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Sindacalismo

VARIABILE INDIPENDENTE E' IL SINDACATO. MA I SINDACALISTI?

E’ del 2015, il pezzo qui pubblicato, che viene riprodotto per consentire a mestesso ed ai lettori il punto della situazione in materia di sindacato e in particolare di sindacalismo Cisl, a cinque anni da quando fu scritto. Devo subito dire che… avevo riposto male la mia speranza viva in un inizio di ripresa del pensiero alto e forte di quel sindacalismo. Annamaria Furlan ed i suoi amici non ce l’hanno fatta. Finora, almeno. Non nego certo la loro buona volontà e le loro buone intenzioni, ma mi paiono di nuovo piuttosto persi nella palude tatticistico-esistenziale di tutta la nostra società. Una speranza che viene delusa e ancora una volta rinviata. Speriamo che riprenda concretezza presto.
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Una felice sorpresa
 
Appena ho cominciato a leggerlo mi ha lasciato di stucco e felice, e per qualche momento anche incredulo, questo documento della Cisl intitolato Verso la Conferenza Programmatica Organizzativa, predisposto dalla grande confederazione sindacale di via Po per il suo più importante appuntamento interno dell’imminente autunno, e forse dell’intero anno.
 
In effetti, di primo acchito pare quasi incredibile: la Cisl, dopo oltre quarant’anni di storia, sta riuscendo a guardarsi davvero, almeno in sintesi e implicitamente, allo specchio profondo del suo passato, ed a farlo con parole e pensieri di una nitidezza non più vista da molto; sta riuscendo, in particolare, a guardarsi allo specchio implicito di quelle che furono la sua ragione originaria di nascita, la sua peculiare natura, la sua primigenia visione del lavoro e dei lavoratori; e, di conseguenza, sta riuscendo a riconoscersi nella missione ideale che ne motivò la fondazione, e che oggi sembra tornare a illuminarne anche il futuro possibile.
 
Quello che mi è stato fatto leggere è infatti un documento articolatissimo, di oltre quaranta pagine, dedicate ad analisi nella prima parte, e a programmi nella seconda: una carta di riflessione in cui – attraverso i contenuti di analisi organicamente affermati nelle pagine iniziali – la confederazione di via Po salta culturalmente a piè pari, appunto, oltre quarant’anni della sua storia più vicina: storia difficile da guardare in faccia, in quanto è stata in gran parte smarrita, in altra parte incoerente, quasi sempre superficiale, quasi mai all’altezza dei problemi; e riafferma piena consapevolezza e volontà di ritorno a quella sua originaria natura e missione, tuttora modernissime, con quei valori fondativi di riferimento che furono unici nella vicenda del sindacalismo italiano, e che nell’immediato dopoguerra lo cambiarono radicalmente, rendendolo non solo avanzato ma decisamente avveniristico.
 
E’ un evento importante da tenere sotto osservazione, dunque, questo documento, che rinforza decisamente piccoli e isolati segnali minori che nei tempi recenti lo hanno in qualche misura fatto presagire come possibile; è importante perché importante è la Cisl nel contesto del sindacalismo italiano, importante è il sindacalismo italiano nel contesto del mondo del lavoro e dell’economia italiana, e ben significativa è l’esperienza italiana nella prospettiva del lavoro e dell’economia mondiale.
 
L’inattesa carta cita giustamente, fin dall’inizio, il ventunesimo secolo e le sue tipiche tensioni e complessità, quali punto di riferimento doveroso per la riflessione sul ruolo che attende il sindacalismo italiano negli anni che sono davanti a noi, e lo fa non solo liberandosi da ingombranti pastoie passatiste inutili, ma adottando di nuovo il tipico e storico “metodo Cisl”: guardando cioè in faccia i lavoratori e il mondo del lavoro nella loro oggettività strutturale e nella loro persistenza etica, senza bende ideologiche, senza luoghi comuni, senza collateralismi partitici, senza contingentismi, senza sociologismi alla “università-di-Trento-anni-Sessanta” rivisitata: al contrario, con identità di nuovo inequivocabile e di nuovo fondata su una idea piana, chiara e duratura di uomo e di mondo del lavoro, concepiti come stabile comunità di persone a vocazione semplicemente integrale, liberi, democratici, pluralisti. Ed è davvero, questa, nella storia sindacale recente del nostro paese, una novità quasi incredibile, e una ripresa incoraggiante di maturità e ampiezza di riflessione.
 
Non che tutto quanto ha detto e fatto la Cisl negli ultimi quarant’anni sia robaccia da buttare via: qua e là sono balenati anche, come nel resto del sindacalismo italiano, atteggiamenti lucidi e adeguati, e scelte degne della grandezza delle origini; ma si è trattato proprio di singoli episodi stagionali, quasi lampi in un cielo generalmente bigio; e quasi “casuali”; comunque sempre contingenti e disarticolati a livello di sistema.
 
Nella realtà strutturale delle cose, dopo la incredibile distorsione, distruttiva e autodistruttiva, sviluppata a partire dal disgraziato 1969, la Cisl, come il resto del sindacalismo italiano, non ha avuto più né profondità, né continuità, né organicità, né coerenza; a partire da allora, cioè da un congresso confederale che fu ideologicamente ebbro, e forsennatamente giocato sul filo di due voti, o forse di tre, incerti fino alla fine e negoziati nottetempo fra i congressisti (c’è sempre una storia parallela che viene ignorata dagli atti ufficiali) la confederazione travolse, in una truce macumba mentale, quasi tutto quello che di originale e di grande aveva rappresentato fino allora, e, cambiando repentinamente sestessa e il sogno di Pastore, di Romani, di Saba, impose al sindacalismo italiano ed al paese, oltre che ai suoi lavoratori, tante bestialità da diventare parte direttamente corresponsabile della generale irresponsabilità e bassura che ha caratterizzato diffusamente la classe dirigente italiana nel citato quarantennio.
 
Bestialità concepite e diffuse prevalentemente in buona fede, è vero, sotto la guida di Storti, Carniti, e innumeri compagni e successori di ogni livello e regione: ma che sono state pur sempre del tutto cancerogene per l’economia e per il lavoro in Italia; dal salario variabile indipendente al potere contro potere, autentiche assurdità senza tempo contro cui né buon senso né senso di responsabilità hanno potuto nulla, per tanti anni.
 
Dopo una storia inadeguata
 
Nel momento in cui un così enorme stravolgimento, come risultato congressuale, si rivelò in tutta la sua distruttiva portata davanti agli occhi attoniti del paese e dei lavoratori che avevano conosciuto la Cisl delle origini, il grande Mario Romani, padre culturale della Confederazione come Pastore ne era stato il padre politico, informato di tale esito mormorò con malinconia: Questa non è più la Cisl.
 
E in effetti, da allora la grande Cisl delle origini, con la sua fresca e ineguagliabile novità di messaggio sociale e lavorista, e con la sua integralità di cammino, cessò quasi di esistere, se non in singoli isolati momenti e uomini. La testimonianza della espressione lucida e amareggiata di Mario Romani è, moralmente e storiograficamente, la più autorevole possibile: è quella di Vincenzo Saba, che con Romani, Pastore, e gli altri liders, aveva vissuto momento per momento tutta la esperienza confederale fino allora, e non aveva mai mancato di continuare a dialogare con tutti i suoi protagonisti, anche quelli che andavano perdendosi nella notte folle di un sessantottismo privo di luce e di guida; e non mancò mai, neanche successivamente, di riconoscere in tanti sindacalisti di allora il nocciolo di una buona fede, anche se  sbalorditivamente smarritasi in tanto ubriacante sballo e superficialismo ideologico che percorreva quasi tutto l’Occidente. Certo in buona fede erano i Luigi Macario, il giovane Morelli, lo stesso Carniti e moltissimi altri: ma il precipizio era diventato oggettivo e comune.
 
Da allora, in concreto, e guardando alla storia del paese nella sua complessività, la Confederazione si è trascinata a scatti, stizzosamente e bizzosamente, nelle vicende lavoriste italiane, guidata da tutti i vizi e da tutte le scipitaggini comuni al resto della società e della classe dirigente del paese lungo gli stessi decenni: a partire, per fare un solo esempio ma ben presente ai quadri ed ai lavoratori, dalla bislacca, devastante pretesa interna di imporre dall’alto a tutti gli iscritti, senza sostanziale democrazia, la forma associativa delle “federazioni accorpate per settori” secondo astruse concezioni elucubrate a tavolino per ragioni tattiche (caso tipico, quella che puntava a unificare i lavoratori elettrici, nientedimeno, con i lavoratori… delle ceramiche, della chimica e di altri comparti ancora più lontani da qualsiasi comunanza storica e merceologica con il mondo elettrico, “per mettere gli elettrici in condizioni di non nuocere nella dialettica interna”, come bofonchiò, senza giri di parole, un uomo vicinissimo all’allora lider Pierre Carniti).
 
Un tentativo di basso e volgare dirigismo anticislino che ha portato inevitabilmente frutti sostanzialmente fallimentari ed è stato in effetti, successivamente, in significativa parte rivisto e variamente ricorretto. Ma intanto ha seminato frutti profondamente diseducativi sul piano della cultura interna.
 
La bislacca pretesa interna era derivata da una mentalità ormai senza grande orizzonte neanche morale,  e trovava perciò bilancio speculare in altrettali vuotaggini esterne a crescente frequenza, a cominciare da quella dei permanenti o semipermanenti “tavoli delle trattative” o della “concertazione”, formali o non formali che fossero, tanto mediaticamente autocelebrativi quanto sostanzialmente improduttivi, culminanti in qualche caramellina salariale e in un crescente accumularsi di curriculum di amici e familiari sui tavoli delle dirigenze aziendali, al prezzo di vistosi arretramenti di ruolo sostanziale del mondo del  lavoro, e del totale fallimento di quello che era stato il sogno della Cisl delle origini: la partecipazione dei lavoratori nell’impresa, cioè l’impresa come comunità partecipativa, e il diritto al lavoro come diritto non programmatico ma precettivo.
 
A questo furfanteggio interno avviato con il 1969, e sviluppato fino circa alla metà degli anni 1980, cominciò a far seguito, gradualmente, una lenta, impacciata, confusa, claudicante, e mai concludente, presa d’atto del fallimento inesorabile di tali drammatiche scemenze; una presa d’atto avvenuta con scatti improvvisi di resipiscente dubbio e lucidità, qua e là, di buona volontà, e anche di orgoglio saltuariamente ritrovato sulla missione originaria: ma senza più qualità né anima profonda ed organica; infatti nel frattempo la Cisl aveva anche, semplicemente, smesso di studiare e di fare formazione (come del resto accadeva contemporaneamente a tutte le grandi organizzazioni politiche, sociali, ed anche imprenditoriali, e persino religiose, nel paese, salve le eccezioni personali). Contava ormai la sociologia di Trento e poche altre cianfrusaglie senza senso ma di grande sciccheria salottiera: un mondo di culturismo e non più di cultura. Un mondo di lauree e di masters, non più di studio. Con conseguenti effetti sul paese.
 
Parliamo di studiare e formarsi davvero, proprio nel senso impegnativo, serio, onesto, e doverosamente terragno di incollare strutturalmente le natiche ad altrettante sedie e studiare senza soluzione di continuità su libri e relativi approfondimenti, e verifiche sul campo, ed esercitazioni, e confronto di esperienze, e affiancamento agli anziani migliori: e fare tutto ciò a tempo indeterminato, in vera “formazione permanente”, fino a che si è sulla scena delle responsabilità sindacali. Perché è così che si connota il vero “sindacalista che funziona”. Ed è così che, in effetti, operarono i padri.
 
La Confederazione ha mandato invece i suoi quadri sempre più, con atteggiamento soddisfatto e beota, a laurearsi in quei postriboli della cultura che sono le università più o meno rinomate, e spesso rinomatissime, nazionali ed estere, possibilmente arricchite di quei master anglofonizzanti pieni delle tronfie baggianate che hanno rovinato, lungo il corso degli stessi anni, l’economia e la società italiana e mondiale, sfociando infine i loro risultati ultimi nella infame crisi del 2007. Fatte sempre le dignitose eccezioni personali, ancora una volta.
 
Sorgeranno indignati, a questo punto, sindacalisti grandi e piccoli della confederazione, orizzontali e verticali, e tanti loro veri e falsi amici, diversamente interessati, a respingere offesi queste osservazioni ricavate dalla semplice, palese e sofferta vita di ogni giorno: dai, Giuseppe, non esagerare…
 
Ma, cari amici veri della Cisl, andate a osservare, con doverosa serenità e umiltà, anche i concreti tenori di vita, le garantite sicurezze di carriera, i tranquillizzanti distacchi aziendali, le serene famiglie sistemate, le studiate frequentazioni televisive, il personale restar fuori da ogni crisi, i pasticci giudiziari di enti di emanazione sindacale per fatti di banale corruzione, il girare attorno alle frasi consunte dei fallimentari economisti di grido, nel tentativo di accreditarsi operando dei distinguo senza mai affrontare la sfida realmente costosa e strutturale e vera dei lavoratori…
 
E andate a fare il paragone con i tenori di vita dei loro padri sindacali, con i loro rischi, con le loro amarezze, con la loro condivisione, passo passo, di vita e rischi e faticosi successi dei lavoratori stessi, con la concretezza tangibile e poco accademica delle loro acquisizioni contrattuali e culturali, con i rientri a casa sotto minaccia, con i pasti condivisi fra gli operai a mensa aziendale… come fu per i Pasquino Porcu e Dante Bizzaro e mille altri, che, “orizzontali” o “verticali”, segretari generali o attivisti di sas che fossero, sempre lavoratori ed esempi di vita per i lavoratori sentivano di essere, non commentatori televisivi in attesa di successo.
 
Perché, cari amici, alla fine di tutti i conti, è pur sempre la vita personale ed esistenziale e quotidiana di ciascuno, che conta e testimonia davvero. Ed è su di essa, innanzitutto e soprattutto, che davvero possono formarsi le nuove generazioni.
 
Non è, insomma, l’insieme di tante lente trasformazioni del piccolo quotidiano costume sindacale, qui segnalato, un pretesto per rilevare il rischio di un pizzico di “moralismo” in noi che ce ne addoloriamo: è invece la considerazione che, nella storia plurimillenaria degli uomini, a tutte le latitudini, i cambiamenti interni delle società avvengono tendenzialmente proprio così: un po’ come accadde per la lenta e quasi inconcepibile consunzione dell’impero romano, a suo tempo… E del resto ciò vale anche per le conquiste positive.
 
 
La grande ripresa possibile
 
Infine, pur fra tanta confusione e ambiguità amareggiante, negli anni recenti la Cisl è venuta cominciando gradualmente, come si accennava, anche a mettersi su una sua via di Damasco: e ne sia data ampia e gioiosa lode alla onestà e buona volontà di diversi suoi uomini e donne, che non hanno mai cessato di vivere con una coscienza sanamente inquieta fra tante incongruenze, e di continuare a “cercare di nuovo la via”, anche alla luce di quegli antichi maestri più grandi.
 
Tanto che oggi accade, appunto, il piccolo miracolo che può essere prodromo del miracolo grande: questo documento della Cisl, che, a chi sappia guardare lungo, sintetizza bene, forse addirittura senza rendersene conto esso stesso in tutti i particolari, il travaglio ed il senso di fondo del cammino complessivo, e può essere visto veramente come la aperta, lucida, complessiva, finalmente non ambigua confessione di una Confederazione che riconosce di dover ritrovare sestessa in pienezza, e di volerlo fare senza indugi, pronta a riagganciare la potente scia che fu delle origini: il cammino di un grande soggetto nazionale collettivo dedicato totalmente alla promozione solidale della persona che lavora, ma con il metodo associativo e democratico e con l’obiettivo ideale di una impresa partecipativa e di una società fondata su equità corresponsabile. Un esempio di nuovo umanesimo, per essere completamente fedeli alla speranza e alla testimonianza dichiarata dei padri.
 
Nessuna segreteria confederale, in questo più che quarantennio, aveva mai saputo fare un passo tanto  coraggioso e così implicitamente organico, a parte la cauta e tattica annunciazione permanente datane, con circospetti e misurati passetti e passettini in tal senso, da Franco Marini, che in realtà aveva capito benissimo fin dall’inizio la sostanza della situazione storica, e la testimonianza sincera ma quasi isolata di Savino Pezzotta, un vero sindacalista cislino: quella annunciata dalla prima parte del documento firmato ora da Annamaria Furlan per l’assemblea organizzativa 2015 è invece, finalmente, di nuovo la prospettiva possibile della Cisl di Pastore, di Romani, di Saba, modernissima e pienamente adeguata alla realtà che il paese e i lavoratori vivono, in questo ventunesimo secolo ormai galoppante ed esigente nuova maturità vera e nuova corresponsabilità non accademica del mondo del lavoro e sindacale.
 
Non so chi abbia contribuito alla stesura del documento, né l’ho chiesto: ma certo si tratta di persone dotate di meditativa consapevolezza, ben indirizzate e sorrette dalla segreteria confederale di Annamaria Furlan (che personalmente non conosco): una lider capace dunque di indirizzare cammini di rinnovamento, o quantomeno di sostenerli, anche se a volte ella stessa appaia ancora indecisa se abbandonare del tutto l’antica e deleteria abitudine acquisita in questi decenni da un sindacalismo confederale gratificato dal suo sedere in permanenza, in palese goduria anche personale, davanti ai gradevoli schermi tv, a dare al governo ed a tutti lezioncine di economia non richieste e non utili, mentre la propria organizzazione svolge inadeguatamente il suo mestiere: ma, tutto sommato ed in sostanza, avendo pur sempre, ormai, chiara la forte visione autocritica necessaria e la volontà di rinnovamento annunciata.
 
Il documento parla dunque, in tutta la sua prima parte, di bellissime cose: e soprattutto traccia una analisi onesta, chiara ed attenta, delle incertezze e contraddizioni anche sindacali e cisline della lungasituazione di guado”, di cui urge affrontare i termini e superare i limiti senza più scarichi di responsabilità, concludendo alla necessità della ripresa franca dell’antico cammino verso l’obiettivo dell’impresa corresponsabile, partecipativa e solidale.
 
Ed è atteggiamento centrale e decisivo, questo, in quanto la piena riassunzione di coscienza è il primo pilastro di ogni ricostruzione; e, nel caso specifico, è il primo elemento di credibilità della riassunzione di missione annunciata dalla Cisl.
 
 
Ma c’e’ anche una seconda parte
 
 
La seconda parte del documento, invece, diventa improvvisamente cosa molto diversa: con la medesima buona volontà espressa nella prima, essa scade subito di qualità nella parte attuativa e torna a perdersi nel meandro disgraziato dei disegnini tecnici elucubrati a tavolino per la desiderata “modernizzazione anche operativa” del sistema confederale, quella che dovrebbe cioè servire al disegno politico ed etico espresso nella prima parte del documento; mentre in realtà lo sterilizza.
 
E’ una mancata “sapienza attuativa” che dice tutto della fatica del cammino coraggiosamente intrapreso: ma va aggiunto che, se la volontà espressa nella prima parte del documento sarà dotata di coerenza e costanza di impegno, vi sono i connotati perché il cammino possa proseguire fortemente anche nella dimensione attuativa.
 
Come si configura, più particolarmente, il limite della seconda parte del documento?
 
Il disegno operativo immaginato sterilizza il respiro politico e organizzativo della prima parte del progetto puntualizzando innanzitutto, con una meticolosità da ragionieri adusi solo alla scrivania e non al dramma dei luoghi di lavoro, il modo e il numero con il quale si comporranno tutte le segreterie territoriali e verticali della Cisl, il modo e il numero con il quale esattamente entreranno negli organismi della Cisl i rappresentanti degli immigrati e dei lavoratori “atipici”, il modo e il numero con il quale verrà assicurata la parità di genere (resiste ancora questa idiota e abusiva decrepitezza di concetto, al posto della limpida “cultura della persona” che era propria della Cisl, e anzi dei costituenti italiani quasi tutti…) negli organismi Cisl, quante volte alla settimana o all’anno si riuniranno gli stessi organismi, come il territorio dovrà essere suddiviso… e insomma tutto quello stagno oleoso e putrefacente di minchiatine tecnicistiche che fanno la goduria dei ragionieri sociali dimentichi totalmente dell’essenziale e dominati da abitudini che sono fissazioni personali, o, peggio, distillato di qualche costoso e sciocco master nordamericano, regolarmente anglofonico e convinto che la ragioneria tecnica di breve periodo salvi il mondo, esattamente come a Bildeberg sono convinti che la speculazione finanziaria salvi l’economia planetaria.
 
Non sono gli “schemini di breve” a far crescere l’organizzazione, bensì la cultura organizzativa! E questa si forma… con la profondissima ripresa della formazione! Dalla quale, e soltanto dalla quale, scaturiranno anche gli schemi efficacemente operativi per un sindacato di nuovo grande in mezzo ai lavoratori, a sostituire gli attuali esercizietti da parole crociate.
 
Tanto semplicismo culturale è ancor meglio mascherato in quanto… vuoi mettere? Si tratta, ancora una volta, di cose sentite, scritte e viste in inglese nei balordi salotti scolastico-manageriali, per i quali è così chic pronunciarle in tv e nei convegni… Solo a poter dire a voce alta davanti a un uditorio parole come skills oppure as-is-to-be oppure empowerment, la commozione porta a volte questi sindacalisti fino alle lacrime, e solo allora si sentono davvero all’altezza della situazione e abbraccerebbero commossi anche le controparti aziendali, inondati da un sentimento di deliquio per tanto work management e return on investments e cento non meno eteree cazzate, apprese all’università o da essa mutuate: gabbati, con i lavoratori,  ma… arrivati e gratificati, infine.  Vivono di questo.
 
Nel caso della Cisl, in fondo, non c’è vera malizia: tanti suoi quadri sono semplicemente cresciuti come adolescenti innocenti e un po’ vanitosi, perciò a tratti inevitabilmente tonterelli, nel vuoto di processi di formazione ormai a tenuissima sostanza: ad essi il trastullo del disegnino dà appagamento pieno, esattamente come per tanti tifosi della Roma è l’immagine di Totti appesa in camera da letto. Sindacalisti che hanno da troppo tempo, appunto, smesso di studiare e di fare formazione. Hanno fatto l’università ma hanno letto troppi libri e poche rughe, come dice un personaggio della cultura italiana  attuale. Si sono troppo preoccupati di laurearsi e poco di studiare. Hanno riempito la loro mente di formule e svuotato la loro anima di ideali. Hanno cessato di parlare in corretto italiano per non essere obbligati a pensare con corretta logica, e hanno imparato a parlare in inglese per sentirsi accettati nei salotti mentalmente borghesi, dove il dio che conta non è il nostro Dio degli uomini ma un dio che odora di denaro, successo  e riconoscimenti sociali.
 
Però, ripetiamo, potranno fare il loro magnifico cammino di recupero, se la riflessione e la volontà della prima parte del documento offerto a loro ed a tutti noi dalla confederazione è sincera e forte, come mi è sembrato.
 
E un problema di chiarezza
 
Senonchè, mentre scrivo queste note e mi ringalluzzisco nel sogno di una Cisl, e dunque di un sindacalismo italiano, che torni a essere una speranza strutturale per i lavoratori e per l’Italia, mi giunge anche, altrettanto improvvisa, la  notizia rattristante di uno scandalo di dirigenti Cisl i quali, in lunghi anni di poco lavoro e di molta carriera (di servizio ai lavoratori, essi dicono; di servizio a se stessi, altri dicono) hanno largamente approfittato, a quanto sembra, del loro ruolo di angeli sociali per cumulare, anche personalmente, redditi di diversi e contestuali incarichi “al servizio della collettività” (essi dicono, ancora una volta): patronato, centri di assistenza fiscale, istituti di formazione professionale, enti di turismo, rappresentanze istituzionali, e simili. Hanno adottato cioè il vecchissimo trucco di tutti i mediocri e di tutti i corrotti di ogni tempo: politici o sindacalisti o dirigenti d’azienda o alti burocrati o “trombati di lusso” e furbi di ogni settore, che siano.
 
Chi mi dà la notizia ha quasi le lacrime agli occhi per uno spettacolo semplice, e in verità agghiacciante: che la stessa confederazione, e gli ambienti sindacali in generale, invece che semplicemente prendere tempestivo, sereno e pubblico atto della relativa denuncia, e renderne essi stessi edotti i propri lavoratori e la pubblica opinione, e assumere i provvedimenti conseguenti del caso (non c’è nulla di che scandalizzarsi: ogni organizzazione è fatta di uomini e ogni uomo può cadere in tentazione: persino il papa ha fatto arrestare e incarcerare un monsignore pedofilo all’interno del Vaticano) si preoccupa, invece, di mettere le mani avanti e rassicurare la opinione pubblica che “si tratta di mosche bianche, il sindacato è pulito…”.
 
Ahi ahi, ancora la vecchia malattia… Ma che ci importa mai che il sindacato sia pulito? Ci mancherebbe che “il sindacato” fosse sporco!?! Sarebbe come dire che la politica è sporca: ma non è affatto sporca, la politica, sporchi sono invece i moltissimi politici corrotti o parassiti; la politica è, al contrario, servizio del prossimo e carità comunitaria, come insegnava Paolo VI. Immaginate oggi Papa Francesco che, con il suo sorriso bonario, si affacciasse al balcone di piazza San Pietro e, invece che provvedere a risolvere i casi concreti accennati, spiegasse ai cristiani del mondo che… “si tratta solo di qualche monsignore sbagliato, la Chiesa è pulita…”. Ci mancherebbe che la Chiesa fosse sporca!?!...
 
Giulio Pastore si trovò ad affrontare qualche caso relativamente simile, nella Cisl, già ai suoi tempi: e… quei sindacalisti si trovarono fuori della Cisl in poche settimane, anche se Pastore sapeva benissimo che, nel caso specifico più noto, un tale provvedimento avrebbe portato la Cisl a giocarsi gran parte della sua presenza nella più grande azienda automobilistica del paese. Se la giocò. Ma la Cisl restò grande e credibile. Oggi, con questi comportamenti diversi, non lo è più.
 
Ci importa in effetti ben altro: e cioè che di fronte a un accadimento, isolato o non isolato che sia, il quale tradisce ideali e norme, e tradisce le promesse fatte solennemente ai lavoratori ed al paese, l’organizzazione custode di ideali, norme e promesse, intervenga con serenità e pubblicamente, faccia giustizia con equità, e riprenda il suo cammino con credibilità: perché tale è il cammino delle organizzazioni guidate da ideali credibili e da responsabili onesti. Il resto, a cominciare dal mettere le mani avanti, è figlio del nascondimento, dell’incoerenza, della menzogna, del profitto usurpatore, della non credibilità, e soprattutto della manipolazione.
 
Ho sentito riecheggiare, in un improvvido sindacalista negatore del problema, la stupida affermazione che… “chi attacca un sindacalista della Cisl attacca la Cisl”. No, fratello mio: chi attacca un sindacalista della Cisl attacca semplicemente quel sindacalista della Cisl, e niente affatto la Cisl: anzi, probabilmente egli sta difendendo la Cisl da un suo cancro interno, che la sta rodendo, sfigurando e uccidendo. Non nasconderti dietro la Cisl per tradire la Cisl, fratello mio della Cisl!
 
E, fratello mio della Cisl (ma, in questo caso, anche della Cgil tutte le volte che è il caso) torna con forza a pensare con un pensiero elevato e compiuto, se non vuoi fare il male di te stesso, del sindacato, dei lavoratori e del paese insieme: non esiste affatto neanche un “diritto a riunirsi”, stupidone dirigente sindacale dei servizi turistici del Colosseo: sarebbe come dire che “esiste un diritto a votare” e ne volessi cavare la conseguenza che puoi  recarti a Montecitorio e decidere che lì voti, impedendo il normale svolgimento delle funzioni di quella istituzione: che è di tutti, non tua; il “diritto a riunirsi”, come il “diritto a votare”, e tutti gli altri diritti, vivono non solo dentro il contesto dei correlativi doveri ma anche dentro il contesto del “bene comune” e di tutti e singoli i “beni comuni” (che sono proprio di tutti, ma davvero di tutti, e niente affatto tuoi, anche se ne hai la custodia!).
 
La quale Cisl, per tornare al documento importantissimo in vista della sua prossima assemblea organizzativa, e in particolare all’analisi e alle prospettive annunciate nella sua prima parte, ha comunque appena cominciato, lo ribadiamo, il suo promettente, e, ci sembra, sincero, cammino di rinnovamento: questo resta, e noi le auguriamo di saperlo sviluppare con forza quotidiana e con lucidità di ideali testimoniati ogni giorno anche a livello dei singoli sindacalisti, senza troppi comunicati stampa, senza troppa ragioneria burocratica, senza troppe mani avanti, e senza troppe excusationes non petitae; altrimenti non giungerebbe alla meta ma continuerebbe a fare del male ai lavoratori ed al paese. E non vale davvero la pena che ciò accada.
 
Nello stesso tempo, nessun altro sindacato, né alcun’altra organizzazione del sociale o della politica, oggi, in Italia, possono ritenersi in diritto di guardare con sufficienza all’impegnativo guado cislino: essi sono esattamente nella stessa situazione sostanziale, anzi, nella maggior parte dei casi, sono un po’ peggio. E’ tempo che anch’essi riassumano le loro responsabilità e i loro ideali, insieme con l’esempio dei padri migliori, che in gran parte alle origini illuminarono anche loro: e si decidano a riprendere la via. E lo decidiamo tutti. Per il bene comune.
 
                                                                                                                                      (Giuseppe Ecca)
 
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Sindacalismo

UNA CONTRATTAZIONE DI GALLEGGIAMENTO?

 
“Contrattare, contrattare, contrattare”, ha insistito, anche in un comunicato recente, con entusiasmo comprensibile, un mio amico sindacalista, responsabile di una importante federazione nazionale di categoria.
 
Comprensibile, il suo entusiasmo, perché la filosofia della contrattazione collettiva è, in effetti, il tessuto solido di fondo delle relazioni sindacali positive e dei loro risultati di crescita, in un paese libero e democratico, pluralista e con ampia e sviluppata economia di mercato: come è appunto l’Italia. Se poi il sindacalista è di scuola Cisl, come nel nostro caso, la sensibilità contrattualista è anche, in particolare, il valore metodologico portante dell’azione sindacale.
 
Senonché, in un numero crescente di casi degli anni recenti, appare anche legittimo e doveroso chiedersi: “Sì, ma… contrattare che cosa? Contrattare con quale strategia di fondo? E con quali verifiche di lungo periodo? ”. E’ ricorrente infatti la impressione che il sindacalismo italiano sia venuto attestandosi in questi ultimi anni su una linea di contrattazione che, mentre sottolinea e difende il metodo, finisce spesso per impoverirlo di fatto in una sostanza di contenuti che per i lavoratori si riducono a miglioramenti salariali – a volte anche significativi se considerati insieme con gli elementi di salario in natura, o indiretto, o di benessere (di welfare aziendale, come dicono gli analfabeti) – e aggiustamenti degli inquadramenti, che lasciano però ben salda la briglia del cavallo aziendale in mano dell’imprenditore, al quale, in fondo, conviene essere anche generoso, spesso, sul piano salariale, purchè non si intacchi la struttura sostanziale del rapporto di lavoro e la sua subordinazione strutturale alla dominanza di un profitto d’impresa concepito in chiave quasi esclusivamente finanziaria.  
 
Tant’è che si assiste altrettanto spesso, anche, al malinconico rituale della contrattazione sui “premi di risultato per l’anno concluso, su cassa dell’anno corrente”. Sono i cosiddetti “premi di produzione”, o “di risultato”. I lavoratori in genere gradiscono, naturalmente, ma non si rendono pienamente conto – né sembra rendersene pienamente conto il sindacato – che nel corso dell’anno han dovuto il più delle volte ingoiare tagli dei posti di lavoro o ristrutturazioni quasi unilaterali, che impoveriscono il patrimonio immateriale dell’azienda: ad esempio, l’efficienza dei servizi resi ai clienti nei casi di aziende in oligopolio.  
 
Il che non significa che la contrattazione di questi anni sia negativa o priva di risultati: significa, semplicemente ma significativamente, che essa rischia, alla lunga, di assestarsi in una situazione strategica di galleggiamento da sopravvivenza piuttosto che di avanzamento graduale verso gli obiettivi di cointeressenza e corresponsabilità piena dei lavoratori nell’impresa.
 
Il riscontro di questa lunga partita è quel capitalismo finanziario ulteriormente forte, e quel peso del fattore lavoro ulteriormente debole, che constatiamo: cioè, nessun passo sostanziale in avanti in quella semplice civiltà del lavoro che esige appunto la trasparente condivisione dei profitti, delle perdite e delle decisioni. 
 
Bene ha fatto, in questo senso, Giuseppe Bianchi – attraverso il suo sempre autorevole Istituto per le Relazioni Industriali – a ospitare la recente riflessione lucida di Giovanni Graziani, il quale analizza a fondo una delle realtà portanti della contrattazione sindacale europea che non arretra, cioè quella tedesca, per ricavarne qualche suggerimento utile. Orientato alla Mitbestimmung, cioè alla cogestione, il modello tedesco ha saputo mantenere molto forte la barra della sua cultura e della politica sindacale su una negoziazione che non si è lasciata addomesticare: si tratta di essere sostanzialmente corresponsabili delle dinamiche e del destino aziendale – e questo valore è da sempre anche nella cultura del sindacalismo democratico italiano – ma non rinunciatari rispetto all’obiettivo più strutturale del sindacalismo, cioè la piena partecipazione dei lavoratori nell’impresa. La quale non è affatto questione di premi di  risultato né di riduzione dei tagli occupazionali. Giovanni Graziani prende ottimo spunto, in particolare, dall’autorevolissimo ultimo rinnovo contrattuale del settore metalmeccanico tedesco per proporre ai lavoratori ed ai sindacalisti italiani una lettura corretta del “modello tedesco”, a volte mal compreso o addirittura inconsapevolmente travisato, ai fini di una riflessione profonda e strutturale sulla ri-evoluzione auspicabile delle relazioni sindacali in Italia, che hanno alle spalle una tradizione ricca anche di periodi di grande forza ed efficacia.(Giuseppe Ecca).  
 
 
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I tedeschi ci fanno paura? La domanda può sembrare mal posta se riferita al presente, visto che l'esempio tedesco è indicato un po' da tutti come la strada da seguire in materia di lavoro e di relazioni industriali. Solo che l'esempio è indicato da parti diverse, e per sostenere che bisogna andare in direzioni opposte.
Capita così che l'esempio tedesco venga indicato sia da chi chiede salari più alti come da chi insiste per la moderazione salariale, da chi rivendica "le riforme" e la "flessibilità" del mercato del lavoro come da chi le teme o le rifiuta, da chi insiste sui temi della collaborazione e della partecipazione e da chi invece rilancia il tema del conflitto. Il che è sufficiente a far sospettare che nei nostro discorsi sulla Germania ci sia qualche difficoltà di traduzione, per cui ognuno parla di una "sua" Germania, di un'immagine che si è fatto per confermare delle proprie idee. E l'effetto è di fare dell'esempio tedesco nei discorsi italiani qualcosa di molto simile alla proverbiale notte in cui tutti i gatti sono egualmente bigi.
L'ultimo contratto dei metalmeccanici tedeschi però non si presta a equivoci: perché è chiaramente un contratto di aumento delle retribuzioni, e che contemporaneamente permette al lavoratore che lo desideri di accedere ad una significativa riduzione d'orario. Più salario per tutti, e (eventualmente) meno orario per qualcuno, con conseguenze inevitabili di aumento del costo del lavoro per unità di prodotto. Un contratto costoso per le imprese e vantaggioso per i lavoratori, che i sindacati hanno ottenuto con la minaccia dello sciopero ad oltranza e che le imprese hanno cercato di contrastare in tutti i modi, comprese le minacce di ricorso in Tribunale per chiedere risarcimento dei danni, salvo arrivare alla conclusione (visto che l'impresa capitalista è calcolo razionale a scopo di profitto) che uno sciopero in un momento in cui gli ordinativi sono tanti e le casse di resistenza dei sindacati sono piene, avrebbe avuto costi maggiori della firma di questo contratto, pur così oneroso.
Solo che a questo punto i tedeschi cominciano a fare un po' di paura all'Italia sindacale. Non a tutti, ma a quanti in Italia predicano da anni, e continuano a predicare in questi giorni, la moderazione salariale come paradigma senza alternativa sia quando le cose vanno male, perché allora non si possono caricare le imprese di costi non sopportabili, sia quando le cose vanno bene, perché il fatto che vanno bene è visto come la prova che la moderazione salariale funziona. Col risultato di rinviare il giorno in cui i lavoratori vedranno rafforzati i loro redditi al giorno di san nessuno.
Questa moderazione salariale in Italia è strutturale, a differenza che altrove, perché viene realizzata attraverso contratti nazionali pluriennali vincolati al rispetto di criteri decisi a livello interconfederale e rinnovati in base all'andamento reale o previsto dell'inflazione (in anni in cui l'inflazione tende a zero!) e rinviando gli aumenti legati alla produttività ad un livello aziendale dove sia le Rsu che le organizzazioni sindacali locali non hanno mostrato grande capacità di ottenere aumenti significativi (molti accordi aziendali si fanno in presenza di situazioni di crisi, quindi per definizione sono concessivi e non acquisitivi).
A quanti sta bene questo modello, e che approfittando del grigiore notturno sostengono falsamente che "anche in Germania si fa così", l'accordo conquistato dall'Ig Metall fa paura perché esprime invece una concezione forte del ruolo salariale del contratto di categoria che va in senso opposto al cammino percorso da noi, sia come tutela del lavoro, sia come incentivo al miglioramento della produttività (perché se il lavoro ti costa, cerchi di farlo rendere al massimo). E perché smentisce l'idea di una presunta tendenza su scala mondiale al decentramento spinto e incontrollato della contrattazione che, abbinato alla complessiva moderazione delle politiche salariali, sarebbe la chiave di ogni esperienza di successo e quindi anche della Germania (ma non è vero), condannando invece all'insuccesso tendenze opposte o anche solo non conformi al paradigma della moderazione salariale.
Qui però c'è un equivoco: leggere la politica contrattuale tedesca come una forma di decentramento spinto non corrisponde all'immagine di decentramento "organizzato" o "controllato" di cui ci parlano, invece, i tedeschi. La (prudente) flessibilizzazione del sistema tedesco di contrattazione non ha infatti mai preso le caratteristiche di una rinuncia alla funzione ordinante esercitata dal contratto di categoria attraverso la fissazione delle retribuzioni. E il coinvolgimento dei consigli d'azienda nella politica contrattuale non ha mai preso la forma di una rinuncia a quel primato dell'autonomia contrattuale collettiva che, per legge e per costume, compete alle organizzazioni sindacali e non agli organismi aziendali elettivi. Infatti, la regola tedesca è, e rimane, il salario fissato nel contratto di categoria, mentre le concessioni a livello aziendale sono un'eccezione, temporaneamente ammessa, soprattutto in funzione difensiva in situazioni di crisi. Il che rappresenta un sistema molto meno decentrato di quello che c'è da noi.
Si può fare a questo proposito l'osservazione che Peter Bofinger, uno dei "cinque saggi" consulenti del governo tedesco, ha fatto a proposito delle leggi Hartz di riforma del mercato del lavoro di Schröder: se fosse la limitazione nel tempo del sostegno finanziario ai disoccupati di lunga durata la ragione della crescita dell'occupazione tedesca, allora Italia e Grecia dovrebbe essere ancora più avanti sulla strada della piena occupazione; e se fosse la flessibilizzazione della tutela per il licenziamento senza giusta causa a favorire le assunzioni, non si capisce perché paesi che hanno tutele inferiori alla Germania non hanno gli stessi risultati.
Ed è così anche per la contrattazione: se in Italia dal 1993 abbiamo un sistema che prevede un livello aziendale di contrattazione competente a regolare le retribuzioni nell'ottica della crescita della produttività, ma poi la produttività tedesca in questi anni si è rafforzata mentre invece in Italia sono fermi la produttività e le retribuzioni, allora il decentramento di per sé non basta (e gli incentivi pubblici alle imprese per migliorare la produttività rischiano di creare dipendenza invece di risolvere il problema).
Solo che a questo sistema di moderazione salariale strutturale ci siamo abituati fino a considerarla come un destino ineluttabile, fino a non riconoscere l'esistenza di alternative. I sindacalisti di oggi rappresentano una generazione di contrattualisti più abituati ad applicare formule aritmetiche che a fare rivendicazioni di politica salariale, a strizzare il limone di un'inflazione che non c'è per rinnovare i contratti di categoria con i quali si finisce per consumare anche lo spazio che dovrebbe restare ai contratti aziendali; le confederazioni, comprese quelle datoriali, lavorano a costruire "modelli" con i quali imporre le regole uguali a realtà con andamenti economici e produttivi anche molto diversi, per difendere un ruolo che gli viene dalla tradizione più che dalle esigenze del presente; le rappresentanze sindacali unitarie elette nelle aziende non hanno lo spazio, la formazione, la capacità e gli strumenti per essere interlocutori autorevoli delle direzioni aziendali e per fare dentro ai sindacati quel che hanno fatto i rappresentanti dell'Ig Metall, cioè farsi portatori della domanda di flessibilità nell'orario che ha permesso di rivendicare e ottenere le 28 ore su richiesta di chi ne ha bisogno oltre al forte aumento salariale.
E questo non perché i tedeschi siano "più bravi", ma perché una quindicina di anni fa, dopo la crisi nazionale per i costi della riunificazione e prima della crisi mondiale, l'Ig Metall ha capito la necessità di tenere assieme politiche organizzative, politiche contrattuali e presenza nelle aziende attraverso i consigli (Organisationspolitik, Tarifpolitik und Betriebspolitik) nell'ottica del rafforzamento dell'organizzazione come chiave per rafforzare le politiche contrattuali ed impedirne l'erosione a livello aziendale. È il rafforzamento organizzativo, non il "modello contrattuale" e le sue (inutili?) riforme periodiche, o i (giusti) discorsi sul "sindacato 4.0" a permettere di fare una buona contrattazione, per gli interessi rappresentati e per il sistema paese.
Ecco perché i tedeschi ci fanno un po' paura: perché il loro esempio mette in dubbio che il modo burocratico di fare sindacato e contrattazione, l'applicazione di direttive e "modelli", o strumenti di calcolo tarati sulla moderazione nel quale è cresciuta un'intera generazione di sindacalisti sia il modo unico e senza alternative di fare politiche contrattuali. E perché dice ai sindacati che se vogliono avere il consenso e le adesioni dei lavoratori devono fare la fatica di riconvertirsi in organizzazioni capaci di rispondere alle esigenze dei rappresentati, con politiche salariali e contrattuali che non possono essere predeterminate in "modelli" concertati al centro che servono solo a perpetuare una moderazione salariale vista come destino ineluttabile.
Per fare buoni contratti bisogna far prima una buona organizzazione. E per farla, bisogna tornare a saper interrogare la propria base di riferimento e saper capire le domande che ne vengono per dare le risposte necessarie. Alla fine, i risultati potrebbero essere quelli che da anni cerchiamo di raggiungere facendo altre strade.
 
                                                                                         (Giovanni Graziani)