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Cultura e politica

LA DIMENTICANZA PIU' GRAVE QUANDO SI PARLA DI DEMOCRAZIA CRISTIANA

Bartolo Ciccardini (molti di noi lo hanno conosciuto personalmente) non era uno dei più eminenti personaggi della politica, nella storia della prima repubblica: era tuttavia personalità di spicco, di rilievo nazionale, più volte parlamentare, rappresentativo di quella realtà più specifica che, dentro la Democrazia Cristiana, veniva chiamata “corrente fanfaniana” (se ricordo bene). Personalità attenta sul piano culturale, acuta sul piano politico, non scevra da combattività e iniziativa coraggiosa.
 
Nei lunghi anni di travaglio seguiti alla fine del suo partito storico, Bartolo Ciccardini  mi pare non sia mai confluito in altre formazioni politiche, più o meno vicine che fossero all’antica matrice democristiana. Non ha però mai rifiutato di offrire le sue analisi e le sue testimonianze a chi lo chiamava a farlo, e in questo la sua riflessione rappresenta tuttora un elemento non soltanto interessante in sestesso, ma di una qualità di analisi che lo pone ampiamente al disopra del miserevole livello culturale che caratterizza, in tutti i partiti odierni, la politica italiana. Prima di morire intervenne fra l’altro, nel 2016, a uno dei convegni con i quali molti di noi cercavano di accelerare il processo di ricostituzione di una grande forza politica di ispirazione cristiana da proporre all’Italia, incontrando regolarmente frantumazione e inefficacia di esiti: e proprio sull’analisi di questa difficoltà la lucidità e l’equilibrio del vecchio uomo politico si palesarono ancora pienamente. Riproponiamo quell’intervento quasi a commento meditativo della tornata elettorale europea appena svoltasi.
 
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Rivolgendo il mio augurio alle iniziative dei democratici cristiani, promosse particolarmente attorno al riferimento coordinativo costituito da Gianni Fontana, accenno ad alcune  modeste considerazioni  politiche derivantimi dalla comune storia ed esperienza vissuta con molti di loro nella lunga stagione della Dc.
 
Parto da un giudizio preoccupato.  C’è una debolezza di fondo, in queste iniziative, dovuta alla influenza ed ai condizionamenti esterni. Molte delle difficoltà del mondo politico  e dello stesso mondo cattolico si riflettono sul travaglio e sull’esito di ogni iniziativa di questo genere. E non potrebbe essere altrimenti.
 
Perché Todi è fallito? Il tentativo di rifondazione di una qualche unità dei cattolici impegnati in politica ha il suo massimo esperimento nel Convegno di Todi, dove i protagonisti non erano le formazioni politiche, ma le formazioni sociali che erano storicamente la forza popolare (e la massa elettorale) della DC. Senza nasconderci dietro ad un dito, dobbiamo dirci che quella dirigenza del mondo cattolico era troppo orientata a destra per permettere alle forze sociali  e caritative di guidare l’operazione.
 
Nell’impossibilità di trovare un chiarimento all’interno della gerarchia cattolica fra i vescovi presenti a Todi ed i Vescovi presenti a Norcia, questo tentativo di federazione cattolica pre-politica, che somigliava più all’opera dei Congressi od ai Comitati civici, che non alla DC , si è a suo tempo spento nella culla.
 
Anche le vicende delle formazioni politiche condizionano il nostro giudizio. La crisi berlusconiana influenza una buona parte dei nostri propositi. Berlusconi ha fondato un partito dichiaratamente di destra: il suo miracolo è stato quello di essere riuscito a mettere assieme i separatisti leghisti con i nazionalisti fascisti, utilizzando come collante i cattolici “moderati”  ed il Movimento ecclesiale di “Comunione e Liberazione”. Si può capire che si cerchi di recuperare i voti prestati a Berlusconi  e di occupare quello spazio. Questa tendenza ora è divisa. Alcuni  hanno pensato di dare una direzione cattolica a Forza Italia e quindi di operare all’interno del berlusconismo, utilizzando provvisoriamente lo stesso Berlusconi. Altri hanno fatto una scissione da Berlusconi con l’idea di costituire un gruppo autonomo che potrebbe allearsi con Berlusconi. Ed infine un terzo gruppo pensa ad una proiezione italiana del PPE senza Berlusconi. Queste soluzioni sono ingombranti in un processo federativo perché mirano a ricostituire una DC più affine al modello tedesco che al modello italiano.
 
A questo punto si apre un problema: cosa è il Partito Popolare Europeo senza la componente democratico-cristiana italiana? Tutte queste soluzioni tendono ad escludere non solo i cattolici democratici ma anche  tutti i nuovi fermenti sociali del cattolicesimo italiano. Ma anche il gruppo dei movimenti che si muovono con diverse sfumature nell’area del Partito Democratico viene condizionato da quelle scelte politiche. Ci sono i cattolici adulti che sono militanti del PD. Alcuni (come Renzi) ritengono addirittura non corretto usare l’aggettivo cattolico per qualificarsi in politica e preferiscono vantare origini scoutistiche. Ci sono cattolici che si sentono di appartenere alla tradizione democratico-cristiana da cui provengono e che non hanno mai rinnegato, e che la vedono rispecchiarsi  in un partito che ha una cultura plurale. Ci sono infine quelli  che pur votando, per necessità, Partito Democratico, non si sentono a loro agio per un pregiudizio laicista tuttora molto vivo nelle formazioni di sinistra. Questo pregiudizio laicista non è simile a quello della prima parte del secolo scorso, che era anticlericale, antipapale, anticristiano. È piuttosto una forma di autoreferenzialità in nome dei nuovi diritti civili, che tende a trattare i cattolici come una specie minoritaria protetta da coltivare e rieducare nelle riserve indiane.
 
L’unica soluzione immaginabile è che i cattolici orientati a sinistra possano trovarsi solo in una formula organizzativa propria, orientata ad una alleanza con il PD, ma con la possibilità di esercitare politicamente l’obiezione di coscienza. Le differenze che oggi ci sono fra i cattolici sensibili al richiamo della destra ed i cattolici disposti a votare a sinistra, rendono difficile ogni discorso politico. Anzi le polemiche politiche fra i due blocchi riescono a tradursi in incompatibilità e veti reciproci fra associazioni e movimenti cattolici,  al punto da dare ragione a quelli che credono impossibile un progetto unitario.
 
Eppure quelle differenze e quei dibattiti convivevano all’interno della DC.
 
Tutti questi tentativi, sia quelli che restano entro i confini  di una zona che è stata chiamata moderata, sia quelli che si muovono all’interno di una zona di centro-sinistra, devono porsi una domanda: che cosa era  l’unità politica che caratterizzava l’essenza profonda della Democrazia Cristiana?
 
Cosa vi si oppone oggi? Per prima cosa il bipolarismo: accettando il concetto di bipolarismo i cattolici che volessero far politica con un loro organismo autonomo dovrebbero per forza collocarsi o nel polo di destra o nel polo di sinistra. Ne consegue che la nascita di un organismo politico rappresentativo dei cattolici debba per forza muoversi o all’interno del blocco berlusconiano o all’interno del blocco di sinistra nato dall’Ulivo di Prodi.
 
Bisogna liberarsi da questi schemi. Non è scritto da nessuna parte che il bipolarismo debba funzionare come se si trattasse di due blocchi intoccabili ed eterni. E dall’altra parte non bisogna sentirsi obbligati a ripetere l’esperienza del lungo conflitto tra berlusconiani ed antiberlusconiani. Anzi, tutta l’esperienza storica della Dc ci porta a pensare che in Italia abbia un particolare valore una formazione politica di grande spessore sociale e con un programma avanzato di pace e di giustizia nella politica estera e nella politica sociale, che abbia anche valori tradizionali da difendere e comportamenti capaci di mediazione (quelli che con un vocabolo sbagliato vengono chiamati valori ”moderati”).
 
In fondo il riferimento all’esperienza storica della DC dovrebbe consistere non soltanto nella memoria dei risultati conseguiti, ma soprattutto nella scelta di quel metodo politico, che permetteva a quel partito di sviluppare un programma di sinistra  con il contributo dei voti che altrimenti avrebbero avuto una collocazione di destra. E tutto questo si fondava su due pilastri: la capacita di unità tra diversi e la temperanza, vale a dire la desueta virtù cristiana di tenere insieme valori opposti. Non dico moderazione, dico temperanza.
 

Credo che sia intellettualmente importante verificare il giudizio storiografico sulla DC. L’attuale crisi politica italiana è tutta fondata su un giudizio storiografico non veritiero fondato sulla obliterazione, persino violenta, del merito storico del grande miracolo italiano. Una obliterazione in cui confluiscono  sia il rifiuto del 18 Aprile  come conseguenza logica e determinante della Resistenza e della Costituente, sia la rabbia conservatrice  di aver dovuto sopportare e sostenere un partito progressista come male minore per evitare il comunismo.
Ma per correggere il giudizio storiografico corrente dobbiamo essere estremamente coscienziosi e precisi nel ricordare cosa fosse  veramente la DC.
 
Partiamo da una constatazione che è difficile esprimere. I voti razzisti e dei separatisti che sono finiti nella Lega c’erano già nelle nostre valli alpine. Ma la DC con la sua presenza severamente educativa e con un controllo sociale accurato riusciva a trasformare quei voti in cioccolato.
 
Anche allora esistevano nella mentalità popolare e familiare del nostro Meridione i voti che non chiamerò mafiosi, ma nei quali prevaleva lo spirito di clan o di campanile. Ma la DC con una capacità di giudizio colta ed appassionata riusciva a trasformarli in partecipazione democratica ed in speranza di riscatto del Mezzogiorno d’Italia. La riforma agraria e l’abbattimento della oltraggiosa borghesia agraria assenteista  non è stata cosa da poco, anche se oggi è volutamente dimenticata. I voti fascistoidi, di un fascismo retrivo e persecutorio, che si cibava di barzellette della Domenica del Corriere, sul contadino stupido con la evidentissima pezza accuratamente cucita sul fondo dei pantaloni, memoria della mentalità squadristica, esistevano anche allora. Ma la Dc riusciva a trasformarli in un doveroso omaggio all’ordine democratico.
 
È così che va reinterpretata e capita la funzione politica dell’unità dei cattolici, in questa capacità di tradurre gli antichi difetti italiani in virtù civili. Ed in questa DC c’era anche una sinistra democratico-cristiana che svolgeva un compito di apertura e di mediazione. Non si capisce il contributo della DC all’Italia se non si ricorda quello che De Gasperi definiva “il partito di centro che guarda a sinistra”, se non si ricorda che il capolavoro di Fanfani e di Rumor fu “l’apertura a sinistra” ed il “Governo di centro-sinistra”: in pratica il recupero del socialismo italiano alla democrazia; se non si ricorda il tentativo di Moro di spostare l’attenzione ancora più a sinistra, nel periodo più scuro della nostra vita democratica, negli anni di piombo.
 
Allora, in quei tempi, Antonio Segni poteva espropriare la terra non solo ai suoi elettori, ma persino ai suoi parenti stretti, senza permettere che questo desse spazio, non dico ad una rivolta armata, come nel 1921, ma neppure ad una agitata protesta familiare. Allora Nicola Pistelli poteva parlare con una certa supponenza delle “fanterie parrocchiali cattoliche”, che dovevano votare senza troppe proteste il programma di sinistra della DC. Ma erano quelle stesse fanterie cattoliche da cui mai si sarebbe distaccato e da cui mai avrebbe preso le distanze. Senza questo “miracolo politico” la DC non avrebbe portato a termine il miracolo economico e sociale.
 
Queste considerazioni non sono reliquie storiche, sono un necessario esame di coscienza  nei confronti di quelli che pensano al PPE ed alla sua edizione conservativa come ad una ricetta valida per l’Italia. Il Partito Popolare Europeo sarebbe ben altra cosa se ci fosse in campo la Democrazia Cristiana di De Gasperi, di Fanfani, di Rumor e di Moro. Non un punto di riferimento (punto di riferimento lo è piuttosto l’internazionale democratico-cristiana) ma  un impegno a far tornare il Ppe al suo compito di  realizzare il programma federalista democratico cristiano.
 
Detto questo dobbiamo anche ricordare che le obiezioni alte e qualificate della destra democratico- cristiana non erano, nel partito, voci inconsistenti e secondarie. Non era solo un accigliato Ottaviani che inaugurava i “comunistelli di sacrestia”. Erano anche i discorsi di altissima finezza politica di Mario Scelba, le analisi di Guido Gonella, neppure lontanamente comparabili alla volgarità della nostra destra attuale. Erano la richiesta di coerenza morale democratica di uno Scalfaro giovane. Essi rappresentavano con dignità ed onore il pensiero “moderato” che in Italia aveva avuto una storia e che la Democrazia Cristiana sapeva accogliere come esigenza fondamentale della nostra società civile.
 
Ripensare al valore dell’unità dei cattolici non significa dimenticare che questa unità era una virtù civile dolorosamente conquistata. Durante il periodo formativo della DC non c’erano  soltanto i democratici-cristiani e diverse ipotesi si avanzavano perfino nelle stanze pontificie. C’erano anche i cristiano-sociali di Gerardo Bruni che coabitavano con De Gasperi nella Biblioteca Vaticana. C’erano anche i comunisti cattolici, a cui Monsignor De Luca dettò un nome diverso, battezzandoli “cattolici comunisti”, perché cattolico doveva essere il sostantivo e comunista doveva essere l’aggettivo.
 
E fu Giulio Andreotti, facente funzione di Presidente della Fuci, in assenza del Presidente Aldo Moro, trattenuto dal Sud perché non poteva superare la linea Gustav, a portare la notizia a Monsignor De Luca che non sarebbero stati essi i prescelti nella costruzione del grande partito nazionale e democratico. Sì, l’unità dei democratici cristiani aveva coscienza dell’esistenza di fratelli separati sulla sinistra. Ma che questo non fosse una incapacità di comunicare ce lo ricorda Augusto Del Noce quando racconta l’importanza che ebbero i comunisti cattolici, usciti dal Partito Comunista nel 1950, nella formazione della Terza Generazione della DC, e nella stessa gioventù di Azione Cattolica di quel periodo.
 
Questo panorama della vitalità politica della Democrazia Cristiana non è un reperto archeologico e non è soltanto una memoria da coltivare. È un giudizio storiografico preciso da rivendicare e da coltivare  perché  necessario in questo momento, hic et nunc,  per risolvere il problema della democrazia in Italia. C’è bisogno di sapienza aperta perché nasca una forza politica ispirata al cristianesimo illuminato degli ultimi Papi e legata alla volontà di pace e di crescita della grande maggioranza del popolo italiano. Non possiamo più andare avanti in maniera schizofrenica, sentendo prediche di sinistra in chiesa e proclami di destra in piazza.
 

Certo! Vicino al giudizio storiografico è necessaria la coscienza dei grandi cambiamenti che ci sono stati nella società italiana e che bisogna affrontare e risolvere in maniera positiva. Ce lo ricorda,  con la forza straordinaria del racconto cinematografico, Pupi Avati nel suo film “Il matrimonio” in cui racconta la famiglia italiana dei suoi tempi, a confronto con la famiglia italiana di suo padre e di sua madre. Ed è una lezione profonda sul cambiamento dell’Italia. Anche nel nostro campo politico dobbiamo ricordare che in questo cambiamento va recuperato quel che c’è di positivo e va curato, se si può, quel che c’è di negativo.
 
Tre generazioni (quella di Fogazzaro, quella di Murri e Sturzo, quella di Alcide De Gasperi) erano state formate in un’Associazione che aveva iscritto nel suo distintivo un motto stranissimo: “Preghiera, azione, sacrificio”. L’ultimo a portare in Italia, tutti i giorni, a tutte le ore, per ogni minuto, questo motto iscritto sul bavero della giacca fu il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il notaio che registrò la crisi del sistema democratico italiano.
 
Chi dirà oggi agli italiani che per pagare un debito sproporzionato che tuttavia bisognerà pagare, sarà necessario il sacrificio? Non il clamore osceno, non la rivolta irrazionale, non l’inseguimento di miti criminali, non il vittimismo di chi si sente perseguitato dall’Europa, niente di tutto questo! Ma il sacrificio, pensoso, responsabile ed accettato, sarà la medicina. E non solo l’immancabile sacrificio dei poveri che non fa mai scandalo.
 
Chi ricorda il discorso di Giustino Fortunato sul sacrificio degli italiani, quando fu finalmente pagato il debito che avevamo contratto per portare a termine il Risorgimento? Chi si ricorda quante lacrime e quanto sudore costò la tassa sul macinato? Chi si ricorda cosa significa la parola sacrificio, vale a dire rendere sacro qualche cosa? Chi si ricorda che la libertà fu riconquistata con il sacrificio dei migliori? Ci ricordiamo i tempi in cui la stessa politica era sacrificio? Chi di noi porterebbe oggi la parola sacrificio all’occhiello della giacca? È forse questa la risposta al nostro vero interrogativo? Confesso che in questo momento io non lo so.
                                                                                                         
                                                                                                          (Bartolo Ciccardini)
 
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Cultura e politica

A PROPOSITO DI DON CAMILLO E PEPPONE...

“Peppone e don Camillo…”: e giù risate. Ancora, il grande capolavoro di Guareschi  fa sorridere, rasserena e infonde positività agli innumerevoli appassionati che lo seguono, ormai da decenni, soprattutto attraverso i volti di Gino Cervi e Fernandel, più ancora che attraverso le pagine del romanzo.
 
Senonchè, per il misterioso destino che a volte colpisce autentici capolavori, e i loro autori con essi, si pensa diffusamente a Guareschi e alla sua opera, più che altro, come a una sorridente descrizione  bonaria della realtà italiana dell’immediato dopoguerra, descrizione tesa a togliere, quasi per principio di buona volontà civile, drammaticità e importanza effettivamente decisiva agli eventi che in quella società si svolgevano.
 
Vale invece assolutamente la pena di sottolineare che Giovannino Guareschi è stato una grande personalità umana, civile e politica, e che la sua opera, e in particolare i personaggi di Don Camillo e Peppone, oltre che un capolavoro d’arte sono un capolavoro di cultura civile e di responsabilità politica, raffinato e impegnato.
 
Per dare una idea della effettiva profondità e radicalità di convincimenti e di impegno anche politico del Guareschi, riportiamo qui un breve passo del suo “Diario clandestino”. Recita:
 
“Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. È inutile, signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. […] Entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti. […] Tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. È inutile, signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d’importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. […]
 
L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te, signora Germania”.
 
Uno studioso di cui non ritroviamo la firma annota giustamente che “Guareschi è famoso soprattutto come autore del Don Camillo. Non molti, però, conoscono l’ampiezza della sua produzione, e soprattutto la sua forza di carattere.
 
Quest’uomo ha affrontato ben due prigionie: la prima in un campo di concentramento tedesco, la seconda nelle carceri italiane. Ed entrambe per una pura questione di principio (nel primo caso, in particolare, perché rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò).
 
Moralmente, inoltre, egli era una delle colonne portanti del campo, nonostante la salute declinante (quando arrivò pesava 86 chili; quando se ne andò, 46). Fondò persino una sorta di giornale clandestino: scriveva articoli che poi diffondeva oralmente, leggendoli nelle baracche per rialzare il morale dei compagni. “Signora Germania” fu, appunto, uno dei pezzi più fortunati.
 
In questo brano troviamo la stessa semplicità dei racconti di Don Camillo (una semplicità, peraltro, non priva di ricercatezza, perché tutto il testo è costruito su metafore e simmetrie). Guareschi stesso, infatti, si vantava di usare in tutto 300 parole per scrivere i suoi racconti. E tuttavia è riuscito a comunicare un’incredibile profondità di sentimenti. Ma da dove viene questa forza?
 
Sicuramente le sue scelte lessicali sono provocatoriamente incisive, e lo stile affabile cattura il lettore senza che se ne accorga. Ma non solo: Guareschi si sforza di trovare parole che abbiano un’eco diretta nell’esperienza del destinatario. Parole, cioè, tanto vitali da poter sopravvivere anche in contesti in cui ogni retorica si disgrega.
 
E non sceglie parole di odio, la cui potenza è più immediatamente percepibile. Sceglie invece di richiamarsi ad altre risorse: la dimensione affettiva (il ricordo di casa) e spirituale (la fede religiosa). Questo infatti è, secondo Guareschi, il nucleo profondo e universale dell’anima umana.
 
E dunque a partire da questo si può costruire un ponte tra gli uomini, ricordando loro la propria dignità. Una vera «fregatura» per ogni riduzionismo ideologico”.
 
                                                                                                                                                   (Anonimo)
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