CERCA



Racconti di vita

IL DESERTO FIORITO

Come ci sembra di avervi già altra volta segnalato, abbiamo fatto la scelta di lasciare intatti questi “racconti di vita”, così come i loro autori ce li hanno trasmessi. Sono testimonianze, e il loro valore non è nella struttura letteraria ma semplicemente, e spesso profondamente, nella umanità che esprimono. Così è del racconto di oggi. Quando la forza insopprimibile di un affetto fa prendere la decisione di non rassegnarsi a lasciar morire un proprio caro in un’anonima “casa di riposo”...

*****
 
Odio il bianco: ospedali, cliniche, case di cura… hanno tutti muri bianchi. Percorro il labirinto dei loro corridoi a testa bassa. Una metafora agra del percorso obbligato della vita che, in fondo, ci porta tutti al medesimo punto. La differenza non è la meta, ma il cammino: è questo che ci distingue e qualifica, che può riempirsi di significato oppure sgonfiarsi nel nulla.
Il percorso di mio nonno è stato silenzioso, senza mai staccarsi da quella terra che egli ha coltivato per tutta la vita e che forse è stata il suo unico vero amore. Giungo alla sua camera con lo stato d’animo confuso; mi ero fermamente ripromesso di pensare prima a cosa dirgli per “tirarlo un po’ su di morale”, ma la mente ha vagato per conto suo nei meandri dei ricordi, tra fragole e albicocche e le mani callose di mio nonno che mi accarezzavano i capelli.  Entrando nella struttura mi aspettavo di vederlo seduto a leggere il giornale, come al solito,  e invece lo trovo sdraiato in una posizione nuova, con le braccia abbandonate lungo i fianchi.
  • Ciao, nonno! Come ti senti oggi? – alzo la voce perché è un po’ sordo.
Solleva leggermente il capo, mi fissa stringendo gli occhi:
  • Chi sei?
Due sillabe che mi giungono come stilettate alle costole. Mi ero illuso di poter rimandare questo giorno a un tempo futuro e indefinito; egoisticamente speravo che quando fosse accaduto (perché comunque era inevitabile che accadesse) mi sarei trovato magari in viaggio di lavoro e avrei quindi avuto una buona scusa per scaricare il peso della notizia su qualcun altro. Invece no: accade proprio oggi, in questo momento, e tocca a me.
  • Sono Paolo – gli ripeto cercando di abbozzare un sorriso e ricacciando giù il magone che mi attanaglia la gola.
Mi lancia uno sguardo smarrito, aggrotta la fronte, sembra impegnato in uno sforzo disperato per ricordare. Non mi ha riconosciuto: proprio me, il suo unico nipote, io che gli ho vissuto accanto per trent’anni e poi ogni giorno in questi ultimi due mesi…Non mi ha riconosciuto. E’ l’ultimo stadio di una malattia che porta via l’uomo un po’ per volta: lo disgrega, lo scompone, come in un quadro di Picasso, finchè l’uomo non riconosce più gli altri né sestesso. Mi siedo accanto al letto, gli parlo scandendo bene le parole: “Ti ho portato il giornale, nonno; non vuoi leggere?”
Una volta andai in Marocco con una comitiva turistica. Le guide ci condussero nel deserto. Niente sabbia. Colline rocciose scolpite dal vento e vallate cosparse di sassi e massi spigolosi. Un paesaggio desolato dove il nulla è protagonista e il pensiero vaga sconcertato alla ricerca vana di un appiglio. Le guide avevano piantato le tende sulla cima piatta di una collinetta per evitare il pericolo dei torrenti impetuosi che si formano quando piove. Non c’erano nuvole all’orizzonte e in quella regione la siccità durava da dieci anni. Quella notte però fui svegliato dal ticchettio della pioggia sulla tenda. I miei compagni dormivano e così gustai in solitudine quel momento particolare. Udivo in lontananza i rombi del tuono. Il temporale si stava scaricando con violenza. Rimasi sveglio a lungo e la mattina seguente fui l’ultimo ad alzarmi. Fuori, mi aspettava una sorpresa: tutt’intorno, sotto di noi, una marea di fiori gialli si era impossessata del terreno: un tappeto denso e uniforme che riverberava al sole. Ciottoli e pietre erano fioriti, la materia inerte aveva generato la vita, un’esplosione improvvisa aveva trasformato il deserto in un paradiso. Scesi dalla collinetta per toccare con mano il miracolo. Erano fiorellini simili a quelli che da bambino trovavo in campagna, nel podere del nonno, e di cui non ricordavo il nome. Piccoli fiori su steli esili, senza pretese né orpelli, ma di un giallo così intenso da abbacinare la vista. Ero stato privilegiato ad assistere a quello spettacolo così raro. Mentre i miei compagni consumavano rullini di foto, io rimasi immobile ad ammirare. Un uomo minuscolo nel deserto fiorito. Un brivido felice nell’animo.
Ora osservo il volto di mio nonno e vi ritrovo il paesaggio aspro del deserto: un’arida landa con solchi profondi, la fronte; radi cespugli quasi secchi, le sopracciglia; una collina smunta dal vento e dagli anni, il naso; e rughe profonde che dalle guance s’irradiano come canyons in una pianura secca eppure ancora vitale, non arresa al potere superiore della natura. Gli occhi, invece, gli occhi verdi di mio nonno, gli stessi miei occhi, sono laghi di vita risorta, pianure ubertose, un piccolo miracolo che ancora sfida il tempo.
Paolo! – esclamò all’improvviso-: sono contento di vederti!
Mi ha improvvisamente riconosciuto e, con le parole, un sorriso sboccia prepotente nel deserto, rompe gli schemi che sembravano ormai fatali, ricopre i canyons, spiana le colline, fa vibrare i cespugli di una brezza nuova. Su quel volto sorridente ritrovo lo stesso smarrimento beato che provai nel mezzo del deserto fiorito, un attimo di felicità che riempie il mondo ma che non possiamo portarci appresso. Un attimo che fa fiorire il mio nome sulle sue labbra, mentre il sorriso si spande agli occhi e all’anima.
  • Che hai da guardarmi così? – mi fa in tono burbero.
  • Niente. Pensavo… Sei mai stato nel deserto?
  • Lo sai bene che non mi sono mai mosso dalla mia terra.
  • Allora ti ci porto io, nel deserto.
Mi scruta come fossi un marziano e sbotta:
  • Che ti prende, oggi?
  • Dai, alzati – lo afferro per le spalle e lo costringo a sollevarsi.
  • Ma che diamine… - protesta a denti stretti.
  • Mettiti la vestaglia, ti porto via con la sedia a rotelle, non voglio che rimanga a marcire qui dentro.
Si mette a ridacchiare:
  • Vedrai come s’incazza la caposala!
Lo spingo fuori sulla sedia a rotelle. Percorriamo i corridoi quasi di corsa, prima che scoprano la nostra evasione. Il nonno ride come un bambino felice:
  • Sei proprio matto. Si può sapere dove andiamo?
  • Te l’ho detto: all’aeroporto, e poi nel deserto.
  • E cosa c’è nel deserto?
  • Non te lo posso spiegare, devi fidarti di me.
  • Andiamo nel deserto, allora! – E ride a crepapelle, agitando il bastone da passeggio come un cavaliere la sua lancia. Non lo vedevo così contento da anni. Prego il Signore che ci conceda almeno il tempo necessario a questa pazza impresa. Ci dirigiamo a tutta velocità verso il parcheggio dei taxi e intanto lui continua a gridare:
  • Più forte! Più forte!
                                                                                                     (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
°°°°°
MM

Racconti di vita

CIRILLINO TROPPE'URVE

A dire il vero questa “storia di vita”, oltre che molto semplice e molto vera, è un poco amara. Una piccola povera storia vera dalla quale cercar di trovare stimolo a vigilare meglio su noi stessi e su ciò che siamo e su chi ci sta intorno, per aiutarci e aiutare a prendere consapevolezza della dignità e della responsabilità che la vita merita: la vita non può essere sprecata. Vi lasciamo il racconto così come ci è stato trasmesso.


                                                                                               *****

Nel rione di San Giusto, a Pisa, per un certo periodo di tempo tra la fine della seconda guerra mondiale ed il pieno del miracolo economico italiano, erano sulla bocca di tutti due fratelli, nati ambedue intorno al 1910.

Si chiamavano Libertario e Giordanobruno Riglioni, ed i loro nomi la dicevano lunga sulle idee politiche del loro padre, per il quale anarchico era il pensiero giusto e verso l’anarchia doveva andare la storia.

Libertario si rese famoso per essere uno degli antifascisti più duri a morire e si fece un po’ di gattabuia e parecchio confino; dopo il 25 luglio del 1943 diede sfogo a tutto il suo patriottismo e, durante la guerra civile, non disdegnò di mettersi al servizio dell’Intelligence inglese e meritarsi, a fine conflitto, un bell’attestato del maresciallo Anders.

Fratello minore di Libertario  era Giordanobruno, che non si occupò mai di politica per la paura di perdere il posto di fuochista nelle FFSS. Anzi, durante il ventennio del regime cambiò nome in un più semplice Bruno. Sposò una casalinga, brava cuoca, e si rese popolare in San Giusto come raccoglitore di funghi e di lumache. Fece il fuochista fino a che esistettero le locomotive da manovra a vapore,  poi morì senza godersi la pensione.

Ebbe due figli che erano duri come il macigno: sì e no fecero le scuole dell’obbligo, ma senza profitto. Il maggiore, Velio, fece anche lui il ferroviere – settore personale viaggiante – e sbattè la porta in faccia ad amici e parenti quando seppe che qualcuno aveva detto di lui che nelle FFSS non era entrato per concorso ma per un colpo di fortuna.

Infatti, cominciò come facchino in una cooperativa di carico e scarico che fu sciolta all’arrivo della legge detta erga omnes, ed i cui dipendenti furono assunti dalle FFSS come manovali. Il lavoro da facchino glielo aveva trovato un suo lontano parente da parte di madre, preso da compassione per quel povero giovane che rischiava di divenire uno dei tanti disoccupati cronici dell’epoca.

Il secondo figlio, Rodolfo, aveva trovato, chissà come, un posto di saldatore nello stabilimento della Piaggio a Portammare, dove si assemblava l’Ape e dove, come inizio, si procurò, con la fiamma ossidrica, una ustione che gli fruttò alcune settimane di cassa mutua e riposo. Dato che era un bel ragazzo, era entrato in simpatia di un altro lontano parente, un impiegato spezzino dell’Inps che un giorno gli chiese perché, data la sua prestanza fisica, non avesse scelto la carriera del fotomodello: Firenze era vicina con il suo mondo della moda, e molte porte gli si sarebbero aperte con poca fatica. Ebbe però una risposta sibillina.

Altrettanto sibillina (“Sono mestieri periolosi”) la ebbe quando il parente gli chiese perché non facesse la guardia notturna o il carabiniere, data la dichiarata pesantezza del mestiere di saldatore: almeno, a far certi mestieri, come ad esempio la guardia notturna o il carabiniere, c’è poco da sfacchinare, si pensava.

Dato che erano in argomento, il parente previdenzialista si sentì chiedere se avesse conoscenze nella direzione della Piaggio per un’eventuale spintarella. Il previdenzialista non ebbe il coraggio di dire di no: parlò del ragazzo in termini benevoli con il capo del personale della Piaggio, che fece di tutto per far trasferire il Rodolfo Riglioni da Pisa a Pontedera, dove si stavano raddoppiando gli stabilimenti e i dipendenti.

Mal ne incolse al parente Inps, perché dopo due o tre mesi il raccomandato di ferro fu sbattuto fuori della Piaggio come una ramazza, per manifesto scarso rendimento. Infatti il Riglioni era stato, sì, spedito alla catena di montaggio della Vespa, ma gli era stato anche accennato che se ci sapeva fare sarebbe stato promosso di categoria e poi, chissà, avrebbe potuto divenire anche un capetto. Invece il Riglioni si fece subito venire una peritonite con conseguenti lunghe settimane di convalescenza, cure, e, soprattutto, riposo: situazioni che aggravarono la sua posizione di ritardatario cronico.

Egli si giustificò del licenziamento in tronco dicendo alla fidanzata, al parentado, ai cugini laureati, al parente Inps e alla relativa signora, che alla Piaggio di Pontedera si respirava un’aria mefitica fatta di controlli e di spinte, e che lui si era ribellato. Fu creduto.

Nonostante questo precedente, però, riuscì a trovare – forse con il metodo usato qualche anno prima da suo fratello – un posticino da autista nell’azienda municipalizzata dei trasporti cittadini, ove ti licenziano solo se spacchi la faccia ad un dirigente. E allora, dopo un annetto di guida degli autobus urbani, un’ernia del disco lo mise cappaò. Operazioni chirurgiche, degenze, convalescenze e riabilitazioni nelle principali stazioni termali della penisola, che convinsero l’azienda a considerarlo inabile alla guida: per compassione fu spedito in officina, ove si distinse per le sue movenze da bradipo, tanto che i suoi colleghi lo soprannominarono sarcasticamente Motorino.

Rimase in officina fino al prepensionamento, che avvenne in età talmente giovanile da permettergli di dedicarsi, finalmente, alla sua unica vera passione: la pesca sportiva. Ora sì che poteva alzarsi dal letto all’alba: ma non per andare all’odiato lavoro, bensì per andare coi gambali fino alla coscia nelle gelide acque del Serchio e in quelle vorticose della Lima per la pesca con la canna, e fra i marosi del Tirreno in burrasca per la pesca al rezzaglio.

Postumi della peritonite e dell’ernia del disco? Neanche a parlarne. Durante le battute di pesca al rezzaglio conobbe dei pescatori livornesi dai quali apprese le locuzioni “boiadè!” e “borda!”, con le quali modernizzò un pò il suo linguaggio. Infatti, avendo vissuto fino alla pubertà attaccato alle gonnelle della madre che era una popolana, diceva, ad esempio, “la diabete” invece che “il diabete”; e altre eleganze linguistiche.
La fidanzata, poi moglie, di Rodolfo Riglioni era una commessa di drogheria, figlia di un bracciante inurbato. Si chiamava Morena; aveva fatto sì e no le elementari, ma le piacevano tanto i soldi e l’oreficeria. Avrebbe voluto riscattarsi civilmente, ma non certo andando alle scuole serali, perché le sarebbero state proibite dal Riglioni Rodolfo, geloso come un Otello.

Avrebbe potuto, in alternativa, imparare qualcosa qua e là: ed il qua e là poteva essere attraverso il parente Inps e la relativa moglie, ai quali chiese infatti di poter andare  a una gita collettiva verso San Gimignano, città che aveva sempre sentito nominare ma che non aveva mai visto neanche in cartolina: fece la richiesta  perché sapeva che il previdenzialista e sua moglie erano una coppia colta, dalla quale avrebbe potuto imparare parecchio.

Il previdenzialista si diede in effetti da fare, spiegando la bellezza soave della cappella di Santa Fina del Ghirlandaio e quella di Piazza della Cisterna, tutta a sghimbescio ma pure piccolo capolavoro della urbanistica rinascimentale. Al ritorno, chiese al Riglioni se gli era piaciuta la piazza ed ebbe come tutta risposta che sì, poteva essere anche bella, ma “c’erano troppe cornacchie”.

Analoga risposta intelligente fu data dopo una gitarella in Garfagnana, subregione oggetto di culto da parte di tutta la borghesia di Pisa: “Forse saranno bei posti, ma ci sono troppe ùrve”. Così si beccò anche il soprannome di Cirillino Troppeurve.

Il parente previdenzialista era sposato, a sua volta, con una bella e simpatica impiegata dell’Autorità Portuale di Livorno, che morì improvvisamente divorata da un cancro: cosa che lasciò Riglioni talmente sconvolto da fargli decidere di lasciare tutto e traslocare nella Spezia, ove aveva lasciato qualche amico e qualche parente. E un giorno, nel trigesimo della morte della signora, guidato dalla Morena, Rodolfo si fece avanti per vedere se per caso lei avesse lasciato dell’oro e per sapere se, nell’intrico giuridico relativo alla quota legittima, c’era da raspare qualche milioncino di lire. Trovarono il portone chiuso ed un cartello di “vendesi” con la sola indicazione di un numero telefonico che iniziava con zero-uno-otto-sette. Tornarono indietro ritenendosi sfortunati…
                                                                                                       
                                                                                                                 (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)

                                                                                              °°°°°

 
 

Racconti di vita

QUELLE STRANE PORZIONI

A volte, ma non così raramente come in genere si pensa, apprendiamo lezioni di vita da una casuale affermazione di vecchio saggio, ad esempio di un nonno, molto più che da dieci lezioni universitarie.

°°°°°

Lo so bene perché il bunet (dolce tipico della cucina tradizionale piemontese, preparato con latte, uova, cacao e amaretti) mi piace tanto.  
Avevo dodici anni, in quell’agosto, ed era giorno della Fiera di San Rocco. La fiera era sempre un bel giorno per noi bambini, ma anche per i grandi, che passavano la mattinata tra i banchi del mercato, al bar, a sentire il sindaco che teneva il discorso tra un brano musicale e l’altro della banda comunale; la fiera piaceva un po’ meno alle donne, che la mattinata finivano per passarla in cucina, perché il giorno della fiera qualche ospite in casa finiva per esserci sempre.

E quell’anno, il giorno della fiera, invitato di lusso era in casa nostra addirittura il dottor Luigi Porretti, luminare e massimo esperto ortopedico dell’università di Torino, nonché relatore della tesi di laurea di mia sorella.

Sì, perchè grazie agli aiuti anche economici del nostro medico condotto che aveva visto in mia sorella un futuro grande dottore, lei aveva potuto fare l’università, anche un po’ contro il volere dei miei genitori che pensavano di non poter permettersi questo lusso; comunque mia sorella era ormai arrivata alla fine degli studi, mancava solo la tesi, ed era sembrato logico a tutti invitare il grande professor Porretti alla festa patronale del nostro paesino.

Il dottor Porretti aveva pensato bene di portare con sé tre suoi giovani assistenti: il dottor Roberto Caldi, il dottor Franco Sereni e il dottor Mauro Pescatori. Inutile dire che mentre i quattro avevano girato in lungo e in largo per la fiera, comprando oggetti inutili e costosi fra continue soste al bar per bere aperitivi rigorosamente alcolici, mia mamma e mia nonna dalle sei del mattino avevano preparato tali e tanti piatti che a casa mia tutti insieme non si erano mai visti. Vitello tonnato, carne cruda, insalata russa, salame e prosciutto, agnolotti al plin, bollito, arrosto, fritto misto, con un’abbondanza di carote, spinaci, patate e altre verdure, che non riesco nemmeno a ricordare. E poi il bunet. A casa mia le donne sapevano fare tutto, ma il bunet no: il bunet lo faceva solo la nonna. Con quella pazienza che solo gli anziani sanno avere, mescolava i rossi d’uovo con lo zucchero fino a che non veniva un’amalgama di consistenza unica; poi faceva scendere il cacao a pioggia e senza smettere di mescolare aggiungeva i bianchi delle uova in un modo che sembrava di vedere quella neve che tutti gli anni scende, almeno dalle nostre parti, nella notte di Natale. Con il latte l’impasto diventava fluido, senza grumi, pronto a ricevere il bicchierino di liquore e gli amaretti, sbriciolati in pezzi così uguali che sembrava li avesse fatti una macchina. Poi rovesciava il tutto nello stampo dove aveva fatto caramellare lo zucchero, e quando iniziava la cottura a bagnomaria mia nonna non si muoveva da lì nemmeno per un attimo, come una sentinella di guardia a un carico di diamanti preziosi; restava a fissare pentola, acqua, stampo e coperchio fino a quando non spegneva il fuoco e levava questa perfezione della natura chiamata bunet.
Data l’occasione, per la prima volta mia nonna non aveva fatto il bunet nel solito stampo, così piccolo che sempre ne toccava soltanto un pezzettino per ognuno e io e tutti gli altri ci stavamo male perché, se avessimo potuto, ne avremmo mangiato uno intero a testa; quella volta, visti gli ospiti di riguardo, la nonna aveva preparato due enormi teglie rotonde di bunet. E’ meglio che avanzi: basta che non manchi…” – aveva detto.

La tavolata era numerosa e rumorosa. A capotavola il grande dottor Porretti, alla sua destra e alla sua sinistra i suoi assistenti. Poi mia sorella, mio papà, l’altro mio fratello, mio nonno, zio, zia e due cuginetti; in fondo al tavolo mia mamma e mia nonna, che, poverine, facevano avanti e indietro in cucina e come al solito finivano per mangiare sempre poco di tutto.

Così per tutto il pranzo io non avevo che aspettato il momento del bunet. E mentre i dottori si ingozzavano con tutto quello che veniva portato in tavola, senza rifiutare il bis, senza far avanzare mai niente, senza dimenticare di bere un bicchiere di Barbera o di Grignolino tra un boccone e l’altro, io pensavo solo al bunet; pensavo che per la prima volta avrei potuto mangiare bunet fino a sazietà, fino a esserne così pieno da arrivare a dire “basta,  non voglio più nemmeno un pezzetto di bunet”.

Finalmente arrivò il momento tanto atteso; come in processione, la mamma e la nonna arrivarono tenendo nelle mani due grandi teglie di bunet, tra lo sguardo ammirato di tutti. Il famoso bunet della nonna. “Dottor Porretti, ci terremmo che fosse lei a tagliarlo!”.
Mia sorella, che durante il pranzo aveva fatto un po’ da padrona di casa perché per tutto il giorno precedente ci aveva raccomandato di non farle fare brutta figura, aveva avvicinato una teglia al grande professore; lui con fare serio aveva mostrato di accettare e gradire la responsabilità dell’incarico: in un silenzio mai visto prima, il dottor Porretti prese il coltello dalla lunga lama e con un gesto lento ma sicuro tagliò in due il bunet; quindi girando di novanta gradi la teglia fece di nuovo correre la lama lungo tutto il diametro. Ne erano usciti quattro grandi spicchi uguali, senza la minima imperfezione; il professore posò il coltello e con la paletta cominciò a distribuire il primo quarto al dottor Caldi, il secondo al dottor Sereni e il terzo al dottor Pescatori. Quando i suoi assistenti furono tutti serviti prese l’ultimo quarto, lo sistemò nel suo piatto e insieme ai suoi illustri colleghi iniziò a mangiare, facendo con il capo ampi gesti di entusiasmo.

Tutti voltammo lo sguardo verso l’altra teglia rimasta e credo che ognuno mentalmente avesse iniziato a suddividerne le porzioni accorgendosi che anche stavolta per noi ci sarebbe stato il solito piccolo pezzo a testa. In un silenzio spezzato solo dal rumore dei cucchiai che i quattro medici impietosamente infilavano nella delizia di cacao, improvviso, inatteso, inimmaginabile, mio nonno sentenziò:
  • Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei… -: Non serve studiare tanto per fare una cosa del genere…

Per un momento tutti pensarono alle raccomandazioni di mia sorella a non fare brutte figure con ospiti così importanti, ma subito nessuno riuscì a resistere e uno dopo l’altro tutti scoppiarono a ridere. Anch’io, ancora deluso per il mio bunet, anche mia sorella che tanto la raffinata aveva fatto fino ad allora, e mio papà, gli zii, la mamma, la nonna, mentre i dottori guardavano senza capire perché ridevamo.

Come andò a finire quel pranzo non lo ricordo più molto bene, se non per quel pezzettino di bunet a testa che comunque abbiamo mangiato tutti; però adesso che sono passati degli anni, che il dottor Porretti credo non sia nemmeno più vivo e i suoi assistenti di allora saranno diventati dei luminari della medicina, sì, adesso il bunet lo ricordo sempre e molto bene. Non c’è più la nonna che lo prepara, anzi ormai in casa il bunet non si fa più: però ogni volta che vado in uno di quei ristoranti di cucina piemontese, alla fine del pranzo il bunet lo prendo sempre. Anche se forse non è nemmeno più il mio dolce preferito, anche se forse ormai mi piacciono di più la crostata o la torta di nocciole o la panna cotta; però finisce che il bunet lo prendo sempre perché a me fa un po’ l’effetto della madeleine di Proust, mi ricorda gli anni dell’infanzia, mi ricorda il dottor Porretti, i suoi giovani assistenti, l’agitazione di mia sorella, tutta la mia famiglia che si mette a ridere per la frase del nonno.

Già, la frase del nonno… Quella mi è servita, mi è servita per la vita da affrontare con quel distacco e quell’ironia che sono indispensabili. Perché poi la mia famiglia è riuscita a far studiare anche me e alla fine ho preso una laurea in ingegneria; però, anche se mi presento sempre come un serio professionista del lavoro, in realtà sono eternamente conscio di essere un perfetto dilettante della vita.  E lo studio, le ambizioni, i successi, gli onori che si finisce per ricercare ogni giorno, saranno sì importanti, ma l’educazione e il buon senso… quelli davvero sono per me fondamentali.

Così tutte le volte che mi rendo conto di essermi lasciato andare ad atteggiamenti presuntuosi, tutte le volte che mi accorgo di quanto si può essere arroganti e quanto si diventa ridicoli nell’esserlo, tutte quelle volte io mi fermo un attimo, mi metto davanti allo specchio e mi dico a voce alta: Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei.
Poi ricomincio di nuovo, fino alla prossima volta. Ma almeno, quando sono davanti a un bunet, me ne ricordo. Sempre.
                                                                                            (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
°°°°°
MM

Racconti di vita

CASTAGNE MATTE E GNOMI DEL BOSCO

Le testimonianze di vita continuano. In questo caso, si tratta dell’importanza estrema e duratura dell’esempio di vita e dell'affetto dei genitori nel processo educativo dei figli, che per la sua organicità  e immediatezza non appare delegabile né sostituibile del tutto, neanche da parte della scuola migliore...

°°°°°
 
C’erano una volta, tantissimo tempo fa, un papà e la sua piccola figlia. Si amavano teneramente e il loro amore rendeva ogni gesto ed ogni parola speciali, quasi magici. Vivevano però, a volerla dire tutta, in un luogo che di magico non aveva quasi nulla: non c’erano tramonti incantati nelle serate estive; non si sentiva il profumo dei fiori di gelsomino quando maggio veste generoso le siepi dei giardini; non c’erano piccoli corsi d’acqua dove poter cercare rane e girini; soprattutto non c’era il mare, con il suo odore intenso e il suo rumore possente nelle giornate di tempesta. C’erano invece lunghe file di fabbriche grigie, adagiate nella periferia della grande città, apparentemente disabitate, ma rumorose, per un orecchio attento, a testimonianza dell’incontro operoso di uomini e macchine. C’erano anche lunghe strade che tagliavano la pianura; volendo seguirle con lo sguardo, si saliva verso le colline e poi più su, fino a raggiungere le cime delle Alpi, innevate per tutto l’anno.
La gente che vedeva passeggiare il papà e la sua piccola figlia tenendosi per mano (lei accompagnava lui o lui accompagnava lei non si sa) aveva espressioni di stupore e di meraviglia:
  • Guardate come sono belli, lui sembra un principe, con quel suo largo cappello e il passo elegante, e lei è sicuramente la sua principessina… Fate largo, fate largo… lasciateli passare!
La loro dimora sembrava, da fuori, un po’ fuorimoda con la sua forma stretta e allungata su due piani. A fatica sporgevano due piccoli balconi con la ringhiera di ferro; ma proprio da quelli il papà e la sua piccola figlia immaginavano spesso di affacciarsi per recitare la parte del re e della regina, fino a quando la mamma non chiamava:
  • Tutti a tavola, che è pronto!
Dall’interno della cucina poteva accadere che giungesse la musica di un grammofono e loro ne approfittavano, rientrando, per muovere qualche passo di danza: lei saliva con i piccoli piedi sulle scarpe di lui e insieme ridevano per quell’inganno innocente, mentre piroettavano fra le sedie e il tavolo immaginandosi nel salone di un grande castello.
Giocavano spesso insieme, il papà e la sua piccola figlia: lui era prodigo di invenzioni strabilianti, faceva giochi di prestigio che sembravano vere magie, ma si faceva piccolo come lei quando doveva assecondarla per una sua infantile richiesta. E così inventava favole con maghi e castelli incantati, faceva arrivare cavalieri invincibili che liberavano principesse prigioniere, e lei lo ascoltava rapita, gli occhi spalancati sul mistero, muta nell’attesa di ciò che sarebbe accaduto.
  • Papà, quando sarò grande voglio diventare una principessa e ti sposerò, perché tu sei il mio re…
  • Ohi, ohi…e come faremo a dirlo alla mamma? E’ lei la regina – rispondeva divertito il suo papà.
  • Ma starà con noi, staremo tutti insieme! – rispondeva lei.
In quella dimora c’era anche un piccolo giardino che in qualche modo permetteva loro di godere dei fiori di lavanda in estate e dei mille colori delle foglie in autunno. Non era molto, ma con un po’ di fantasia si potevano anche trasformare le file di formiche in ballerine e qualche coccinella in una fata buona. C’era anche un gatto bianco e nero, che passeggiava pigro su e giù, fra l’albero di cachi e qualche cespuglio selvatico, inconsapevole delle innumerevoli volte nelle quali aveva indossato stivali e cappello piumato per difendere il suo padrone o, per contro, aveva ingannato con furbizia una lucertola fingendosi cieco e innocuo, per tendere poi un agguato mortale! Sì, perché, come forse si è capito, questa favola è piena di favole. E come in tutte le favole le scene cambiano, i personaggi si trasformano, i buoni vincono i cattivi, e la fantasia si fa largo per interpretare la realtà a modo suo. Anche il papà buono di questa fiaba, che sapeva trascinare la sua piccola figlia in un mondo incantato, smontò pezzi del reale per ricomporli in una nuova storia del tutto irreale.
E quando, qualche tempo dopo, dovettero purtroppo cambiare dimora, si sentirono un po’ tristi nel dover abbandonare quel piccolo paradiso: ma né lui né lei si persero d’animo.  Anche se il palazzo nel quale erano andati ad abitare rendeva difficile riprendere il gioco del “facciamo che io ero la principessa e tu il re”, iniziarono subito ad andare alla ricerca di un luogo che permettesse loro di continuare a sognare. E gira e rigira lo trovarono: era un pioppeto che, sorprendentemente, si apriva al di là del cemento, quasi un miracolo della natura. Così, partirono in un pomeriggio di sole per andare a conoscere i misteri di quel bosco e alla piccola figlia di quel papà meraviglioso batteva il cuore per l’emozione. Fatti i primi passi tenendosi per mano, il sottobosco cominciò a crepitare sotto i loro piedi, e sui tronchi alti e sottili dei pioppi si innalzavano fronde leggere che si muovevano appena sopra di loro. Continuarono a camminare, facendo attenzione mentre l’aria intorno si riempiva delle loro voci spezzando il silenzio. Giunsero quasi alla fine del bosco, proprio dove alcuni ippocastani, con i loro tronchi imponenti, sorgevano a definire un viale che, passando di lì, portava quasi sicuramente lontano. A differenza dei pioppi, questi erano alberi maestosi, che reggevano chiome larghe e ombrose; le foglie fitte nascondevano ricci spinosi pieni di castagne matte: ma molti di questi erano già caduti.
  • Attenta, non toccarlo, con il riccio ti puoi pungere...
A lei piacevano tanto le castagne matte, così rotonde e lucide, e allora cercava quelle già uscite dal riccio, ce n’erano molte per terra, se le faceva rotolare fra le mani e poi ne raccoglieva fino a riempirsene le tasche.
  • Guarda papà, sono bellissime, le portiamo alla mamma, anche a lei piacciono, me lo ha detto un giorno… Ma che cosa sono questi buchi nei tronchi?
A questa domanda il papà buono liberava tutta la sua fantasia per volare con la sua piccola figlia nel loro mondo incantato.
  • Questi buchi nei tronchi li fanno gli gnomi del bosco.
  • E dove sono adesso? Ma…sono cattivi gli gnomi?
  • Certamente no! Gli gnomi del bosco non sono cattivi, anzi. Ma escono solo di sera perché temono gli uomini: si rifugiano in questi buchi e si fanno compagnia, si vogliono bene fra di loro. Nessuno però li ha mai visti, purtroppo! Chissà, forse noi potremmo essere fortunati e incontrarne uno…
La piccola figlia sbarrava gli occhi, si emozionava, ma la presenza rassicurante del papà le consentiva di abbandonarsi a immaginare serate di luna piena con gli gnomi seduti a conversare intorno a quei buchi nei tronchi. E alla sera si addormentava, cullata dall’ultima favola che lui le leggeva.
Un brutto giorno, però, accadde ciò che non dovrebbe mai accadere: il papà si distrasse? La piccola figlia si staccò dalla sua mano? Fatto è che non si ritrovarono più e… lei si perse, non in un bosco fitto di alberi e di pensieri fantastici, ma, molto più modernamente, in una libreria affollata di una strada del centro della città; perché, come è evidente, questa è una favola nella quale realtà e fantasia si confondono e qualche volta non si sa più dove finisce l’una e dove comincia l’altra. Fu allora che quel papà, disperato, cominciò a percorrere le strade della città invocando e gridando:
  • Chi ha visto la mia bambina? C’è qualcuno che me la può riportare?
Percorse in lungo e in largo portici e vicoli, incapace di immaginare la vita senza di lei. Si mise a correre senza meta, chiedendo a chiunque incontrasse:
  • Ha visto una piccola bambina, che sembra una principessa? E’ la mia bambina, è mia figlia, mi aiuti a cercarla…
Allora, uno dopo l’altro, uomini e donne e ragazzi, si unirono a lui, le strade si riempirono di gente che chiamava a gran voce il nome di lei in un unico coro disperato, ma tutto sembrava vano. Poi, finalmente una voce gridò:
  • Venite, venite! L’ho trovata, è qui!...
Oltre la porta della gendarmeria, due signori vestiti in uniforme ascoltavano, compiaciuti, una piccola bambina che recitava, in piedi su di un grande tavolo, una poesia imparata all’asilo: via le lacrime della disperazione nell’essersi vista sola, cancellato il ricordo di quel singhiozzo alternato a parole sussurrate in cerca di aiuto: - Ho perso il mio papà… voglio il mio papà… la mamma dov’è? 
Tutto finito, ora. Le parole rassicuranti dei gendarmi confermavano che la mamma sarebbe subito arrivata, e anche il papà. L’abbraccio del ritrovarsi fu accompagnato da grandi grida di gioia, i clacson delle automobili divennero scampanio di campane, la gente si mise a ballare nella strada: perché così succede nelle favole.
Da allora la vita riprese tranquilla il suo scorrere: il papà buono e la sua piccola figlia continuavano a volersi bene; lei cresceva e lui si adattava con complicità e… tanta pazienza.
Poi, un certo giorno di un certo anno, alla piccola figlia, ormai dodicenne, parve di udire dentro di sé la voce del papà che, a conferma di un presagio che si stava concretizzando, dava risposta alle domande che il suo cuore poneva: perché quei nuovi silenzi nella casa? Perché si erano interrotti i momenti di complicità? Perché erano state via via abbandonate vecchie abitudini, per fare spazio a nuove necessità, dalle quali si sentiva esclusa, quasi allontanata?
  • Forse dovrò partire per un lungo viaggio, piccola mia… - diceva quella voce; - forse non potremo attendere insieme di vedere, il prossimo autunno, il colore dei ricci degli ippocastani che cambia…
  • Perché, dove devi andare, papà?
  • E’ un po’ difficile da spiegare: quando sarai più grande capirai e forse accetterai. Ti ricordi quando ti raccontavo le favole con le principesse e i re? Ecco, noi resteremo sempre insieme, come nelle favole, e sarà come fare una magia: tu resterai nel mio cuore e io nel tuo, per sempre. Non piangere, la nostra sarà la favola più bella.
E così, piano piano, senza far rumore, il papà buono sfumò verso l’azzurro, nell’aria ferma di un pomeriggio estivo, lasciando però dietro di sé mille bagliori di vita per la sua piccola figlia.
Questo è il ricordo che ho di mio padre, mondato del dolore provato per la sua perdita. Oggi compirebbe cento fantastici anni. Buon compleanno, papà!... E grazie per aver dipinto la mia infanzia con tutti i colori della fantasia.
Questo ricordo è appunto dedicato a mio padre, memoria viva nel mio cuore, con immensa nostalgia, in questo 7 giugno 2012.
                                                                                                 
                                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
                                                                                           *****
 

Racconti di vita

LA PASSEGGIATA DI LUIGI

Famiglie che potevano essere e non furono mai: a volte la guerra, soprattutto, a volte l’emigrazione, o altri drammi, sconvolgevano pensieri, disegni, sogni. In un mistero che su questa terra forse non si potrà mai chiarire.

*****
 
Lassù, sotto le falde del monte, si sentiva qualcuno cantare una canzone che diceva: “Questa notte laggiù nella valle…”. Era un canto che si confondeva col rumore di un rio gorgogliante fra i sassi, dentro il corso che s’era scelto da sempre fra abeti e larici, olmi e maggiociondoli.
Il canto era intermittente, una voce maschile cadenzata al ritmo di un passo montanaro. A volte diventava mormorio, soffio, o si mutava in fischio, come se il cantore si sentisse improvvisamente più leggero o la china del monte diventasse meno impervia. I rumori e le voci del bosco continuavano ad essere sottofondo di quella presenza canora: il tonfo di una pigna caduta  dall’abete, lo scricchiolio causato da uno scoiattolo qua e là per i rami, il plaf-plaf di un ranocchio presso gli acquifoglio, lì alla “molinella”...

Sì, perché lassù l’uomo aveva costruito un leggero e semplice mulino di legno per lasciare un segno delle sue soste lungo l’acqua del rivo, un segno delle sue pause di riflessione in ogni passeggiata o scarpinada dentro quel bosco. Quelle pale, rozzamente abbozzate col coltello da tasca, giravano dentro il rivo e facevano saltare intorno zampilli e spruzzi d’acqua, e questi attiravano tanti passeri suoi amici, ai quali pure egli parlava o forse… confidava i suoi segreti. A quella polsa Luigi sostava spesso, e il cigolio ritmico della molinella, l’ombra dei noccioli, il sole che filtrava la mattina, creavano l’atmosfera adatta per pensare a Gianna. Luigi si sentiva parte dell’ambiente.

Solo lì era riuscito a dare ristoro alle sue urgenze, alle pene di giovane provato dalla guerra sul fronte delle Alpi Occidentali, verso Briga e Tenda, fra l’aggressione alla Francia e i bombardamenti notturni, la mancanza di notizie della sua famiglia e nessuno scritto della sua amata, e poi la cattura, l’internamento, le camminate di trasferimento obbligato in notturna, la ricostruzione delle casematte, la fame, i soprusi subiti dai prigionieri, poi gli inglesi, la fuga e l’avventuroso ritorno a casa, attraverso boscaglie interminabili per non essere rintracciati, i piedi che dolevano, la paura dei rastrellamenti, e infine… la morte di Gianna, lontana, in Argentina.

Quand’era nel bosco si trovava immerso in un’atmosfera panica, totalizzante, che gli incuteva rispetto per ogni cosa della natura. Lì conosceva quei grossi nidi che le formiche erigevano con cumuli di aghi di pino e piccoli stecchi, per un’intera stagione, con infaticabili andirivieni in file nere o rosse. Formiche che passavano fra sassi e sterpi, dritte alla fonte di risorse individuata quel giorno: per esse tutto procedeva senza alcuna distrazione o rottura di ritmo che non fosse un improvviso pericolo o la suola di un improvvido passante.

Il prato di primo mattino era come se fosse piumato per la guazza notturna: gli steli del fleon e delle graminacee erano chinati da una corona di perline trasparenti che, tutte assieme, formavano cuscini azzurrini sospesi sopra tutto quel verde. Luigi osservava e si soffermava rapito. Dentro sentiva un’urgenza sconosciuta tramutarsi in pensiero, parola, canto, grido. Si chinava a raccogliere dei fiori: erano a volte garofanini di monte, sfrangiati, posti lì su una balza, oppure  entauree al bordo del sentiero, o borraggine azzurro-lapislazzulo. Doveva guardarsi però dai bombici che, già di buon mattino, stavano rumoreggiando in cerca di nettare.

Luigi voleva mettere quei fiori ad un capitello, sul sentiero verso le baite; lo faceva quasi tutte le domeniche. Un rito? No, piuttosto un sentimento d’abbandono, di fiducia in quel Sant’Antonio lì effigiato, stinto dal sole e dall’acqua piovana, protetto da due scorzi messi a capanna. Anche quel Toni lì conosceva la solitudine in cui Luigi si trovava nel corso della settimana;  ma la domenica era un’altra cosa: nella sacca qualche frutto e un companatico, un filone di pane, e via in montagna, lungo la strada dei montanari  dei legnaioli, dei malghesi che portavano le bestie all’alpeggio e le riportavano poi in valle alle loro stalle.

Giù in paese, al negozio, le sue clienti quando lo sentivano accennare ad un motivetto, o arrivava il suo canto dalla dispensa in cantina, gli dicevano: “Ma voi, Luigi, siete sempre contento! Cantate, cantate allegro! Beato voi! Chissà chi sarà la fortunata…” e qualcuna di mezza età, come ce n’erano tante nel dopoguerra, lanciava lì una proposta sospesa, sospesa in aria come un sentimento accennato ma puntuale, non dichiarato ma allusivo. “Cantate… Cantate… Cantate… Sempre allegro, voi, Luigi!”; ma non approfondivano i motivi di quel suo cantare e fischiettare preciso, di quel suo modo di scherzare, di quel suo rispondere evasivo. “Canto alla Lilly Marlene”, diceva a volte, ed indicava un grande quadro con la figura di una cantante o di un’attrice americana che sorrideva da un paesaggio West. Lei aveva il sorriso di Gianna, della sua Gianna che era andata lontana, in Argentina, con tutti i suoi fratelli, prima della guerra: la sua Gianna che doveva tornare, tornare per lui, proprio per lui…e poi gli avevano scritto che era morta, banalmente, per una polmonite.

La guerra con le sue mille facce, le sue tragedie, i suoi sconvolgimenti, aveva portato anche in lui, che era di forte tempra, confusione e tristezza senza fine. Riusciva in qualche modo a camuffare quelle momentanee prostrazioni reagendo con il canto o fischiettando proprio nei momenti “dei cupi abbandoni del cuore”. Tutti erano persuasi della sua allegria ed invece la sua pena a volte cresceva a dismisura e così si rifugiava a piangere nella cantina del suo negozio. Perciò la domenica, quando ancora tutta la parte alta del paese dormiva, fatto il sacco, infilava il sentiero ed era presto alle falde del bosco.

Poco dopo incominciava a sentirsi meglio: per tutto il giorno era un altro modo di essere. Nasceva dentro di lui una rassicurante certezza che fluiva nel canto e nel fischiettare modulato. Erano quelli i momenti nei quali comunicava con la sua Gianna e la sua Gianna di sicuro lo aiutava a trovare la strada per disfarsi di quel fardello  che da tempo lo opprimeva. Il canto, che prima era affanno, sentimento angoscioso e inespresso, si faceva più disteso, armonioso, quasi un linguaggio gentile. E mutava: era adesso un fischio, ad esempio, che imprimeva alla canzone un’espressione precisa. Luigi era attento ai minimi scarti di note, a tutti i balzi e i rimbalzi della voce, ai passaggi del testo. Si serviva delle note per “comunicare oltre”, oltre le cime degli alberi, oltre i coni d’ombra che il sole proiettava sui viottoli del bosco, oltre l’affanno dei pensieri e dei ricordi, oltre oceano.

In quel breve paesaggio di vallette, di balze, d’ombrosi botri dirupati, arrivava infine al Ronco,  sotto gli alberghi e le baite. Trovava quel riparo che placava, almeno per quel giorno, una spina dolorosa che gli si era conficcata in petto a quella tragica, improvvisa e maledetta notizia: “Giovanna è morta”.

Nel bosco tutto poteva estinguersi, almeno per ora, dolcemente, in quel mormorio d’acque e tonfi leggeri, nello zirlare di merli acquaioli, nel canto e nel fischiettare armonioso che egli rivolgeva, sempre con attenta misura alla sua Gianna.
                                                                                                         
                                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
                                                                                             *****
                                                                                               MM

 
 

Racconti di vita

QUARTO DEI MILLE

A volte la nostra vita si specchia inattesamente in quella degli altri, magari per un episodio casuale del quale avevamo fino allora ignorato i protagonisti: e scopriamo che dietro quell’episodio c’è un insegnamento che fa anche per noi, o magari solo uno spunto di riflessione che è però occasione preziosa per farci semplicemente capire quanto è vasta e variegata la realtà umana che ogni giorno ci passa davanti e interseca i nostri passi; e quanto, in fin dei conti, valga la pena essere nei suoi confronti attenti e aperti.

*****
 
Il bambino che mi sedeva di fronte, sul treno regionale Genova-La Spezia, era mingherlino, aveva occhi castano-dorati, come i capelli, e gambette irrequiete. Quando si sentiva osservato si stringeva alla madre e reclinava la testa sul braccio di lei.

Lei, una giovane donna triste e pensosa, non badava al figlio né alle piccole stazioni dove il treno si fermava per pochi minuti: mentre lui ad ogni sosta si allungava verso il finestrino e leggeva ad alta voce il nome della stazione; la vocetta era squillante anche se tradiva una lieve incertezza nel sillabare il nome sconosciuto della località: uno scolaretto di prima elementare, ne dedussi.

Dopo Sturla, il bambino si inginocchiò sul sedile e appoggiò la fronte al vetro. La madre si preoccupò allora di controllare che i suoi sandali non sfiorassero le mie ginocchia. Ignorò la mia occhiata benevola di comprensione e riprese il suo silenzioso raccoglimento, con le mani intrecciate sulla borsa di rafia.

“Quarto dei Mille!” esultò poco dopo il piccolo viaggiatore, puntando il dito fuori. E voltandosi: “Perché Mille? Mamma, cosa vuol dire?”. La donna non cambiò espressione: muta e indecifrabile come una statua. Era mai possibile che non sapesse rispondere a una domanda così semplice? mi chiesi. Il bimbo ripetè la domanda calcando su quel “mille”, che forse gli sembrava strambo, per un paese. Non ottenne nessun risultato. Il treno ripartì. Colsi una sua occhiata rivolta a me: conosco bene la psicologia dei bambini, dopo trentotto anni di insegnamento, e capii subito che questo era un tipetto sveglio con una gran voglia di scoprire e imparare. Se mi fossi messa a spiegargli l’evento storico legato a quel nome, dopo aver bevuto le mie parole mi avrebbe tempestato di domande. Colta da un senso di rispetto per il silenzio malinconico della madre, preferii tacere. Intanto il bambino seguitava a fissarmi, per cui io finsi di dormicchiare. Durante il percorso udivo però la sua voce che elencava i vari paesi costieri; ma il tono era stracco e poi si spense. Evidentemente non gli piaceva giocare da solo. Tra un battito di ciglia lo intravidi osservare svagato il grigiore del cielo che si rifletteva nel mare, e smuovere smanioso le gambe.

Appena il treno sferragliò sul ponte sopra il fiume Entella la donna si rivolse al figlio con un piglio brioso: “Su, Nuccio! La prossima è la nostra fermata”. Lui balzò in piedi e si fece agganciare lo zainetto alle spalle. “Siamo già a Lavagna?”, si informò. “Proprio a Lavagna”, confermai io, rompendo finalmente il cerchio del mio riserbo. E lui con gli occhi sgranati: “Io sulla lavagna ci scrivo”. “E io ci abito da un sacco di tempo”, replicai scherzosa.

Scendemmo tutti e tre insieme. La madre portava un borsone nero a tracolla e sul marciapiedi sbirciò attorno, indecisa. All’uscita dalla stazione mi chiese dove fosse via Devoto, controllando un biglietto tratto da una tasca dei jeans. ”Che numero?” chiesi a mia volta. “Trentuno”, mi rispose. “Andiamo, è il caseggiato di fronte al mio”, la rassicurai. Parve illuminarsi: “Grazie, signora; è da anni che non vengo da queste parti: abito a Udine, e qui mi aspetta una mia amica”. “La Luisita”, specificò il bambino con gli occhi ridenti. Ci salutammo quando già le prime gocce di pioggia cadevano su via Devoto.

Quando arrivai a casa accesi una sigaretta e misi a posto alcune scartoffie inerenti alla mia visita al provveditorato agli Studi di Genova. Più tardi il frigo poco fornito mi indusse a prendere l’ombrello e uscire. Tornando dal supermercato mi volsi casualmente verso il civico 31: scorsi il bambino del treno che mi guardava attraverso il vetro del portone con aria sconsolata. Tornai allora sui miei passi e mi accostai: la madre era rannicchiata sulla prima rampa delle scale con nello sguardo la medesima delusione del figlio. Spinsi la maniglia: “Siete ancora qui?”, mi meravigliai. La giovane si levò in piedi imbarazzata: “La mia amica forse si è scordata del nostro arrivo, doveva lasciare le chiavi alla vicina, che però non sa nulla e al cellulare non risponde. “La Luisita è proprio scema”, mormorò il bambino scuotendo il capo. “E adesso?”, mi impensierii. “Aspettiamo ancora un po’, se non viene cercherò un alberghetto per la notte”, mi rispose lei a occhi bassi. Controllai l’ora al polso e decisi su due piedi: “Venite su da me, intanto dovete pur cenare”. Madre e figlio parevano stupiti dell’invito: lui fu però pronto a sistemarsi le cinghie dello zainetto, mentre lei esitava a raccogliere il borsone.

“Signora, non vorrei darle disturbo, lei è troppo gentile…”. Le allungai la mano come per stringere un patto di solidarietà. “Mi chiamo Teresa”, mi presentai. “Io sono Ortensia”, replicò lei con un filo di voce. Quindi aprii l’ombrello e alla benemeglio li feci mettere sotto tutti e due.
Nello svegliarmi la mattina dopo ebbi subito la sensazione di non essere sola in casa. Erano quasi le otto e certo Ortensia era già uscita: doveva prendere un treno per Genova. Mi aveva lasciato il bambino e il borsone; e non aveva potuto contattare l’amica al cellulare.

La sua storia me l’aveva raccontata la sera prima: quattro parole al tavolo di cucina mentre Nuccio dormiva nella cameretta che era stata di mio figlio Alberto. Una storia cominciata bene, che si era deteriorata recentemente. Il suo compagno – oh, quanto detesto questo termine in uso per le coppie di fatto – aveva perso il lavoro di gruista e l’inerzia lo aveva reso sfuggente e irascibile. Stava tutto il giorno fuori, rientrava tardi e ogni tanto portava un po’ di soldi di dubbia provenienza. Ortensia temeva che si fosse messo in un brutto giro e i suoi sospetti si confermarono allorchè fu arrestato perché in possesso di pochi grammi di cocaina. Raccontando questa vicenda lei fumava, e io pure. La nuvola di fumo creava una sorta di velo confacente a questa sua improvvisa familiarità con un’estranea.

“Il giudice non ha accettato l’alibi che si trattasse della sua dose personale e l’hanno arrestato per spaccio”. E dopo una pausa, con tono supplice: “Mi creda, signora, ha avuto un momento di debolezza in seguito al licenziamento, ma è un brav’uomo e ci vuole bene”. Il posacenere era pieno di mozziconi. Per il processo imminente Ortensia intendeva rivolgersi a un buon avvocato di Genova. “La mia amica si è offerta di tenere Nuccio, così io posso muovermi liberamente”, aveva concluso con un sospiro.

Nuccio comparve sulla soglia della cucina strofinandosi gli occhi e mi domandò della madre, con la quale aveva condiviso il letto a una piazza. Gli risposi che era partita e sarebbe tornata la sera. Lui si strinse nelle spalle: “E’ per papà, lo so; lavora a Genova. E’ tanto che non lo vedo”. Poi scostò una sedia e si sedette al tavolo dove avevo preparato il tazzone di latte con i biscotti. Ortensia lo tirava su bene, il suo bambino, sebbene adesso potesse contare solo sul suo lavoro in un’impresa di pulizie. Verso le dieci uscimmo e andammo a passeggiare sul lungomare sotto lo sfolgorante sole di giugno: Nuccio mi dava la mano fiducioso. Al suo sguardo acuto non sfuggiva nessun dettaglio di quel paesaggio da cartolina; però non faceva domande. Così toccò a me prendere l’iniziativa: “Ti ricordi che in treno volevi sapere perché una stazione si chiama Quarto dei Mille?”.

Lui mi guardò di sotto in su e mi fece, un po’ imbronciato: “Nessuno mi ha risposto”. Niente di meglio di una panchina un po’ in ombra per colmare la lacuna: e il mio racconto gli sciolse la lingua. “Questo Garibaldi era davvero un eroe”, osservò Nuccio, che aveva ascoltato molto attento la narrazione dell’impresa dei Mille. E poi con una timida occhiata: “Tu sei una maestra?”. “Lo sono stata… e tu hai una brava maestra?”. “Io ne ho due, la Lory è simpatica, l‘altra  è una streghetta con le unghie blu”. E si portò le mani alla bocca, pentito dell’impertinenza.
Nel pomeriggio Nuccio si mise a guardare i cartoni alla tivù e io presi un vecchio album dell’infanzia di mio figlio per mostrarglielo, ma cambiai idea e lo infilai di nuovo nel cassetto. Ortensia per tutto il giorno non si fece viva. Mentre cenavamo squillò il campanello della porta. Nuccio si strappò il tovagliolo e corse all’ingresso. Udii delle esclamazioni e lo seguii. Sulla soglia si stagliava una biondina sorridente che lo stava abbracciando: era la famosa Luisita che, una volta entrata, si scusò per le sue negligenze del giorno prima;  “Sto allestendo un piccolo stabilimento balneare, un grande impegno che mi ha mandato in tilt e ho scordato tutto il resto…”.

Nuccio la guardava con una smorfia di rimprovero. “Su, adesso saluta questa gentile signora, prendi la tua roba e vieni da me… La mamma mi ha telefonato, ma il cellulare era mezzo scarico e non ho capito quasi niente”. Nuccio non si mosse dal mio fianco. “Stanotte dormo qui”, disse; “la maestra deve finire di raccontarmi le ultime imprese di Garibaldi”. Non ci fu verso di fargli cambiare idea. La ragazza infine si arrese: sarebbe venuta a prenderlo l’indomani. Appena chiusi la porta Nuccio mi strizzò l’occhio: e rimase sveglio fino alle dieci ad ascoltare la lezione su Garibaldi. Prima di addormentarsi gettò un’occhiata verso la scrivania dove c’era la foto del mio Alberto. “ E’ tuo nipote?”, mi domandò. “E’ mio figlio a quindici anni”. “Dove è adesso?”. “All’estero”. “E non ti viene a trovare? ”Certo che viene, e anche di frequente”. Spensi la luce e uscii dalla stanza. Avevo il magone. Alberto era bello e bravo come appariva in quell’ultima immagine: ma quando suo padre se n’era andato via di casa per amore di una giovane turista inglese che viveva a Londra, era diventato duro e ribelle. Che si fosse messo in un brutto giro come il compagno di Ortensia me ne ero resa conto troppo tardi. Quell’estate particolarmente secca i boschi delle colline bruciavano e l’odore del fumo arrivava fino alla Via Aurelia. Incendi dolosi, scrivevano i giornali. Le guardie forestali scoprirono una piccola banda di minorenni che appiccavano il fuoco per divertimento. Alberto era fra loro. Cercò di scappare ma sull’orlo di un dirupo perse l’equilibrio e precipitò, facendo un volo di dieci metri.
Nuccio se ne andò la mattina dopo con “quella scema della Luisita”, lasciandomi dentro un’apprensiva tenerezza. La casa tornava vuota. Forse mi ero illusa che il bambino del treno restasse ancora un po’ a dare un senso alle mie giornate. Ma sarebbe stato come tradire Alberto che da decenni è l’ombra dolce che accompagna ogni istante della mia vita. Qualche volta scorgo Nuccio che gioca in spiaggia, allegro,  abbronzato, con altri bambini. Oramai di Garibaldi sa tutto e non ha più bisogno di me. Ci lanciamo un saluto da lontano. Ortensia ogni tanto mi telefona. Spero che tutto si risolva presto: così Uccio tornerà a Udine con i suoi genitori.
                                                                                                                             
                                                                                                                    (Anonimo, Premio  Prato Raccontiamoci)
      
                                                                                                                *****

 

Racconti di vita

PICCOLOBLU

A volte, come nel caso del racconto che pubblichiamo oggi, non correggiamo neanche la lingua italiana laddove essa può essere formalmente meno perfetta: perché chi ci regala queste esperienze di vita ci mette spontaneamente a disposizione la sua vicenda di umanità senza altre pretese che quella di testimoniare con onestà, e questo è un merito pieno, che non ha bisogno neppure della perfezione espressiva della lingua italiana (a volte si tratta di persone che, semplicemente, non hanno potuto compiere un completo corso di studi perché la vita le ha portate per ben più stringenti sentieri da affrontare).  

Ci si potrà rimproverare il fatto che, con il racconto odierno, per la seconda volta ci soffermiamo su una piccola vicenda di legame fra una persona e un animaletto, e ciò può sembrare un attaccamento eccessivo a una sorta di causa animalista: ma non è così. Raccontiamo tutta la vita e tutte le vite che ci capita di incontrare, nelle loro piccole e grandi dimensioni, invitando noi stessi e tutti a considerarle così come ci vengono incontro, semplicemente, nei significati piccoli e grandi che possono rivestire, e in ogni insegnamento che se ne possa trarre.

°°°°°
 
Spesso i ricordi ci riportano indietro negli anni e i frammenti di emozioni ronzano all’orecchio della mente come api nell’alveare, e la mente continua aleggiando nel mare del passato, a volte senza trovare la fondamentale risposta ai quesiti che pone.

Scrivo questo episodio, vissuto con tristezza nella mia giovane età, quando negli anni del dopoguerra la vita era dura, la gente per sopravvivere era pronta a qualsiasi sacrificio, le famiglie erano numerose ed in ogni casa c’era solo il necessario per vivere.

Nella via in cui la mia famiglia abitava, al lato opposto della mia casa sorgeva un vecchio palazzo antico, che apparteneva ad una grande famiglia benestante, aristocratica, antica: i Medici, che del vecchio palazzo non facevano nessun conto; ma la gente del paese lo usava per gettarvi i rifiuti, e spesso per qualcosa di più doloroso. Quando nelle loro case avevano degli animaletti, soprattutto cani e gatti, e questi davano alla luce cagnetti e gattini, questi per mancanza di cibo venivano buttati vivi, senza rimorso, lì nel palazzo, e il pianto di questi esserini giorno e notte mi tormentava il cuore; spesso andavo, li raccoglievo nel mio grembiulino, li portavo a casa chiedendo a mamma di dare loro il mio cibo per sfamarli, e così mi sentivo felice.

Vedendomi tanto sensibile, mia madre mi accontentava e tutto ciò durava due, tre giorni; ma quando il terzo o quarto giorno tornavo da scuola e subito andavo al cesto e lo trovavo vuoto, allora chiamavo la nonna e la mamma e domandavo: “Dove sono gli animaletti?”. Loro, in sintonia, mi rispondevano che dai paesini di montagna era scesa gente per vendere i suoi prodotti, gente che stava bene, padroni di mandrie e di tante cose da mangiare; e li avevano regalati a loro, con loro sarebbero stati bene, avendo cibo in abbondanza, e sarebbero cresciuti da gran signori. Io nella mia innocenza ero felice. E ancora oggi non so se tutto questo era vero: ma non sentendo il loro pianto cessavo di essere triste. Mamma faceva del suo meglio per me, diceva che ero il suo piccolo uccellino spennato: “Se viene una ventata di vento ti porta via...”. Ero esile e lei mi abbracciava fortemente al cuore e faceva quanto poteva per me.

Ma l’episodio che segnò la mia anima fu quando, a quattordici anni, mi regalarono un cagnolino dagli occhi blu, bianco come la neve, di una bellezza straordinaria, il cui epilogo si immortalò nella mente mia segnandovi una storia particolare che ha messo un punto fermo nella mia vita.

Sono sempre stata innamorata dei fiori, ma le circostanze della vita non davano quello che desideravamo;                                                                                      c’era un limite in tutte le cose. Nella mia famiglia eravamo cinque bambini e, quando il Natale arrivava, per ognuno di noi il regalo più bello era un vestitino; succedeva due volte l’anno, il Natale per l’inverno e Pasqua per l’estate; con i tempi che correvano, questo per noi era una grande cosa,  un privilegio, pensando ai bimbi che avevano poco o niente; ma la bellezza era che chi aveva divideva tutto: specialmente pane, scarpe e vestiti; nei piccoli paesi si era una grande famiglia, amandoci e rispettandoci a vicenda.

Così arrivò il fatidico giorno; mamma e papà ci portarono a Bovalino, un paese vicino al nostro; Bovalino era un paese commerciale con tantissimi negozi di ogni genere, e mentre camminavo i miei occhi si posarono su un fioraio: aveva fiori bellissimi e io ammiravo una pianta di bellezza spettacolare, una pianta colma di bianche gardenie; mi sembrò che tutta la neve del mondo fosse caduta su quei petali ed il profumo inondava l’aria: mi fermai, mamma mi chiamava ma io non mi muovevo, qualcosa dentro me cambiò, volevo la pianta. Lei disse: ”La pianta costa quanto la stoffa del vestitino, non si possono comprare tutte e due”; ma io dolcemente e con perseveranza la convinsi, e così ebbi la mia splendida pianta. La curavo ed ogni giorno diventava più bella, ricca nella corona delle sue gardenie, attraverso i vetri della mia finestra l’ammiravo e mi sentivo felice.  

Accadeva anche che ogni giorno da casa mia passava un dottore veterinario  con la moglie: erano amici di famiglia; a quei tempi i dottori erano gente importante e di grande rispetto, e  successe che la signora moglie s’innamorò della mia pianta e venendo a trovarci diceva che non aveva visto mai una così bella e viva pianta; io sentivo che la voleva a tutti i costi, e lei mi offriva quello che desideravo: ma io dissi sempre di no. “E’ la mia pianta e non la do a nessuno”. Mamma mi suggeriva di darla al dottore e alla signora, perché “sono gente che… abbiamo sempre bisogno di loro”. Ferma, io dicevo sempre di no. Ma un giorno dovetti cedere: e pagai a caro prezzo.

Il dottore si presentò con un grande cesto adorno di fiocchetti e nastri blu e dentro il bianco cagnolino, il mio Blu dagli occhi color del cielo. M’innamorai subito di lui, lo presi in braccio, e lui cominciò a leccarmi con il suo musetto rosa. E’ stato un amore a prima vista; più cresceva, più si attaccava a me ed io la lui, era il bene dell’anima mia ed io gli detti quel nome con amore: Blu.

Se ben ricordo, a quei tempi in ogni paese le macchine si contavano sulle dita delle mani, erano pochi i privilegiati ad averne una, e per mia fortuna un giorno al palazzo dei grandi signori c’era festa, parteciparono persone di paesi lontani, arrivati da ogni dove proprio in macchina, ed io in quel giorno andai in negozio per far delle compere, attraversando la strada da casa mia. Il negozio distava pochi metri e mi avviai credendo che il mio piccolo Blu non mi avesse visto andare, ma lui mi aveva seguito a distanza e mentre attraversava la strada una macchina lo investì, sfortunatamente, travolgendolo e ferendolo gravemente; e così ferito, per amor mio si trascinò fino al negozio dove ero. Arrivò ai miei piedi, mi si buttò sopra lamentandosi, guardai cos’era e il battito del mio cuore si fermò, le lacrime scorrevano come un temporale vedendo il mio Blu colmo di sangue; lo presi fra le braccia e me lo strinsi al cuore, piansi: lui mi guardò con quegli occhioni colmi di lacrime e con un lieve sospiro morì fra le mie braccia.

Tornai a casa con il mio fagottino; il suo sangue bagnò il mio viso, le braccia, il vestito; il mio cuore sanguinava dal dolore, e lì finì quel grande bene. In tutta la mia esistenza non ho avuto più il coraggio di prendere un altro animaletto. E’ rimasto lui solo, nella mia vita e per sempre: il mio piccolo Blu.

Così finì pure la mia bella e bianca gardenia: nella vita niente è nostro, bisogna godere quello che si ha al momento e stringerlo nelle mani e nel cuore; solo i ricordi sono nostri, non ce li fa dimenticare nessuno, sono una proprietà nostra assoluta: ed oggi mi rivedo una bimba che stringeva fra le sue braccia anche la sua pianta di gardenia con occhi sorridenti e la felicità nel cuore.

Questa storia l’ho scritta per ognuno che sia padrone di un animaletto, affinchè lo ami, lo accudisca e gli voglia bene: perché sono degli esserini che hanno bisogno di tanto affetto e di tanto amore, e li ricambiano.
                                                                                                             
                                                                                                               (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)

 
°°°°°
MM
 
 

Racconti di vita

CAFFE' FELICITA'?

Vite perdute? Povera umanità che non ha trovato chi la illuminasse e riscaldasse nello spirito? Un filo di malinconia prende l'anima quando si segue un racconto dal vivo, come questo, che propone anche una riflessione di possibile nostra eccessiva “distrazione” quotidiana per tante situazioni di autoabbandono umano e sociale presenti intorno a noi, spesso non rumorose. Valutate voi. Il racconto è comunque vero, come al solito è per i nostri.
°°°°°
 
Non è buona cosa passare molte ore al caffè a giocare a carte. Si beve per forza e quando mi rendo conto che ho esagerato è sempre troppo tardi; e capita quasi tutte le sere. Me lo diceva sempre Teresa, la mia povera moglie (pace alla sua anima brontolona!). Del resto non rimane che questo, dopo il tramonto, ed io il mio tramonto di vita l’ho passato da un pezzo: sarei già dovuto essere morto da tempo, oramai, ma non mi decido; e poi cos’è il tempo? Forse della sabbia che precipita da un vetro strozzato e qualcuno ad un certo punto capovolge l’attrezzo e tu hai chiuso, e qualcun altro prenderà il tuo posto al tavolo, comprese le tue carte, fino al compimento del suo turno. Per quello che ne so, potrei anzi essere già trapassato e non essermi accorto di niente, senza dolore, magari nel sonno, ed ora forse sto vivendo nello specchio di un cosmo parallelo, insieme con gli altri tre ubriaconi con i quali solitamente mi gioco una bottiglia o due fumando sigarette scadenti senza filtro.
Giacomo, il gestore del caffè, che tutti chiamano Giacomino, quello sì che è morto: o almeno pare. E’ piccolo, pallido, piegato, per la sua spina dorsale malata, in un umiliante perenne inchino. In bocca gli mancano parecchi denti e quando parla sputacchia dappertutto. Ma è buono come il pane e se fossimo davvero in paradiso certamente sarebbe un angelo. Chi ha mai detto che gli angeli sono accecanti di bellezza celeste? Giacomino è orribile come una macchia di vomito sul marciapiede, come quelle che ogni tanto lascio anch’io sulla via di casa; ma è buono, parla sempre a voce bassa e le bottiglie da litro le riempie sempre più del necessario.

Il suo locale per il vero è uno schifo, in via Gasparo da Salò (quello del violino). Sulla strada si apre una piccola vetrina con due ripiani d’alluminio; vi sono tre ceste di caramelle scartate, un poco di liquirizia in forma di omino od arrotolata come una stringa attorno ad una pallina di zucchero rosso, poi bustine di figurine sparpagliate a caso; e nient’altro. Accanto alla vetrina, una porta di vetro e di ferro scuro, che, aprendosi, fa tintinnare una campanella come quella dei chierichetti in chiesa: ma è inutile, la porta cigola da sempre sui cardini e, quando qualcuno entra, lo si sente inevitabilmente, anche per il freddo che penetra. Dalla porta si scendono quattro gradini di pietra e il caffè non è che uno stanzone: a destra il banco e in mezzo, sul pavimento di vecchie piastrelle di cotto, cinque o sei tavoli (non li ho mai contati). Tavoli di legno sudicio, impregnato di vino disegnato in cerchi spezzati. Sulle pareti gialle, due calendari di anni passati, dai quali ci guardano belle donne fetenti, felici di vederci bere da tanto lontano.

Giacomino spunta appena da dietro il bancone, con le spallucce rachitiche e la testa dai capelli corti e ricci color sale e pepe. Ha il viso segnato da rughe profonde sulla fronte e tutto intorno alla bocca: la vita deve averlo castigato, quel pover’uomo. Prende le ordinazioni con garbo, scoprendo i suoi denti disordinati, e in silenzio porta le bevande ai tavoli, su vassoi di latta. Non credo di averlo mai visto arrabbiato o semplicemente inquieto; la settimana scorsa mi ha fatto anche credito e devo ancora pagarlo. Con tutta la cagnara che facciamo dalla mattina fino a notte inoltrata, avrebbe potuto mandarci al diavolo almeno una volta, invece niente! C’è quel Lofaro, ad esempio, che gioca al tavolo vicino al nostro, con altri del suo paese, e urla come un maiale dalle giugulari recise quando perde anche pochi centesimi; o, se vince, canta canzonette in un dialetto che non mi sono mai preoccupato di capire. Giacomino lascia fare. Ogni tanto, se non è preso dalle sue faccende, afferra uno sgabello e vi sale sopra per aprire una finestrella, protetta da due sbarre incrociate, che dà sul retro, in un cortile umido: così esce dalla stanza un po’ di fumo e di quel fetore di caffè e vino appena infiascato che ristagna nel locale. Mi rendo conto che non è cosa da signori ma molti di questi rottami umani, me compreso, bestemmiano.  Certo il buon Dio mi chiederà, arcigno in volto, di riparare un giorno. Se avrò tempo e voglia lo confesserò al prete quando porterà l’olio santo vicino al mio letto di morte, quello bello, appartenuto al mio nonno garibaldino, una delle poche cose che non mi sono ancora venduto. Giacomino non approva che noi si maledica tutta la sacra famiglia e, quando ne sente una grossa, inarca le sopraciglia scuotendo la testa mentre continua ad asciugare bicchieri.

Talvolta, quando le sere invernali sono particolarmente fredde e piovose, Giacomino tollera che io ceni lì con lui. Dietro il bancone si apre una porticina che un tempo doveva essere stata dipinta di bianco: da lì si scende ad un altro buio stanzone dove l’omino conserva le damigiane pronte per essere infiascate, un fornello a gas e un tavolo. Si mangiano soltanto uova sode con il sale, qualche fetta di salame e, quando va bene, polenta abbrustolita. Per me è un lusso, perchè poi mi viene una sete tremenda e posso ricominciare a bere alla faccia della mia coscienza. E’ una delle rare occasioni che mi capitano di parlare con lui, anche se, in verità, lui parla poco dei fatti suoi.

Racconta episodi minimi, piccole tessere di un’esistenza che mi sforzo di collegare con le altre, ma sono ben lontano dall’avere anche una mezza idea di quello che è stata la sua vita. E’ abile, ma non certo con malizia, ad ottenere confidenze che peraltro non mi risulta faccia trapelare ad alcuno. Gli ho raccontato almeno tre volte le cose importanti della mia vita: la mia infanzia in campagna quando, come un cane sciolto, marinavo la scuola ma riconoscevo il proprietario di un nido a trenta metri, poi la guerra, i rastrellamenti, quindi, strano a dirsi, l’università a Padova e la fatica dello studio, gli anni di insegnamento di greco e di latino in un ginnasio di provincia, e poi Teresa e come l’ho perduta per una bastarda malattia polmonare. E infine la nausea, la voglia di lasciarsi vivere così come viene, fino ad ora, fino alle scodelle di minestrone che l’ente comunale di assistenza mi elargisce alle dodici di ogni giorno. Faccio la fila con altri poveracci che puzzano di letame, rosi dalle tarme dei ricordi, e sono convinto che non gliene importi niente se domani è giovedì o domenica. Quasi nessuno parla o saluta, beccano il dovuto e arrivederci. Fanno schifo anche loro e questa volta non frega niente a me.

Ho scoperto che anche Giacomino ha moglie, o l’ha avuta. Una donna alta, non bella ma con molte pretese. Credo che si sia vergognata di un marito mal riuscito che s’andava ogni giorno stropicciando di più. Qualcun altro mi ha detto che ha pure una figlia, alta come la madre e brutta come lui, certamente andata a vivere altrove. Non è una gran compagnia, Giacomino, ma non bestemmia, beve e fuma con moderazione e non sparla di clienti e di compaesani. Quanto alle donne mi sento di escludere che ce ne sia una, oltre alla fantasmatica moglie. Tuttavia con lui sto bene, ho cominciato a pensare che potrebbe essere un buon amico. L’ho creduto del vino e delle femmine sudaticce dei bordelli, ma sono tutte balle da mentecatti. Giacomino invece è proprio un angelo, se è di buon umore è capace anche di offrirti da bere.
Da qualche settimana capita che la domenica pomeriggio passi nella via un bambino, che avrà sette od otto anni. Si ferma davanti alla vetrina, guarda quel che c’è, sempre le stesse cose, poi si ficca le mani in tasca e se ne va di buon passo. Porta i pantaloni grigi fino al ginocchio, calzettoni candidi e giacca blu sempre a misura: deve per forza avere una nonna che fa la sarta, o una zia. Da queste parti infatti non abbiamo famiglie ricche. L’ho notato un giorno mentre stavo calando un re di bastoni (perdevo, come al solito). Il ragazzino si era fermato a guardare nella vetrina, ma non sembrava avere interesse per caramelle o liquirizie; piuttosto osservava le bustine di figurine e pareva almanaccare qualcosa tra sé. Non credo che gli altri disgraziati ci abbiano fatto caso ma, se l’avessero osservato, avrebbero notato i suoi occhi scuri e vivaci e i suoi capelli a spazzola rossicci.

Certo era gracilino, uno di quelli che, nel campetto dei preti, sta da solo a guardare gli altri che giocano al pallone o si scazzottano lordandosi i vestiti. Quanto alle figurine, ne sono sicuro, non le comprava perché non aveva un soldo. Mi sembra di vederlo, là nel prato vicino alla chiesa, con il libro del catechismo in tasca, uno di quei libri che rappresentano i peccati mortali come macchie d’inchiostro sul cuore e quelli veniali come puntolini. Non ho mai saputo come si chiamasse quel bambino ma, in cuor mio, spero si chiami Gianni, non perché mi ricordi qualcuno ma perché è un nome semplice, facile da appiccicare a chiunque. Anche Giacomino lo ha notato. La domenica, verso le due, pare lo aspetti. A quell’ora non siamo mai in molti nel locale, i più fortunati fra noi infatti hanno uno straccio di famiglia e fanno tardi a tavola, epicurei come sono. Talvolta siamo solo io e quel brutto angelo. Di solito leggo il giornale, quell’altro non so neppure se sappia scrivere. Gianni arriva puntuale alle due meno dieci, guarda oltre il vetro e si mangia con gli occhi qualche bustina odorosa di caolino. Poi se ne va, e mi pare sereno.
Domenica scorsa Giacomino ha aperto la porta e lo ha chiamato dentro. Gianni è sceso dalla scaletta soltanto per due gradini, aveva certo timore e doveva essere nauseato dal fetore del locale. I bambini vanno protetti, finchè si può, dalla vita; non gli si fa vedere quanto ci si può putrefare! Giacomino ha afferrato dalla vetrina un mazzetto di bustine e gliele ha regalate. Il bambino ha sorriso felice e anche noi eravamo felici. Si può per un attimo far felice qualcuno ed essere felici.
                                                                                                     
                                                                                                                   (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)

 
°°°°°
MM

Racconti di vita

LE PALME SICILIANE

Con semplicità di stile e linguaggio, le emozioni di una coppia di siciliani che dopo tanti anni di vita in Australia riescono a rivedere la terra da cui, ancora giovani, dovettero emigrare. Emozioni semplici ma profondissime. E  l'intramontabile dualismo della Sicilia e di altre regioni d'Italia: bellezza a profusione, quanto in nessun'altra terra al mondo, ma disordine e negligenza organizzativa. Il racconto è semplicisismo, sincero come una testimonianza commossa: non ha velleità letterarie ma il sapore della vita vera ed intensa. Fu la caratteristica nobile del "Premio Prato Raccontiamoci"
 
°°°°°


Le palme di Palermo si protendevano maestose contro il cielo di un azzurro terso, un azzurro così intenso che forse solo la Sicilia può vantare. Era un raggiante mattino di primavera e svettavano festose come per dare il benvenuto a quell’aereo che arrivava da molto lontano e che stava per atterrare all’aeroporto di Punta Raisi. Fu in questa atmosfera radiosa che giungemmo in Sicilia e dall’aeroporto ci accompagnarono al “Grand Hotel Villa Igiea”. Dopo avere sistemato i bagagli e fatto colazione, intraprendemmo la nostra indimenticabile gita per le vie di Palermo: prima tappa il Teatro Massimo, paradiso dell’Opera. Una sola parola mi viene in mente per definire Palermo:  “incanto”; perché è proprio un incanto per gli occhi e per l’animo poter ammirare e godere delle sue superbe e grandiose opere antiche che ti scaldano il cuore. Fonte inesauribile dove poter bere per placare la bramosia di chi è sempre in cerca della perfezione.
E cosa dire dei quartieri caratteristici che abbiamo visitato dopo pranzo, i Quattro Canti e Vucciria, dove batte particolarmente frenetico il cuore di Palermo e dei suoi abitanti? E’ proprio lì che abbiamo comprato i souvenir da portare ai nostri amici rimasti in Australia. Anche quel giorno la città di Palermo era stupenda. Un corteo brioso di palme ci accompagnava nella nostra passeggiata  per rallegrarla e accoglierci con calore nella nostra terra, la nostra amata Sicilia che un triste destino ci ha costretto a lasciare e dove il nostro cuore è però sempre rimasto. Se ci penso, un dolore immenso mi stringe e amare lacrime mi solcano il viso e non riesco a fermarle. Le palme di Palermo, con la discrezione di chi non vuole entrare prepotentemente nei sentimenti della gente, e con timidezza, si avvicinano a me, raccontando il dolore della nostra amata Sicilia alla quale sono stati strappati i figli; e il mio dolore, mescolato al dolore della mia terra, si cheta.
Le palme di Catania si rincorrono per le vie, in fila come soldati in marcia sotto l’occhio vigile dell’Elefante, che dall’alto del suo piedestallo le guida, le guarda con stupore  e meraviglia, mentre gode alla vista del vibrante paesaggio disegnato con maestria dal pennello del Creatore. Nel nostro cammino incontriamo il teatro Vincenzo Bellini, che ci saluta allegramente e con ansia ci attende per applaudire i nostri grandi artisti siciliani: e il loro spettacolo è un inno alle maestose bellezze cittadine, e un invito a visitarle.
E Catania ci sorride col suo Duomo e con Sant’Agata, e su tutto sovrasta maestosa e imponente l’Etna. E’ difficile sottrarsi al suo fascino, alla magia di un paesaggio che la lava ha reso quasi lunare con crateri profondi dappertutto. Il rantolo della montagna ci accompagna, non si ferma un attimo, essa è viva, brontola ed è presente col suo forte respiro su di noi, la sua naturale bellezza e maestosità rimane impressa nella mente e nel cuore di chi ha la fortuna di visitarla e bearsi della sua bellezza ammantata di neve bianca e pura.
Siamo in cima, oltre i 2.500 metri, e sotto di noi si dondola Catania, bella e splendente tra l’azzurro mare e le sue palme che fiancheggiano il litorale svettando gioiose: un caloroso saluto è rivolto a noi, e i rami delle palme mossi dal vento si tramutano in braccia che attendono il nostro ritorno per stringersi a noi nella confusione della città. Anche l’ombra delle palme dell’Etna sovrasta i nostri sogni: esse sono cadute nello sfacelo delle eruzioni e risorgeranno quando brillerà per sempre il sole e la tranquillità regnerà suprema.
Quella sera, al termine della passeggiata, come sempre corsi a letto per leggere un pesantissimo libro che avevo comprato in una delle librerie di Catania; il mio hobby preferito, leggere a letto, mi accompagna sempre: non posso dormire se non ho un libro tra le mani; ma questa volta la stanchezza mi fece addormentare di colpo e il libro volò pesantemente sul mio viso facendomi strillare dal dolore, le mie mani si tinsero di sangue e mio marito, che guardava la tv, mi raggiunse subito e alla vista del sangue sulla guancia si spaventò e corse a chiamare il direttore dell’hotel, il quale mandò un’infermiera a medicarmi;  ci vollero anche due punti. Mio marito mi disse accorato: “Spero che adesso ti passi il vizio di leggere a letto, visto che per giorni dovrai andare in giro col cerotto in faccia!”. Ma il vizio non posso toglierlo, è radicato in me da sempre e pazienza se ogni tanto un libro cade sul mio viso provocando anche fragorose risate successive quando qualcuno s’accorge che porto i segni del reato.
A Caltagirone, poi, la bellezza delle palme rigogliose si confonde con quella dei mosaici e delle ceramiche che si propongono superbi, nella maestà della loro arte, per ammaliare i visitatori; ma palme bellissime e tante, tutte in fila, fanno bella mostra anche nel moderno Centro dei Negozi dandogli un fascino esotico e un’attrazione speciale per il turista, che esulta di felicità.
Sicilia mia, ad ogni passo bellezze rare, immagini superbe che s’imprimono nell’anima e che ci portiamo dentro, nella fortezza inespugnabile del cuore, per illuminare, con la loro luce, i nostri giorni nel ricordo delle meraviglie che un lontano giorno abbiamo lasciato, inconsapevoli di quanto dolore avremmo dovuto sopportare.
Due settimane favolose in giro per la nostra Sicilia, e sempre le palme ci hanno abbracciato con amore e calore, fedeli, seguendoci come nostri compagni di viaggio ovunque! Le palme di Vizzini ci hanno stretto al cuore come il figliol prodigo al suo ritorno, baci e carezze con il sole caldo di giugno che profumava di oleandri e gelsomini, e il calore della nostra casa che ci aspettava con l’ansia dell’attesa più viva.
Poi la passeggiata in piazza Umberto I, nell’atmosfera tesa delle elezioni regionali e dei comizi, che come al solito ci hanno messo davanti a uno spettacolo diverso con ingiurie e parolacce, fra i diversi partiti, che volavano come mosche ronzanti nell’aria diventata pesante.
Vota per questo, vota per quello, vota per lui e la Sicilia brillerà di luce e sfolgorerà di benessere perché questo gran signore è carico di generosità verso i siciliani tutti, specialmente verso quelli che vivono all’estero come voi...”. Okay, voteremo per questo gran signore che porterà ulteriore paradiso in Sicilia…  
L’indomani, domenica, ci siamo incamminati, colmi di buona volontà, per il Viale Margherita, sotto la protezione delle palme cariche di gioia fra i raggi di sole di un brillante mattino. Cammina e cammina, non trovavamo la sede delle votazioni dove ce l’avevano indicata. Chilometri e chilometri ma non la trovavamo, non sapevamo dov’era ed eravamo  di nuovo stranieri nel nostro paese!
Non c’era nessuno per le strade, dato che si passeggia con le macchine; io e mio marito continuavamo a camminare non sapendo dove andare di preciso. “Ma chi ce l’ha fatto fare ad accettare di votare? Nessuno in realtà penserà a noi, non ci hanno mai dato niente, siamo noi che abbiamo dato tutto, anche il cuore che è rimasto impigliato qui nonostante tutto”.
Finalmente una macchina si è fermata: era un amico, che ci ha chiesto dove andavamo; ci ha indicato poi a gesti la direzione giusta ed è ripartito come un razzo. Noi allora, camminando ancora tra mille sospiri e qualche imprecazione, siamo arrivati ad un edificio nuovo dove però non c’era nessuno ad accogliere questi poveri votanti stanchi: tanto qui il voto non è obbligatorio, se non voti non t’appioppano una pesante multa come da noi in Australia, e quindi se ne fregano tutti: ecco l’Italia dei menefreghisti che salta fuori. Gira di qua e gira di là, finalmente un giovane ci ha indicato dove andare per votare e quindi abbiamo fatto il nostro dovere, anzi siamo forse stati gli unici a farlo, dato che tutto era immerso nel silenzio più assouto.
Stanchi e sudati siamo tornati per riposarci sotto le palme del Viale Margherita, con un bel gelato da gustare prima della passeggiata alla villa e in piazza Marconi, a due passi da casa nostra; ci siamo seduti aspettando i miei fratelli, che ci avrebbero portati a mangiare al meraviglioso ristorante delle grotte della Cunziria, dove Alfio e Turiddi hanno duellato nella Cavalleria Rusticana. Nessuno ci ha ringraziati per aver votato, dopo averci pregato di farlo, e perciò ci è sembrato giusto dire “grazie” al nostro amico deputato rilevando che ci aveva mandato a votare nella più lontana sede che c’era, a noi del tutto sconosciuta; vicina però almeno al cimitero, dove invece delle palme ci hanno salutato i cipressi, che cupi e solitari sfilano in lunga processione per proteggere i nostri morti.
Ora, finita la bellissima gita, ci rimane comunque il dolce ricordo delle tre settimane straordinarie che abbiamo trascorso nella nostra bella Sicilia, bella ad ogni passo, un tesoro inestimabile scolpito per sempre nel nostro cuore nonostante abbia sulla guancia anche il ricordo del bacio un po’ violento di un libro. Un ricordo del tutto speciale rimane nel nostro cuore per la splendida settimana trascorsa nella nostra bella Vizzini, dove le radici sono rimaste per sempre ben attecchite e rigogliose. E tuttora un fluido magnetico mi scorre nelle vene pensando a quei momenti di grande gioia ed euforia. Stare insieme ai miei fratelli, ai miei nipoti e alle mie simpaticissime cognate è un evento raro che rallegra i cuori di meravigliose rimembranze adesso che la lontananza ci separa di nuovo come un castigo.
Ammiro anche le palme di Melbourne, verdissime, vibranti di luce e di mille sfumature, e quando sfrecciano svettanti verso il sole io mi sento in Sicilia. La mia Sicilia, colma di spassosissimi ricordi giovanili che m’inebriano di emozioni i sensi e l’anima.
La mia Sicilia luminosa di storia millenaria che è racchiusa nelle chiese, nelle cattedrali, nei templi e nei teatri greci, nelle catacombe, negli edifici in genere e in ogni via, anche nell’aria che è sempre esultante di magia. La mia dolcissima Sicilia, per sempre, nel cuore!
                                                                 
                                                                                                                                 ("Premio Prato Raccontiamoci", autrice anonima)

 
°°°°°
MM

Racconti di vita

L'AMORE OLTRE LA VITA

Come abbiamo avuto modo di dire in occasioni precedenti, molti “racconti di vita” venuti alla luce grazie alla storica rassegna del “Premio Raccontiamoci Città di Prato”, cessata da alcuni anni ma vissuta a lungo e animata da figure autorevoli quali quella di Pamela Villoresi, sono rimasti sfortunatamente anonimi in quanto non  rientranti nel ristretto numero dei lavori premiati, ma ci pare giusto pubblicare via via quelli che riusciamo a recuperare dagli archivi del Premio, della cui giuria fummo componenti, in attesa che la organizzazione promotrice possa nel tempo realizzarne una più organica raccolta. Sottolineiamo che i racconti sono effettiva “vita vissuta”, essendo questa una delle caratteristiche vincolanti del Premio; e perciò particolarmente interessanti.  “L’amore oltre la vita” è omaggio vissuto alla presenza così spesso provvidenziale dei nonni nel contesto familiare.
 
°°°°°
 
L’estate era trascorsa e le prime foglie ingiallite incominciavano a cadere dagli alberi, addormentati dal sonno dell’autunno. Da due mesi mia nonna si era adagiata sul letto matrimoniale della sua camera e, coperta da una trapunta, attendeva pazientemente che il velo del riposo eterno si posasse sul viso sereno. In alto, sopra la spalliera del letto, il Bambinello in braccio alla Madonna la guardava languidamente, quasi per rassicurarla che presto li avrebbe raggiunti in cielo. Il cancro, accompagnato dalla senilità, aveva assorbito tutte le sue energie vitali, lasciandola in una quiete apparente mentre interiormente compiva il suo sviluppo. In quel periodo avevo ricevuto una proposta di lavoro importante da uno studio legale. Laureatomi in giurisprudenza a primavera, ero impaziente di avviare la professione di avvocato, ma sapendo che la nonna stava molto male decisi di prendermi cura di lei: una nonna è troppo preziosa per essere sostituita con un impiego lavorativo.
 
Il comò, appesantito dai tanti medicinali, sembrava una farmacia ambulante e dove lei un tempo si specchiava vanitosamente, pettinandosi i lunghi capelli castani, la polvere si era posata lasciando un sottile strato. La sola traccia della sua giovinezza, presente nella stanza, era una foto fatta insieme al nonno, prima di sposarsi. Spesso la guardava sospirando, come fosse una finestra che si affacciava sul passato immortalando la bellezza di una volta, ormai perduta.
 
Il nonno amava tantissimo la fotografia, fin da giovane, e aveva coltivato per l’immagine in bianco e nero un profondo senso artistico. “Nelle foto”, diceva, “è possibile compiere un miracolo: fermare il tempo, strappando i momenti più belli all’oblio, e non invecchiare mai”.
 
Fotografava tutto ciò che lo affascinava: dalle persone alla natura ogni soggetto era buono per essere immortalato. La sua cantina era un vero laboratorio fotografico, l’ordine e la cura con cui usava il materiale fotosensibile erano assoluti. Ricordo ancora le volte che mi prendeva in braccio e mi spiegava come avveniva il processo di sviluppo del negativo; mio nonno ea una vera risorsa, un concentrato di creatività e conoscenze, e grazie a lui ho scelto di andare all’università. “La sapienza – diceva – è la sola cosa in grado di rendere liberi, ma soprattutto consapevoli di chi siamo e cosa vogliamo essere”.
 
Nonna lo amava anche per questo suo talento, questa capacità di vedere e percepire la bellezza nelle cose che viste di sfuggita, ad occhio nudo, spesso non esprimono nulla se non ciò che sono apparentemente, ma, se le si osserva con maggiore attenzione, in esse è possibile vedere la vita, il tutto perfetto. Solo allora si capisce che meraviglia è il mondo, e l’esistenza con le sue forme.
 
Una mattina mi avvicinai al letto per misurarle la pressione e le chiesi come si sentiva. Lo sguardo era immobile verso il soffitto, freddo come quello di una statua, e sembrava non aver ascoltato le mie parole.
 
“Nonna mi hai sentit…”.
 
Non feci in tempo a terminare la frase che subito scoppiò a piangere.
 
“Voglio andarmene”, mi disse con voce commossa.
 

In vita sua, due volte l’avevo vista piangere: il giorno del funerale del nonno e una sera dopo aver litigato con mia madre al telefono. E’ stata sempre molto orgogliosa e il pianto per lei era autocommiserazione.  L’abbracciai, trattenendo la forza per paura di stringerla troppo: il dolore l’aveva affranta. Sentivo le ossa fragili del suo corpo delicato e magro, rivestito da un pigiama di cotone, e in quel momento avrei dato la mia vita per salvarla dal triste destino. Si asciugò le lacrime con il lenzuolo e mi porse lentamente il braccio. Le inserii lo sfigmomanometro elettronico: la pressione sanguigna e le pulsazioni erano regolari. L’aiutai a sollevarsi dal letto e sistemandole i cuscini dietro la schiena le feci appoggiare la testa accuratamente, accarezzandole la fronte. Tra le pieghe delle rughe era ancora possibile scorgere il fascino celato di una donna stupenda. Gli occhi azzurri e luminosi lasciavano trasparire una forza interiore particolare, il suo sguardo penetrava dentro il mio riuscendo a cogliervi ogni preoccupazione.
 
Alzando il mento mi disse: “Sei stanco, dovresti riposarti”. Sorridendo le risposi: “Non ti preoccupare, sto bene”. In realtà ero distrutto e assisterla significava dedicarle tutto me stesso, non facendole mancare mai nulla.
 
Un giorno mi chiamò, dicendomi che doveva parlarmi.
 
“Michele, devi andare via!” esclamò con espressione seria. “Non puoi rinunciare alla tua vita per me, io sono vecchia e tra breve lascerò questo mondo, ho realizzato le mie scelte e ora devi compiere le tue”.
 
La guardai per un istante, poi uscii dalla stanza senza dire nulla.
 
Mia nonna per me è stata come una seconda madre; fin da bambino sono cresciuto con il timore che i miei genitori divorziassero, in famiglia i litigi erano all’ordine del giorno, così più di una volta sono fuggito di casa andando a stare da lei. Dopo cena ci sedevamo sul divano, in salotto, insieme al nonno vedevamo la tv e prima di addormentarmi pregavamo. Standomi vicino nei momenti difficili, mi infondeva quel senso di coraggio necessario per andare avanti: la nonna aveva tutto quello che mancava a mia madre. Con affetto mi ha cresciuto amorevolmente, e accompagnarla nell’ultimo periodo della sua esistenza significava contraccambiare l’amore che mi aveva donato.
 
Le nonne sono delle sante perché compiono un doppio miracolo: prima mettono al mondo i loro figli, poi crescono i nipoti, con maggiore affetto.
 
L’assistetti per un mese; morì un tardo pomeriggio di novembre, quando gli ultimi raggi del sole stavano svanendo nel crepuscolo della sera e nel giardino la natura ormai spenta si lasciava bagnare dalla pioggia: il suo leggero e dolce suono aveva accompagnato ogni istante della giornata rendendo ovattate le ore passate insieme.
 
Come di consueto, doveva prendere la medicina: aprii la porta della camera, accesi l’abatjour sopra il comodino e delicatamente provai a svegliarla.
 
“Nonn… nonna, svegliati, devi prendere la medicina”.
 
Nessun movimento, né risposta seguì la mia incitazione. Alzai il tono della voce dicendo: “Nonna, sono Michele… la medicina… ti prego, apri gli occhi, ti prego…”.
 
Respirava a fatica, il cuore batteva fiaccamente e le labbra avevano assunto un colorito violaceo.
 
Iniziai a sudare, un nervoso improvviso mi fece tremare le gambe, salendo fino alle mani. Provai a rianimarla, ma i miei sforzi furono inutili. Precipitandomi nel corridoio alzai la cornetta del telefono e chiamai il pronto soccorso. Rispose un’operatrice dalla voce squillante e metallica, dicendomi: “Si calmi, mi dica dove abita e cosa le è successo”.
 
Non riuscivo a frenare la mia agitazione, sapevo che era troppo tardi e che stavo compiendo una corsa contro il tempo, già persa in principio. Balbettando le lasciai l’indirizzo dell’abitazione, riattaccai il telefono e tornai nella camera. Inginocchiandomi accanto al suo letto e stringendole le mani, pregai come quando ero bambino, come una povera anima in pena, che dopo tanti anni ritorna alle sue origini cristiane, abbandonate dall’indifferenza dell’età adulta. Come un fiume in piena le lacrime non riuscivano a smettere di inondare le palpebre e scivolando fino alle labbra con il loro sapore salato spegnevano l’amaro che avevo in bocca. Il silenzio glaciale che avvolgeva la stanza era rotto dal ticchettio costante della sveglia, la sola a ricordarmi che il tempo non si era fermato. Davanti all’impossibilità di agire mi sentivo debole, bloccato in un limbo, tra realtà ed irrealtà.
 
La vita continuava la sua corsa impassibile, intanto in lontananza sentivo la sirena dei soccorsi che stavano arrivando. Sarei rimasto immobile al suo fianco se non fosse stato per loro; forse mi sarei lasciato morire, avrei condiviso anche quel momento della sua esistenza. Fino all’ultimo sperai che potesse farcela, ma quando il medico le coprì il viso con il lenzuolo e si fece il segno della croce capii che non l’avrei mai più rivista.
 
Uscendo di casa andai in giardino e sedendomi ai piedi della grande quercia appoggiai la testa al tronco e respirando profondamente chiusi le palpebre, addormentandomi in quella pace naturale. Al risveglio ebbi l’impressione che fosse passata un’eternità, nel cielo plumbeo uno spiraglio di sole risplendeva lontano e un arcobaleno dai tanti colori vivaci nasceva trafiggendo il mantello di nuvole. Osservandolo mi tornarono in mente tante cose della nonna, per ogni colore un ricordo, un’emozione preziosa. Il rosso porpora del roseto che amava curare con tanta passione, l’arancione del suo grembiule da cucina, il giallo del buonissimo biscotto fatto la domenica per colazione, il verde smeraldo dell’anello regalatole dal nonno per i cinquant’anni di matrimonio, il celeste della sua vestaglia da notte vellutata, il viola del fermaglio tra i suoi capelli, il blu del maglione che ricamò a mano per il mio compleanno, l’azzurro intenso dei suoi occhi ed il rosa delicato e morbido della sua carnagione.
 
Non so perché, ma da quel giorno, ogni volta che mi capita di osservare l’arcobaleno ripenso a lei e alla sua infinita bontà di nonna. Credo che tutte le nonne ne abbiano una particolare, rara e unica. Come delle madri ci crescono, ci sono vicine, fanno sacrifici per noi, donandoci tanto affetto; poi quando muoiono, dopo tutto l’amore donato, si accontentano di un semplice fiore, lasciato sulla loro tomba.
 
La vita è proprio strana, non c’è mai la giusta proporzione tra il dare e il ricevere, anche se, in cuor mio, sento di averle dato tutto me stesso, per aiutarla e per vederla ancora una volta sorridere.
 
Oggi, dopo un anno dalla sua morte, i miei sentimenti sono rimasti immutati. Delle volte la nostalgia viene a trovarmi, ma è sufficiente che ripensi ai momenti belli trascorsi insieme, che tutto svanisce.
 
Una persona cara che si spegne è come una stella cadente che smette di brillare in cielo, il desiderio più grande è che possa esserti vicina in ogni momento mantenendo quel rapporto d’amore che va oltre la vita.
 
                                                                                                                (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
 
°°°°°
MM

Racconti di vita

SCHIOCCHI DI CHIOCCIOLE

Traiamo questo “racconto di vita” dall’antico gradevole forziere, in parte rimasto tuttora non pienamente valorizzato, di quello che per diversi anni è stato il pregevole “Premio Prato Raccontiamoci”. Rendiamo omaggio, pubblicandolo, all’anonimo autore che, come molto spesso accadeva ai partecipanti al concorso, condivideva così una effettiva esperienza personale di vita nello spirito di trasmettere alle generazioni più giovani conoscenza e spunti di riflessione.

°°°°°
 
Bari rosseggia ad ovest, in un tramonto scarlatto dipinto su di una tela color cobalto. Riflesso cristallino da Oriente, dell’Adriatico increspato dalla brezza di maggio. Cammino su via De Rossi verso la chiesa del convento delle Carmelitane Scalze. Una folata di grecale mi alita alle spalle. Riesce ancora a sorprendermi, in una città caotica che tossisce, sbuffa, e strombazza.
Sono in anticipo sull’ora fissata per la celebrazione della messa di suffragio per Angelo. Sono passati sei mesi, ormai, dalla sua dipartita. Nella chiesetta ritrovo Mina, sua moglie, e i suoi amici più cari. Ci salutiamo timidamente. L’atmosfera è austera. Rimaniamo in silenzio, durante l’attesa. Un silenzio che evoca riflessioni in un momento in cui sento claudicante la mia religiosità: tanto fragile da infrangersi sotto la mole dei miei interrogativi razionali.
Una imponente inferriata si affaccia alla sinistra dell’altare. E’ dietro quel diaframma che iniziano ad apparire le religiose. Mi sorprende la loro pelle, diafana come la luna. E’ la prima volta che entro in un convento di clausura. L’idea di cristianità vissuta tra la comunità dei fedeli con il tramite di una cancellata mi turba. La mia razionalità si intriga di argomentare i suoi teoremi. Articola sillogismi. Scandisce deduzioni logiche a cascata. Infine, sentenzia: “anacronistica!”. Quella realtà appare semplicemente anacronistica. Anche l’ubicazione del convento sembra fuori luogo. Era sorto un secolo fa nelle campagne. La città ora lo ha fagocitato tra palazzi vanitosi di cemento. I lati sud e ovest sono lambiti da una direttrice di traffico che scorre fragorosa come un torrente in piena. Un rombo continuo di autovetture in corsa, dal quale emerge l’urlo straziante delle sirene e degli strilli molesti dei clacson. Clamori di una bolgia infernale, invadenti e irritanti, che le spesse mura del convento non riescono a trattenere. Quella dislocazione mi appare inadeguata per un luogo di meditazione. Non vedo nulla di bucolico. Non sento il canto degli usignoli. Nè lo schiocco delle chiocciole cadute dagli steli di avena all’ondeggiare del vento. Già, lo schiocco delle chiocciole… Fu proprio Angelo ad insegnarmi ad ascoltarlo. Eravamo nel suo giardino. Mi indicò una chiocciola che aveva raggiunto l’apice di un filo d’erba sul quale si era lentamente inerpicata. Mi invitò ad osservarla nel più assoluto silenzio mentre danzava con il vento. Non capivo il perché, fino a quando una folata di brezza marina la staccò facendola cadere sul dorso del suo guscio. Lo vidi chiudere gli occhi e annuire con il capo. Uno dei pochi movimenti che gli erano rimasti dopo che il suo sistema nervoso era stato devastato dal processo di demielinizzazione. Era la metafora della sua vita. La storia di un corpo con una vitalità straordinaria che il vento impietoso della malattia e della senescenza aveva trasformato in un guscio inchiodato al suolo. Sì, perché Angelo prima della disabilità ne aveva fatte di scalate... Tutta la sua vita era stata una sfida. Rimasto orfano di madre, morta di parto, aveva giurato di combattere contro la causa della sofferenza della sua infanzia.
Era stato un dramma che non riusciva ad accettare, quello che una madre perdesse la propria vita nel momento in cui ne generava una nuova. Fu la sua missione. Divenne medico e ginecologo. Ogni travaglio fu il suo travaglio. Ogni parto, lotta e rivincita sugli incubi della sua infanzia. Migliaia di bimbi emersero dall’apnea delle acque placentali confortati dalle sue mani grandi e possenti. Mani che raccontavano storie di vita. Mani sulle quali, poi, la malattia era calata come l’autunno sulle foglie. Un autunno durato venti anni.
Perché mai un albero così rigoglioso di frutti può rinsecchirsi così  impietosamente? Perché mai la malattia può trasformare una vita così meravigliosa in un supplizio senza fine, tanto straziante?! La mia razionalità non trova risposte.
Una campanella mi fa riemergere dai miei pensieri. La messa ha inizio. L’officiante inizia la liturgia. Da dietro le grate si ode un coro. Le suore cantano: la loro voce mi sorprende. Le loro labbra vibrano impercettibilmente. Un fremito mi scuote come una carica elettrica. Scruto attraverso il diaframma che ci divide. Tutte hanno lo sguardo fisso nel vuoto, quasi rapite dal loro cimento. Un canto che emerge dalle corde più profonde del loro spirito. Un suono celestiale si propaga soave nella chiesa. I clamori della strada si sono spenti d’incanto. Mi sento irretito. Quelle voci hanno spalancato una porta della quale non conoscevo l’esistenza, e illuminano una stanza buia del mio animo. La catarsi mi spinge ad entrare. Mi avvicino timidamente a quella porta. Nella penombra di quella stanza intravedo uno scrittoio con l’album dalla copertina verde di finto cuoio delle fotografie della mia infanzia. Qualcosa mi spinge ad aprirlo. Nella prima pagina, però, trovo una foto mai vista. Mi ritrae nei miei primi giorni di vita. Sono solo in una culla di ospedale. Mia madre non c’è.
La voce della prima lettura mi riporta in chiesa. E’ quella di una lettera degli Apostoli: ”… La pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo”. L’immagine è suggestiva. Lo è tanto più quando i miei pensieri identificano il costruttore che è in me. La mia razionalità sempre pronta a erigere castelli logici e bastioni  deduttivi… a discernere il granito dall’arenaria… a sovrapporre la compattezza delle certezze del primo e a scaricare la friabilità dei dubbi della seconda. L’arroganza della mia razionalità dispensa giudizi troppo disinvolti. Scarta ciò che non si piega. Setaccia il bene e il male con la spocchia dello scolaro capo della classe, che con il suo gessetto sulla lavagna diventa misura dei buoni e dei cattivi. Devo riconoscerlo. I lumi della mia ragione sono come quelli del crivello della massaia. Con quale arbitrio ci ho messo dentro gli anni della malattia di Angelo, e la clausura di quelle suore dalla voce angelica? Provo rincrescimento verso me stesso.
Un nuovo canto mi proietta davanti all’album della mia infanzia. In seconda pagina la foto di una puerpera in coma, abbarbicata ad un flebile alito di vita tra medici che  si disperano per salvarla. Mi avvicino timidamente. Mi trovo dentro quella foto. Non sono un medico. Ma vorrei fare qualcosa per aiutarla. Un muro di camici si frappone fra me e lei come uno sbarramento. Si apre un varco. E’ un incubo. Quella donna è mia madre. Sì, è proprio lei! Me l’avevano detto. Il mio fu un parto difficile. Dopo la mia nascita mia madre entrò in coma per giorni. Anch’io mi ero trovato allo stesso bivio di Angelo. Ma mia madre era sopravvissuta. Se l’avessi persa, quanto la mia vita sarebbe stata più simile a quella di Angelo? L’interrogativo mi appare crittografato in una espressione matematica disegnata su una lavagna. Il gessetto tra le mie dita scorre sull’ardesia. Pretende di svelarmi le sue stridenti soluzioni. Il calcolo è ambizioso: scoprire i connotati della nostra esistenza dagli accadimenti che la caratterizzano. Ricerco un’incognita combinando le sue variabili indipendenti. La presenza di una identica variabile in due espressioni diverse non può non rendere simili le sue incognite. L’ipotesi mi appare verosimile. E’ in qualche modo estrinsecazione degli assiomi della logica. Almeno, così credo. Se A è uguale a B e quest’ultima è uguale a C , il risultato inoppugnabile è che A e C sono uguali. L’ipotesi che un accadimento tragico possa assimilare l’esistenza di persone diverse mi appare logicamente motivata. Ma, Dio, Il labirinto della ragione mi trascina nel suo vortice davanti ad un terribile quesito: chissà quanto una malattia invalidante possa accomunarci? Se avessi avuto la malattia di Angelo come sarebbe stata la mia vita? L’ipotesi mi terrorizza. Mi manca il respiro. Mi sento prigioniero in una sfera di cristallo.
La messa è finita. Mi riprendo dalle mie inquietudini. Le religiose escono in fila. Si ritraggono come un rigagnolo nel deflusso dell’onda sulla battigia del mio animo. In quel solco rifluiscono i granelli del basamento del castello di sabbia delle mie certezze. In chiesa si ode il pianto sommesso di una donna. Tiene per mano un adolescente. Non comprendo la ragione del suo lamento. Una voce alle spalle mi sussurra: ”Fu l’ultima paziente del dottore. Scoprì di aspettare un bambino. Era sola. Senza un lavoro. Senza famiglia. Palesò l’intenzione di interrompere la gravidanza. Angelo, ormai debilitato dalla malattia, le disse: “Se quello che ho basta per la mia famiglia, basterà anche per te. Tuo figlio nascerà! E ora, eccoli”.
Mi commuovo. Quell’uomo aveva continuato la sua sfida anche quando la disabilità lo aveva atterrato. La malattia gli aveva tarpato le ali, ma egli aveva continuato a volare. Forse ancora più in alto. Tutto comincia ad avere un senso. La debilitazione fisica non era stata per Angelo un limite, così come non lo era la clausura per quelle suore. Il perseguimento della loro missione, nella costrizione delle loro barriere, mi ammalia. Mi incanta come il corso di un fiume che, giunto davanti a un ostacolo naturale, lo supera con il fragore di una cascata e riprende placido il proprio corso. Nel canto di quelle suore lo scroscio di una sorgente nella quale ho avvertito la presenza divina come non mai. Nell’altruismo di un anziano disabile, il frastuono di una cateratta nella quale ho percepito l’Uomo in tutta la sua grandezza. Chiocciole che nonostante il loro guscio continuano ad inerpicarsi verso le loro mete. Pietre scartate dai costruttori, diventate pietre d’angolo.
“E’ proprio così – prosegue la voce alle mie spalle: - nessun guscio è un limite!”.
Ma chi sta parlando?! Mi giro di soprassalto. Non c’è nessuno. La porta della chiesa è socchiusa. Uno spiffero la riapre. Il grecale entra accompagnato dai soffusi profumi del sole del crepuscolo. Mi alita sulla pelle. Ormai, non ha più  motivo di sorprendermi.
                                                                                                                             
                                                                                                                                   (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci”)
 
 °°°°°
                                                                                                        MM
 
 

Racconti di vita

Piccola storia di cura del creato

Abbiamo conservato questo piccolo “racconto di vita” dal 2011, quando pervenne alla giuria di un concorso che chiedeva appunto “racconti di vita”; non potè essere premiato, questo piccolo racconto inviatoci da una signora di Vercelli, per via di alcune caratteristiche anche formali che gli scritti partecipanti dovevano osservare, ma è rimasto ben custodito fin da allora nei nostri cassetti: è una bella piccola storia di umanità, di quella umanità che sa anche prendersi cura del creato con armonia e amore; e perciò non può, alla lunga, non essere raccontata.
 
°°°°°
 
Era un giorno caldo, profumato, di molti anni fa, che prometteva una bella settimana agli anziani arrivati da tutta Italia al Villaggio di Alimini.
 
Non sapevo ancora che qualcosa sarebbe cambiato nella mia vita e nella mia famiglia, che qualcuno di nuovo avrebbe fatto parte di noi.
 
Comparve un pomeriggio, all’improvviso, di corsa, con in bocca una pallina: era un cuccioletto di pelo bianco e irto, con macchie color arancio sulle orecchie pendenti, un grosso naso tondo e due occhi dolcissimi.
 
Scoprimmo poi, a casa, essere uno spinone italiano di un anno, sano e molto bello ma, purtroppo, decisamente sottopeso, trascurato e con il terrore dei maltrattamenti subiti fino ad allora.
 
Per quindici anni la mia famiglia aveva preso, da allora, a tornare a Vercelli dalla montagna per trascorrere con lui il Capodanno affinché non soffrisse in solitudine il baccano dei fuochi di fine anno.
 
Così non sarà per il 2011 perché, purtroppo, Valtur ci ha lasciati nell’ottobre del 2010.
 
Non ricordo bene, ancora adesso, come scoppiò il nostro amore, ma so con certezza che lui mi scelse subito tra centinaia di persone.
 
Era carino con tutti, accettava carezze e “grattini”, si vendeva per un pezzo di pane (cosa che fece per anni) poi, alla sera, spariva e scoprimmo solo dopo che nel suo rifugio aveva decine di palline da golf, cercate inutilmente dai ragazzi del villaggio.
 
Era sempre stato maltrattato, abbandonato, legato per molto tempo, e avrebbe dovuto raggiungere, da lì a pochi giorni, l’inceneritore di Ostuni.
 
Fu allora che non mi posi neppure la domanda di cosa fare, quel cane era mio, lui mi guardò con quegli occhi umidi e ci capimmo all’istante; chiesi di tenerlo ed occuparmene. Sembrava tutto sistemato quando, all’improvviso, scomparve.
 
Scomparve così, all’improvviso, e mi ero rassegnata a perderlo in quanto mancavano solo due giorni alla partenza, quando si ripresentò davanti alla mia camera.
 

Leccate, lacrime, abbracci e carezze e poco dopo, aiutata dagli amici di Trento, gli facemmo un profumatissimo bagno, sponsorizzato da Valtur,  che era la compagnia turistica con la quale viaggiavamo, e fu allora che gli dissi: “”Questo sarà il tuo nuovo nome: Valtur”.
 
E’ stato un cane bravo, divertente, sembrava non invecchiare mai, aveva una copertina che negli anni era diventata come un fazzoletto che non abbandonava.
 
Non capì mai come funzionavano i comandi, era un autodidatta, tutto il cortile, i vasi, le auto, erano un suo terreno per fare pipì; non andò neppure tanto d’accordo con il pastore tedesco, ma correva dietro al mio adorato gatto Pepe; e, così, ci recammo al canile e gli mettemmo insieme Ferdi, cucciolotto di razza sconosciuta.
 
Valtur lo prese in consegna: lo educava, lo faceva giocare quotidianamente, si faceva fare tutto da lui insegnandogli anche (questa volta) che un cane perbene non fa pipì ovunque. Poi, all’improvviso, si spense. Io avevo cominciato a pensare che Valtur fosse eterno ma a un certo punto mi resi conto che dimagriva e invecchiava ogni giorno di più.
 
Purtroppo era arrivato il giorno di salutarci, ma prima di farlo, accarezzando il suo corpo ormai scheletrico volevo sentisse quello che non gli avevo mai detto: “Valtur, sei stato un grande cane “ !
 
Ci eravamo incontrati lontano, nel verde di Alimini, e alla fine gli ho trovato un angolino nel nostro giardino ben esposto al sole; sopra, non so come, è cresciuta una ridente piantina di camomilla.
 
Io e Ferdi lo salutiamo tutti i giorni passandogli vicino, consapevoli che lui è tornato sano, bello, giovane e, sempre di corsa, con la sua pallina in bocca …. mi aspetta !!!
 

                                                                                                          (Daniela Balbiano)
 
°°°°°
MM