che opera nelle Marche soprattutto con il settore informatico, che eccelle a livello mondiale, e che ha adottato un sistema di gestione assolutamente partecipativo, diremmo olivettiano. Un sistema che rende e mai si è lasciato imprigionare dalla finanza. Una concezione della economia che alcuni chiamano, con un voluto gioco di parole, “noiconomia”, cioè “economia del noi, economia solidale di tutti quelli che, facendo comunità, operano nell’impresa; di contro alla tradizione cinica della “economia dell’io”, cioè dell’imprenditore come soggetto di affari rispetto al quale le persone lavoratrici sono puro fattore di produzione alla stregua delle macchine.
 
Ma, per promuovere con coraggio superiore la frontiera della “noiconomia”, che tipo di sindacato, in particolare, occorre? Oggi, nel ventunesimo secolo dell’era cristiana, il sindacato, ormai consacrato in Italia e in tutto il mondo come soggetto istituzionalmente importante per le politiche del lavoro, non può accontentarsi di dare “qualcosa di più” alla elaborazione di tali politiche: perchè il mondo del lavoro del ventunesimo secolo è un mondo inopinatamente in crisi assai più strutturale che congiunturale: alla crisi finanziaria violenta esplosa nel 2008 è stata collegata una più vasta inadeguatezza di modelli e riferimenti culturali, che hanno fatto perdere lucidità e smalto a quella visione armonizzatrice per costruire la quale il movimento sindacale, al di là di tutte le schizofrenie contingenti della sua storia e della storia sociale, è nato, e per la quale Vincenzo Saba non aveva mai smesso di lottare.
 
 
Il sindacato deve oggi offrire qualcosa di “decisamente” più avanzato. Vincenzo Saba avrebbe peraltro subito precisato che questo deve essere fatto non già sovrapponendo il sindacato o sovrastimandolo rispetto al contesto sociale globale: avrebbe insegnato che la forza intrinseca e diremmo ontologica della ragione di essere del sindacato è così evidente nell’uomo che il sindacato deve, con tutta questa sua dignità fondamentale di ragion d’essere, pretendere e affermare il suo diritto a partecipare effettivamente all’impegno di tutta la società per migliorare se stessa concretamente, senza lasciarsi irretire da ritorni indietro di origine egoistica, corporativa, settorialista.
 
E questo il sindacato lo fa assumendosi per primo la sua ampia quota di responsabilità sociale e, in senso ampio, anche politica: innanzitutto, costruendo per i suoi uomini e le sue donne un livello di formazione qualitativa elevata e sempre crescente, attraverso processi di formazione continua e integrale. Una formazione a carattere globale, affinchè la specializzazione nelle materie lavoriste poggi sul solido terreno di una visione totale dell’uomo. Ad accompagnare una politica generale che sa servirsi dell’ausilio delle università, dei centri di ricerca, dei luoghi di studio che hanno qualcosa da insegnare: ma senza soggezione, come si deve a una organizzazione fondativa della società, conscia e responsabile. Non l’università si serve del sindacato (salvi ovviamente i fini di studio) ma viceversa, il sindacato si serve dell’università, come di un suo strumento di ausilio nel proprio cammino di ricerca e di sviluppo delle sue linee di azione e della sua cultura. E non i professori guidano la formazione, ma i maestri di vita.
 

Dobbiamo inoltre cominciare questo lavoro da noi stessi, dalla nostra realtà diretta, aggiungeva Saba, per non rischiare di restare nell’astratto che spesso rimproveriamo agli altri. E dobbiamo fare questo lavoro in quattro direzioni contestuali:
  • Su noi stessi;
  • Sul sindacato come comunità associativa;
  • Sulla  impresa;
  • Sulla società.
 
Mentre rifletto sul messaggio di Saba mi torna alla mente che un vecchio capo del personale di Selenia, azienda di grande storia e prestigio, a suo tempo, nel panorama industriale italiano, mi diceva nel 2011, proprio l’anno in cui Saba ci ha lasciati: “Quando entravamo in azienda ci si diceva innanzitutto che un dirigente Selenia doveva essere senza partito, senza sindacato e senza sesso. Poteva sembrare una espressione esagerata ma in fondo faceva funzionare l’azienda meglio di come funzionò successivamente”.  Saba avrebbe osservato che un autentico dirigente sindacale, quando entra nel sindacato, deve essere “senza partito, senza padroni e senza clienti”. E che un autentico uomo politico, quando entra in un partito o in una istituzione, deve essere “senza clienti, senza finanziatori, senza nemici”. E avrebbe spiegato ante litteram quel concetto di “bene comune” che in realtà fu sempre suo riferimento di pensiero e di azione.
 
                                                                                                          (Giuseppe Ecca)
 
 

Orizzonti

L'ORIZZONTE DI PAPA FRANCESCO

Giovanni Ghiselli è uno dei più profondi e completi conoscitori della cultura classica latina e greca: una conoscenza non astratta ma innervata in una concreta vita professionale trascorsa per oltre trent’anni nella scuola come docente di liceo, a insegnare soprattutto il senso di quella cultura rispetto alla vita di oggi e di sempre. E continua a farlo: non solo nella scuola, ma anche in sedi istituzionali e culturali diverse, richiesto spesso di riflessioni che aiutino a orientarsi in una società che sembra fare molta fatica a riconoscere il senso del suo andare. Il ministero della pubblica istruzione lo ha fra i suoi consulenti.
 
Ci è parso utile riproporre un suo commento al messaggio che Papa Francesco ha rivolto al Parlamento e al Consiglio europei nel 25 novembre 2014: un inedito confronto fra società attuale e mondo dei classici, alla ricerca di utili suggerimenti per non smarrire il timone del mondo che viviamo.
 
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Cercherò di trovare analogie e differenze tra i punti cruciali dell’allocuzione del Papa e alcuni topoi
presenti nei miei autori classici.
 
Sua santità Francesco ha detto che l’Europa è “alquanto invecchiata e compressa”. Il tema
dell’invecchiamento di una civiltà e della terra sulla quale essa è nata ricorre nella letteratura antica.
La causa di tale senescenza è spesso individuata nell’empietà e nell’immoralità degli uomini.
 
Nell'Antigone di Sofocle, Tebe è malata: la città che è di tutto il popolo è sottoposta a un morbo
violento  per l'empietà del tiranno, accusato dal vate Tiresia di amare i turpi guadagni e di
infliggere violenza ai concittadini.
 
Nell' Edipo re lo spengersi degli oracoli procede parallelamente al declinare della polis e il Coro
depreca la miscredenza nei confronti dei responsi, in particolare dei vaticini delfici:
infatti già estirpano
gli antichi vaticini di Laio consunti
e in nessun luogo Apollo
risplende per gli onori
e tramonta il divino
(vv. 907-910).
 
Sofocle insomma fa dipendere dalla empietà la decadenza della vita umana fino alla sterilità delle donne e perfino a quella della terra e degli animali. Leggiamo come il sacerdote nel prologo della tragedia descrive il flagello a Edipo:
 
la città infatti,come anche tu stesso vedi, troppo
già fluttua e di sollevare il capo
dai gorghi del vortice insanguinato non è più capace
e si consuma nei calici infruttuosi della terra,
si consuma nelle mandrie dei buoi al pascolo, e nei parti
senza figli delle donne; e intanto, il dio portatore di fuoco,
scagliatosi, si avventa sulla città, peste odiosissima,
dalla quale è vuotata la casa di Cadmo, e il nero
Ades si arricchisce di gemiti e lamenti"
(Edipo re, vv. 22-30).
 
Empietà secondo Sofocle è la noncuranza degli oracoli e l'abbandono dei riti tradizionali.
 
Isocrate nell'Areopagitico (del 356) condanna più in generale lo sconvolgimento delle tradizioni
antiche:"Ritenevano che la devozione stesse nel non cambiare niente di quello che gli antenati avevano loro tramandato”.
 
Su un'analoga linea di tradizionalismo si trova Sallustio il quale lamenta la decadenza della virtus in seguito alla troppo alta considerazione del denaro:"Operae pretium est (…) visere templa deorum
quae nostri maiores religiosissumi mortales fecere. Verum illi delubra deorum pietate, domos suas
gloria decorabant (Cat. 12): vale la pena di visitare i templi degli dèi che i nostri antenati, uomini
religiosissimi, avevano costruito. In effetti quelli ornavano i santuari degli dèi con la devozione, le
case con la gloria”.
 
Gli dèi sono offesi dal venire meno della pietas, dalla immoralità, dall'irreligiosità, dall'idolatria
degli uomini adoratori del denaro.
 
Sentiamo Petronio che “dipinge in una lingua da orafo i vizi d'una civiltà decrepita, d'un impero che si va sfasciando” (Huysmans) : "ego puto omnia illa a diibus fieri. Nemo enim caelum caelum putat, nemo ieiunium servat, nemo Iovem pili facit, sed omnes opertis oculis bona sua computant. antea stolatae ibant nudis pedibus in clivum, passis capillis, mentibus puris, et Iovem aquam exorabant. Itaque statim urceatim plovebat: aut tunc aut numquam: et omnes redibant udi tamquam mures. Itaque dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus, agri iacent…" (Satyricon, 44, 17-18): io credo che tutto questo derivi dagli dèi. Nessuno infatti considera il cielo, nessuno rispetta il digiuno, nessuno stima un pelo Giove, ma tutti a occhi chiusi fanno il conto dei loro possessi. Prima le matrone in stola salivano a piedi nudi sul colle del Campidoglio, con i capelli sciolti, i cuori puri, e supplicavano Giove per l'acqua. E così subito pioveva a catinelle: o allora o mai più: e tutti tornavano bagnati come topi. Ora gli dèi hanno i piedi felpati. Poiché non siamo religiosi, i campi sono abbandonati.
 
Sono parole di un liberto ignorante, eppure per l’espressione opertis oculis si può trovare una
analogia nell’Antico Testamento a proposito degli idolatri:"Gli idoli dei popoli sono argento e oro,
opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi
e non odono; non c'è respiro nella loro bocca. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi
confida" (Salmi, 135, 15-18).
 
Properzio fa dipendere il tramonto degli dèi, della pietas, della fides, della lex, del pudor, dal lusso e dalla lussuria di uomini e donne, e dalla maledetta fame dell'oro già esecrata da Virgilio:
 
At nunc desertis cessant sacraria lucis:
aurum omnes victa iam pietate colunt.
Auro pulsa fides, auro venalia iura,
aurum lex sequitur, mox sine lege pudor":
 
“ma ora sono trascurati i santuari nei boschi deserti: vinta la devozione, tutti venerano l'oro. Dall'oro è stata messa fuori corso la lealtà, con l'oro si compra la giustizia, la legge obbedisce all'oro, presto il pudore sarà fuori legge”. Tutto questo porterà alla caduta di Roma:"frangitur ipsa suis Roma superba bonis": la stessa Roma superba viene spezzata dalle sue ricchezze.
 
Nella letteratura latina, del resto, c'è un'altra spiegazione. Lucrezio con la visione materialistica ripresa da Epicuro smonta questo tipo di pietas legata, secondo lui alla superstizione (religio) e confuta il " tristis… vetulae vitis sator atque vietae (De rerum natura, II, 1168), il rattristato coltivatore della vigna vecchia e vizza, il quale
 
Temporis incusat nomen saeclumque fatigat,
et crepat, antiquum genus ut pietate repletum
per facile angustis tolerarit finibus aevum,
cum minor esset agri multo modus ante viritim.
Nec tenet omnia paulatim tabescere et ire
ad capulum spatio aetatis defessa vetusto:
 
“accusa il corso del tempo e insulta la sua età,
e brontola che l'antico genere umano pieno di devozione
sosteneva assai facilmente la vita entro confini ristretti,
sebbene molto minore fosse prima la misura del campo per testa.
E non capisce che tutto a poco a poco si consuma e va
verso la tomba, spossato da lungo spazio di tempo”.
 
Sono gli esametri conclusivi del secondo libro. In questo poema c'è dunque una concezione organica della terra che invecchia come tutto nell'Universo.
 

Ma torniamo al nostro Papa.
"Una volta - ha detto - c'era la fiducia nell'uomo in quanto persona dotata di una dignità
trascendente". Tale fiducia significa non trattare uomini e donne come strumenti da usare e buttare
via quando non servono più. Platone raccomanda agli uomini l’assimilazione a Dio (Teeteto): quella che sarà l’Imitatio Christi per i Cristiani. Tale assimilazione alla divinità significa essere buoni. Agostino ricorda Platone in questi termini: habemus sententiam Platonis dicentis omnes deos bonos sse (civ. Dei).
 
La deduzione della bontà del creato dalla bontà del creatore si trova, com’è noto, dal Timeo
ove si legge che Dio, creatore di un cosmo bellissimo, è il migliore degli autori.
Il Timeo viene riecheggiato ripetutamente da Agostino attraverso la traduzione ciceroniana. Per
esempio: “hanc etiam Plato causam condendi mundi iustissimam dicit, ut a bono Deo bona opera
fierent (civ. Dei); anche Platone afferma che la causa più giusta della creazione del mondo è
che le opere buone sono fatte da un Dio buono.
 

Pure Seneca aveva tradotto il medesimo passo del Timeo: “ ita certe Plato ait: Quae deo faciendi
mundum fuit causa? Bonus est. E ancora: “Quae causa est dis bene faciendi? Natura. Errat si quis illos putat nocere nolle: non possunt. L’uomo che non si è allontanato da Dio dunque è buono e in questo Gli assomiglia.
 
Torniamo a papa Bergoglio. L’uomo non è una monade, ma una persona associata ad altre con diritti e doveri e il divenire individuale deve svilupparsi in maniera sociale, tendendo al bene comune, non senza dialogo e discussione. Siamo infatti animali politici e animali linguistici. Orrendo, anzi infernale, è, a parer mio, il costume di tanti individui che invece di dialogare con altre persone, magari addirittura sedute allo stesso tavolo in quella che dovrebbe essere la comunione del pasto, maneggiano per tutto il tempo telefonini o altri strumenti del genere senza mai rivolgere parola ai vicini o alzare gli occhi per guardarli.
 
Il Papa ha denunciato il male della solitudine. Ora le persone vi si sprofondano senza nemmeno
accorgersene o compiacendosene, data la paura e la diffidenza che distanzia ciascuno dal prossimo
suo. Nella tragedia greca l’isolamento è vissuto come un male tra i peggiori: Filottete (questa tragedia di Soflocle è del 409) lasciato solo dai compagni nella deserta Lemno lamenta di essere “uomo infelice, solo, abbandonato, così e senza amici”.
 
La solitudine di Filottete dunque è penosa per un greco antico, tipicamente, come ha notato bene
Kierkegaard. Secondo il filosofo danese, per l'uomo greco che viveva nella democratica la solitudine dell’impolitico è una condizione innaturale :"benché si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato. Questa determinazione sostanziale è la vera e propria fatalità della tragedia greca, e la sua vera e propria caratteristica."
 
L'abitudine e il desiderio di stare soli sono già condannati come disumani da Omero nella figura
mostruosa del Ciclope, e, dopo Sofocle, da Menandro nel prologo dove il misantropo Cnemone viene definito uomo disumano assai.
 
Invece più avanti nel tempo, con la degenerazione brutale dei rapporti umani, con la trasformazione delle persone in turba, folla, diventerà non solo dignitoso ma necessario rimanere soli. Seneca, tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia , omicidi veri e propri, scrive:" Avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui: “Torno a casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio perché sono stato in mezzo agli uomini”. Il consiglio allora è:"recede in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto puoi. La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “ Seneca Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum”: Seneca saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i pochi, evita anche uno solo.
 
Infine Nietzsche: “C’è da dir male anche di chi soffre per la solitudine- io ho sempre e soltanto
sofferto per la moltitudine”. La solitudine dunque è un portato della difficoltà nei rapporti umani, della loro disumanità. Eppure noi uomini, come ha scritto l’imperatore Marco Aurelio “siamo nati per darci aiuto reciproco, come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire uno a danno dell'altro è cosa contro natura (Ricordi).
 
In questa Europa non più fertile e vivace, ha detto ancora papa Bergoglio, siamo passati dai grandi ideali ai tecnicismi burocratici. Chi scrive queste note ha trascorso quasi tutta la vita nella scuola e ha sofferto l’invadenza di troppi tecnicismi anche nel campo che dovrebbe essere quello della cultura. La valutazione del fanciullo (pais), e a maggior ragione la sua paideia, educazione, non può ridursi a una serie di questionari o quiz senza anima, senza idèe, né sentimenti, né bellezza, né verità. Una serie di formule da imparare a memoria. So di ragazzi che nella scuola media devono rispondere qual è la differenza tra “favola” e “fiaba” senza avere mai letto nulla di Esopo né di Fedro. Non si leggono più gli autori nelle scuole.
 
Eppure gli auctores sono i nostri “accrescitori”. Ma se i giovani non crescono mentalmente è più
facile tenerlo sottomessi e farne dei consumatori bulimici. Prevalgono le questioni tecniche e gli affari economici in una sorta di tirannide contraria all’indagine sui sentimenti, alla discussione sulle idèe. Questo male viene già denunciato da Giacomo Leopardi :
 
un franco
di poetar maestro (…) lascia, mi disse,
i propri affetti tuoi. Di lor non cura
questa virile età, volta ai severi
economici studi, e intenta il ciglio
nelle pubbliche cose, Il proprio petto
esplorar che ti val?”.
 
In questo culto dell’economia, del mercato e del profitto l’uomo viene trattato come l’ingranaggio
di un meccanismo. E’ la cultura “del consumismo esasperato e dello scarto”, ha detto il nostro
pontefice. Il culto del consumo, del profitto e del Pil arriva a ritualizzare le guerre.
Seneca nel De ira ricorda che i re incrudeliscono e compiono rapine e distruggono città costruite
con lunga fatica di secoli per cercare oro e argento dentro le ceneri delle città:"Reges saeviunt
rapiuntque et civitates longo saeculorum labore constructas evertunt ut aurum argentumque in
cinere urbium scrutentur ".
 
Quindi cito di nuovo la Palinodia al marchese Gino Capponi di Leopardi:
 
…coverte
fien di stragi l’Europa e l’altra riva
dell’atlantico mar (…) sempre che spinga
contrarie in campo le fraterne
schiere/di pepe o di cannella o d’altro aroma
fatal cagione, o di melate canne
o cagion qual si sia ch’ad auro torni” (vv. 62-68).
 
Papa Francesco ha ricordato La scuola di Atene di Raffaello Sanzio urbinate. Ha fatto notare che tra
i filosofi presenti e vivi in questo affresco del 1510, Platone punta l’indice della mano destra verso
l’alto, mentre Aristotele tiene la mano davanti a sé, con la palma rivolta verso la terra.
Noi uomini siamo creature anfibie e non possiamo perdere il doppio contatto con la terra e con il
cielo, se non vogliamo rinnegare la nostra natura composita. Ciascuno di noi è la metà di un segno di riconoscimento, uno spezzone da completare. Dobbiamo congiungere il non
eterno con l’eterno: senza spregiare il transitorio, il mortale, dobbiamo trovare in noi l’immortale. Il Faust di Goethe si chiude con il Chorus mysticus che canta: “Tutto l’effimero è solo un simbolo”.
 
Papa Bergoglio ha poi ricordato la centralità della persona umana e l’educazione che deve dare la
famiglia, la scuola, la società. Educazione al rispetto della dignità propria e di quella del prossimo. Quindi il diritto-dovere del lavoro la cui mancanza inficia la dignità dell’uomo. Quanto alla questione dei migranti, il Papa ha detto che il nostro mare Mediterraneo non deve diventare un
grande cimitero.
 
Infine la questione centrale dell’identità: tanto quella delle singole persone quanto quella dei popoli non va portata all’ammasso di una globalizzazione alla quale non dobbiamo permettere di annientare il principium individuationis con il “conosci te stesso”, proprio mentre con stridente
contraddizione incentiva l’egoismo più feroce.
 
Alcune aggiunte ha fatto Papa Bergoglio parlando al Consiglio d’Europa, sempre il 25 novembre a
Strasburgo. Il pontefice ha indicato la via della pace. Per incamminarci su questa strada e percorrerla “metodicamente” dobbiamo riconoscere nell’altro un fratello da accogliere, da cui imparare. L’umanesimo è amore per l’umanità, come la fanciulla di Sofocle :(Antigone): “certamente non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore”.
 
Ed è espressione di umanesimo quanto dice Teseo a Edipo nell’ultima tragedia del poeta di Colono: ( Edipo a Colono): so di essere un uomo. Sapere di essere uomo è la coscienza della propria umanità senza la quale ogni atto violento è possibile. Sapere di essere uomo significa incontrare una creatura mezza distrutta come è Edipo vecchio, provarne pietà, incoraggiarla ponendo domande:" e sentendo compassione-continua Teseo- voglio domandarti, infelice Edipo, con quale preghiera per la città e per me ti sei fermato qui”. Poi significa ascoltare e comprendere con simpatia poiché siamo tutti effimeri, sottoposti al dolore e destinati alla morte. "Anche io - dice il re di Atene al mendicante cieco, incestuoso e parricida – sono stato allevato fuggiasco come te. Dunque so di essere uomo e che del domani nulla appartiene più a me che a te".
 
Una simile dichiarazione di umanesimo, quale interesse per l'uomo e disponibilità ad ascoltarlo,
leggiamo nel più famoso verso di Terenzio:" Homo sum: humani nil a me alienum puto ". "Umana cosa è l'aver compassione degli afflitti" sono le prime parole del Decameron.
 
Papa Bergoglio recentemente ha detto di stare dalla parte dei poveri. In questo è davvero imitator
Christi e del santo suo eponimo. Già Papa Ratzinger ha sottolineato il fatto che “Gesù si identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me” (Matteo, 25, 40). Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio”. Sentiamolo in latino: “Amen dico vobis: Quamdiu fecistis uni de his fratribus meis minimis, mihi fecistis”.
 
E in greco. Anche questa forma di umanesimo, di alta umanità, non era ignota ai Greci: Nausicaa nel VI canto dell’Odissea, poi Eumeo nel XIV dicono a un Odisseo malridotto che vogliono aiutarlo perché vengono tutti da Zeus gli stranieri e i mendichi, e un dono anche piccolo è caro per loro.
 
Occorre combattere la cultura del conflitto, ha detto il Papa: bisogna fermare la corsa agli armamenti. Dobbiamo opporci al traffico degli esseri umani, alla loro mercificazione, alle nuove
forme di schiavitù che possono essere più dolorose e degradanti di quelle antiche. Per fare questo ci
vuole coscienza e ci vuole cultura. Coscienza di noi stessi, del presente e del passato. Senza la conoscenza del passato si vive come entità casuali, come un albero senza radici. Non siamo qui per caso. Niente avviene per caso. “There is a special providence in the fall of a sparrow" c'è una provvidenza speciale perfino nella morte di un passero (Amleto, V, 2). C’è un fatum che è il fari (il parlare) di Dio: Fatum nihil aliud est quam series implexa causarum (Seneca, de beneficiis), una serie di cause concatenate.
 
Paolo VI definì la Chiesa come una istituzioneesperta in umanità”. L’uomo umano ha bisogno di dialogare, di meravigliarsi, di considerare se stesso e la vita intera come problema. Non può accontentarsi dei luoghi comuni della propaganda pubblicitaria avida, interessata al lucro. E’ necessaria una nuova agorà dove confrontare le idèe, dove cercare la verità che è , non Latenza, disvelamento. La cultura, , come educazione e come apprendimento, nasce sempre dall’incontro, dall’attenzione, dall’ascolto e dalla cura degli altri.
 
Bologna 27 novembre 2014
                                                                                                          (Giovanni Ghiselli)
 
 
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