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Racconti di vita

L'AMORE OLTRE LA VITA

Come abbiamo avuto modo di dire in occasioni precedenti, molti “racconti di vita” venuti alla luce grazie alla storica rassegna del “Premio Raccontiamoci Città di Prato”, cessata da alcuni anni ma vissuta a lungo e animata da figure autorevoli quali quella di Pamela Villoresi, sono rimasti sfortunatamente anonimi in quanto non  rientranti nel ristretto numero dei lavori premiati, ma ci pare giusto pubblicare via via quelli che riusciamo a recuperare dagli archivi del Premio, della cui giuria fummo componenti, in attesa che la organizzazione promotrice possa nel tempo realizzarne una più organica raccolta. Sottolineiamo che i racconti sono effettiva “vita vissuta”, essendo questa una delle caratteristiche vincolanti del Premio; e perciò particolarmente interessanti.  “L’amore oltre la vita” è omaggio vissuto alla presenza così spesso provvidenziale dei nonni nel contesto familiare.
 
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L’estate era trascorsa e le prime foglie ingiallite incominciavano a cadere dagli alberi, addormentati dal sonno dell’autunno. Da due mesi mia nonna si era adagiata sul letto matrimoniale della sua camera e, coperta da una trapunta, attendeva pazientemente che il velo del riposo eterno si posasse sul viso sereno. In alto, sopra la spalliera del letto, il Bambinello in braccio alla Madonna la guardava languidamente, quasi per rassicurarla che presto li avrebbe raggiunti in cielo. Il cancro, accompagnato dalla senilità, aveva assorbito tutte le sue energie vitali, lasciandola in una quiete apparente mentre interiormente compiva il suo sviluppo. In quel periodo avevo ricevuto una proposta di lavoro importante da uno studio legale. Laureatomi in giurisprudenza a primavera, ero impaziente di avviare la professione di avvocato, ma sapendo che la nonna stava molto male decisi di prendermi cura di lei: una nonna è troppo preziosa per essere sostituita con un impiego lavorativo.
 
Il comò, appesantito dai tanti medicinali, sembrava una farmacia ambulante e dove lei un tempo si specchiava vanitosamente, pettinandosi i lunghi capelli castani, la polvere si era posata lasciando un sottile strato. La sola traccia della sua giovinezza, presente nella stanza, era una foto fatta insieme al nonno, prima di sposarsi. Spesso la guardava sospirando, come fosse una finestra che si affacciava sul passato immortalando la bellezza di una volta, ormai perduta.
 
Il nonno amava tantissimo la fotografia, fin da giovane, e aveva coltivato per l’immagine in bianco e nero un profondo senso artistico. “Nelle foto”, diceva, “è possibile compiere un miracolo: fermare il tempo, strappando i momenti più belli all’oblio, e non invecchiare mai”.
 
Fotografava tutto ciò che lo affascinava: dalle persone alla natura ogni soggetto era buono per essere immortalato. La sua cantina era un vero laboratorio fotografico, l’ordine e la cura con cui usava il materiale fotosensibile erano assoluti. Ricordo ancora le volte che mi prendeva in braccio e mi spiegava come avveniva il processo di sviluppo del negativo; mio nonno ea una vera risorsa, un concentrato di creatività e conoscenze, e grazie a lui ho scelto di andare all’università. “La sapienza – diceva – è la sola cosa in grado di rendere liberi, ma soprattutto consapevoli di chi siamo e cosa vogliamo essere”.
 
Nonna lo amava anche per questo suo talento, questa capacità di vedere e percepire la bellezza nelle cose che viste di sfuggita, ad occhio nudo, spesso non esprimono nulla se non ciò che sono apparentemente, ma, se le si osserva con maggiore attenzione, in esse è possibile vedere la vita, il tutto perfetto. Solo allora si capisce che meraviglia è il mondo, e l’esistenza con le sue forme.
 
Una mattina mi avvicinai al letto per misurarle la pressione e le chiesi come si sentiva. Lo sguardo era immobile verso il soffitto, freddo come quello di una statua, e sembrava non aver ascoltato le mie parole.
 
“Nonna mi hai sentit…”.
 
Non feci in tempo a terminare la frase che subito scoppiò a piangere.
 
“Voglio andarmene”, mi disse con voce commossa.
 

In vita sua, due volte l’avevo vista piangere: il giorno del funerale del nonno e una sera dopo aver litigato con mia madre al telefono. E’ stata sempre molto orgogliosa e il pianto per lei era autocommiserazione.  L’abbracciai, trattenendo la forza per paura di stringerla troppo: il dolore l’aveva affranta. Sentivo le ossa fragili del suo corpo delicato e magro, rivestito da un pigiama di cotone, e in quel momento avrei dato la mia vita per salvarla dal triste destino. Si asciugò le lacrime con il lenzuolo e mi porse lentamente il braccio. Le inserii lo sfigmomanometro elettronico: la pressione sanguigna e le pulsazioni erano regolari. L’aiutai a sollevarsi dal letto e sistemandole i cuscini dietro la schiena le feci appoggiare la testa accuratamente, accarezzandole la fronte. Tra le pieghe delle rughe era ancora possibile scorgere il fascino celato di una donna stupenda. Gli occhi azzurri e luminosi lasciavano trasparire una forza interiore particolare, il suo sguardo penetrava dentro il mio riuscendo a cogliervi ogni preoccupazione.
 
Alzando il mento mi disse: “Sei stanco, dovresti riposarti”. Sorridendo le risposi: “Non ti preoccupare, sto bene”. In realtà ero distrutto e assisterla significava dedicarle tutto me stesso, non facendole mancare mai nulla.
 
Un giorno mi chiamò, dicendomi che doveva parlarmi.
 
“Michele, devi andare via!” esclamò con espressione seria. “Non puoi rinunciare alla tua vita per me, io sono vecchia e tra breve lascerò questo mondo, ho realizzato le mie scelte e ora devi compiere le tue”.
 
La guardai per un istante, poi uscii dalla stanza senza dire nulla.
 
Mia nonna per me è stata come una seconda madre; fin da bambino sono cresciuto con il timore che i miei genitori divorziassero, in famiglia i litigi erano all’ordine del giorno, così più di una volta sono fuggito di casa andando a stare da lei. Dopo cena ci sedevamo sul divano, in salotto, insieme al nonno vedevamo la tv e prima di addormentarmi pregavamo. Standomi vicino nei momenti difficili, mi infondeva quel senso di coraggio necessario per andare avanti: la nonna aveva tutto quello che mancava a mia madre. Con affetto mi ha cresciuto amorevolmente, e accompagnarla nell’ultimo periodo della sua esistenza significava contraccambiare l’amore che mi aveva donato.
 
Le nonne sono delle sante perché compiono un doppio miracolo: prima mettono al mondo i loro figli, poi crescono i nipoti, con maggiore affetto.
 
L’assistetti per un mese; morì un tardo pomeriggio di novembre, quando gli ultimi raggi del sole stavano svanendo nel crepuscolo della sera e nel giardino la natura ormai spenta si lasciava bagnare dalla pioggia: il suo leggero e dolce suono aveva accompagnato ogni istante della giornata rendendo ovattate le ore passate insieme.
 
Come di consueto, doveva prendere la medicina: aprii la porta della camera, accesi l’abatjour sopra il comodino e delicatamente provai a svegliarla.
 
“Nonn… nonna, svegliati, devi prendere la medicina”.
 
Nessun movimento, né risposta seguì la mia incitazione. Alzai il tono della voce dicendo: “Nonna, sono Michele… la medicina… ti prego, apri gli occhi, ti prego…”.
 
Respirava a fatica, il cuore batteva fiaccamente e le labbra avevano assunto un colorito violaceo.
 
Iniziai a sudare, un nervoso improvviso mi fece tremare le gambe, salendo fino alle mani. Provai a rianimarla, ma i miei sforzi furono inutili. Precipitandomi nel corridoio alzai la cornetta del telefono e chiamai il pronto soccorso. Rispose un’operatrice dalla voce squillante e metallica, dicendomi: “Si calmi, mi dica dove abita e cosa le è successo”.
 
Non riuscivo a frenare la mia agitazione, sapevo che era troppo tardi e che stavo compiendo una corsa contro il tempo, già persa in principio. Balbettando le lasciai l’indirizzo dell’abitazione, riattaccai il telefono e tornai nella camera. Inginocchiandomi accanto al suo letto e stringendole le mani, pregai come quando ero bambino, come una povera anima in pena, che dopo tanti anni ritorna alle sue origini cristiane, abbandonate dall’indifferenza dell’età adulta. Come un fiume in piena le lacrime non riuscivano a smettere di inondare le palpebre e scivolando fino alle labbra con il loro sapore salato spegnevano l’amaro che avevo in bocca. Il silenzio glaciale che avvolgeva la stanza era rotto dal ticchettio costante della sveglia, la sola a ricordarmi che il tempo non si era fermato. Davanti all’impossibilità di agire mi sentivo debole, bloccato in un limbo, tra realtà ed irrealtà.
 
La vita continuava la sua corsa impassibile, intanto in lontananza sentivo la sirena dei soccorsi che stavano arrivando. Sarei rimasto immobile al suo fianco se non fosse stato per loro; forse mi sarei lasciato morire, avrei condiviso anche quel momento della sua esistenza. Fino all’ultimo sperai che potesse farcela, ma quando il medico le coprì il viso con il lenzuolo e si fece il segno della croce capii che non l’avrei mai più rivista.
 
Uscendo di casa andai in giardino e sedendomi ai piedi della grande quercia appoggiai la testa al tronco e respirando profondamente chiusi le palpebre, addormentandomi in quella pace naturale. Al risveglio ebbi l’impressione che fosse passata un’eternità, nel cielo plumbeo uno spiraglio di sole risplendeva lontano e un arcobaleno dai tanti colori vivaci nasceva trafiggendo il mantello di nuvole. Osservandolo mi tornarono in mente tante cose della nonna, per ogni colore un ricordo, un’emozione preziosa. Il rosso porpora del roseto che amava curare con tanta passione, l’arancione del suo grembiule da cucina, il giallo del buonissimo biscotto fatto la domenica per colazione, il verde smeraldo dell’anello regalatole dal nonno per i cinquant’anni di matrimonio, il celeste della sua vestaglia da notte vellutata, il viola del fermaglio tra i suoi capelli, il blu del maglione che ricamò a mano per il mio compleanno, l’azzurro intenso dei suoi occhi ed il rosa delicato e morbido della sua carnagione.
 
Non so perché, ma da quel giorno, ogni volta che mi capita di osservare l’arcobaleno ripenso a lei e alla sua infinita bontà di nonna. Credo che tutte le nonne ne abbiano una particolare, rara e unica. Come delle madri ci crescono, ci sono vicine, fanno sacrifici per noi, donandoci tanto affetto; poi quando muoiono, dopo tutto l’amore donato, si accontentano di un semplice fiore, lasciato sulla loro tomba.
 
La vita è proprio strana, non c’è mai la giusta proporzione tra il dare e il ricevere, anche se, in cuor mio, sento di averle dato tutto me stesso, per aiutarla e per vederla ancora una volta sorridere.
 
Oggi, dopo un anno dalla sua morte, i miei sentimenti sono rimasti immutati. Delle volte la nostalgia viene a trovarmi, ma è sufficiente che ripensi ai momenti belli trascorsi insieme, che tutto svanisce.
 
Una persona cara che si spegne è come una stella cadente che smette di brillare in cielo, il desiderio più grande è che possa esserti vicina in ogni momento mantenendo quel rapporto d’amore che va oltre la vita.
 
                                                                                                                (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
 
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Democrazia

SENSO DI INSICUREZZA E CLIMA ICONOCLASTA

Cosa succede alla nostra democrazia senza più partiti fortemente strutturati, che affrontino con una visione alta e nazionale i problemi del paese, e costituiscano un riferimento affidabile e stabile per i cittadini? Dal 2017, quando Giuseppe Bianchi scriveva questa riflessione, il problema non soltanto non ha avuto risposta ma sembra essersi acuito. Insomma, siamo in attesa più che mai di democrazia diffusa e partiti strutturati.

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C’è in giro una furia iconoclasta che non risparmia alcuna istituzione e chi la rappresenta. Un processo avvolgente che si è espanso a macchia d’olio. Ha progressivamente coinvolto le istituzioni della democrazia rappresentativa, la classe politica, i partiti, i sindacati, le istituzioni indipendenti di garanzia (per tutte la Banca d’Italia) l’alta burocrazia statale, per arrivare alle istituzioni locali che gestiscono i servizi di prossimità qualI scuole, trasporto, sanità. Riflesso di un disagio e di un senso di insicurezza che si esprime anche con lo sciopero elettorale da parte di molti che presumono di poter vivere meglio in una società senza politica, “impolitica”.
Presunzione errata perché da quando si sono costituite le società organizzate, il bisogno degli uomini di tessere relazioni sociali, di darsi libere regole di convivenza, ha portato alla nascita della politica e delle sue istituzioni quale condizione per risolvere problemi non risolvibili a livello individuale. E ciò non è meno vero oggi a fronte della constatazione che l’individualizzazione del conflitto, la guerra privata di tutti contro tutto, accresce la frustrazione dei cittadini ma non porta soluzioni.  Rimane la distinzione tra la buona e la cattiva politica, fra le istituzioni che funzionano e quelle che non funzionano.
Senza troppo assottigliare, i regimi politici sperimentati possono essere distinti fra regimi politici democratici e regimi politici autoritari e va anche detto che i regimi democratici sono stati nella storia un intervallo tra regimi autoritari, spesso camuffati sotto forme diverse, come oggi avviene con la democrazia del web.
Il problema è che la democrazia, nella sua forma pluralista, è difficile da gestire in società complesse ed articolate negli interessi espressi, con l’effetto di rendere tortuosi e lenti i processi decisionali della politica.
Da un lato ci sono sfide, quali la globalizzazione, la velocità delle nuove tecnologie, che aggravano i problemi sociali quali la disoccupazione, le ineguaglianze, dall’altro trovano limiti le tradizionali politiche socialdemocratiche basate su investimenti pubblici e welfare generosi. Questo perché il nostro Paese è entrato a far parte di una società politica più ampia, la UE (e non poteva essere diversamente) che ha offerto nuove opportunità, ma imposto nuovi vincoli.
In sintesi c’è un nodo di problemi irrisolti che pone la nostra democrazia in un bivio: o rilancia su sé stessa, ricostruendo ed allargando le sue istituzioni rappresentative, o si apre a nuove soluzioni autoritarie, largamente presenti nel mondo di oggi.
Ricostruire le istituzioni democratiche significa dire che le tradizionali istituzioni politiche rappresentative devono essere rafforzate con la diffusione di micro democrazie dal basso che allarghino la partecipazione dei cittadini nei luoghi di lavoro e nella gestione dei servizi di prossimità (scuole, trasporti, sanità) il cui funzionamento, più o meno efficiente, determina la qualità della loro vita. Si dice che il cittadino non è interessato: ma quale offerta di partecipazione gli è stata data? Non è forse vero che negli USA la democrazia sostiene la sua vitalità nell’amministrazione delle comunità locali?
Ricostruire le istituzioni democratiche significa anche far recuperare alla politica un sano realismo. Il gioco delle promesse elettorali al rialzo, se ripetuto nel tempo, sfiducia la partecipazione del cittadino ad un gioco palesemente truccato. Stiamo vivendo una stagione elettorale i cui esiti incerti alimentano preoccupazioni nel nostro Paese ed in Europa. C’è un dato nuovo. Il riallineamento di gran parte dei giornali e dei media su posizioni quasi massimalistiche. Un Corriere della Sera (11 novembre 2017) che parla di “crisi di regime”, di “vuoto di legittimazione che sta inghiottendo il sistema democratico”... Un messaggio ambiguo che può sollecitare il lettore all’impegno politico o al disimpegno a fronte di una situazione compromessa. Questa ambiguità non può essere condivisa dalle forze politiche, economiche e sociali, che hanno concorso alla costruzione dell’attuale sistema democratico. O diventano parte attiva nella sua necessaria ricostruzione, rafforzandone le fondamenta, o, quando si sveglieranno, troveranno una società politica in cui, per alcune di esse, non ci sarà più posto, o un posto di passiva rappresentanza.
                                                                                              
                                                                                                                                     (Giuseppe Bianchi)
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Società

NUOVA CLASSE DIRIGENTE PER UN MODELLO DI SOCIETA' PIU' UMANO: COME CAMBIARE LA FORMAZIUONE

E’ addirittura nel 2015 che Gianni Liazza scrive questa riflessione, facendo il punto sui pericoli del progressivo e preoccupante declino delle politiche formative nel nostro paese. Cinque anni dopo la riflessione di Liazza è uscito anche il mio libro di analisi e proposta (“Il sentiero stretto: formazione è un'altra cosa”), ma è da alcuni decenni che condividiamo, con lui e con tanti altri operatori sociali e studiosi dell’educazione, la medesima preoccupazione e i medesimi orientamenti di proposta. Dell’ampio scritto di Liazza pubblichiamo un significativo estratto che ne sintetizza spirito e contenuto.

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L’unico modo di uscire dalla crisi consiste nel cambiare il modo di fare formazione. Da troppi anni abbiamo inglobato acriticamente modelli anglosassoni, poco consoni alla nostra cultura e soprattutto alla nostra realtà imprenditoriale, fatta per lo più da piccole e medie imprese a carattere familiare. Ma lo stesso si può dire per le istituzioni e gli enti pubblici.  Dagli anni ‘80 ad oggi la formazione si è concentrata sull’acquisizione di tecniche e questo ha alienato le persone. Se facciamo dei bilanci, gli effetti sono nulli, se non addirittura devastanti. Le tecniche per fare cosa? Qualcuno ha mai insegnato ad un imprenditore o ad un manager ad essere più che a fare? Se non si torna alle origini e non si parte dalla ricerca autentica e creativa di sé, di ciò che vogliamo realizzare, apprendere una tecnica è solo tempo perso (e anche perdita di soldi…).
Occorre formare una generazione di nuovi imprenditori e manager saggi, solidali ed etici. Occorre ritornare all’essenziale: più alla sostanza e meno alla forma. Tutto questo per educare le persone alla libertà di essere se stesse e di amare sé, gli altri e l’ambiente che le circonda, quale premessa necessaria per innescare un cambiamento radicale del modello economico attuale, rendendolo più umano, liberandolo dalla subordinazione al profitto e magari riuscendo addirittura a renderlo socialmente responsabile e metterlo al servizio della comunità.
La strada è impervia, perché oggi la politica è arrivata a servire l’economia nella stessa maniera in cui i grandi paesi, gli industriali e le istituzioni commerciali o finanziarie si sono infiltrate o hanno subordinato i parlamenti e i governi. Non solo, le regole del gioco della nostra economia politica implicano ormai una subordinazione di ogni cosa a considerazioni meramente finanziarie, subordinazione che disumanizza e finisce per causare notevoli sofferenze. Il potere economico infine, attraverso le imprese a cui appartengono la maggioranza delle emittenti, ha reclutato i mezzi di comunicazione al servizio di una politica che serve all’economia e ai politici della nazione; eppure c’è uno spiraglio di luce: la speranza di un’iniziativa che parta dalle persone che ricoprono un ruolo di responsabilità e punti a sovvenzionare una riforma educativa di massa. Lo stesso vale per i sindacati, che dovrebbero rappresentare le vere istanze della gente ma oggi sembrano aver perso un contatto reale con la base.
Serve formare una nuova classe dirigente imprenditoriale, manageriale e politica.
Serve una riforma dell’educazione, i cui punti cardine devono essere il superamento dell’impronta patriarcale, delle azioni repressive volte a indurre l’essere umano a temprarsi per diventare una “macchina da guerra” in difesa o in offesa e dell’indottrinamento al conformismo nei confronti dell’ordine stabilito. Tutto questo perché se aspiriamo ad umanizzare le imprese, gli enti pubblici, la politica, le scuole, le istituzioni in genere, nulla sarà più rilevante quanto il progresso personale di coloro che le formano.
La crisi della civiltà, di cui oggi si parla, è, all’origine, una crisi della coscienza, che non può essere superata solo con il cambiamento politico ma richiede una trasformazione più profonda, interiore. Una nuova educazione che miri ad una formazione completa, che non si limiti ad un sapere nozionistico, ma fornisca competenze esistenziali in grado di migliorare il contatto e l’armonia con se stessi e gli altri, di sviluppare la creatività e l’intuizione, può essere il seme di luce, la spinta che favorisce il mutamento profondo di cui abbiamo bisogno. La coscienza che ha creato i problemi del mondo attuale non può essere la stessa che li risolve.
Il rapporto individuo–società, come recita uno dei principali assiomi della comunicazione, è circolare. L’individuo non può essere compreso fuori dal suo ambiente ma, a sua volta, il suo modo di percepire se stesso e la società contribuisce a creare, o meglio a dare forma al contesto che è in continuo movimento. La società è quindi un insieme dotato di senso ed è un organismo vivente che per sua natura si trasforma. Come la vita dell’individuo è segnata da situazioni di crisi, momenti traumatici e passaggi fondamentali, così avviene per la società nelle fasi di transizione da un’epoca ad un’altra. Nel nostro momento storico sembra esserci un’intensificazione di tale mutamento come se ci trovassimo a vivere tra due mondi: il mondo conosciuto che stiamo lasciando e quello sconosciuto verso cui tendere. Un cambiamento importante, o forse più una metamorfosi evolutiva, di rinascita, che segna il ritmo dell’ordito storico. Una fase di espansione della coscienza, di creazione, è seguita da una di contrazione, di ritiro, come nel battere e levare, nella inspirazione ed espirazione o nelle pulsazioni del cuore. In questo eterno ritmo vitale di ritiro ed espansione, nessuno è mai rinato prima di morire, prima di aver attraversato il vuoto (che i gestaltisti chiamano non a caso “vuoto fertile”) o, in senso ancora più profondo, quella che S. Giovanni della Croce chiama “la notte oscura dell’anima”. Riuscire a lasciar andare ciò che è diventato obsoleto e poter percepire, scoprire ciò di cui abbiamo realmente bisogno, sono le questioni di base da cui partire. Molti sono gli elementi obsoleti o che vorremmo di primo acchito lasciare indietro. Per esempio una politica delegittimata in cui personaggi scarsamente consapevoli non riescono a distinguere tra le proprie ambizioni personali o altre forme di nevrosi e la volontà di servire il bene pubblico.
Rappresentanti eletti così lontani che difficilmente possono rappresentare qualcuno, fosse anche sè medesimi. Anche l’idea di Nazione è ormai obsoleta da tempo. Il primo nazionalismo è parso positivo come modalità di unificazione dei popoli: tuttavia, la nazione di per sé è un noi che si distingue rispetto ad un essi. Una forma di amore di parte venuto meno con la presa di potere del mercato globale. E così è stato anche per l’idea di progresso legato ad una forma economica centrata sullo sfruttamento del pianeta. Ci si è resi conto, nella postmodernità, proprio con la questione ecologica, che non tutto ciò che possiamo fare è bene farlo, in quanto il rischio è di distruggere noi stessi.
 
La fine dell’idea di progresso ha generato un ulteriore vuoto di senso, molto profondo, ed un contemporaneo bisogno di trovarne uno nuovo. Tuttavia, per trovare l’origine del disagio e della crisi attuale è necessario andare più in profondità. Se si considera la società attuale come specchio di una situazione interna all’individuo, si scopre come da tempo sussista una condizione di dominio in cui una parte (l’ego) prevale sul tutto (il Sé). Viviamo in una dittatura interiore che si è accentuata in modo estremo nella modernità anche se al contempo si iniziano a cogliere i segni della sua messa in discussione. Sono piccoli segni che illuminano il buio, voci ancora troppo sottili che hanno a che vedere con la questione ecologica, il bisogno emergente di autenticità dell’individuo, la richiesta di risposte di senso, e di sacro, il ritorno ad apprezzare i valori del femminile come la solidarietà, l’accoglienza, il senso di comunità. Nonostante questi timidi segnali di speranza che caratterizzano il post moderno, attualmente siamo ancora come chi, pur possedendo una casa con molte stanze, ne abita solo una perdendo gran parte delle reali potenzialità della casa.
(…).
 La nostra società è sorta dal potere violento e dalla minaccia che oggi è incarnata dal denaro e dal potere commerciale. Si può ammazzare con decisioni economiche che hanno come conseguenza la morte di migliaia di persone. Morti che ormai sono solo dei numeri rilevati dalle statistiche. Si contano le vittime senza conoscerne il volto, senza la possibilità di riconoscere nell’altro il sestesso sofferente (Levinas). Abbiamo da secoli guardato il mondo e contemplato noi stessi dal punto di vista del razionalismo che dà attenzione ai dettagli, che misura, che segmenta, ma non permette di cogliere l’insieme, il contesto, il fenomeno che può essere rappresentato, percepito ma non capito intellettualmente. L’infinito non può essere pensato e chiuso in una scatola. Non essere capaci di cogliere “la forma” equivale a non essere capaci di comprendere ovvero di entrare in empatia, di sentire noi stessi, gli altri, il mondo di cui siamo parte. Senza empatia, che è una “distanza abitata” ovvero un movimento tra contatto ed osservazione, vicinanza e lontananza, non c’è conoscenza né valori e una vita senza valori diventa priva di senso. L’intelligenza intuitiva che comprende l’insieme, considera la coscienza individuale come matrice della realtà, dell’universo intero, per quella razionale la coscienza è come una secrezione del cervello che non serve.
 
Così la nostra società tende a porre un’enfasi su ciò che serve, soprattutto alla produzione e al consumo. Enfatizziamo ciò che è utile al mercato tralasciando ciò che ha valore e che è legato alla relazione, all’amore, all’essenza della persona umana. La nostra civiltà è quella dell’homo sapiens che idealizza la sua saggezza, anche se non ha tanta saggezza per capire che non è saggio. Idealizza tanto la saggezza che poi diventa, come dice Edgard Morin, homo demens, un incosciente attivo o un idiota che sa tutto e fa danni.
 
Cosa dobbiamo far entrare nelle nostre vite? E’ la domanda da cui deve partire una sana e responsabile formazione della classe politica oggi. Per riscoprire ciò che abbiamo smarrito e riempire questo vuoto siamo pronti a tutto, ma non sapendo bene dove cercarlo ci comportiamo come l’uomo descritto in uno dei più famosi racconti di Mullah Nasrudin: ”Una sera un amico lo vede mentre, carponi, cerca qualcosa sotto un lampione. “Cosa stai cercando?”, gli chiede. “La chiave di casa”. Così l’amico si china ad aiutarlo. Dopo diversi minuti di ricerca infruttuosa, gli domanda: “Nasrudin, sei sicuro di averla persa qui?” “No, l’ho persa dentro casa”. “Ma allora perché la stiamo cercando qui?” “Perché qui c’è più luce”. Cerchiamo nel luogo sbagliato perché in fondo non sappiamo bene cosa cercare e di cosa ci sentiamo vuoti.
 
L’essere di per sé è relazione, l’anima è ciò che genera relazione tra le parti sia a livello fisico che psichico e lo stesso vale per la società in quanto organismo vivente. A sua volta nessuno potrebbe vivere in virtù di se stesso ma solo all’interno di un contesto naturale ed in relazione con altri. Quindi, come dovrebbe cambiare la formazione? Una prospettiva educativa dovrebbe centrarsi maggiormente su abilità relazionali e personali dell’essere. Molte nozioni di per sé diventano presto obsolete, ma una persona completa, formata, sa essere resiliente rispetto ai cambiamenti della vita che oggi più che mai le vengono richiesti anche dal mondo del lavoro e da una società sempre più liquida e interculturale. Guardare alla persona, all’essere, in senso olistico. Significa educare alla conoscenza esperienziale della propria mente, fornire competenze relazionali e sociali, promuovere la libertà, la spontaneità e favorire la crescita spirituale e di senso coltivando i valori e l’etica (amore per ciò che è più grande di noi e di cui siamo parte, come afferma Viktor Frankl). In sostanza, si deve promuovere una formazione che permetta alla persona di diventare ciò che è seguendo l’imperativo “conosci te stesso”.
                                                                                                         
                                                                                                                           (Giambattista Liazza)
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Sindacalismo

VARIABILE INDIPENDENTE E' IL SINDACATO. MA I SINDACALISTI?

E’ del 2015, il pezzo qui pubblicato, che viene riprodotto per consentire a mestesso ed ai lettori il punto della situazione in materia di sindacato e in particolare di sindacalismo Cisl, a cinque anni da quando fu scritto. Devo subito dire che… avevo riposto male la mia speranza viva in un inizio di ripresa del pensiero alto e forte di quel sindacalismo. Annamaria Furlan ed i suoi amici non ce l’hanno fatta. Finora, almeno. Non nego certo la loro buona volontà e le loro buone intenzioni, ma mi paiono di nuovo piuttosto persi nella palude tatticistico-esistenziale di tutta la nostra società. Una speranza che viene delusa e ancora una volta rinviata. Speriamo che riprenda concretezza presto.
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Una felice sorpresa
 
Appena ho cominciato a leggerlo mi ha lasciato di stucco e felice, e per qualche momento anche incredulo, questo documento della Cisl intitolato Verso la Conferenza Programmatica Organizzativa, predisposto dalla grande confederazione sindacale di via Po per il suo più importante appuntamento interno dell’imminente autunno, e forse dell’intero anno.
 
In effetti, di primo acchito pare quasi incredibile: la Cisl, dopo oltre quarant’anni di storia, sta riuscendo a guardarsi davvero, almeno in sintesi e implicitamente, allo specchio profondo del suo passato, ed a farlo con parole e pensieri di una nitidezza non più vista da molto; sta riuscendo, in particolare, a guardarsi allo specchio implicito di quelle che furono la sua ragione originaria di nascita, la sua peculiare natura, la sua primigenia visione del lavoro e dei lavoratori; e, di conseguenza, sta riuscendo a riconoscersi nella missione ideale che ne motivò la fondazione, e che oggi sembra tornare a illuminarne anche il futuro possibile.
 
Quello che mi è stato fatto leggere è infatti un documento articolatissimo, di oltre quaranta pagine, dedicate ad analisi nella prima parte, e a programmi nella seconda: una carta di riflessione in cui – attraverso i contenuti di analisi organicamente affermati nelle pagine iniziali – la confederazione di via Po salta culturalmente a piè pari, appunto, oltre quarant’anni della sua storia più vicina: storia difficile da guardare in faccia, in quanto è stata in gran parte smarrita, in altra parte incoerente, quasi sempre superficiale, quasi mai all’altezza dei problemi; e riafferma piena consapevolezza e volontà di ritorno a quella sua originaria natura e missione, tuttora modernissime, con quei valori fondativi di riferimento che furono unici nella vicenda del sindacalismo italiano, e che nell’immediato dopoguerra lo cambiarono radicalmente, rendendolo non solo avanzato ma decisamente avveniristico.
 
E’ un evento importante da tenere sotto osservazione, dunque, questo documento, che rinforza decisamente piccoli e isolati segnali minori che nei tempi recenti lo hanno in qualche misura fatto presagire come possibile; è importante perché importante è la Cisl nel contesto del sindacalismo italiano, importante è il sindacalismo italiano nel contesto del mondo del lavoro e dell’economia italiana, e ben significativa è l’esperienza italiana nella prospettiva del lavoro e dell’economia mondiale.
 
L’inattesa carta cita giustamente, fin dall’inizio, il ventunesimo secolo e le sue tipiche tensioni e complessità, quali punto di riferimento doveroso per la riflessione sul ruolo che attende il sindacalismo italiano negli anni che sono davanti a noi, e lo fa non solo liberandosi da ingombranti pastoie passatiste inutili, ma adottando di nuovo il tipico e storico “metodo Cisl”: guardando cioè in faccia i lavoratori e il mondo del lavoro nella loro oggettività strutturale e nella loro persistenza etica, senza bende ideologiche, senza luoghi comuni, senza collateralismi partitici, senza contingentismi, senza sociologismi alla “università-di-Trento-anni-Sessanta” rivisitata: al contrario, con identità di nuovo inequivocabile e di nuovo fondata su una idea piana, chiara e duratura di uomo e di mondo del lavoro, concepiti come stabile comunità di persone a vocazione semplicemente integrale, liberi, democratici, pluralisti. Ed è davvero, questa, nella storia sindacale recente del nostro paese, una novità quasi incredibile, e una ripresa incoraggiante di maturità e ampiezza di riflessione.
 
Non che tutto quanto ha detto e fatto la Cisl negli ultimi quarant’anni sia robaccia da buttare via: qua e là sono balenati anche, come nel resto del sindacalismo italiano, atteggiamenti lucidi e adeguati, e scelte degne della grandezza delle origini; ma si è trattato proprio di singoli episodi stagionali, quasi lampi in un cielo generalmente bigio; e quasi “casuali”; comunque sempre contingenti e disarticolati a livello di sistema.
 
Nella realtà strutturale delle cose, dopo la incredibile distorsione, distruttiva e autodistruttiva, sviluppata a partire dal disgraziato 1969, la Cisl, come il resto del sindacalismo italiano, non ha avuto più né profondità, né continuità, né organicità, né coerenza; a partire da allora, cioè da un congresso confederale che fu ideologicamente ebbro, e forsennatamente giocato sul filo di due voti, o forse di tre, incerti fino alla fine e negoziati nottetempo fra i congressisti (c’è sempre una storia parallela che viene ignorata dagli atti ufficiali) la confederazione travolse, in una truce macumba mentale, quasi tutto quello che di originale e di grande aveva rappresentato fino allora, e, cambiando repentinamente sestessa e il sogno di Pastore, di Romani, di Saba, impose al sindacalismo italiano ed al paese, oltre che ai suoi lavoratori, tante bestialità da diventare parte direttamente corresponsabile della generale irresponsabilità e bassura che ha caratterizzato diffusamente la classe dirigente italiana nel citato quarantennio.
 
Bestialità concepite e diffuse prevalentemente in buona fede, è vero, sotto la guida di Storti, Carniti, e innumeri compagni e successori di ogni livello e regione: ma che sono state pur sempre del tutto cancerogene per l’economia e per il lavoro in Italia; dal salario variabile indipendente al potere contro potere, autentiche assurdità senza tempo contro cui né buon senso né senso di responsabilità hanno potuto nulla, per tanti anni.
 
Dopo una storia inadeguata
 
Nel momento in cui un così enorme stravolgimento, come risultato congressuale, si rivelò in tutta la sua distruttiva portata davanti agli occhi attoniti del paese e dei lavoratori che avevano conosciuto la Cisl delle origini, il grande Mario Romani, padre culturale della Confederazione come Pastore ne era stato il padre politico, informato di tale esito mormorò con malinconia: Questa non è più la Cisl.
 
E in effetti, da allora la grande Cisl delle origini, con la sua fresca e ineguagliabile novità di messaggio sociale e lavorista, e con la sua integralità di cammino, cessò quasi di esistere, se non in singoli isolati momenti e uomini. La testimonianza della espressione lucida e amareggiata di Mario Romani è, moralmente e storiograficamente, la più autorevole possibile: è quella di Vincenzo Saba, che con Romani, Pastore, e gli altri liders, aveva vissuto momento per momento tutta la esperienza confederale fino allora, e non aveva mai mancato di continuare a dialogare con tutti i suoi protagonisti, anche quelli che andavano perdendosi nella notte folle di un sessantottismo privo di luce e di guida; e non mancò mai, neanche successivamente, di riconoscere in tanti sindacalisti di allora il nocciolo di una buona fede, anche se  sbalorditivamente smarritasi in tanto ubriacante sballo e superficialismo ideologico che percorreva quasi tutto l’Occidente. Certo in buona fede erano i Luigi Macario, il giovane Morelli, lo stesso Carniti e moltissimi altri: ma il precipizio era diventato oggettivo e comune.
 
Da allora, in concreto, e guardando alla storia del paese nella sua complessività, la Confederazione si è trascinata a scatti, stizzosamente e bizzosamente, nelle vicende lavoriste italiane, guidata da tutti i vizi e da tutte le scipitaggini comuni al resto della società e della classe dirigente del paese lungo gli stessi decenni: a partire, per fare un solo esempio ma ben presente ai quadri ed ai lavoratori, dalla bislacca, devastante pretesa interna di imporre dall’alto a tutti gli iscritti, senza sostanziale democrazia, la forma associativa delle “federazioni accorpate per settori” secondo astruse concezioni elucubrate a tavolino per ragioni tattiche (caso tipico, quella che puntava a unificare i lavoratori elettrici, nientedimeno, con i lavoratori… delle ceramiche, della chimica e di altri comparti ancora più lontani da qualsiasi comunanza storica e merceologica con il mondo elettrico, “per mettere gli elettrici in condizioni di non nuocere nella dialettica interna”, come bofonchiò, senza giri di parole, un uomo vicinissimo all’allora lider Pierre Carniti).
 
Un tentativo di basso e volgare dirigismo anticislino che ha portato inevitabilmente frutti sostanzialmente fallimentari ed è stato in effetti, successivamente, in significativa parte rivisto e variamente ricorretto. Ma intanto ha seminato frutti profondamente diseducativi sul piano della cultura interna.
 
La bislacca pretesa interna era derivata da una mentalità ormai senza grande orizzonte neanche morale,  e trovava perciò bilancio speculare in altrettali vuotaggini esterne a crescente frequenza, a cominciare da quella dei permanenti o semipermanenti “tavoli delle trattative” o della “concertazione”, formali o non formali che fossero, tanto mediaticamente autocelebrativi quanto sostanzialmente improduttivi, culminanti in qualche caramellina salariale e in un crescente accumularsi di curriculum di amici e familiari sui tavoli delle dirigenze aziendali, al prezzo di vistosi arretramenti di ruolo sostanziale del mondo del  lavoro, e del totale fallimento di quello che era stato il sogno della Cisl delle origini: la partecipazione dei lavoratori nell’impresa, cioè l’impresa come comunità partecipativa, e il diritto al lavoro come diritto non programmatico ma precettivo.
 
A questo furfanteggio interno avviato con il 1969, e sviluppato fino circa alla metà degli anni 1980, cominciò a far seguito, gradualmente, una lenta, impacciata, confusa, claudicante, e mai concludente, presa d’atto del fallimento inesorabile di tali drammatiche scemenze; una presa d’atto avvenuta con scatti improvvisi di resipiscente dubbio e lucidità, qua e là, di buona volontà, e anche di orgoglio saltuariamente ritrovato sulla missione originaria: ma senza più qualità né anima profonda ed organica; infatti nel frattempo la Cisl aveva anche, semplicemente, smesso di studiare e di fare formazione (come del resto accadeva contemporaneamente a tutte le grandi organizzazioni politiche, sociali, ed anche imprenditoriali, e persino religiose, nel paese, salve le eccezioni personali). Contava ormai la sociologia di Trento e poche altre cianfrusaglie senza senso ma di grande sciccheria salottiera: un mondo di culturismo e non più di cultura. Un mondo di lauree e di masters, non più di studio. Con conseguenti effetti sul paese.
 
Parliamo di studiare e formarsi davvero, proprio nel senso impegnativo, serio, onesto, e doverosamente terragno di incollare strutturalmente le natiche ad altrettante sedie e studiare senza soluzione di continuità su libri e relativi approfondimenti, e verifiche sul campo, ed esercitazioni, e confronto di esperienze, e affiancamento agli anziani migliori: e fare tutto ciò a tempo indeterminato, in vera “formazione permanente”, fino a che si è sulla scena delle responsabilità sindacali. Perché è così che si connota il vero “sindacalista che funziona”. Ed è così che, in effetti, operarono i padri.
 
La Confederazione ha mandato invece i suoi quadri sempre più, con atteggiamento soddisfatto e beota, a laurearsi in quei postriboli della cultura che sono le università più o meno rinomate, e spesso rinomatissime, nazionali ed estere, possibilmente arricchite di quei master anglofonizzanti pieni delle tronfie baggianate che hanno rovinato, lungo il corso degli stessi anni, l’economia e la società italiana e mondiale, sfociando infine i loro risultati ultimi nella infame crisi del 2007. Fatte sempre le dignitose eccezioni personali, ancora una volta.
 
Sorgeranno indignati, a questo punto, sindacalisti grandi e piccoli della confederazione, orizzontali e verticali, e tanti loro veri e falsi amici, diversamente interessati, a respingere offesi queste osservazioni ricavate dalla semplice, palese e sofferta vita di ogni giorno: dai, Giuseppe, non esagerare…
 
Ma, cari amici veri della Cisl, andate a osservare, con doverosa serenità e umiltà, anche i concreti tenori di vita, le garantite sicurezze di carriera, i tranquillizzanti distacchi aziendali, le serene famiglie sistemate, le studiate frequentazioni televisive, il personale restar fuori da ogni crisi, i pasticci giudiziari di enti di emanazione sindacale per fatti di banale corruzione, il girare attorno alle frasi consunte dei fallimentari economisti di grido, nel tentativo di accreditarsi operando dei distinguo senza mai affrontare la sfida realmente costosa e strutturale e vera dei lavoratori…
 
E andate a fare il paragone con i tenori di vita dei loro padri sindacali, con i loro rischi, con le loro amarezze, con la loro condivisione, passo passo, di vita e rischi e faticosi successi dei lavoratori stessi, con la concretezza tangibile e poco accademica delle loro acquisizioni contrattuali e culturali, con i rientri a casa sotto minaccia, con i pasti condivisi fra gli operai a mensa aziendale… come fu per i Pasquino Porcu e Dante Bizzaro e mille altri, che, “orizzontali” o “verticali”, segretari generali o attivisti di sas che fossero, sempre lavoratori ed esempi di vita per i lavoratori sentivano di essere, non commentatori televisivi in attesa di successo.
 
Perché, cari amici, alla fine di tutti i conti, è pur sempre la vita personale ed esistenziale e quotidiana di ciascuno, che conta e testimonia davvero. Ed è su di essa, innanzitutto e soprattutto, che davvero possono formarsi le nuove generazioni.
 
Non è, insomma, l’insieme di tante lente trasformazioni del piccolo quotidiano costume sindacale, qui segnalato, un pretesto per rilevare il rischio di un pizzico di “moralismo” in noi che ce ne addoloriamo: è invece la considerazione che, nella storia plurimillenaria degli uomini, a tutte le latitudini, i cambiamenti interni delle società avvengono tendenzialmente proprio così: un po’ come accadde per la lenta e quasi inconcepibile consunzione dell’impero romano, a suo tempo… E del resto ciò vale anche per le conquiste positive.
 
 
La grande ripresa possibile
 
Infine, pur fra tanta confusione e ambiguità amareggiante, negli anni recenti la Cisl è venuta cominciando gradualmente, come si accennava, anche a mettersi su una sua via di Damasco: e ne sia data ampia e gioiosa lode alla onestà e buona volontà di diversi suoi uomini e donne, che non hanno mai cessato di vivere con una coscienza sanamente inquieta fra tante incongruenze, e di continuare a “cercare di nuovo la via”, anche alla luce di quegli antichi maestri più grandi.
 
Tanto che oggi accade, appunto, il piccolo miracolo che può essere prodromo del miracolo grande: questo documento della Cisl, che, a chi sappia guardare lungo, sintetizza bene, forse addirittura senza rendersene conto esso stesso in tutti i particolari, il travaglio ed il senso di fondo del cammino complessivo, e può essere visto veramente come la aperta, lucida, complessiva, finalmente non ambigua confessione di una Confederazione che riconosce di dover ritrovare sestessa in pienezza, e di volerlo fare senza indugi, pronta a riagganciare la potente scia che fu delle origini: il cammino di un grande soggetto nazionale collettivo dedicato totalmente alla promozione solidale della persona che lavora, ma con il metodo associativo e democratico e con l’obiettivo ideale di una impresa partecipativa e di una società fondata su equità corresponsabile. Un esempio di nuovo umanesimo, per essere completamente fedeli alla speranza e alla testimonianza dichiarata dei padri.
 
Nessuna segreteria confederale, in questo più che quarantennio, aveva mai saputo fare un passo tanto  coraggioso e così implicitamente organico, a parte la cauta e tattica annunciazione permanente datane, con circospetti e misurati passetti e passettini in tal senso, da Franco Marini, che in realtà aveva capito benissimo fin dall’inizio la sostanza della situazione storica, e la testimonianza sincera ma quasi isolata di Savino Pezzotta, un vero sindacalista cislino: quella annunciata dalla prima parte del documento firmato ora da Annamaria Furlan per l’assemblea organizzativa 2015 è invece, finalmente, di nuovo la prospettiva possibile della Cisl di Pastore, di Romani, di Saba, modernissima e pienamente adeguata alla realtà che il paese e i lavoratori vivono, in questo ventunesimo secolo ormai galoppante ed esigente nuova maturità vera e nuova corresponsabilità non accademica del mondo del lavoro e sindacale.
 
Non so chi abbia contribuito alla stesura del documento, né l’ho chiesto: ma certo si tratta di persone dotate di meditativa consapevolezza, ben indirizzate e sorrette dalla segreteria confederale di Annamaria Furlan (che personalmente non conosco): una lider capace dunque di indirizzare cammini di rinnovamento, o quantomeno di sostenerli, anche se a volte ella stessa appaia ancora indecisa se abbandonare del tutto l’antica e deleteria abitudine acquisita in questi decenni da un sindacalismo confederale gratificato dal suo sedere in permanenza, in palese goduria anche personale, davanti ai gradevoli schermi tv, a dare al governo ed a tutti lezioncine di economia non richieste e non utili, mentre la propria organizzazione svolge inadeguatamente il suo mestiere: ma, tutto sommato ed in sostanza, avendo pur sempre, ormai, chiara la forte visione autocritica necessaria e la volontà di rinnovamento annunciata.
 
Il documento parla dunque, in tutta la sua prima parte, di bellissime cose: e soprattutto traccia una analisi onesta, chiara ed attenta, delle incertezze e contraddizioni anche sindacali e cisline della lungasituazione di guado”, di cui urge affrontare i termini e superare i limiti senza più scarichi di responsabilità, concludendo alla necessità della ripresa franca dell’antico cammino verso l’obiettivo dell’impresa corresponsabile, partecipativa e solidale.
 
Ed è atteggiamento centrale e decisivo, questo, in quanto la piena riassunzione di coscienza è il primo pilastro di ogni ricostruzione; e, nel caso specifico, è il primo elemento di credibilità della riassunzione di missione annunciata dalla Cisl.
 
 
Ma c’e’ anche una seconda parte
 
 
La seconda parte del documento, invece, diventa improvvisamente cosa molto diversa: con la medesima buona volontà espressa nella prima, essa scade subito di qualità nella parte attuativa e torna a perdersi nel meandro disgraziato dei disegnini tecnici elucubrati a tavolino per la desiderata “modernizzazione anche operativa” del sistema confederale, quella che dovrebbe cioè servire al disegno politico ed etico espresso nella prima parte del documento; mentre in realtà lo sterilizza.
 
E’ una mancata “sapienza attuativa” che dice tutto della fatica del cammino coraggiosamente intrapreso: ma va aggiunto che, se la volontà espressa nella prima parte del documento sarà dotata di coerenza e costanza di impegno, vi sono i connotati perché il cammino possa proseguire fortemente anche nella dimensione attuativa.
 
Come si configura, più particolarmente, il limite della seconda parte del documento?
 
Il disegno operativo immaginato sterilizza il respiro politico e organizzativo della prima parte del progetto puntualizzando innanzitutto, con una meticolosità da ragionieri adusi solo alla scrivania e non al dramma dei luoghi di lavoro, il modo e il numero con il quale si comporranno tutte le segreterie territoriali e verticali della Cisl, il modo e il numero con il quale esattamente entreranno negli organismi della Cisl i rappresentanti degli immigrati e dei lavoratori “atipici”, il modo e il numero con il quale verrà assicurata la parità di genere (resiste ancora questa idiota e abusiva decrepitezza di concetto, al posto della limpida “cultura della persona” che era propria della Cisl, e anzi dei costituenti italiani quasi tutti…) negli organismi Cisl, quante volte alla settimana o all’anno si riuniranno gli stessi organismi, come il territorio dovrà essere suddiviso… e insomma tutto quello stagno oleoso e putrefacente di minchiatine tecnicistiche che fanno la goduria dei ragionieri sociali dimentichi totalmente dell’essenziale e dominati da abitudini che sono fissazioni personali, o, peggio, distillato di qualche costoso e sciocco master nordamericano, regolarmente anglofonico e convinto che la ragioneria tecnica di breve periodo salvi il mondo, esattamente come a Bildeberg sono convinti che la speculazione finanziaria salvi l’economia planetaria.
 
Non sono gli “schemini di breve” a far crescere l’organizzazione, bensì la cultura organizzativa! E questa si forma… con la profondissima ripresa della formazione! Dalla quale, e soltanto dalla quale, scaturiranno anche gli schemi efficacemente operativi per un sindacato di nuovo grande in mezzo ai lavoratori, a sostituire gli attuali esercizietti da parole crociate.
 
Tanto semplicismo culturale è ancor meglio mascherato in quanto… vuoi mettere? Si tratta, ancora una volta, di cose sentite, scritte e viste in inglese nei balordi salotti scolastico-manageriali, per i quali è così chic pronunciarle in tv e nei convegni… Solo a poter dire a voce alta davanti a un uditorio parole come skills oppure as-is-to-be oppure empowerment, la commozione porta a volte questi sindacalisti fino alle lacrime, e solo allora si sentono davvero all’altezza della situazione e abbraccerebbero commossi anche le controparti aziendali, inondati da un sentimento di deliquio per tanto work management e return on investments e cento non meno eteree cazzate, apprese all’università o da essa mutuate: gabbati, con i lavoratori,  ma… arrivati e gratificati, infine.  Vivono di questo.
 
Nel caso della Cisl, in fondo, non c’è vera malizia: tanti suoi quadri sono semplicemente cresciuti come adolescenti innocenti e un po’ vanitosi, perciò a tratti inevitabilmente tonterelli, nel vuoto di processi di formazione ormai a tenuissima sostanza: ad essi il trastullo del disegnino dà appagamento pieno, esattamente come per tanti tifosi della Roma è l’immagine di Totti appesa in camera da letto. Sindacalisti che hanno da troppo tempo, appunto, smesso di studiare e di fare formazione. Hanno fatto l’università ma hanno letto troppi libri e poche rughe, come dice un personaggio della cultura italiana  attuale. Si sono troppo preoccupati di laurearsi e poco di studiare. Hanno riempito la loro mente di formule e svuotato la loro anima di ideali. Hanno cessato di parlare in corretto italiano per non essere obbligati a pensare con corretta logica, e hanno imparato a parlare in inglese per sentirsi accettati nei salotti mentalmente borghesi, dove il dio che conta non è il nostro Dio degli uomini ma un dio che odora di denaro, successo  e riconoscimenti sociali.
 
Però, ripetiamo, potranno fare il loro magnifico cammino di recupero, se la riflessione e la volontà della prima parte del documento offerto a loro ed a tutti noi dalla confederazione è sincera e forte, come mi è sembrato.
 
E un problema di chiarezza
 
Senonchè, mentre scrivo queste note e mi ringalluzzisco nel sogno di una Cisl, e dunque di un sindacalismo italiano, che torni a essere una speranza strutturale per i lavoratori e per l’Italia, mi giunge anche, altrettanto improvvisa, la  notizia rattristante di uno scandalo di dirigenti Cisl i quali, in lunghi anni di poco lavoro e di molta carriera (di servizio ai lavoratori, essi dicono; di servizio a se stessi, altri dicono) hanno largamente approfittato, a quanto sembra, del loro ruolo di angeli sociali per cumulare, anche personalmente, redditi di diversi e contestuali incarichi “al servizio della collettività” (essi dicono, ancora una volta): patronato, centri di assistenza fiscale, istituti di formazione professionale, enti di turismo, rappresentanze istituzionali, e simili. Hanno adottato cioè il vecchissimo trucco di tutti i mediocri e di tutti i corrotti di ogni tempo: politici o sindacalisti o dirigenti d’azienda o alti burocrati o “trombati di lusso” e furbi di ogni settore, che siano.
 
Chi mi dà la notizia ha quasi le lacrime agli occhi per uno spettacolo semplice, e in verità agghiacciante: che la stessa confederazione, e gli ambienti sindacali in generale, invece che semplicemente prendere tempestivo, sereno e pubblico atto della relativa denuncia, e renderne essi stessi edotti i propri lavoratori e la pubblica opinione, e assumere i provvedimenti conseguenti del caso (non c’è nulla di che scandalizzarsi: ogni organizzazione è fatta di uomini e ogni uomo può cadere in tentazione: persino il papa ha fatto arrestare e incarcerare un monsignore pedofilo all’interno del Vaticano) si preoccupa, invece, di mettere le mani avanti e rassicurare la opinione pubblica che “si tratta di mosche bianche, il sindacato è pulito…”.
 
Ahi ahi, ancora la vecchia malattia… Ma che ci importa mai che il sindacato sia pulito? Ci mancherebbe che “il sindacato” fosse sporco!?! Sarebbe come dire che la politica è sporca: ma non è affatto sporca, la politica, sporchi sono invece i moltissimi politici corrotti o parassiti; la politica è, al contrario, servizio del prossimo e carità comunitaria, come insegnava Paolo VI. Immaginate oggi Papa Francesco che, con il suo sorriso bonario, si affacciasse al balcone di piazza San Pietro e, invece che provvedere a risolvere i casi concreti accennati, spiegasse ai cristiani del mondo che… “si tratta solo di qualche monsignore sbagliato, la Chiesa è pulita…”. Ci mancherebbe che la Chiesa fosse sporca!?!...
 
Giulio Pastore si trovò ad affrontare qualche caso relativamente simile, nella Cisl, già ai suoi tempi: e… quei sindacalisti si trovarono fuori della Cisl in poche settimane, anche se Pastore sapeva benissimo che, nel caso specifico più noto, un tale provvedimento avrebbe portato la Cisl a giocarsi gran parte della sua presenza nella più grande azienda automobilistica del paese. Se la giocò. Ma la Cisl restò grande e credibile. Oggi, con questi comportamenti diversi, non lo è più.
 
Ci importa in effetti ben altro: e cioè che di fronte a un accadimento, isolato o non isolato che sia, il quale tradisce ideali e norme, e tradisce le promesse fatte solennemente ai lavoratori ed al paese, l’organizzazione custode di ideali, norme e promesse, intervenga con serenità e pubblicamente, faccia giustizia con equità, e riprenda il suo cammino con credibilità: perché tale è il cammino delle organizzazioni guidate da ideali credibili e da responsabili onesti. Il resto, a cominciare dal mettere le mani avanti, è figlio del nascondimento, dell’incoerenza, della menzogna, del profitto usurpatore, della non credibilità, e soprattutto della manipolazione.
 
Ho sentito riecheggiare, in un improvvido sindacalista negatore del problema, la stupida affermazione che… “chi attacca un sindacalista della Cisl attacca la Cisl”. No, fratello mio: chi attacca un sindacalista della Cisl attacca semplicemente quel sindacalista della Cisl, e niente affatto la Cisl: anzi, probabilmente egli sta difendendo la Cisl da un suo cancro interno, che la sta rodendo, sfigurando e uccidendo. Non nasconderti dietro la Cisl per tradire la Cisl, fratello mio della Cisl!
 
E, fratello mio della Cisl (ma, in questo caso, anche della Cgil tutte le volte che è il caso) torna con forza a pensare con un pensiero elevato e compiuto, se non vuoi fare il male di te stesso, del sindacato, dei lavoratori e del paese insieme: non esiste affatto neanche un “diritto a riunirsi”, stupidone dirigente sindacale dei servizi turistici del Colosseo: sarebbe come dire che “esiste un diritto a votare” e ne volessi cavare la conseguenza che puoi  recarti a Montecitorio e decidere che lì voti, impedendo il normale svolgimento delle funzioni di quella istituzione: che è di tutti, non tua; il “diritto a riunirsi”, come il “diritto a votare”, e tutti gli altri diritti, vivono non solo dentro il contesto dei correlativi doveri ma anche dentro il contesto del “bene comune” e di tutti e singoli i “beni comuni” (che sono proprio di tutti, ma davvero di tutti, e niente affatto tuoi, anche se ne hai la custodia!).
 
La quale Cisl, per tornare al documento importantissimo in vista della sua prossima assemblea organizzativa, e in particolare all’analisi e alle prospettive annunciate nella sua prima parte, ha comunque appena cominciato, lo ribadiamo, il suo promettente, e, ci sembra, sincero, cammino di rinnovamento: questo resta, e noi le auguriamo di saperlo sviluppare con forza quotidiana e con lucidità di ideali testimoniati ogni giorno anche a livello dei singoli sindacalisti, senza troppi comunicati stampa, senza troppa ragioneria burocratica, senza troppe mani avanti, e senza troppe excusationes non petitae; altrimenti non giungerebbe alla meta ma continuerebbe a fare del male ai lavoratori ed al paese. E non vale davvero la pena che ciò accada.
 
Nello stesso tempo, nessun altro sindacato, né alcun’altra organizzazione del sociale o della politica, oggi, in Italia, possono ritenersi in diritto di guardare con sufficienza all’impegnativo guado cislino: essi sono esattamente nella stessa situazione sostanziale, anzi, nella maggior parte dei casi, sono un po’ peggio. E’ tempo che anch’essi riassumano le loro responsabilità e i loro ideali, insieme con l’esempio dei padri migliori, che in gran parte alle origini illuminarono anche loro: e si decidano a riprendere la via. E lo decidiamo tutti. Per il bene comune.
 
                                                                                                                                      (Giuseppe Ecca)
 
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Democrazia Comunitaria

SCUOLA: NON DIDATTICA A DISTANZA MA PRESENZA DISTANZIATA

Si susseguono i dpcm, strumento leggero per mentalità e impostazioni non profonde. Non inseguiremo l’ultimo in ordine di tempo, appena emanato, in ogni sua giravolta, a cominciare da quella che stabilisce confini regionali per un virus che cammina su frontiere ben più articolate; ma responsabilmente cercheremo di approfondire via via, con critica costruttiva e propositiva, le tematiche toccate da questo tipo di provvedimenti e dalle politiche normative in generale, meritevoli di attenzione e gestione meno superficiali. Per aiutare una maggiore responsabilizzazione concreta di tutti. Cominciamo con la scuola, e con chiarezza.
La “didattica a distanza” non è una didattica efficace, anzi, come didattica che sostituisce la normale presenza a scuola, è pessima. Questa constatazione è tanto più incontrovertibile quanto più l’età degli studenti è bassa. Nei bambini delle elementari la sua efficacia è quasi nulla e ampiamente aleatoria, nei ragazzi del liceo è scarsa ed in ogni caso, per tutti, è discriminatrice perché legata alla disponibilità di attrezzatture, di logistiche familiari e di capacità tecniche, per le quali non c’è stata alcuna preparazione significativa di lunga ed equa gittata negli anni scorsi.
Se poi, invece che di didattica, parliamo di pedagogia, che è il termine più appropriato per affrontare il tema della scuola, la situazione è ancora peggiore: a distanza non si fa pedagogia, per i ragazzi della scuola: la “pedagogia a distanza” non funziona se non per singole evenienze di brevissima portata e durata (un giorno, o al massimo una settimana).
Nello stesso tempo, sospendere la scuola è la peggiore cosa che si possa fare, subito dopo la pessima fra tutte, che è sospendere il lavoro. Come chiudere la vita, come chiudere il paese.
Allora? Allora il lavoro e la scuola vanno tenuti aperti. Ma come si fa? Oggi ci limitiamo a tornare sul tema della scuola (da anni, e ben prima della presente pandemia, andiamo trattando anche di come si fa a non chiudere il lavoro: e riprenderemo presto l’argomento). Come si fa, dunque, a non chiudere la scuola? I “banchi con le rotelle” sono l’emblema della scipitaggine estrema cui la mente priva di esperienza ma ricca di saccenza, priva di cultura ma ricca di superficialità, giunge ormai fra i politici anche più titolati (ma non solo fra i politici). E’ ovvio che non è affatto questa brillantezza superficiale di idee che consente di affrontare la serissima problematica della scuola (a parte la considerazione di costi, sprechi e affari non trasparenti collegati con simili ideuzze).
La scuola va tenuta aperta, dunque; ma perché funzioni bene senza cadere preda del carognavirus, l’orario di ingresso va scaglionato per singole classi e dunque l’orario complessivo di apertura della scuola va allungato; l’orario di presenza della singola classe va ridotto a non oltre due ore (più che adeguate per ogni didattica e per ogni pedagogia anche in tempi ordinari); ogni gruppo classe va a sua volta affidato a un solo insegnante che accompagna i ragazzi nello studio di tutte le materie; e ogni gruppo classe, specialmente nelle classi inferiori, data la istintiva e difficilmente controllabile spinta dei piccoli a non tener conto del necessario distanziamento fisico (fisico, balordini di politici e giornalisti che siete: fisico, non sociale!!), ogni gruppo, dicevo, va ulteriormente diviso non soltanto in sottogruppi più piccoli e controllabili, anche soltanto di cinque o sei persone, ma se occorre anche in tanti individui singoli per altrettanti incontri personalizzati di docenza: dentro la scuola, però, non a casa!
Ed è del tutto inaccettabile che si obietti sulla non preparazione degli insegnanti a guidare un ragazzo in tutte le materie: come si potrà pretendere infatti che il ragazzo diventi sufficientemente bravo in tutte le materie dando per scontato che il medesimo obiettivo è proibitivo per l’insegnante?! Ogni insegnante è particolarmente bravo in una materia ma è sufficientemente bravo in tutte, tanto quanto basti ad essere guida dei ragazzi per questo obiettivo: per definizione, altrimenti non è un insegnante!  
E naturalmente un simile adeguamento della organizzazione pedagogica e didattica esige che gli insegnanti si coordinino fra loro sui singoli ragazzi, e conseguentemente che il capo di istituto (preside o direttore didattico) sia effettivamente un “capo” di istituto, cioè un responsabile che curi effettivamente coordinamento e aggiornamento permanente dei docenti; ed esige che i livelli superiori di regione e di ministero sostengano tutto questo lavoro (sostengano, e smettano di sfornare circolari con la frequenza e la mentalità dei dpcm!). 
La realtà si affronta allontanandocisi il meno possibile da essa e governandola per quello che è, non travisandola e creando realtà diverse.  Solo in questo modo si può avere un anno scolastico eccezionale per difficoltà ma tutto sommato di normale efficacia, e forse anche di accresciuta efficacia formativa sulla coscienza dei ragazzi. Che è obiettivo essenziale, altrimenti si rischia di perdere un anno di formazione per una intera generazione e per il paese, con danni gravi e in qualche misura anche irreparabili. Non è lecito, con la scuola, giocare a rimpiattino né politico né professionale.
                                                                                                         
                                                                                                                                   (Giuseppe Ecca)
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Democrazia Comunitaria

UN DPCM DISTANTE DALLA REALTA'

Pubblichiamo l'ultima nota di DemocraziaComunitaria, rilasciata a immediato ridosso del più recente decreto del presidente del consiglio dei ministri in materia di covid. Nota nettamente critica, che riteniamo utile pubblicare in quanto gli accadimenti reattivi a tale dpcm confermano, con le manifestazioni vandaliche di protesta in corso in diverse città, e nello stesso tempo con le civilissime proteste di cittadini e operatori irrazionalmente impediti di lavorare, il carattere preoccupantemente astratto e inesperto anche di tale provvedimento, e la sostanziale assenza di un reale dibatitto parlamentare su tutta la tematica della lotta antipandemica: suggerendo una riflessione su come riprendere un più misurato e realistico modo di concepire la gestione del paese e il relativo potere normativo.


La chiusura di ristoranti, teatri e altre categorie di pubblici esercizi alle ore 18, denota nel governo buone intenzioni unite a lontananza palese e pericolosa dalla realtà concreta della vita economica e sociale: il provvedimento del governo avrebbe dovuto andare, caso mai, esattamente nella direzione opposta: allungare l’orario di chiusura possibile di tali esercizi, vincolando semplicemente i locali ad apporre ben in vista la loro scelta di orario e obbligandoli al distanziamento ed alla igienizzazione puntuale di clienti, personale e locali stessi. Perché è così che l’economia vive e il sacrifico comprensibile chiesto a tutti è solo quello di… lavorare più a lungo, se lo vogliono, per compensare la maggiore distensione di tempo e di persone degli utenti e dei collaboratori.
I sostegni economici in termini di elargizione di soldi pubblici, a loro volta, devono essere riservati alle aziende che adottano contratti di solidarietà o di compartecipazione ai risultati. Altrimenti si ha una semplice (e spesso politicamente clientelare) azione di sostegno parziale e aleatorio a una sopravvivenza grama e deprofessionalizzata senza alcun consolidamento strutturale né difesa della economia complessiva.
In una situazione che tende ad aggravarsi è giusto anche chiedere alle nostre forze armate di svolgere ordinarie funzioni di polizia in affiancamento alla insufficiente presenza di carabinieri, polizia di Stato e polizie locali, che si sta traducendo in deficit di controlli sugli assembramenti e sulle altre violazioni delle norme di sicurezza collettiva. Gli assembramenti infatti stanno continuando e con essi continua la irresponsabilità di tanti giovani ma anche di tanti genitori e operatori di diverse realtà sociali. Le imprese e le persone colte in reato di non osservanza delle norme di distanziamento e igienizzazione vanno semplicemente (soltanto esse) assoggettate alla sanzione della chiusura immediata, con durata di progressiva gravità, o della clausura personale stretta.
Anche la scuola può e deve essere organizzata in efficace distanziamento fisico, che non significa affatto didattica a distanza. A parte la sintomatica incongruenza del parlare di didattica a distanza mentre il concetto giusto è quello di “pedagogia a distanza” o “scuola a distanza” (improprietà linguistica che la dice lunga sulla confusione mentale circa la funzione della scuola, diventata nozionificio e titolificio incapace di educare), la non equiparabilità della scuola a distanza con la scuola in presenza è chiara a chiunque nella scuola abbia vissuto. Il problema si risolve aggiungendo al ragionevole e controllato distanziamento fisico dei ragazzi fra loro, lo scaglionamento dell’entrata delle singole classi lungo la giornata, tenendo conto di due elementi essenziali per la rivitalizzazione anche pedagogica dell’attività scolastica: 1. l’incontro in presenza non ha alcun motivo né pedagogico né didattico di durare oltre le due o al massimo le tre ore, il che fa guadagnare appunto la possibilità di tenere scuola in presenza per più classi distanziate; 2. va reintrodotta gradualmente la figura del docente unico per ogni gruppo-classe, affiancato dove possibile da un assistente o tutor che è anche naturale supplente quando occorra. Necessita infatti una figura univoca e unitaria di educatore per i ragazzi e per il gruppo, non l’affastellamento di diverse figure spesso di fatto educativamente incoerenti fra loro. I docenti, bravi ciascuno nella sua (o nelle sue) materie particolari, è bene che riapprendano l’antica capacità e umiltà di essere sagaci ed educativi accompagnatori dello studente in tutte le altre materie. Altrimenti non sono educatori.
I provvedimenti di chiusura pura e semplice di attività economiche decisi dall’ultimo dpcm, in sintesi,  suonano come arbitrii, oltre che dannosi all’economia, ingiusti se si pensa che vengono indiscriminatamente castigati anche  i migliori operatori, cioè quelli che per ingegno o moralità riescono a far funzionare correttamente attività esposte all’assembramento. Si castigano i bravi e non si controllano gli irresponsabili! E rischia così di crescere quella che all’inizio della pandemia medica, diversi mesi orsono, chiamavamo “la pandemia più rischiosa: quella economica e sociale”. Ogni giorno è buono per tornare a imboccare la via del buon senso e della giustizia, se davvero lo si vuole.
                                                                                                                                             
                                                                                                                                                      (Giuseppe Ecca)

                                                                                                       
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Comunicazione

SE QUESTO E' COMUNICARE... PREFERISCO IL CINESE

Uno dei modi in cui la lingua può uccidere: il burocratese. Ne abbiamo fatto cenno anche sulla pagina Feisbuc, per i profili della crescente difficoltà che la complicatezza espressiva causa ai cittadini. Il problema è antico, molto più antico di questa nota, che fu scritta nel 2015 per la rivista “50&Più”e che riproponiamo per la sua confermata attualità.
 
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Da decenni innumerabili l’Italia è dotata del legislatore più prolifico e più bislacco di tutto il mondo avanzato: un legislatore che fa troppe leggi, e per giunta quasi mai sono leggi che il cittadino, da solo, riesce a decifrare (parlo proprio di decifrazione della lingua italiana). La conseguenza è il più micidiale stato di pericolo permanente di fronte al quale il cittadino stesso si trova, e il più abbondante pascolo lucroso per legulei e profittatori di ogni risma.
 
Ma la disdetta veramente lacrimevole è quando gli “spiegatori” della legge, commentatori, docenti, divulgatori, chiosatori, giornalisti, persino sindacalisti, vogliono “delucidare” il significato delle norme a favore dei cittadini, della “gente qualunque”: e invariabilmente, a loro volta, lo fanno imitando il legislatore.
Sentite questa, ad esempio: è la “spiegazione” che un sindacato dà ai lavoratori su alcune norme previdenziali di legge. Me la ritrovo tra le mani, oggetto di una discussione di qualche anno fa, e mi obbliga a constatare che il vizio della comunicazione astrusa non è nel frattempo migliorato in nulla, anzi…
 
…Ciò determina, però, come conseguenza, che l’ipotesi delle lavoratrici del comparto scuola e AFAM che, ai sensi dell’art. 1 comma 9 legge 243/2004 optano per il metodo di calcolo contributivo e accedono, entro il
2015, al pensionamento ad età inferiori rispetto alle regole generali, dal momento che sono fatte salve dal
comma 14 dell’art. 24 della legge 214/2011 (e non rientrano tra i commi da 6 a 11) non godono della disapplicazione della finestra e, pertanto, se maturano questi requisiti dal 2012 si vedranno applicato l’art.
1 comma 21 legge 148/2011 con la conseguenza che l’accesso al pensionamento viene differito al 1 settembre o 1 novembre dell’anno successivo.
Quest’ultima interpretazione, seppure fondata sul tenore…
 
Vi supplico, chiunque voi siate: non spiegate più. Non commentate. Non raddoppiatemi la difficoltà di capire. Lasciatemi alla mia disperata lotta con la masnada criminosa dei legislatori. Caso mai, piuttosto, aiutatemi a farli rinsavire…
 
Una mia carissima amica, che fa l’avvocato, e che più o meno la pensa come me, ha inventato un bellissimo modo per aiutare gratuitamente i cittadini in questo ginepraio pieno di spine velenose: invia loro, ogni tanto, delle “pillole di diritto”: mezza paginetta per volta, mai più di una, in cui, con estrema semplicità di linguaggio e con pazienza, spiega il significato sintetico di una parola, di una norma, di una sentenza, di un “caso” risolto. Lo fa come per gioco, “così, per curiosità, fino a che ne avrò voglia: e intanto do una mano a diminuir la confusione”, mi dice tranquilla. Controcorrente anche rispetto alla sua categoria professionale.
 
  • Ma, Manuela – le osservo: - devi farlo a vita, questo lavoro: devi soccorrere la gente che ogni giorno è in mano alla cricca delinquenziale che comincia con i legislatori e finisce… con la tua categoria, quella degli avvocati!... La conosci, la triste realtà del legislatore che… non sa che leggi fa perché i parlamentari si limitano a votare “sì” o “no” secondo la indicazione del loro capogruppo, ma non capiscono nemmeno l’oggetto di ciò che stanno votando. Proprio non lo capiscono, in lingua italiana: e si rimettono al loro capogruppo, il quale a sua volta si è rimesso agli “esperti”. E, del resto, anche se non facessero così per ignoranza dovrebbero farlo per disciplina di partito.
 
  • Beh – mi risponde: - sì, la questione dell’astrusità delle normative è antica, e bisogna proprio che l’avvocato, di fronte a ogni caso, si metta una mano nella coscienza e non aggiunga la sua parte di complessità.
 
  • No, no! – le rispondo; - non basta: siamo ormai in una situazione sociale nella quale l’avvocato deve sentirsi esattamente come la maestra dei tempi deamicisiani, che prende per mano il bambino (bambini, di fronte alla immonda babilonia normativa, siamo tutti, anche noi superlaureati) e li accompagna, così, proprio come si fa con i bambini, affinchè non si facciano male: spiega loro, con pazienza materna, via via, la traduzione italiana di questo nero linguaggio da settimo continente… E’ la scuola popolare, che dovete fare, voi avvocati onesti, nei confronti dei cittadini, per difenderli davvero…
 
Manuela sorride. Lei lo sta già facendo. E, per il vero, non è l’unica. Vi sono, sempre, anche i missionari del bene: come Manuela. Persino tra gli avvocati.
                                                                                                         
                                                                                                                       (Giuseppe Ecca)
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Rinnovamento della politica

UN NUOVO PARTITO DI ISPIRAZIONE CRISTIANA?

Ventisei anni di “diaspora” politica dei cattolici. Tante volte è sembrato che si riuscisse a porle termine, e altrettante essa si è reimpadronita del grande movimento che cerca di ritessere le fila, aggiornate al ventunesimo secolo, di quella che fu la Democrazia Cristiana nei primi quarant’anni della repubblica italiana e soprattutto con De Gasperi e i personaggi che meglio ne accompagnarono il cammino: da Mattei a Dossetti a Moro a Fanfani etc.. Potrebbe finalmente accadere che l’impresa riesca, in questi mesi: ma… è prudente essere prudenti. Occorre comunque, al nostro paese, un grande partito che sappia riportare nella politica italiana la credibilità e grandezza di una concezione alta, solidale, coerente di sviluppo per tutti gli italiani. Il 3 e 4 ottobre si è riunita a Roma una notevole assemblea nazionale di esperienze e gruppi decisa a fondersi in un rinnovato partito di ispirazione cristiana, dal nome “Insieme”. Abbiamo svolto il nostro intervento, in tale sede, per sottolineare quella che ci è sempre sembrata la premessa necessaria per puntare con coerenza a un obiettivo così alto. E lo pubblichiamo qui di seguito.
 
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Cari amici,
lungo il cammino politico di questi ultimi mesi ho assistito a un moltiplicarsi inatteso, e spesso trafelato e polemico, di scambi telefonici e di riflessioni scritte, di incontri incrociati interni ai gruppi e fra i gruppi di ispirazione cristiana che si interessano alla politica: moltiplicarsi che mi induce ad alcune osservazioni personali anche critiche, condivise peraltro con non pochi amici, su determinati punti del cammino stesso e del costituendo nuovo soggetto politico: ve le sintetizzo di seguito quale contributo al perfezionarsi progressivo dell’impegno verso il traguardo auspicato, possibile ma nello stesso tempo complesso.
 
  1. Il clima referendario e i suoi segnali. Il referendum sul taglio del numero dei parlamentari mi ha visto schierato per il sì, come sapete, conformemente a una posizione che sostengo da tantissimi anni. La maggioranza dei miei amici ha sostenuto invece il no, per ragioni che ritengo altrettanto legittime delle mie. Con tali amici nulla è mai cambiato nel rispetto e nella stima reciproca: e si è continuato a dialogare e costruire positivamente insieme. Quello che mi ha invece lasciato molto sorpreso (parlo in generale del grande coacervo di persone e gruppi del mondo di ispirazione cristiana impegnato in politica) è stato la tonalità diffusamente astiosa e intollerante, non raramente offensiva e bellicosamente contrappositiva, a volte inattesamente carica anche di pretese dogmatiche dal dubitabile impianto logico, per le quali a quesiti istituzionali si sono contrapposte valutazioni di opportunità politica anche tattica, a osservazioni giuridiche hanno fatto riscontro assiomi ideologici, in un affastellamento culturale che mi ha fatto pensare a una diffusa disabitudine dall’antico costume della discussione attenta e distesa fra tesi a confronto, e anche dalle esigenze permanenti di rigore logico e sistemico tipiche della tradizione democratico-cristiana e popolare. Avrei addirittura preferito che vincesse il no ma su un livello superiore di civiltà del dibattito. Ideale da vecchio seminarista? Non saprei: ma ho percepito, anche nel nostro mondo cattolico, un diffuso livello di pensiero strategico piuttosto misero, e di metodo del confronto ben poco rispettoso. Bassa cultura politica, a me sembra: del medesimo livello offerto oggi da quei partiti dei quali vogliamo essere una decisa alternativa di superiore qualità.
 
  1. La divisione immascherabile del mondo cattolico. In secondo luogo, i segnali diretti e indiretti, numerosi e forti,  di una divisione addirittura crescente fra i gruppi di ispirazione cristiana interessati alla politica, a mano a mano che si sono venute intensificando le notizie della prossima costituzione di nuove soggettualità politiche, non parlano di semplici distinzioni e di confronto ma di divisione e pressochè di frantumazione confermata, di riserve mentali reciproche e di riferimenti strategici anche distanti. Unito nella teoria, negli auspici e in una certa eccessiva professoralità dottrinale, il mondo cattolico appare del tutto diviso nella pratica e nella disponibilità a una ipotesi di reale autodisciplina organizzativa. Dal mondo cattolico, compresa la struttura ecclesiale, non pare facile dunque, allo stato attuale, sperare un atteggiamento autorevole e unificante. 
 
  1. Dalle persone ai personaggi? L’immagine tendenzialmente emersa anche nella percezione della stampa e degli osservatori esterni di questo cammino, in questo periodo, è parsa inoltre accentuare un trasferirsi progressivo della dinamica di confronto dalle persone ai personaggi, cioè ai protagonismi particolaristici e individuali dei gruppi, evidenziando via via più preoccupazioni di territori e ruoli da occupare che verifica di valori da condividere. Ora, per la nostra impresa occorrono persone, più che personaggi. Occorrono persone dotate di personalità, più che personaggi dotati di visibilità. Questa è la mia idea netta.
 
  1. L’inversione del retroterra prioritario per la costituzione del partito: comunicazione e formazione. Continua a sembrarmi un errore l’anteporre la costituzione del partito, e le relative aspettative elettorali, alle due condizioni senza le quali, secondo me, la edificazione del partito stesso o non è possibile o resta fragile. Tali due condizioni preliminari sono: a. uno strumento univoco, condiviso e unitario, per la comunicazione; b. uno strumento univoco, condiviso e unitario, per l’avvio immediato della formazione profonda e diffusa delle coscienze (ben più che delle competenze, le quali sono già frequentemente sovrabbondanti fra noi). Ha prevalso finora l’idea che i due strumenti citati debbano derivare dal partito una volta che sia costituito, piuttosto che concorrere decisivamente a costituirlo. Temo che si tratti di un convincimento dagli effetti negativi sulla qualità del cammino verso il costituendo partito. 
 
  1. Partito di persone e non di gruppi o associazioni. Nel mio modo di vedere, il futuro partito di ispirazione cristiana non può essere che un partito di persone, mai di gruppi (altra, “altrissima” – scusate l’abuso linguistico -  cosa è la dinamica delle future correnti interne di pensiero e di opinione, che possono essere ricchezza). Il lavorare con la mentalità di gruppi già costituiti porta a negoziare spazi e ruoli più che valori e programmi, e tende a generare, invece che il partito di persone (anche questo è personalismo), un partito di personaggi, come accennato: i quali personaggi possono essere anche figure di grande dignità individuale all’interno dei rispettivi gruppi, ma sono inevitabilmente poveri di reale consistenza agli occhi della pubblica opinione del paese, compreso il futuro elettorato potenziale specifico di questo partito, anche quando abbiano in passato rivestito ruoli di rilievo. Non rendersi conto di questo vuol dire vivere in un mondo che non c’è. Abbiamo bisogno di uniformarci su un’alta cultura, non di evidenziarci su alte individualità.
 
  1. La cultura e la prassi delle regole. Un partito che voglia rappresentare una novità forte e ricca di speranza per l’Italia ritengo non possa che essere una comunità associativa che si fonda su regole statutarie di funzionamento a un tempo semplicissime e rigorosissime: direi  fanciullescamente semplici e rigorose. E’ quello che spesso mi sono permesso di chiamare “modello monasteriale”, fuori del quale il “partito nuovo” non direbbe praticamente nulla a nessuno nel paese. Il disincanto dei cittadini nei confronti della politica e dei partiti attuali non avrebbe motivo di non verificarsi anche per il nuovo partito, se ai cittadini non offriamo questa “differenza competitiva”. Senza soffermarci su quella che ritengo la inadeguatezza culturale del continuare a ragionar per categorie, come ad esempio si fa quando si prevede una composizione degli organi calibrata fra generi e fra generazioni: offensivo per le donne e offensivo per i giovani, a mio modo di vedere, il vedersi garantire la valorizzazione della loro presenza e del loro ruolo per via di previsione statutaria. Al centro è la persona, non la categoria: e, ancora una volta, anche questo è personalismo. Ritengo che sia grave errore anche un sistema elettorale interno concepito per liste e non per persone.  Io sono anche in questo caso rigorosamente per la persona: la lista può esserci, può essere utile, ma serve semplicemente a identificare e garantire meglio la visione, la proposta e la responsabilità del candidato-persona.
  2. Il partito “soggetto sociale” prima che soggetto politico. Un partito di grande prospettiva nazionale e internazionale, e popolare, deve essere in realtà, innanzitutto e paradossalmente, un forte soggetto sociale prima che un forte soggetto politico. Deve essere cioè un soggetto che fa del suo vivere quotidiano in mezzo alla gente, con trasparenza di modalità associativa democratica, la base per la sua azione anche elettorale e istituzionale. Non viceversa. Il partito deve essere un soggetto sociale proprio per poter essere un soggetto politico nel senso forte e direi sturziano del termine.  Non un partito che “parla alla gente” ma un partito che “vive in mezzo alla gente” anche come soggetto diretto di servizio oltre che di rappresentanza politica.
 
  1. La patologica insistenza sulla questione del “posizionamento”. Questione che mi pare denunciare implicitamente un impoverimento micidiale del livello di pensiero strategico del dibattito. Ho già in passato avuto modo di rilevare che più alto è il livello qualitativo del partito, meno ha senso porsi il quesito dello schieramento; più basso è tale livello, più è importante tale problema. L’accennato recentissimo episodio dello scambio di messaggi fra amici noti, autorevoli e stimati dei nostri gruppi, non ne è che un ennesimo esempio, piuttosto scoraggiante nonostante l’indubbia sincerità e consistenza di impegno degli interessati.
 
Cari amici,
queste riflessioni, e altre che molti di voi conoscono da tempo, mi fanno pensare che, tutto considerato, noi ci troviamo oggi a rivivere la medesima esperienza sostanziale ripetutasi sempre e senza eccezioni in questi ventisei anni di diaspora democratico-cristiana: un’alta unità teorica succube di un basso profilo di disponibilità all’autodisciplina operativa nella trasparenza.
Una analisi sociologica (se si vuole anche di sociologia religiosa oltre che politica e culturale) mi pare vada affrontata. Ho insomma la impressione che le condizioni storiche di diaspora non siano effettivamente ancora superate come realtà culturale e psicologica e che l’auspicato nuovo soggetto politico non sia ancora del tutto maturo: salvo arrischiare di costituirlo formalmente, ma di vederlo anche rapidamente naufragare come i tanti soggettini a dichiarata ispirazione cristiana che hanno immalinconito la vita politica del nostro paese in questi ventisei anni.
Cosa fare, allora? Non certo fermarci, non certo arrenderci, e… neanche rinviare.
Propongo di considerare anche l’assemblea oggi in svolgimento come un momento di accresciuta presa di coscienza, non meramente speculativa ma volta senz’altro a partire rapidamente per la realizzazione del partito, cominciando però dalla realizzazione concreta dei suoi due punti preliminari, quelli che ho accennato sopra: operativamente propongo perciò di costituire il coordinamento stabile, paritario, a incontri rigorosamente almeno quindicinali ma possibilmente anche settimanali, direttamente fra i massimi responsabili dei gruppi oggi presenti e disponibili, affiancato magari da una segreteria di sintesi operativa, per far decollare immediatamente a livello unitario sia l’azione formativa per costruire coscienza civile e politica condivisa nei mondi di riferimento, sia la comunicazione interna ed esterna. Con assunzione diretta e personale di responsabilità da parte dei suddetti due organismi. Una piccola, implicita modalità federativa pro tempore, insomma, in funzione direttamente preparatoria e fertilizzatrice del terreno culturale e psicologico per la costituzione del partito, cui potrebbe essere ragionevole giungere in avvio del nuovo anno o poco dopo.
                                                                                                                           
                                                                                                                            (Giuseppe Ecca) 
                                                                                                          (con gli amici di DemocraziaComunitaria)
Roma, 4 ottobre 2020.
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Prospettive

ECONOMIA: ITALIA CHE RIPARTE

E’ del 3 agosto 2019, cioè di un anno fa, questa riflessione di Achille Colombo Clerici sulla situazione effettiva dell’Italia, e in particolare della sua economia, scremata dalle polemiche interpartitiche e divisive della opinione pubblica, e vista secondo la ottica, non priva di autorevolezza, di uno studio congiunto fra il Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi e l’Istituto Bancario Intesa San Paolo. La riproponiamo, per segnalare che a quella data la solidità economica del nostro paese, sia pure con la tipica organizzazione amministrativo-burocratica pesante e confusa, era evidente agli osservatori attenti.  
 
Ebbene, contrariamente a quanto generalmente si dice, a un anno di distanza, cioè nell’attuale periodo di pandemia, la stessa situazione economica, pur fra le difficoltà gravi di congiuntura portate dalla stessa pandemia, è secondo noi del tutto lontana dall’entrare in crisi strutturale. Salve non impossibili follie della politica.
 
Rifletteva dunque Achille Colombo Clerici un anno fa:
 
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Giunge più di una sorpresa dall’indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani, svolta da Intesa SanPaolo in collaborazione con il Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi: resuscita il ceto medio, la casa rimane l’investimento preferito, la diseguaglianza economica si riduce.
 

Innanzitutto i dati: un milione e trecentomila famiglie sono rientrate a far parte del ceto medio o vi sono entrate per la prima volta, riallargandolo dopo il record storico negativo raggiunto nel 2013 quando solo il 39% delle persone riusciva a risparmiare. Ora i risparmiatori (52%) superano di nuovo i non risparmiatori (48%) e la percentuale di quanto si accantona tocca il 12,6%, massimo storico, delle entrate.
 
Gli italiani continuano a resistere alle sirene della finanza mantenendo la casa al primo posto quale destinazione del risparmio. E continuano a investire nel mattone nonostante il 63% del patrimonio sia già rappresentato da immobili: il 57% ha ristrutturato la casa o un altro immobile. Anche la disuguaglianza è meno accentuata che nel resto d'Europa: il 10% degli italiani più benestanti detiene il 42,8% della ricchezza netta complessiva, percentuale che in Germania sale al 59,8%, a prescindere dal record di disuguaglianza della Gran Bretagna.
 
E ancora: i redditi da attività professionale e da lavoro dipendente sono aumentati; negli ultimi tre anni i bilanci delle famiglie hanno riacquistato parte della prosperità perduta durante la lunga crisi.
La percentuale di coloro che ritengono sufficiente il reddito per sostenere il tenore di vita corrente sale nel 2019 al 69% degli intervistati, massimo storico del decennio.
 
Nonostante la base produttiva dell’economia stia rallentando, i bilanci familiari sono simili al colore roseo dell’alba (parliamo sempre di media statistica). I primi a notare come l’Italia sia ben lontana dal baratro, come profetizzano alcuni, sono stati i signori dello spread che hanno portato l’asticella sotto i 200 punti.
 
Ho sempre sostenuto, in buona compagnia d’altronde, che la ripartenza del Paese poggia sulla fiducia dei suoi cittadini e delle sue imprese. Se la politica riuscisse a convincerli ad utilizzare, per spese e investimenti, anche soltanto una parte dei 1.400 miliardi di euro di risparmi inattivi nei conti correnti, potremmo forse assistere ad un nuovo mini-miracolo economico italiano.
 
D’altronde, nelle emergenze riusciamo sempre a stupire positivamente i consoci  europei. E'questa la forza dello zoccolo duro socio-economico del Paese che poggia su una impalcatura di cultura, tradizioni, valori etici dei quali la famiglia e'stata il vero storico motore, come centro di vita sociale ed economica.
 
                                                                                                                        (Achille Colombo Clerici)
 
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Politica

REFERENDUM: CON SERENITA' E RISPETTO VOTEREMO SI'

Cari amici,

mancano ormai pochi giorni alla celebrazione del referendum sul taglio del numero dei componenti il parlamento italiano (oggi sono 945 più gli ex presidenti della repubblica).
Non ho fatto e non faccio alcuna “campagna di voto”, pur avendo da tantissimi anni una mia idea precisa sulla materia.  E volutamente ho atteso questi ultimi giorni prima del voto per sintetizzarvi la mia riflessione finale, con serenità e rispetto per quanti pensano diversamente da me.
Ho trattato spesso l’argomento della consistenza numerica del parlamento, l’ho trattato da tanti anni, e certo ben prima che si profilasse l’attuale referendum, e ben prima che si pensasse alla modifica del numero dei parlamentari da parte del governo in carica e di quello precedente e di quello precedente ancora. Anzi, ne ho trattato ben prima che esistessero tutti gli attuali partiti dello schieramento costituzionale.
Ne ho parlato e scritto fin da quando studiavo diritto costituzionale e comparato all’università, e poi via via che mi sono occupato di problemi istituzionali sia nell’apparato della direzione centrale della Dc storica sia in altri ambienti di studio e di lavoro. Ne ho parlato in modo particolare in un mio volume del 1982 dal titolo “La società istituzionale”. Sono tanti anni, dunque; veramente tanti. E, come deve fare ogni onesto studioso e ogni bravo cittadino, ho sempre cercato anche, appunto con onestà, motivi adeguati per cambiare idea. Ma non ne ho trovati.
Anche del problema più complessivo dell’ipertrofia dell’apparato istituzionale e pubblico più generale del nostro paese, del resto, ho parlato sostanzialmente da tanti anni, e l’ho fatto, come per il problema della efficienza della funzione parlamentare, in compagnia di studiosi e cittadini ben più autorevoli di me, non solo italiani: il problema di come possa funzionare al meglio un’assemblea rappresentativa democratica, e in generale uno Stato, è in realtà di tutti i paesi e di tutti i tempi, naturalmente, fin dall’antica Grecia e ancora prima; l’ho fatto a cominciare dai maestri sui cui libri e sul cui insegnamento si sono svolti i miei studi universitari, come accennato, da Mortati a Calamandrei a Crisafulli a Barile a Onida ai padri costituenti della nostra repubblica e via via fino a Moro e Fanfani.
Ne ho parlato ancora più intensamente a partire dal 2012, perché dal 2012 ad oggi si è intensificato il tentativo di ricostruire, in compagnie ben significative come quella di Gianni Fontana, un grande partito popolare di ispirazione cristiana per il ventunesimo secolo, che collegasse la forte tradizione del cattolicesimo democratico popolare sturziano con la migliore esperienza della Democrazia Cristiana storica a partire dal nucleo fondativo dei citati padri costituenti che diedero vita alla nostra repubblica, e fino agli altrettanto citati Moro e Fanfani; e facesse funzionare al meglio le rispettive istituzioni rappresentative.
Nei documenti elaborati per queste vicende e per questo impegno un capitolo particolare è stato sempre dedicato, particolarmente da Gianni Fontana e dal sottoscritto, al concetto di “Stato snello”, cioè di come appunto far funzionare le nostre istituzioni repubblicane (e l’apparato pubblico in genere) secondo lo spirito con il quale i padri costituenti le pensarono: effettivamente rappresentative ed effettivamente democratiche.  
Sono tanti, questi documenti, a partire dalla organica relazione che lo stesso Fontana presentò a novembre del 2012 per l’assemblea nazionale di rivitalizzazione del pensiero e dell’azione democratico-cristiani, e dagli altri successivi, che gran parte dei miei amici, e non solo loro, conoscono. A tali documenti rinvio per il ragionamento sviluppato a motivazione della mia opinione, parendomi eccessivo citarli nuovamente qui. Essi sono sempre a disposizione di tutti.
E spiegano in sintesi perché e come siano da considerare ormai maturate, e ancora di più lo siano a ventunesimo secolo inoltrato, le condizioni storiche per snellire ed efficientizzare, oltre agli apparati complessivi dello Stato (la baraonda  che comincia con il Cnel e prosegue con le miriadi di enti ormai  realmente inutili, nazionali e regionali, con la duplicazione relativa delle competenze scoordinate, e con l’elefantiasi delle normative che a tutti i livelli tormentano i cittadini) la composizione numerica del parlamento nazionale incamminandolo sia verso la unicameralità sia verso una ragionevole riduzione del numero dei suoi componenti. La proposta finale elaborata dal sottoscritto e da Gianni Fontana considerava e considera il numero di cinquecento parlamentari pienamente adeguato a un grande ed efficiente parlamento nazionale.
Lo snellimento numerico del parlamento una volta superata la fase di consolidamento della repubblica, è stato visto sia dai padri costituenti sia da studiosi di tutte le appartenenze politiche come semplice, naturale e necessario strumento tecnico di efficientizzazione e coerentizzazione del lavoro parlamentare e della sua rappresentatività. Con questa prospettiva di efficientizzazione non c’entrano i governi di destra o di sinistra o di centro e non c’entrano i partiti politici. C’entra trasversalmente l’amore e la preoccupazione per la veridicità e credibilità della nostra democrazia e del funzionamento delle sue istituzioni. Lo snellimento è, e deve essere,  una misura tecnica, non una misura politica.
Né si può ironizzare miserevolmente sulla storia del risparmio rispetto ai costi abnormi dell’attuale parlamento, risparmio che equivarrebbe semplicemente a “un caffè all’anno per ogni italiano”. Nessun padre di famiglia ragionerebbe in questi termini quando fra i suoi figli ci sono ancora tanti problemi seri da risolvere: è immorale ragionare così,  e infatti tendono a ragionare così soltanto i lorsignori ben pagati per i quali un caffè è effettivamente  quasi nulla. Per i poveri e i disoccupati non è affatto così. La triste ironia sul caffè mi ricorda i casi nei quali qualche dirigenza aziendale di mia conoscenza pretendeva di attribuirsi un aumento di stipendio di “soltanto” mille euro mensili ma contemporaneamente per i dipendenti non ne ravvisava disponibili nemmeno dieci.
Mi sembra scorretto anche richiamare enfaticamente la difesa della “Costituzione più bella del mondo” e dello “spirito dei padri costituenti” senza effettivamente conoscere cosa ciò significa, e cioè conoscere a fondo la storia di quel testo e di quei padri. Quando ci si riferisce alla costituzione più bella del mondo ed allo spirito grande dei padri costituenti ci si riferisce esattamente alla prima parte della costituzione, quella dei valori, principi, diritti e doveri. L’altra, quella delle tecnicalità, gli stessi padri costituenti la consideravano evolutiva a mano a mano che la società italiana avrebbe consolidato il suo sviluppo economico, sociale e culturale. E’ in questo senso che dobbiamo essere strenui difensori del testo della nostra costituzione. Non con la fessaggine della fissaggine.
Di fronte all’attuale referendum sulla proposta di portare il parlamento italiano da novecentocinquanta componenti a seicento, dunque, la mia serena valutazione è che sia del tutto opportuno votare sì sulla scorta di tutto ciò che insegnano la storia e la scienza dell’organizzazione in materia di funzionamento di tali organizzazioni.
Con me voteranno sì tantissimi amici di diversi orientamenti politici e di diverse esperienze professionali e civili, mentre altri amici voteranno no per ragioni diverse, collegate soprattutto all’attuale quadro politico e partitico del paese , dal quale a me sembra invece doveroso prescindere perché il funzionamento strutturale delle nostre istituzioni va molto al di là e molto al di sopra, ed è molto più importante, di tale quadro. Ci rispettiamo reciprocamente, comunque, e sinceramente, al di là del nostro voto, come è normale e giusto tra amici e cittadini democratici.
Mi ha molto colpito ed amareggiato, invece, l’atteggiamento di chi, tanto sul fronte del sì quanto su quello del no, ha fatto del referendum un astioso tema di polemica partitica pro o contro questo o quel partito attuale, caricando la polemica con una virulenza e offensività di toni e motivazioni che francamente mi sembra nulla abbiano da vedere con la dinamica democratica e con la civiltà del nostro paese. E che il più delle volte manca anche di fondamento storico e persino giuridico.
Non faccio nessun conto della superficialità dei Di Maio e degli altri che con lui riducono a slogans palingenetici il loro schieramento per il sì, né della irresponsabilità dei Zingaretti che, incivilmente e diseducativamente, hanno definito “quattro buffonate di quattro buffoni” le posizioni del governo avversario salvo cambiare opinione e linguaggio quando al governo ci sono andati loro… con il partito già da loro dichiarato buffone. Un autentico squallore che non merita neppure commenti ma solo evidenziazione, come è anche per quelli del fronte opposto il cui misero mestiere quasi esclusivo è quello di apparire in tv a sputare sugli avversari con i quali, proprio in parlamento, rappresentano il popolo italiano.
 
Provo ammarezza, piuttosto, per quei tanti sostenitori del no che tacciano quanti come me hanno deciso di votare sì, definendoli (e cito alla lettera) “seminatori di odio e di antipolitica”, “allocchi”, “populisti”, “qualunquisti”, colpiti da “aurea imbecillitas”e altri epiteti non meno offensivi e privi di rispetto e di senso di responsabilità. Non mi ci vedo davvero come seminatore di odio, cari amici, né come allocco, né come populista, né come “servo della incipiente dittatura di sinistra” (hanno scritto anche questo), né altro di simile, per il semplice fatto che ho deciso di votare sì al referendum. Questo lo dico sul piano morale.
Sul piano culturale, poi, non mi fa una impressione meno penosa il vedere un tema così delicato come quello del referendum sul funzionamento tecnico del nostro parlamento nazionale venir ridotto, come ho accennato, a una miserevole polemica pro o contro gli attuali partiti, siano essi al governo o all’opposizione. Mi sembra davvero che si tratti di immaturità civile e politica e di veduta culturale dannosamente corta.
Detto questo per onestà verso chiunque mi conosce ma anche verso chi in passato mi ha letto senza conoscermi personalmente, confermo con serenità che voterò decisamente sì al referendum, e che invito gli amici di consonanti ideali e amore per il paese a votare sì.
Confermo non meno il mio onesto rispetto per quanti voteranno no, e mi auguro comunque che insieme si possa, dopo questo referendum, affrontare l’ancora più importante, anzi centralissimo, tema della legge elettorale, quella legge elettorale che da molti anni ha tolto ai cittadini il diritto di scegliere direttamente i nomi dei loro parlamentari lasciando loro, soltanto, il diritto di votare liste di cooptati dai partiti stessi: e impedendo qualsiasi alternativa con gli strumenti  più subdoli e disonesti, a cominciare dall’abnorme e impediente numero di firme occorrenti per presentare le candidature. Democrazia trasformata in oligarchia, con la connivenza attiva, da molti anni a questa parte, di tutti i partiti di destra, di sinistra e di centro. Sarò con non minore impegno su quest’altra battaglia. E considero intanto il mio voto per il sì al referendum sul taglio del numero dei parlamentari una tappa significativa di tale più complessivo impegno.
                                                                                                         
                                                                                                                                                  (Giuseppe Ecca)

Roma, 15 settembre 2020.
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Formazione

CIRCOLODELMEGLIO: RIPRENDE LA FORMAZIONE. ALTA, INTEGRATA

 
Con la fine del prossimo mese di settembre si riavvieranno gradualmente le attività formative del Circolodelmeglio, e in particolare i corsi. Riprende dunque il nostro cammino per la missione del miglioramento continuo delle persone, del resto mai del tutto interrotto.
 
Come abbiamo già in passato spiegato, quello di Studisociali è un laboratorio che può chiamarsi anche scuola ma che in sostanza resta, alla lettera, un “circolodelmeglio”, cioè una comunità circolare che fa ricerca, ascolto, apprendimento, insomma formazione, nello spirito del “miglioramento continuo e integrale” di conoscenze, competenze e valori. Che è anche il nostro concetto di cultura.
 
Non dà spazio ai professori con la puzza sotto il naso, a meno che vogliano convertirsi a essere umili e forti testimoni di vita, anch’essi in ricerca, cioè maestri di vita in senso autentico; non dà spazio ai sapienti che pensano di non aver più nulla da imparare, a meno che depongano la loro sapienza per cominciare da capo a dubitare e cercare con onestà; non dà spazio ai primi né agli ultimi della classe ma semplicemente a tutte le persone di buona volontà che vogliono continuare a scrutare l’importanza e la bellezza sconfinate della vita, del suo mistero, dello “scoprir conoscenza, competenza e sapienza”.
 
Un laboratorio di cultura e di vita, come in realtà dovrebbe essere ogni scuola vera, che non si lascia distrarre da un orizzonte solo generalista, ma non si lascia mai neanche obnubilare dalla pericolosa idea che possa esserci valore autentico nella sola specializzazione o nel mero tecnicismo: il quale, se è appunto solo, depriva la persona di autentica grandezza ed adeguatezza, in quanto la vita umana è per sua natura integrata, totale e complessa.
 
Direte che paroloni come questi preannunciano chissà quali materie sofisticate con chissà quali titoli astrusi e metodologie intorcinate, come piace ai professori: invece è proprio la vita quotidiana a interessarci, con i suoi interminabili quesiti, e il suo metodo, e i suoi orizzonti; ma nella loro interezza, andando in consapevolezza integrale e in profondità su tutti i loro aspetti.
 
La nuova stagione di esplorazione si svilupperà secondo itinerari tematici in parte già sperimentati e in parte nuovi, cominciando dalle loro radici ma mantenendo sempre aperte anche le prospettive: dal mondo del lavoro e del sindacalismo (il lavoro è elemento fondativo della dignità umana) alle istituzioni della democrazia ed ai partiti politici, dalla comunicazione (giornalistica, di marketing, verbale, scritta, implicita, formale, informale, d’impresa, di organizzazione, con le loro tecniche e le loro politiche) ai sistemi ed alle tecniche formative lungo tutto l’arco della vita compresa la preziosissima anzianità, dalla organizzazione d’impresa alla gestione delle persone, dalla dottrina sociale della Chiesa alle tecniche di negoziazione e alla gestione dei gruppi e dei  conflitti, alla rilettura critica dei grandi capolavori della letteratura mondiale, conosciuti e sconosciuti, alle prospettive di scienza e tecnologia…
 
Gli itinerari si articoleranno, operativamente, non perdendo mai di vista le esigenze specifiche e personali degli interessati. Quindi con flessibilità e con metodo attivo, dialogato e circolare. Itinerari annuali con incontri settimanali, corsi mensili o settimanali con incontri quotidiani, semplici giornate di “caffè formativo”, e simili, appunto secondo esigenze. Senza escludere incontri con testimoni ed esperienze specifiche di settore.  Cominceremo quasi certamente con l’itinerario dedicato a Storia e prospettive del sindacalismo e del lavoro in Italia e nel mondo. Ne riparleremo a breve entrando nei dettagli.  
                                                                                                                                           
                                                                                                                                ​(Giuseppe Ecca)

 
 
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Orizzonti

GLI ANZIANI HANNO SOPRATTUTTO IL DOVERE DI RESTARE GIOVANI. I GIOVANI HANNO SOPRATTUTTO IL DOVERE DI INVECCHIARE CON SAGGEZZA

Fra poco mi concederò una manciata di giorni in Sardegna, terra dei miei avi e della mia casa paterna. E non farò a meno, andando a trovare i vecchi amici che vivono nell’isola, di fare una visita anche verso Ozieri e Thiesi, nel cui piccolo cimitero riposano, in attesa della resurrezione dei giusti, i resti mortali di Vincenzo Saba, mio grande maestro di cultura sindacale e di vita.
 
E mi piace, mentre penso a questa visita, riandare in compagnia degli amici di Studisociali alla riflessione che stendevo nel 2012, ad appena un anno di distanza dalla morte di Saba, per fissare fra noi suoi allievi ed amici il suo più insistente messaggio culturale e di vita nei nostri confronti.  Eccolo, dunque.
 
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A un anno di distanza dalla sua morte, ricordare Vincenzo Saba significa per me riassumere una sensazione che ebbi immediata, pensando alla sua dipartita, appena ne ebbi notizia: “Saba – mi dissi – mi ha insegnato il sindacalismo ma mi ha insegnato che vale la pena essere uomini completi, nel fare i sindacalisti come nel fare qualunque altra cosa nella vita”.
 
E questa in realtà considero la sua eredità principale per me, insieme allo spirito dal quale traeva il modo di incarnare questo impegno: lo spirito cristiano creduto profondamente e vissuto personalmente.
 
Come ci si forma a diventare uomini completi?
 
Tra Vincenzo Saba, morto a oltre novantacinque anni di età, e noi, che operiamo ancora nel pieno delle nostre energie, passa in qualche caso una generazione, in qualche caso più di una: eppure i ragionamenti che egli ci ha lasciati da meditare si manifestano di giorno in giorno di validità altissima per tutte le generazioni: era un’altra delle sue caratteristiche, questa: ragionare per concetti che fossero validi non solo per l’oggi ma anche per il domani. E in questo modo mettere insieme le generazioni, farle alleare fra loro, arricchire le energie dei giovani con la esperienza degli anziani, e viceversa. Ricordo che ogni tanto mi ripeteva: “In fondo… gli anziani hanno soprattutto il compito di restare giovani, i giovani hanno soprattutto il compito di invecchiare bene”.
 
Noi abbiamo in effetti, fra gli altri, il compito importante di restituire alla società il sentimento di una solidarietà che non ha ragione di essere divisa per generazioni, né per sessi, né per religioni, né per censo, né per altre categorie. E’ importante, dire questo, perché l’ansimare della crisi attuale e la difficoltà di strumenti culturali atti ad affrontarla con efficacia stanno operando variamente per dividere ulteriormente il paese in categorie che competono fra loro per contendersi la presunta sicurezza o prosperità che ancora il paese possiede, danneggiando in realtà il contesto del quale esse stesse hanno bisogno per svilupparsi. Caso esemplare può essere la questione delle pensioni e del mercato del lavoro, ad esempio: anziani che vogliono restare al lavoro contro giovani che vogliono entrare, e viceversa. “Contro”, non in collaborazione.
 
Sono problemi né piccoli né pochi. Un ulteriore esempio è la vera e propria menzogna istituzionale che ci dipinge la grave crisi che ci attanaglia dal 2008 come una crisi economica: non è una crisi economica, ma solo una crisi finanziaria! Diverse aziende non sono state toccate dalla crisi o ne sono rapidamente uscite: sono quelle che hanno saputo sottrarsi da tempo alla morsa della piovra finanziaria che passa attraverso il sistema bancario, a sua volta vittima della finanza speculativa. Un caso di successo che è riuscito forse meglio di tutti, in questi anni, a venire alla ribalta dell’attenzione di una pubblica opinione attenta anche se numericamente limitata, è quello dell’azienda Loccioni, che opera nelle Marche soprattutto con il settore informatico, che eccelle a livello mondiale, e che ha adottato un sistema di gestione assolutamente partecipativo, diremmo olivettiano. Un sistema che rende e mai si è lasciato imprigionare dalla finanza. Una concezione della economia che alcuni chiamano, con un voluto gioco di parole, “noiconomia”, cioè “economia del noi, economia solidale di tutti quelli che, facendo comunità, operano nell’impresa; di contro alla tradizione cinica della “economia dell’io”, cioè dell’imprenditore come soggetto di affari rispetto al quale le persone lavoratrici sono puro fattore di produzione alla stregua delle macchine.
 
Ma, per promuovere con coraggio superiore la frontiera della “noiconomia”, che tipo di sindacato, in particolare, occorre? Oggi, nel ventunesimo secolo dell’era cristiana, il sindacato, ormai consacrato in Italia e in tutto il mondo come soggetto istituzionalmente importante per le politiche del lavoro, non può accontentarsi di dare “qualcosa di più” alla elaborazione di tali politiche: perchè il mondo del lavoro del ventunesimo secolo è un mondo inopinatamente in crisi assai più strutturale che congiunturale: alla crisi finanziaria violenta esplosa nel 2008 è stata collegata una più vasta inadeguatezza di modelli e riferimenti culturali, che hanno fatto perdere lucidità e smalto a quella visione armonizzatrice per costruire la quale il movimento sindacale, al di là di tutte le schizofrenie contingenti della sua storia e della storia sociale, è nato, e per la quale Vincenzo Saba non aveva mai smesso di lottare.
 
 
Il sindacato deve oggi offrire qualcosa di “decisamente” più avanzato. Vincenzo Saba avrebbe peraltro subito precisato che questo deve essere fatto non già sovrapponendo il sindacato o sovrastimandolo rispetto al contesto sociale globale: avrebbe insegnato che la forza intrinseca e diremmo ontologica della ragione di essere del sindacato è così evidente nell’uomo che il sindacato deve, con tutta questa sua dignità fondamentale di ragion d’essere, pretendere e affermare il suo diritto a partecipare effettivamente all’impegno di tutta la società per migliorare se stessa concretamente, senza lasciarsi irretire da ritorni indietro di origine egoistica, corporativa, settorialista.
 
E questo il sindacato lo fa assumendosi per primo la sua ampia quota di responsabilità sociale e, in senso ampio, anche politica: innanzitutto, costruendo per i suoi uomini e le sue donne un livello di formazione qualitativa elevata e sempre crescente, attraverso processi di formazione continua e integrale. Una formazione a carattere globale, affinchè la specializzazione nelle materie lavoriste poggi sul solido terreno di una visione totale dell’uomo. Ad accompagnare una politica generale che sa servirsi dell’ausilio delle università, dei centri di ricerca, dei luoghi di studio che hanno qualcosa da insegnare: ma senza soggezione, come si deve a una organizzazione fondativa della società, conscia e responsabile. Non l’università si serve del sindacato (salvi ovviamente i fini di studio) ma viceversa, il sindacato si serve dell’università, come di un suo strumento di ausilio nel proprio cammino di ricerca e di sviluppo delle sue linee di azione e della sua cultura. E non i professori guidano la formazione, ma i maestri di vita.
 

Dobbiamo inoltre cominciare questo lavoro da noi stessi, dalla nostra realtà diretta, aggiungeva Saba, per non rischiare di restare nell’astratto che spesso rimproveriamo agli altri. E dobbiamo fare questo lavoro in quattro direzioni contestuali:
  • Su noi stessi;
  • Sul sindacato come comunità associativa;
  • Sulla  impresa;
  • Sulla società.
 
Mentre rifletto sul messaggio di Saba mi torna alla mente che un vecchio capo del personale di Selenia, azienda di grande storia e prestigio, a suo tempo, nel panorama industriale italiano, mi diceva nel 2011, proprio l’anno in cui Saba ci ha lasciati: “Quando entravamo in azienda ci si diceva innanzitutto che un dirigente Selenia doveva essere senza partito, senza sindacato e senza sesso. Poteva sembrare una espressione esagerata ma in fondo faceva funzionare l’azienda meglio di come funzionò successivamente”.  Saba avrebbe osservato che un autentico dirigente sindacale, quando entra nel sindacato, deve essere “senza partito, senza padroni e senza clienti”. E che un autentico uomo politico, quando entra in un partito o in una istituzione, deve essere “senza clienti, senza finanziatori, senza nemici”. E avrebbe spiegato ante litteram quel concetto di “bene comune” che in realtà fu sempre suo riferimento di pensiero e di azione.
 
                                                                                                          (Giuseppe Ecca)
 
 

Managerialità

CHE VE POSSINO VUCA'...

 
Il “Dirigente”, mensile di Manageritalia, nel suo numero di ottobre 2017, alla pagina 18, pubblicava un articolo intitolato “Management: Lavorare in un mondo Vuca”.  Firmato dal “direttore Institute for Enterpreneurship and Competitiveness”, e dal “presidente di Akron”, di cui omettiamo i nomi; per le persone infatti esprimiamo rispetto e comprensione, per alcune idee invece, quando è il caso, come questo, siamo presi da brividi di meravigliato sconforto e di decisa criticità. Quanta superficialità viene ripetuta con sussiego e passata per cultura d’impresa…
 
Ci è tornato in mente quell’articolo perché, in piena durissima lezione di carognavirus, non ci pare di cogliere, nella imprenditoria mondiale né in quella patria di questi giorni tormentati, alcuno sforzo serio per capire più profondamente il mondo nel quale viviamo e le sue esigenze di bene comune anche in economia. Come sarebbe necessario. Ed è come se quel povero articolo fosse scritto oggi. Il lato positivo del carognavirus, contraltare di quelli negativi, avrebbe proprio dovuto essere infatti quello di insegnare come va stabilmente corretta l’economia, e con essa anche l’organizzazione del lavoro, o meglio i loro attuali putridi vizi, perché siano entrambe, economia e organizzazione del lavoro, un poco più a misura di persone e non di “business”, e la prossima possibile epidemia ci colga meno impreparati.
 
Così va infatti, purtroppo, ancora oggi, il mondo del “business” A colpi di “business”, come in una sorta di malmascherata logica permanente di “profitto di guerra”. Non si è in pace se non si parla e non si venera e non ci si mostra adeguati al mondo del “business”, se non è il “business” che regola l’economia e il lavoro. Non c’è nulla da imparare né da migliorare, c’è il “business”…
 
Il mondo del “business”… Che non è il mondo del lavoro, badate bene, e non è neanche il mondo dell’economia, e non è neanche il mondo della sana impresa, non è comunque il mondo della comunità umana solidale che lavora (non fatevi illusioni e non lasciatevi trarre in inganno da chi vi dice il contrario!).
 
E’ il mondo del “business”, appunto: cioè, il mondo di quelli che fiutano l’occasione e ci provano, o ci si gettano a capofitto, scommettono con astuzia e tentano con tecnichette avvolgenti di arraffare affari per scappare subito dopo, far perdere le loro tracce e andare in cerca di altre occasioni similari, in altri ambienti o con altri volti, fuggendo sempre, abbrancicati a un malloppo che sperano sempre più consistente, che a volte lo è ed a volte invece li schiaccia improvvisamente come vermi e si sparge in altri rivoli in attesa di chi lo acchiappi con la stessa famelica voracità per venirne schiacciato con la stessa demoniaca crudeltà. E’ il business, signori…
 
In mezzo a un turbinio di vincitori che banchettano e di macelli sociali che sono le carni vive delle relative vittime. E il mondo va avanti: o, per esprimerci correttamente, indietro…
 
Il mondo del business… insomma, il mondo di quelli per i quali l’economia è sostanzialmente furbizia in affari, è fiuto dell’opportunità contingente, e questa è la cosa essenziale nella vita. L’unica consistenza che misuri veramente il successo personale o di famiglia o d’impresa, alla fine, sono infatti i soldi, il più grande accumulo di soldi che sia possibile. E, per farcela, occorre vincere sugli altri il più possibile, e occuparne lo spazio. E mantenere ben salda e alta la bandiera dei profitti, degli utili e dei diagrammi annuali o semestrali o addirittura mensili e settimanali (tanta è la follia) di budget. Poi, si potrà anche fare qualche elemosina o qualche “progetto sociale” per tacitare qualche sussulto di coscienza o di buonsenso.
 
Il business scambiato per economia: un’autentica droga inebetente, a danno di chi ci casca ma anche di tutta la comunità, che siamo noi, con i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri vicini meno fortunati o meno forti, il nostro pianeta, il futuro di tutto.
 
Ma voi, ripeto, non temetela, questa droga: la potete individuare e neutralizzare, e combatterla attivamente; a patto di guardare bene in faccia la sua anima demoniaca e tenerla lontana da voi: a voi, a noi, deve infatti interessare, al suo posto, la sana e semplice e produttiva e intelligente e creativa e lungimirante economia che condivide fra tutti e con tutti il lavoro utile e i suoi risultati e le sue opportunità, in trasparenza, facendo crescere il bene-essere di tutta la comunità. Il lavoro produttivo che mette in opera i talenti individuali a beneficio di tutti, ed a tutti offre utilità in servizi e prodotti, senza inventare bisogni fasulli o indurre motivazioni artificiose con l’aiuto di tecnichette  di marketing scaltro e ingannevole che tende a cogliere di sorpresa l’inconscio dei clienti ed a frastornarlo… La sana impresa produttiva che condivide i risultati anche economici con i suoi lavoratori e con la società complessiva… Come insegnava Olivetti, ad esempio, ma con lui tanti, tanti altri stranamente trascurati da cronache e università. Basterebbe pensare a Caffè, a Keynes, a Roosvelt…
 
 
Oggi, in barba al carognavirus ed anche al semplice buonsenso (senso buono) quelli del business sembrano addirittura più che mai intenzionati a continuare a inocularvi in modo particolarmente insistente e accattivante, come fosse cosa lecita e seria (anche il manicomio universitario, dove loro dominano le cattedre di economia, ogni triennio o quinquennio rinnova il suo pieno di matti e di matte novità sloganistiche) che il business è fra l’altro, nientedimeno, come scrivevano i due amici dell’articolo citato, Vuca:
  • Volatility
  • Uncertainty
  • Complexity
  • Ambiguity.
 
Ma va’?!...
Mio nonno e mio padre, caprari analfabeti della Sardegna di quasi un secolo fa, sapevano benissimo questa banalità sociologica ma non la trasformavano in cretinata prosopopaica da master a pagamento. Restava conoscenza della banale quotidianità della vita e ne traevano piccola ma tenace saggezza di vita quotidiana. Saggezza notissima da millenni a tutte le persone sagge: quelle che fuggivano il male e cercavano il bene e il buonsenso (il “senso buono”, dicevamo), anche in economia, quelle che producevano e non speculavano, e neanche… sentivano il bisogno di esprimere tanta saccenza con tanto rumore di parole, e tanto meno di esprimerla nello stucchevole grugnibelato anglofono, ma, caso mai, in dignitoso sardo o in sano e meditoso italiano. Quelle, insomma, che una saggezza millenaria,  espressa in una frase o proverbio, la sapevano far durare per generazioni senza sentire il “bisogno di marketing” di imbellettarla con una formuletta accattivante e stupida ma dal suono nuovo e dalla veste inebriantemente bocconiana.
 
Manageritalia mia, e tu dai retta e ospitalità e tempo e spazio a simili scempiataggini, senza sentire, neanche tu, il dovere culturale e morale ed etico e politico di assumere, a ventunesimo secolo inoltrato, il timone della nostra barca culturale verso un vento meno disperato, insensato e puerile?! Ma dai, svegliati e torna a casa, la casa di una cultura sindacale e dirigenziale dove regnano valori e tecniche al servizio di valori e di benessere condiviso…  
 
                                                                                                                                      (Giuseppe Ecca)
 
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Politica

NUOVO SOGGETTO POLITICO DI ISPIRAZIONE CRISTIANA: O NASCE VERGINE O NON VALE LA PENA CHE NASCA

Il punto della situazione, secondo noi, mentre ininterrottamente fervono i tentativi di raggiungere finalmente la meta: cosa, oltre che pienamente legittima, del tutto auspicabile per l'Italia, politicamente povera di cultura politica e partitica allo stato attuale delle cose.

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Venticinque anni di diaspora del movimento di ispirazione cristiana nella politica italiana, seguita alla scomparsa per autoscioglimento della storica Democrazia Cristiana, costituiscono un lasso di tempo sufficiente per una visione compiuta e limpida di quanto accaduto nel nostro paese, e rendono ormai necessario che tale visione si traduca in una nuova assunzione di responsabilità attiva e preclara nei confronti del paese stesso, ponendo fine alla sterile profluvie retorica, documentale e a prevalenza recriminosa.

Due elementi risaltano incontrovertibili dall’analisi di tali venticinque anni:
  1. il primo è che la Democrazia Cristiana storica si dissolse essenzialmente per le proprie debolezze morali e culturali interne, nel quadro di un dissolvimento più complessivo che colpiva contemporaneamente tutto il quadro politico e socio-culturale del paese: non si dissolse per oscure congiure di nemici esterni, come troppe volte viene ripetuto a modo di autoscusante; ed è onesto e soprattutto utile riconoscerlo;
  2. il secondo è  che i venticinque anni di diaspora sono venuti evidenziando una strutturale frantumazione del movimento volto a ricomporre in unità coerente, credibile e operativa quella esperienza storica e quella cultura politica, aggiornandole alle esigenze del ventunesimo secolo: frantumazione nella prevalenza dei casi non assimilabile a un sano e fertile pluralismo dialettico di idee e proposte ma piuttosto riconducibile a quelle medesime patologiche debolezze morali e culturali interne sopra accennate, che hanno reso sterile fino a oggi il pur copioso proliferare di proposte, ipotesi, auspici e tentativi di dar vita alla citata ricomposizione.
Proliferare dovuto, a sua volta, alla permanente ricchezza di stimoli e individualità positivamente testimonianti in tutto il nostro paese; ricomposizione drammaticamente esigita, dal canto suo, dalle condizioni impoverite del Paese stesso sotto il profilo di una legislazione sempre più caotica e meno trasparente, di un sistema di istituti educativo-formativi sempre più smarriti pedagogicamente e valorialmente, di una economia priva di timone e di bussola orientati al bene comune.

Orbene, nel quadro complesso, ma a volte più complicato che complesso, di tale frantumazione, le iniziative che continuano a proliferare per la ripresa di un ruolo politico di ispirazione cristiana di alto e universale respiro si rivelano assunte in grande prevalenza da personalità variamente ricche di esperienza ai diversi livelli della vita del paese, amministratori locali, parlamentari, docenti universitari, animatori sociali, tecnici delle istituzioni, sindacalisti, professionisti, e così via, alla guida di gruppi di cittadini di diversificata consistenza.   

E’ una situazione che richiama la doverosità, quanto meno, di un valore di principio e di due conseguenze operative. Il valore di principio è che l’auspicato nuovo soggetto politico di ispirazione cristiana non può che avere il carattere di una associazione di persone, mai di organizzazioni o espressioni organizzate di interessi. Perché è solo la persona a essere portatrice iniziale e finale di diritti, doveri e responsabilità (anche questo è personalismo).

La prima conseguenza è che principio inderogabile di successo dell’impresa comune resta quello secondo cui ciascuna singola persona, qualunque siano il suo pregresso e attuale ruolo presso la opinione pubblica interessata, non può che aderire al nuovo soggetto politico in assoluta pari dignità rispetto a tutte le altre persone. Lo diciamo con accorato convincimento davanti alla constatazione negativamente sintomatica di persone che prospettano per sé l’aspettativa aprioristica di vedersi riconoscere nel nuovo soggetto politico ruoli garantiti o comunque di maggior riguardo, siano esse parlamentari che vantano il peso di una già operativa spendibilità istituzionale ed elettorale, sindacalisti che vantano una pregressa copertura di ruoli nazionali, cattedratici che vantano una già riconosciuta notorietà nei mondi accademici, rappresentanti di organismi portatori di potenziali consensi collettivi, e così via.

Una simile pretesa di ruoli pregiudizialmente riconosciuti è incompatibile con il necessario carattere di assoluta e trasparente connotazione democratico-associativa incarnata nei valori del personalismo e popolarismo politico di matrice cristiana che si vogliono riproporre, conosciuti dalla tradizione valoriale sturziana come da quelle degasperiana e dossettiana e lapiriana e morotea e così via.

La seconda e correlativa conseguenza è che, posta l’accettazione piena dello statuto del nuovo soggetto politico e le sue prescrizioni valoriali e comportamentali, a nessuna persona che lo desideri può essere preclusa a priori la partecipazione al nuovo partito. Come a nessun gruppo di persone può essere precluso di concorrere alla sua costituzione.

Ove così non fosse, la nuova realtà organizzata, piuttosto che rappresentare per l’Italia e  per il mondo una grande speranza, rappresenterebbe la sterile reiterazione di modelli di oligarchia negatori in radice dei valori richiamati. Quando occorre invece un rinnovato potente modello di umanesimo ad alta caratura di cultura delle regole e di visione comunitaria, che in altre occasioni abbiamo già avuto modo di definire “di rigorosità e luminosità monastiche”.

Mi permetto infine di richiamare per sintetiche espressioni alcuni altri concetti già in passato illustrati, e cioé:
  1. più elevata è la cultura del nuovo soggetto politico, meno senso ha porsi un problema di schieramento al centro piuttosto  che al centrosinistro o al centrodestro della politica italiana: Il popolarismo è altro;
  2. il nuovo soggetto politico non è in funzione centrale del momento elettorale, bensì quest’ultimo è conseguenza diretta e forte del partito immerso socialmente ed operativamente fra la gente;
  3. la sovraproduzione particolaristica di proposte programmatiche per l’Italia costituisce un gigantismo verboso che nuoce alla chiarezza e identità forte del programma: la nostra storia e la nostra identità valoriale sono bastantemente espresse da pochi e chiari caposaldi, fra i quali il diritto al lavoro, l’impresa partecipativa, lo Stato snello, la formazione di base umanistica, e pochi altri.  Il restante è corretto e sacrosanto e rispettoso che venga riservato alla futura elaborazione democratica degli organi democratici del nuovo partito.
 
                                                                                                                            (Giuseppe Ecca)
 
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Prospettive dopo il coronavirus

LAVORO AGILE (O SNELLO)

Il coronavirus lo ha brutalmente imposto, il lavoro snello, come risorsa di ultima istanza per affrontare una pandemia che altrimenti avrebbe avuto effetti di gran lunga più drammatici, connessi con il puro e semplice blocco di una grande quantità ulteriore di attività economiche.
 
Ora, terminata la fase acuta della pandemia, sarebbe un errore molto grave limitarsi a tornare al semplice modo di lavorare precedente, perdendo la occasione di studiare, perfezionare, implementare e diffondere la modalità del lavoro snello, articolandola intelligentemente con la necessaria quota di lavoro “in presenza e collettivo”, che non può essere superato.
 
Sulla tematica, molto prima che il carognavirus facesse sentire  la sua mano pesante, si esprimevano già diversi studiosi, e la giurista Manuela Lupi, in questo quadro, due anni fa precisò in un breve essenziale articolo lo stato, appunto giuridico, alcuni aspetti della situazione. Riproponiamo la sua riflessione per la attualità concreta che essa esprime a livello di chiarimento concettuale, e dalla quale è corretto ripartire dopo la pandemia per non limitarci stupidamente a riprendere tutto come se nulla fosse stato.


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La legge 22 maggio 2017 n.81, intitolata  "Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi di lavoro subordinato" e' entrata in vigore il 14 giugno 2017.
 
Essa istituisce presso i Centri per l'Impiego uno sportello dedicato al lavoro autonomo per raccogliere le domande e le offerte di questo tipo di prestazione,  e dare informazioni alle aziende che ne facciano richiesta.
 
Fermiamoci a considerare il capo secondo della legge, che regola il “lavoro agile” o “smart working” o “lavoro snello”.
 
La legge colloca questa modalità di lavoro nell'ambito del lavoro subordinato, differenziandola dal telelavoro. E’ una forma di lavoro stabilita mediante accordo tra le parti, con forme di organizzazione per fasi, cicli ed obiettivi, senza vincoli di orario o di luogo di lavoro, senza postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario. 
 
Il lavoro agile si basa sull'utilizzo da parte del lavoratore di strumenti tecnologici del cui buon funzionamento è responsabile il datore di lavoro. Le disposizioni si applicano anche ai dipendenti della pubblica amministrazione e gli incentivi di carattere fiscale e contributivo devono essere riconosciuti anche a tale lavoro.
 
L'accordo relativo al lavoro agile va stipulato per iscritto e deve individuare i tempi di riposo, le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche al termine degli orari di lavoro, e deve individuare quelle modalità di esercizio della prestazione che possano dare origine a sanzioni disciplinari. 
 
Il lavoro agile può, inoltre, essere a tempo determinato o indeterminato: e in questo secondo caso il recesso può avvenire con un preavviso non inferiore a 30 giorni.
 
In materia di trattamento economico, poi, la legge introduce:
 
1) il diritto a un trattamento non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei colleghi che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all'interno dell'azienda;
2) il diritto all’apprendimento permanente e alla periodica certificazione delle relative competenze.
 
Il datore di lavoro garantisce anche la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di “lavoro agile”, e a tal fine consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro.
 
Il lavoratore è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali.
 
Il lavoratore ha diritto inoltre alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dipendenti da rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all’esterno dei locali aziendali.
 
Il lavoratore ha diritto infine alla tutela contro gli infortuni sul lavoro occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, quando la scelta del luogo della prestazione sia dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa o dalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative, e risponda a criteri di ragionevolezza.
                                                                           
                                                                                                                                         (Manuela Lupi)
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Prospettive

CORONAVIRUS PRIMA STAGIONE: E POI?

Giuseppe Bianchi, con il suo Istituto per le Relazioni Industriali e di Lavoro, traccia un quadro della prospettiva del nostro paese in uscita dal coronavirus, che sottolinea la necessità di tornare a vitalizzare il meccanismo fondamentale della nostra democrazia  e della nostra tensione civile, per restituire all’Italia una speranza che non sia sempre e solo quella miseramente congiunturale. Proponiamo la riflessione.

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Con la pandemia, la dimensione del tragico è tornata nella realtà. I fantasmi della morte, della malattia, del dolore, oscurati dal vitalismo rampante delle nostre società, sono tornati. I camion militari carichi di bare, l’ansia per una malattia sconosciuta, il dolore in solitudine per la perdita di persone care, hanno creato una depressione labirintica senza via di uscita. Perché, nel contempo, l’aggressione totalizzante del virus ha reso impossibile la fuga verso rifugi sicuri, rendendoci prigionieri entro le mura di casa. Contrariamente alle guerre del passato, non è venuto a mancare il pane, ma le libertà che hanno arricchito la qualità del nostro benessere: libertà di viaggiare, di incontrare persone, di disporre delle proprietà.
 
Ed è difficile prevedere quanto durerà questa sorveglianza da parte dei tutori della salute pubblica in un mondo aperto, globalizzato, esposto al rischio di nuove epidemie e nello stesso tempo tanto avverso al rischio.
 
Ma non c’è solo la pandemia: ci sono altri fattori che si muovono nella stessa direzione, che vanno a destabilizzare i nostri modelli di vita. È in atto una rivoluzione tecnologica con i robot, con l’intelligenza artificiale, destinata a modificare il nostro modo di produrre, di lavorare e di consumare. Ci sono le applicazioni digitali, già sperimentate nel corso dell’epidemia, che consentono di tracciare i nostri movimenti, di disporre dei nostri dati più personali, configurando nuovi strumenti di controllo sociale che possono ingabbiare le nostre libertà. E come non evocare i nuovi bisogni di sicurezza che nascono dai mutamenti climatici in atto o dai progressi delle biotecnologie, che sono in grado di manipolare i due punti chiave del nostro percorso umano: la nascita e la morte?
 
In sintesi, siamo in presenza di forze dirompenti dei nostri equilibri economici e sociali, i cui poteri sono concentrati in mano di pochi: le privative che governano le nuove piattaforme digitali, i grandi centri di ricerca scientifica e tecnologica, i grandi gruppi finanziari e industriali, la politica di potenza di paesi illiberali (Cina, Russia).
 
Sorge a questo punto la domanda: di quali strumenti di governo dispongono le nostre società democratiche per affrontare l’onda lunga di questi cambiamenti imposti da istituzioni sottratte al controllo democratico? In altre parole, quale sarà la capacità dei nostri sistemi democratici di mantenere i loro tratti libertari nel futuro che si sta delineando?
 
Lo schema classico dei sistemi democratici è costituito da un insieme di procedure che legittimano, tramite il voto, la rappresentanza del popolo nel Parlamento, che delibera quanto il Governo deve realizzare. Questo schema si è già andato evolvendo sotto la pressione di nuove emergenze (sia sanitarie che economiche e sociali) spostando l’asse decisionale a favore del Governo e di organismi tecnici di vario tipo, in nome della governabilità. Si è ridotta la sovranità del popolo rappresentata nelle assemblee legislative. Una evoluzione, come già detto, trainata dalla domanda di protezione dei cittadini che, nelle situazioni di crisi, sono tentati di delegare alla politica la tutela della loro sicurezza e del loro benessere.
 
La pandemia in corso ha però reso evidente l’inadeguatezza dell’attuale politica nell’esercitare tale tutela. A due mesi e oltre di distanza dal nostro confinamento, test sierologici, tamponi ed app di tracciamento non sono ancora in grado di tenere sotto controllo la diffusione del virus, mentre le generose promesse fatte dal Governo sul fatto che nessuno rimarrà indietro rimangono ancora in gran parte inevase.
 
In questa Nota non interessa evocare, ancora una volta, la fragilità della nostra finanza pubblica o le inefficienze strutturali di un sistema debilitato nella sua capacità di crescita. C’è una specificità del nostro sistema politico nel contesto europeo da ricordare. La perdita di ruolo dei partiti e, sia pure in misura minore, delle altre organizzazioni di rappresentanza collettiva degli interessi (Confindustria, Sindacati e altre) che, nel passato, esercitavano una funzione di selezione e di contenimento delle domande sociali, svolgendo una funzione educativa e di selezione delle classi dirigenti. La condivisione dei cosiddetti vincoli macro-economici (in parte di origine europea) delimitavano il campo entro il quale regolare il conflitto politico e sociale.
 
L’epidemia del coronavirus ha creato una situazione inedita di un Governo assediato dai molteplici interessi che rivendicano risarcimenti (veri o presunti) senza che lo stesso Governo abbia una bussola che orienti i suoi interventi. Rimane aperta la questione se la capacità di indebitamento del nostro Paese, considerando anche gli apporti dell’Unione Europea (ancora da precisare) sarà tale da soddisfare tutte le richieste e soprattutto quanto spazio rimarrà per attivare gli investimenti pubblici e privati necessari per riattivare la crescita economica ed occupazionale.
 
Ma dietro la crisi dei partiti e delle rappresentanze sociali c’è un altro effetto non meno importante. La perdita di valori comunitari rappresentati nelle grandi ideologie partitiche del Novecento e nelle strategie delle parti sociali che presentavano una indissolubile mescolanza di interessi e di ideali.
 
I cittadini, pur nella difformità delle loro appartenenze sociali, riponevano nelle istituzioni democratiche le aspettative riguardanti i loro progetti di vita, partecipando ad un’etica della responsabilità.
 

Non è un caso se nel corso dell’attuale pandemia si sia tornati a parlare di speranza, di solidarietà, di cooperazione: la riprova che un sistema democratico vive non solo di risorse economiche, ma richiede anche una dotazione di energie morali, di virtù pubbliche. La pandemia in atto ha aggravato le disuguaglianze sociali, ha ridotto le nostre libertà, ha scoraggiato le speranze dei giovani, ha evidenziato la carenza di beni pubblici. La leva degli interessi appare inadeguata a sollevarci da una crisi sanitaria che è diventata sistemica nella misura in cui ha messo in crisi gli equilibri già precari del nostro sistema economico e sociale.
 
Nell’emergenza sanitaria sono prevalsi la tutela della salute e il sostegno alle strutture produttive. Uno stato di eccezione che ha legittimato il decisionismo del Governo al di fuori delle normali procedure. È però difficile pensare che la paura del contagio e l’assistenzialismo risarcitorio dello Stato possano costruire un futuro per il Paese, all’interno di uno scambio tra diritti dei cittadini e tutela della politica.
 
Occorre riannodare i fili che legano economia, liberà ed uguaglianza in un progetto di sviluppo che, all’interno di un orizzonte temporale utile, consenta di riattivare la normale dialettica politica e sociale. Un impegno di rinnovamento che chiama in causa la qualità della spesa pubblica, la riattivazione degli investimenti, le politiche per l’occupazione e così via.
 
Ritorna il quesito: il nostro sistema politico ha una dotazione di solidarietà e di virtù pubbliche per gestire una tale sfida? La politica si è sconnessa dalle culture presenti nella società civile: culture religiose, laiche, civiche che un tempo alimentavano il dibattito politico. Un pluralismo di valori incassato nello stato di cittadinanza dei cittadini che creavano legami sociali e sostenevano la partecipazione alla vita democratica. Un patrimonio di valori pre-politico che arricchiva la ragione pubblica alla base delle decisioni politiche.
 
È difficile pensare che la solidarietà manifestata nella paura epidemica regga di fronte al conflitto degli interessi della fase successiva di difficile ripresa economica. La divisione è un tratto antropologico della nostra popolazione.  Ma ora siamo in una fase di disincantamento. Si ritornerà a crescere ma l’alta marea prevista non sarà in grado di alzare tutte le barche. L’Italia – “nave senza nocchiere” rischia di infrangersi contro gli scogli.
 
Ritorna il vecchio dilemma storico: o le nostre istituzioni democratiche recupereranno la loro autorevolezza con un supplemento di virtù pubbliche in termini di solidarietà o di coesione, o ci sarà una deriva verso politiche illiberali, a dimostrazione che il potere non arriva a chi sa farne l’uso migliore bensì a chi è più abile a conquistarlo.
                                                                                                                   
                                                                                                                                    (Giuseppe Bianchi)
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Racconti di vita

SCHIOCCHI DI CHIOCCIOLE

Traiamo questo “racconto di vita” dall’antico gradevole forziere, in parte rimasto tuttora non pienamente valorizzato, di quello che per diversi anni è stato il pregevole “Premio Prato Raccontiamoci”. Rendiamo omaggio, pubblicandolo, all’anonimo autore che, come molto spesso accadeva ai partecipanti al concorso, condivideva così una effettiva esperienza personale di vita nello spirito di trasmettere alle generazioni più giovani conoscenza e spunti di riflessione.

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Bari rosseggia ad ovest, in un tramonto scarlatto dipinto su di una tela color cobalto. Riflesso cristallino da Oriente, dell’Adriatico increspato dalla brezza di maggio. Cammino su via De Rossi verso la chiesa del convento delle Carmelitane Scalze. Una folata di grecale mi alita alle spalle. Riesce ancora a sorprendermi, in una città caotica che tossisce, sbuffa, e strombazza.
Sono in anticipo sull’ora fissata per la celebrazione della messa di suffragio per Angelo. Sono passati sei mesi, ormai, dalla sua dipartita. Nella chiesetta ritrovo Mina, sua moglie, e i suoi amici più cari. Ci salutiamo timidamente. L’atmosfera è austera. Rimaniamo in silenzio, durante l’attesa. Un silenzio che evoca riflessioni in un momento in cui sento claudicante la mia religiosità: tanto fragile da infrangersi sotto la mole dei miei interrogativi razionali.
Una imponente inferriata si affaccia alla sinistra dell’altare. E’ dietro quel diaframma che iniziano ad apparire le religiose. Mi sorprende la loro pelle, diafana come la luna. E’ la prima volta che entro in un convento di clausura. L’idea di cristianità vissuta tra la comunità dei fedeli con il tramite di una cancellata mi turba. La mia razionalità si intriga di argomentare i suoi teoremi. Articola sillogismi. Scandisce deduzioni logiche a cascata. Infine, sentenzia: “anacronistica!”. Quella realtà appare semplicemente anacronistica. Anche l’ubicazione del convento sembra fuori luogo. Era sorto un secolo fa nelle campagne. La città ora lo ha fagocitato tra palazzi vanitosi di cemento. I lati sud e ovest sono lambiti da una direttrice di traffico che scorre fragorosa come un torrente in piena. Un rombo continuo di autovetture in corsa, dal quale emerge l’urlo straziante delle sirene e degli strilli molesti dei clacson. Clamori di una bolgia infernale, invadenti e irritanti, che le spesse mura del convento non riescono a trattenere. Quella dislocazione mi appare inadeguata per un luogo di meditazione. Non vedo nulla di bucolico. Non sento il canto degli usignoli. Nè lo schiocco delle chiocciole cadute dagli steli di avena all’ondeggiare del vento. Già, lo schiocco delle chiocciole… Fu proprio Angelo ad insegnarmi ad ascoltarlo. Eravamo nel suo giardino. Mi indicò una chiocciola che aveva raggiunto l’apice di un filo d’erba sul quale si era lentamente inerpicata. Mi invitò ad osservarla nel più assoluto silenzio mentre danzava con il vento. Non capivo il perché, fino a quando una folata di brezza marina la staccò facendola cadere sul dorso del suo guscio. Lo vidi chiudere gli occhi e annuire con il capo. Uno dei pochi movimenti che gli erano rimasti dopo che il suo sistema nervoso era stato devastato dal processo di demielinizzazione. Era la metafora della sua vita. La storia di un corpo con una vitalità straordinaria che il vento impietoso della malattia e della senescenza aveva trasformato in un guscio inchiodato al suolo. Sì, perché Angelo prima della disabilità ne aveva fatte di scalate... Tutta la sua vita era stata una sfida. Rimasto orfano di madre, morta di parto, aveva giurato di combattere contro la causa della sofferenza della sua infanzia.
Era stato un dramma che non riusciva ad accettare, quello che una madre perdesse la propria vita nel momento in cui ne generava una nuova. Fu la sua missione. Divenne medico e ginecologo. Ogni travaglio fu il suo travaglio. Ogni parto, lotta e rivincita sugli incubi della sua infanzia. Migliaia di bimbi emersero dall’apnea delle acque placentali confortati dalle sue mani grandi e possenti. Mani che raccontavano storie di vita. Mani sulle quali, poi, la malattia era calata come l’autunno sulle foglie. Un autunno durato venti anni.
Perché mai un albero così rigoglioso di frutti può rinsecchirsi così  impietosamente? Perché mai la malattia può trasformare una vita così meravigliosa in un supplizio senza fine, tanto straziante?! La mia razionalità non trova risposte.
Una campanella mi fa riemergere dai miei pensieri. La messa ha inizio. L’officiante inizia la liturgia. Da dietro le grate si ode un coro. Le suore cantano: la loro voce mi sorprende. Le loro labbra vibrano impercettibilmente. Un fremito mi scuote come una carica elettrica. Scruto attraverso il diaframma che ci divide. Tutte hanno lo sguardo fisso nel vuoto, quasi rapite dal loro cimento. Un canto che emerge dalle corde più profonde del loro spirito. Un suono celestiale si propaga soave nella chiesa. I clamori della strada si sono spenti d’incanto. Mi sento irretito. Quelle voci hanno spalancato una porta della quale non conoscevo l’esistenza, e illuminano una stanza buia del mio animo. La catarsi mi spinge ad entrare. Mi avvicino timidamente a quella porta. Nella penombra di quella stanza intravedo uno scrittoio con l’album dalla copertina verde di finto cuoio delle fotografie della mia infanzia. Qualcosa mi spinge ad aprirlo. Nella prima pagina, però, trovo una foto mai vista. Mi ritrae nei miei primi giorni di vita. Sono solo in una culla di ospedale. Mia madre non c’è.
La voce della prima lettura mi riporta in chiesa. E’ quella di una lettera degli Apostoli: ”… La pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo”. L’immagine è suggestiva. Lo è tanto più quando i miei pensieri identificano il costruttore che è in me. La mia razionalità sempre pronta a erigere castelli logici e bastioni  deduttivi… a discernere il granito dall’arenaria… a sovrapporre la compattezza delle certezze del primo e a scaricare la friabilità dei dubbi della seconda. L’arroganza della mia razionalità dispensa giudizi troppo disinvolti. Scarta ciò che non si piega. Setaccia il bene e il male con la spocchia dello scolaro capo della classe, che con il suo gessetto sulla lavagna diventa misura dei buoni e dei cattivi. Devo riconoscerlo. I lumi della mia ragione sono come quelli del crivello della massaia. Con quale arbitrio ci ho messo dentro gli anni della malattia di Angelo, e la clausura di quelle suore dalla voce angelica? Provo rincrescimento verso me stesso.
Un nuovo canto mi proietta davanti all’album della mia infanzia. In seconda pagina la foto di una puerpera in coma, abbarbicata ad un flebile alito di vita tra medici che  si disperano per salvarla. Mi avvicino timidamente. Mi trovo dentro quella foto. Non sono un medico. Ma vorrei fare qualcosa per aiutarla. Un muro di camici si frappone fra me e lei come uno sbarramento. Si apre un varco. E’ un incubo. Quella donna è mia madre. Sì, è proprio lei! Me l’avevano detto. Il mio fu un parto difficile. Dopo la mia nascita mia madre entrò in coma per giorni. Anch’io mi ero trovato allo stesso bivio di Angelo. Ma mia madre era sopravvissuta. Se l’avessi persa, quanto la mia vita sarebbe stata più simile a quella di Angelo? L’interrogativo mi appare crittografato in una espressione matematica disegnata su una lavagna. Il gessetto tra le mie dita scorre sull’ardesia. Pretende di svelarmi le sue stridenti soluzioni. Il calcolo è ambizioso: scoprire i connotati della nostra esistenza dagli accadimenti che la caratterizzano. Ricerco un’incognita combinando le sue variabili indipendenti. La presenza di una identica variabile in due espressioni diverse non può non rendere simili le sue incognite. L’ipotesi mi appare verosimile. E’ in qualche modo estrinsecazione degli assiomi della logica. Almeno, così credo. Se A è uguale a B e quest’ultima è uguale a C , il risultato inoppugnabile è che A e C sono uguali. L’ipotesi che un accadimento tragico possa assimilare l’esistenza di persone diverse mi appare logicamente motivata. Ma, Dio, Il labirinto della ragione mi trascina nel suo vortice davanti ad un terribile quesito: chissà quanto una malattia invalidante possa accomunarci? Se avessi avuto la malattia di Angelo come sarebbe stata la mia vita? L’ipotesi mi terrorizza. Mi manca il respiro. Mi sento prigioniero in una sfera di cristallo.
La messa è finita. Mi riprendo dalle mie inquietudini. Le religiose escono in fila. Si ritraggono come un rigagnolo nel deflusso dell’onda sulla battigia del mio animo. In quel solco rifluiscono i granelli del basamento del castello di sabbia delle mie certezze. In chiesa si ode il pianto sommesso di una donna. Tiene per mano un adolescente. Non comprendo la ragione del suo lamento. Una voce alle spalle mi sussurra: ”Fu l’ultima paziente del dottore. Scoprì di aspettare un bambino. Era sola. Senza un lavoro. Senza famiglia. Palesò l’intenzione di interrompere la gravidanza. Angelo, ormai debilitato dalla malattia, le disse: “Se quello che ho basta per la mia famiglia, basterà anche per te. Tuo figlio nascerà! E ora, eccoli”.
Mi commuovo. Quell’uomo aveva continuato la sua sfida anche quando la disabilità lo aveva atterrato. La malattia gli aveva tarpato le ali, ma egli aveva continuato a volare. Forse ancora più in alto. Tutto comincia ad avere un senso. La debilitazione fisica non era stata per Angelo un limite, così come non lo era la clausura per quelle suore. Il perseguimento della loro missione, nella costrizione delle loro barriere, mi ammalia. Mi incanta come il corso di un fiume che, giunto davanti a un ostacolo naturale, lo supera con il fragore di una cascata e riprende placido il proprio corso. Nel canto di quelle suore lo scroscio di una sorgente nella quale ho avvertito la presenza divina come non mai. Nell’altruismo di un anziano disabile, il frastuono di una cateratta nella quale ho percepito l’Uomo in tutta la sua grandezza. Chiocciole che nonostante il loro guscio continuano ad inerpicarsi verso le loro mete. Pietre scartate dai costruttori, diventate pietre d’angolo.
“E’ proprio così – prosegue la voce alle mie spalle: - nessun guscio è un limite!”.
Ma chi sta parlando?! Mi giro di soprassalto. Non c’è nessuno. La porta della chiesa è socchiusa. Uno spiffero la riapre. Il grecale entra accompagnato dai soffusi profumi del sole del crepuscolo. Mi alita sulla pelle. Ormai, non ha più  motivo di sorprendermi.
                                                                                                                             
                                                                                                                                   (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci”)
 
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Democrazia Comunitaria

QUALE RINNOVATO UMANESIMO SOCIALE PER L'ITALIA CHE RIPRENDE?

La evidenza e la forza dei problemi posti in luce dalla pandemia di coronavirus in corso sottolineano per l’Italia (ma sostanzialmente anche per tutti i paesi del mondo) tre priorità e urgenze strategiche ai fini di una ripresa che non sia effimera e che, nello stesso tempo, sia socialmente equa.
La prima priorità e urgenza è quella di restituire al Paese una politica alta ed organica, con impostazione valoriale fondata realmente sulla Costituzione e sui suoi principi, segnatamente sulla sua Prima Parte, finora o parzialmente inapplicata o parzialmente distorta da una legislazione, e ancor più da una normazione attuativa, prive di luce e di coerenza.
Tale politica alta fa oggi drammaticamente appello a tutti i cittadini di buona volontà, e nella coscienza di Democrazia Comunitaria fa appello soprattutto al senso di responsabilità dei cattolici, affinchè, questi ultimi in particolare, sappiano superare l’attuale frammentazione patologica e sterile di atteggiamenti e comportamenti, e trovare nelle loro energie storiche, culturali e spirituali, la forza di offrire all’Italia, in concreto, un nuovo partito politico nazionale in grado di riprendere organicamente e attivamente il pensiero, il programma e lo stile che furono dei De Gasperi, Dossetti, La Pira, Olivetti, Mattei, Tina Anselmi, Moro e gli altri grandi padri anche non cattolici della nostra esperienza democratica, da Einaudi a Pertini a Calamandrei e, ancora, a tanti altri. Superando, essi cattolici, non soltanto l’attuale infertile frammentazione ma anche la frequente incultura per la quale prevale inavvertitamente nella loro iniziativa, di fatto, la critica alle insufficienze altrui piuttosto che la tensione ai concreti doveri propri, compresa la esigenza di una coraggiosa e responsabile autodisciplina di organizzazione nel campo dell’azione politica e sociale per il bene del Paese.
Occorre al Paese, ed al movimento cattolico in modo specifico, un nuovo partito che sappia dare altissima testimonianza in materia di democrazia interna, di pluralismo, di cultura delle regole, di dedizione al servizio della comunità, di etica della responsabilità individuale e collettiva, di alto senso dello Stato unito armonicamente ad alto senso delle autonomie al servizio della sussidiarietà e intorno al valore delle persone e della comunità a partire dalla famiglia. Un partito fondato comunque su persone, sempre titolari finali di ogni diritto e di ogni dovere, non su realtà organizzate portatrici di interessi di tipo direttamente o indirettamente lobbistico.
La seconda priorità e urgenza è quella di oltrepassare con franchezza il drammatico Rubicone dell’economia e del lavoro, caratteristico di questi ultimi quarant’anni di parziale democrazia e di piena libertà di mercato, e decidere definitivamente e coraggiosamente la transizione verso l’impresa partecipativa e l’economia solidale: introducendo il criterio generale della cointeressenza istituzionale di tutti gli operatori, e segnatamente dei lavoratori dipendenti, nei risultati d’impresa, e tenendo presente che anche lo Stato è, in questo senso, impresa: impresa di tutti i cittadini. Olivetti, Ferrero, la Economia di Comunione, il primo Eni di Enrico Mattei, l’attuale Loccioni, e molte altre realtà, possono costituire esempi significativi di riferimento per sviluppare tale politica economica di efficienza permanentemente collegata a equità.
Nell’attuale contingenza particolare di pandemia, inoltre, DemocraziaComunitaria ritiene molto più importante liberare e sostenere il lavoro che non seminare fra imprese e cittadini finanziamenti a fondo perduto con pura logica e psicologia assistenziale.
In questo spirito di rinnovamento i due principali provvedimenti da assumere quale stile di governo sono da un lato la effettiva e materiale semplificazione della burocrazia compreso lo snellimento dell’apparato statuale e regionale (ogni normativa semplificata per liberare il lavoro e la vita dei cittadini vale, anche in termini di potenziale economico, più di una erogazione finanziaria a fondo perduto) e dall’altro la finalizzazione dei sostegni finanziari soltanto ai concreti e verificati investimenti in ripresa e sviluppo di ogni singola impresa, quali sono non solo macchinari e tecnologie ma anche spazi e organizzazione del lavoro innovativi atti a consentire  stabilmente un distanziamento e rallentamento nei ritmi dell’ormai becero e antiumano produttivismo meccanicistico da massimo profitto, per transitare a una moderna produttività di benessere diffuso e integrale: che non è nemico del profitto ma è, al contrario, suo esaltatore di stabilità e qualità totale. Il lavorare meno per lavorare tutti presenta in questo quadro la sua massima attualità, insieme con la transizione tendenziale alla settimana lavorative di quattro giorni ed alla giornata lavorativa di sei ore, mentre va posto drasticamente fine, per converso, all’immorale concetto di reddito di cittadinanza, da sostituire con il reddito da lavoro collegato con il diritto soggettivo ed  effettivo, e l’altrettale dovere, al lavoro stesso.
La terza priorità e urgenza è costituita dalla restituzione ai sistemi formativi del paese, a tutti i livelli, di un approccio profondamente umanistico e di pedagogia integrata e integrale per la comunità e per la persona lungo tutto l’arco della vita di questa.
Gli attuali sistemi formativi si caratterizzano essenzialmente e negativamente, dalla scuola elementare all’università ed alle tipologie variamente manageriali, politiche, sindacali, professionali, aziendali, etc., come una incoerente galassia ricca di nozioni e povera di pensiero, e spesso ancor più povera di consistenze valoriali, finendo per immiserire la caratura sociale della comunità e l’autorealizzazione compiuta delle persone.
Un cammino di ripresa credibile e sollecito in tale spirito può venire indicato, ad esempio, dal recente studio “Il sentiero stretto: formazione è un’altra cosa”, che delinea appunto i criteri irrinunciabili per un’alta e diffusa ripresa della centralità della questione pedagogica nel nostro paese, facendo riferimento sia alle generali esperienze degli ultimi cinquant’anni nel mondo sia alle migliori testimonianze educative della nostra storia, da Giovanni Bosco a Lorenzo Milani, da Maria Montessori a Piero Calamandrei, da Carlo Carretto a Vittorio Bachelet.
Vogliamo una Italia realmente democratica e realmente pluralista, realmente valoriale e realmente solidale, realmente protagonista e realmente al servizio “di tutto l’uomo e di tutti gli uomini”. E intendiamo doverosamente assumerci in questa impresa anche la nostra personale e collettiva responsabilità.

Roma, 16 maggio 2020.
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Economia e società

CORONAVIRUS, ANZIANI, GIOVANI: PROVIAMO A RAGIONARE DI OPPORTUNITA' CONDIVISE...

Il coronavirus non fa sconti agli anziani e li sta falciando. La combinazione con patologie pregresse è l’attestato per il congedo dalla vita. Non avevano la fedina sanitaria pulita. Giustificata la compassionevole rassegnazione della collettività nei confronti di un virus impensabile la cui rapida diffusione impone anche il calcolo probabilistico della sopravvivenza nell’uso delle risorse mediche rese scarse dall’emergenza.

Occorre dire che l’anziano ha già fatto i conti con la residua sabbia rimasta nella sua clessidra e ha la dimensione del futuro disponibile di cui è privo il giovane, immerso in un presente senza confine.

La dignità della morte per l’anziano è il compimento della dignità della vita.

La cultura greca a latina hanno coltivato il valore della “buona morte” rappresentata dal termine euthanasia. Noi siamo eredi di una cultura diversa, forgiata dalla rivoluzione cristiana, che non è estranea alla dignità della morte. Che dire, oggi, di fronte alla sofferenza degli anziani contagiati, isolati da ogni conforto umano, che annaspano nella fatica di riempire d’aria i polmoni che non funzionano più? Un evento tragico che ripropone il tema, sempre presente, della ricerca di un equilibrio etico tra la sacralità della vita e l’autodeterminazione del malato come espressione terminale della sua libertà di coscienza. Due valori compresenti nell’umanesimo cristiano. Certo, una libertà rischiosa che deve misurarsi anche con i progressi della scienza medica e dell’ingegneria genetica che hanno superato i limiti che si pensavano invalicabili e intrinseci nella natura umana.

Ma torniamo anche alla realtà dell’anziano che è sfuggito al contagio. Nessuno oggi è in grado di prevedere quanto durerà l’emergenza sanitaria né di escludere altre ricadute fino a quando non si avrà un nuovo vaccino. Ci sarà una lunga fase di transizione che ritarderà, soprattutto per gli anziani, il ritorno alla vita normale. Essi avranno bisogno di cure e di assistenza, di solidarietà da parte della collettività ad integrazione di quella fornita dalle famiglie che escono stremate dalla crisi.

Ricevere solidarietà significa anche porsi nella condizione di offrirla agli altri. Il vasto mondo degli anziani è variegato nella sua composizione. L’allungamento della vita ha allargato il numero di anziani in pensione che hanno ancora la capacità di partecipare alla vita economica e sociale.
 
In primo luogo gli anziani sono mediamente più ricchi delle generazioni successive. Hanno vissuto stagioni di crescita economica e di stabilità occupazionale che ne ha fatto dei buoni risparmiatori, anche perché sobri nei consumi. Questi anziani, divenuti nonni, si sono prodigati nel sostegno economico alle loro famiglie in difficoltà e soprattutto a favore dei nipoti, svantaggiati da un sistema sociale che premia gli interessi più forti e rappresentati. Hanno dato vita, a seconda delle loro possibilità, a un welfare familiare di cui avvertono il breve respiro. L’esperienza di vita ha loro insegnato che se il sistema economico non torna a produrre nuova ricchezza, il loro impegno solidale è destinato a naufragare nel declino del Paese. Ma nello stesso tempo il loro diretto coinvolgimento nelle crisi precedenti, per lo più irrisolte, li rende particolarmente consapevoli delle discontinuità da gestire per uscire dall’emergenza in corso, senza precedenti per gravità.

In secondo luogo gli anziani sono anche portatori di conoscenze e di competenze, un bacino potenziale di opportunità, nella prospettiva, ormai data per certa, di una prossima e grave recessione economica. Il Paese, nel suo processo di ricostruzione, dovrà attivare un forte processo di deburocratizzazione per ridare vigore all’iniziativa dei diversi attori, pubblici e privati, dello sviluppo. In questo processo si possono anche prevedere forme organizzative flessibili per il reinserimento nel ciclo produttivo e del volontariato sociale delle competenze maturate dagli anziani. Così come i medici in pensione si sono mobilitati per rispondere alla crisi sanitaria, altre categorie professionali di pensionati possono dare il loro contributo al rafforzamento delle strutture tecnico-scientifiche che hanno manifestato la loro fragilità nel corso della crisi.

In conclusione, gli anziani possono ancora dare solidarietà, oltre che riceverla. Una occasione per uscire dagli steccati corporativi. Nella crisi torniamo tutti ad essere comunità. Tutti dobbiamo remare nella stessa direzione per evitare che la barca affondi nella tempesta perfetta che è in atto.
                                                                                                                                                             
                                                                                                                                       (Giuseppe Bianchi)

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Orizzonti

L'ORIZZONTE DI PAPA FRANCESCO

Giovanni Ghiselli è uno dei più profondi e completi conoscitori della cultura classica latina e greca: una conoscenza non astratta ma innervata in una concreta vita professionale trascorsa per oltre trent’anni nella scuola come docente di liceo, a insegnare soprattutto il senso di quella cultura rispetto alla vita di oggi e di sempre. E continua a farlo: non solo nella scuola, ma anche in sedi istituzionali e culturali diverse, richiesto spesso di riflessioni che aiutino a orientarsi in una società che sembra fare molta fatica a riconoscere il senso del suo andare. Il ministero della pubblica istruzione lo ha fra i suoi consulenti.
 
Ci è parso utile riproporre un suo commento al messaggio che Papa Francesco ha rivolto al Parlamento e al Consiglio europei nel 25 novembre 2014: un inedito confronto fra società attuale e mondo dei classici, alla ricerca di utili suggerimenti per non smarrire il timone del mondo che viviamo.
 
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Cercherò di trovare analogie e differenze tra i punti cruciali dell’allocuzione del Papa e alcuni topoi
presenti nei miei autori classici.
 
Sua santità Francesco ha detto che l’Europa è “alquanto invecchiata e compressa”. Il tema
dell’invecchiamento di una civiltà e della terra sulla quale essa è nata ricorre nella letteratura antica.
La causa di tale senescenza è spesso individuata nell’empietà e nell’immoralità degli uomini.
 
Nell'Antigone di Sofocle, Tebe è malata: la città che è di tutto il popolo è sottoposta a un morbo
violento  per l'empietà del tiranno, accusato dal vate Tiresia di amare i turpi guadagni e di
infliggere violenza ai concittadini.
 
Nell' Edipo re lo spengersi degli oracoli procede parallelamente al declinare della polis e il Coro
depreca la miscredenza nei confronti dei responsi, in particolare dei vaticini delfici:
infatti già estirpano
gli antichi vaticini di Laio consunti
e in nessun luogo Apollo
risplende per gli onori
e tramonta il divino
(vv. 907-910).
 
Sofocle insomma fa dipendere dalla empietà la decadenza della vita umana fino alla sterilità delle donne e perfino a quella della terra e degli animali. Leggiamo come il sacerdote nel prologo della tragedia descrive il flagello a Edipo:
 
la città infatti,come anche tu stesso vedi, troppo
già fluttua e di sollevare il capo
dai gorghi del vortice insanguinato non è più capace
e si consuma nei calici infruttuosi della terra,
si consuma nelle mandrie dei buoi al pascolo, e nei parti
senza figli delle donne; e intanto, il dio portatore di fuoco,
scagliatosi, si avventa sulla città, peste odiosissima,
dalla quale è vuotata la casa di Cadmo, e il nero
Ades si arricchisce di gemiti e lamenti"
(Edipo re, vv. 22-30).
 
Empietà secondo Sofocle è la noncuranza degli oracoli e l'abbandono dei riti tradizionali.
 
Isocrate nell'Areopagitico (del 356) condanna più in generale lo sconvolgimento delle tradizioni
antiche:"Ritenevano che la devozione stesse nel non cambiare niente di quello che gli antenati avevano loro tramandato”.
 
Su un'analoga linea di tradizionalismo si trova Sallustio il quale lamenta la decadenza della virtus in seguito alla troppo alta considerazione del denaro:"Operae pretium est (…) visere templa deorum
quae nostri maiores religiosissumi mortales fecere. Verum illi delubra deorum pietate, domos suas
gloria decorabant (Cat. 12): vale la pena di visitare i templi degli dèi che i nostri antenati, uomini
religiosissimi, avevano costruito. In effetti quelli ornavano i santuari degli dèi con la devozione, le
case con la gloria”.
 
Gli dèi sono offesi dal venire meno della pietas, dalla immoralità, dall'irreligiosità, dall'idolatria
degli uomini adoratori del denaro.
 
Sentiamo Petronio che “dipinge in una lingua da orafo i vizi d'una civiltà decrepita, d'un impero che si va sfasciando” (Huysmans) : "ego puto omnia illa a diibus fieri. Nemo enim caelum caelum putat, nemo ieiunium servat, nemo Iovem pili facit, sed omnes opertis oculis bona sua computant. antea stolatae ibant nudis pedibus in clivum, passis capillis, mentibus puris, et Iovem aquam exorabant. Itaque statim urceatim plovebat: aut tunc aut numquam: et omnes redibant udi tamquam mures. Itaque dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus, agri iacent…" (Satyricon, 44, 17-18): io credo che tutto questo derivi dagli dèi. Nessuno infatti considera il cielo, nessuno rispetta il digiuno, nessuno stima un pelo Giove, ma tutti a occhi chiusi fanno il conto dei loro possessi. Prima le matrone in stola salivano a piedi nudi sul colle del Campidoglio, con i capelli sciolti, i cuori puri, e supplicavano Giove per l'acqua. E così subito pioveva a catinelle: o allora o mai più: e tutti tornavano bagnati come topi. Ora gli dèi hanno i piedi felpati. Poiché non siamo religiosi, i campi sono abbandonati.
 
Sono parole di un liberto ignorante, eppure per l’espressione opertis oculis si può trovare una
analogia nell’Antico Testamento a proposito degli idolatri:"Gli idoli dei popoli sono argento e oro,
opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi
e non odono; non c'è respiro nella loro bocca. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi
confida" (Salmi, 135, 15-18).
 
Properzio fa dipendere il tramonto degli dèi, della pietas, della fides, della lex, del pudor, dal lusso e dalla lussuria di uomini e donne, e dalla maledetta fame dell'oro già esecrata da Virgilio:
 
At nunc desertis cessant sacraria lucis:
aurum omnes victa iam pietate colunt.
Auro pulsa fides, auro venalia iura,
aurum lex sequitur, mox sine lege pudor":
 
“ma ora sono trascurati i santuari nei boschi deserti: vinta la devozione, tutti venerano l'oro. Dall'oro è stata messa fuori corso la lealtà, con l'oro si compra la giustizia, la legge obbedisce all'oro, presto il pudore sarà fuori legge”. Tutto questo porterà alla caduta di Roma:"frangitur ipsa suis Roma superba bonis": la stessa Roma superba viene spezzata dalle sue ricchezze.
 
Nella letteratura latina, del resto, c'è un'altra spiegazione. Lucrezio con la visione materialistica ripresa da Epicuro smonta questo tipo di pietas legata, secondo lui alla superstizione (religio) e confuta il " tristis… vetulae vitis sator atque vietae (De rerum natura, II, 1168), il rattristato coltivatore della vigna vecchia e vizza, il quale
 
Temporis incusat nomen saeclumque fatigat,
et crepat, antiquum genus ut pietate repletum
per facile angustis tolerarit finibus aevum,
cum minor esset agri multo modus ante viritim.
Nec tenet omnia paulatim tabescere et ire
ad capulum spatio aetatis defessa vetusto:
 
“accusa il corso del tempo e insulta la sua età,
e brontola che l'antico genere umano pieno di devozione
sosteneva assai facilmente la vita entro confini ristretti,
sebbene molto minore fosse prima la misura del campo per testa.
E non capisce che tutto a poco a poco si consuma e va
verso la tomba, spossato da lungo spazio di tempo”.
 
Sono gli esametri conclusivi del secondo libro. In questo poema c'è dunque una concezione organica della terra che invecchia come tutto nell'Universo.
 

Ma torniamo al nostro Papa.
"Una volta - ha detto - c'era la fiducia nell'uomo in quanto persona dotata di una dignità
trascendente". Tale fiducia significa non trattare uomini e donne come strumenti da usare e buttare
via quando non servono più. Platone raccomanda agli uomini l’assimilazione a Dio (Teeteto): quella che sarà l’Imitatio Christi per i Cristiani. Tale assimilazione alla divinità significa essere buoni. Agostino ricorda Platone in questi termini: habemus sententiam Platonis dicentis omnes deos bonos sse (civ. Dei).
 
La deduzione della bontà del creato dalla bontà del creatore si trova, com’è noto, dal Timeo
ove si legge che Dio, creatore di un cosmo bellissimo, è il migliore degli autori.
Il Timeo viene riecheggiato ripetutamente da Agostino attraverso la traduzione ciceroniana. Per
esempio: “hanc etiam Plato causam condendi mundi iustissimam dicit, ut a bono Deo bona opera
fierent (civ. Dei); anche Platone afferma che la causa più giusta della creazione del mondo è
che le opere buone sono fatte da un Dio buono.
 

Pure Seneca aveva tradotto il medesimo passo del Timeo: “ ita certe Plato ait: Quae deo faciendi
mundum fuit causa? Bonus est. E ancora: “Quae causa est dis bene faciendi? Natura. Errat si quis illos putat nocere nolle: non possunt. L’uomo che non si è allontanato da Dio dunque è buono e in questo Gli assomiglia.
 
Torniamo a papa Bergoglio. L’uomo non è una monade, ma una persona associata ad altre con diritti e doveri e il divenire individuale deve svilupparsi in maniera sociale, tendendo al bene comune, non senza dialogo e discussione. Siamo infatti animali politici e animali linguistici. Orrendo, anzi infernale, è, a parer mio, il costume di tanti individui che invece di dialogare con altre persone, magari addirittura sedute allo stesso tavolo in quella che dovrebbe essere la comunione del pasto, maneggiano per tutto il tempo telefonini o altri strumenti del genere senza mai rivolgere parola ai vicini o alzare gli occhi per guardarli.
 
Il Papa ha denunciato il male della solitudine. Ora le persone vi si sprofondano senza nemmeno
accorgersene o compiacendosene, data la paura e la diffidenza che distanzia ciascuno dal prossimo
suo. Nella tragedia greca l’isolamento è vissuto come un male tra i peggiori: Filottete (questa tragedia di Soflocle è del 409) lasciato solo dai compagni nella deserta Lemno lamenta di essere “uomo infelice, solo, abbandonato, così e senza amici”.
 
La solitudine di Filottete dunque è penosa per un greco antico, tipicamente, come ha notato bene
Kierkegaard. Secondo il filosofo danese, per l'uomo greco che viveva nella democratica la solitudine dell’impolitico è una condizione innaturale :"benché si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato. Questa determinazione sostanziale è la vera e propria fatalità della tragedia greca, e la sua vera e propria caratteristica."
 
L'abitudine e il desiderio di stare soli sono già condannati come disumani da Omero nella figura
mostruosa del Ciclope, e, dopo Sofocle, da Menandro nel prologo dove il misantropo Cnemone viene definito uomo disumano assai.
 
Invece più avanti nel tempo, con la degenerazione brutale dei rapporti umani, con la trasformazione delle persone in turba, folla, diventerà non solo dignitoso ma necessario rimanere soli. Seneca, tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia , omicidi veri e propri, scrive:" Avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui: “Torno a casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio perché sono stato in mezzo agli uomini”. Il consiglio allora è:"recede in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto puoi. La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “ Seneca Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum”: Seneca saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i pochi, evita anche uno solo.
 
Infine Nietzsche: “C’è da dir male anche di chi soffre per la solitudine- io ho sempre e soltanto
sofferto per la moltitudine”. La solitudine dunque è un portato della difficoltà nei rapporti umani, della loro disumanità. Eppure noi uomini, come ha scritto l’imperatore Marco Aurelio “siamo nati per darci aiuto reciproco, come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire uno a danno dell'altro è cosa contro natura (Ricordi).
 
In questa Europa non più fertile e vivace, ha detto ancora papa Bergoglio, siamo passati dai grandi ideali ai tecnicismi burocratici. Chi scrive queste note ha trascorso quasi tutta la vita nella scuola e ha sofferto l’invadenza di troppi tecnicismi anche nel campo che dovrebbe essere quello della cultura. La valutazione del fanciullo (pais), e a maggior ragione la sua paideia, educazione, non può ridursi a una serie di questionari o quiz senza anima, senza idèe, né sentimenti, né bellezza, né verità. Una serie di formule da imparare a memoria. So di ragazzi che nella scuola media devono rispondere qual è la differenza tra “favola” e “fiaba” senza avere mai letto nulla di Esopo né di Fedro. Non si leggono più gli autori nelle scuole.
 
Eppure gli auctores sono i nostri “accrescitori”. Ma se i giovani non crescono mentalmente è più
facile tenerlo sottomessi e farne dei consumatori bulimici. Prevalgono le questioni tecniche e gli affari economici in una sorta di tirannide contraria all’indagine sui sentimenti, alla discussione sulle idèe. Questo male viene già denunciato da Giacomo Leopardi :
 
un franco
di poetar maestro (…) lascia, mi disse,
i propri affetti tuoi. Di lor non cura
questa virile età, volta ai severi
economici studi, e intenta il ciglio
nelle pubbliche cose, Il proprio petto
esplorar che ti val?”.
 
In questo culto dell’economia, del mercato e del profitto l’uomo viene trattato come l’ingranaggio
di un meccanismo. E’ la cultura “del consumismo esasperato e dello scarto”, ha detto il nostro
pontefice. Il culto del consumo, del profitto e del Pil arriva a ritualizzare le guerre.
Seneca nel De ira ricorda che i re incrudeliscono e compiono rapine e distruggono città costruite
con lunga fatica di secoli per cercare oro e argento dentro le ceneri delle città:"Reges saeviunt
rapiuntque et civitates longo saeculorum labore constructas evertunt ut aurum argentumque in
cinere urbium scrutentur ".
 
Quindi cito di nuovo la Palinodia al marchese Gino Capponi di Leopardi:
 
…coverte
fien di stragi l’Europa e l’altra riva
dell’atlantico mar (…) sempre che spinga
contrarie in campo le fraterne
schiere/di pepe o di cannella o d’altro aroma
fatal cagione, o di melate canne
o cagion qual si sia ch’ad auro torni” (vv. 62-68).
 
Papa Francesco ha ricordato La scuola di Atene di Raffaello Sanzio urbinate. Ha fatto notare che tra
i filosofi presenti e vivi in questo affresco del 1510, Platone punta l’indice della mano destra verso
l’alto, mentre Aristotele tiene la mano davanti a sé, con la palma rivolta verso la terra.
Noi uomini siamo creature anfibie e non possiamo perdere il doppio contatto con la terra e con il
cielo, se non vogliamo rinnegare la nostra natura composita. Ciascuno di noi è la metà di un segno di riconoscimento, uno spezzone da completare. Dobbiamo congiungere il non
eterno con l’eterno: senza spregiare il transitorio, il mortale, dobbiamo trovare in noi l’immortale. Il Faust di Goethe si chiude con il Chorus mysticus che canta: “Tutto l’effimero è solo un simbolo”.
 
Papa Bergoglio ha poi ricordato la centralità della persona umana e l’educazione che deve dare la
famiglia, la scuola, la società. Educazione al rispetto della dignità propria e di quella del prossimo. Quindi il diritto-dovere del lavoro la cui mancanza inficia la dignità dell’uomo. Quanto alla questione dei migranti, il Papa ha detto che il nostro mare Mediterraneo non deve diventare un
grande cimitero.
 
Infine la questione centrale dell’identità: tanto quella delle singole persone quanto quella dei popoli non va portata all’ammasso di una globalizzazione alla quale non dobbiamo permettere di annientare il principium individuationis con il “conosci te stesso”, proprio mentre con stridente
contraddizione incentiva l’egoismo più feroce.
 
Alcune aggiunte ha fatto Papa Bergoglio parlando al Consiglio d’Europa, sempre il 25 novembre a
Strasburgo. Il pontefice ha indicato la via della pace. Per incamminarci su questa strada e percorrerla “metodicamente” dobbiamo riconoscere nell’altro un fratello da accogliere, da cui imparare. L’umanesimo è amore per l’umanità, come la fanciulla di Sofocle :(Antigone): “certamente non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore”.
 
Ed è espressione di umanesimo quanto dice Teseo a Edipo nell’ultima tragedia del poeta di Colono: ( Edipo a Colono): so di essere un uomo. Sapere di essere uomo è la coscienza della propria umanità senza la quale ogni atto violento è possibile. Sapere di essere uomo significa incontrare una creatura mezza distrutta come è Edipo vecchio, provarne pietà, incoraggiarla ponendo domande:" e sentendo compassione-continua Teseo- voglio domandarti, infelice Edipo, con quale preghiera per la città e per me ti sei fermato qui”. Poi significa ascoltare e comprendere con simpatia poiché siamo tutti effimeri, sottoposti al dolore e destinati alla morte. "Anche io - dice il re di Atene al mendicante cieco, incestuoso e parricida – sono stato allevato fuggiasco come te. Dunque so di essere uomo e che del domani nulla appartiene più a me che a te".
 
Una simile dichiarazione di umanesimo, quale interesse per l'uomo e disponibilità ad ascoltarlo,
leggiamo nel più famoso verso di Terenzio:" Homo sum: humani nil a me alienum puto ". "Umana cosa è l'aver compassione degli afflitti" sono le prime parole del Decameron.
 
Papa Bergoglio recentemente ha detto di stare dalla parte dei poveri. In questo è davvero imitator
Christi e del santo suo eponimo. Già Papa Ratzinger ha sottolineato il fatto che “Gesù si identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me” (Matteo, 25, 40). Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio”. Sentiamolo in latino: “Amen dico vobis: Quamdiu fecistis uni de his fratribus meis minimis, mihi fecistis”.
 
E in greco. Anche questa forma di umanesimo, di alta umanità, non era ignota ai Greci: Nausicaa nel VI canto dell’Odissea, poi Eumeo nel XIV dicono a un Odisseo malridotto che vogliono aiutarlo perché vengono tutti da Zeus gli stranieri e i mendichi, e un dono anche piccolo è caro per loro.
 
Occorre combattere la cultura del conflitto, ha detto il Papa: bisogna fermare la corsa agli armamenti. Dobbiamo opporci al traffico degli esseri umani, alla loro mercificazione, alle nuove
forme di schiavitù che possono essere più dolorose e degradanti di quelle antiche. Per fare questo ci
vuole coscienza e ci vuole cultura. Coscienza di noi stessi, del presente e del passato. Senza la conoscenza del passato si vive come entità casuali, come un albero senza radici. Non siamo qui per caso. Niente avviene per caso. “There is a special providence in the fall of a sparrow" c'è una provvidenza speciale perfino nella morte di un passero (Amleto, V, 2). C’è un fatum che è il fari (il parlare) di Dio: Fatum nihil aliud est quam series implexa causarum (Seneca, de beneficiis), una serie di cause concatenate.
 
Paolo VI definì la Chiesa come una istituzioneesperta in umanità”. L’uomo umano ha bisogno di dialogare, di meravigliarsi, di considerare se stesso e la vita intera come problema. Non può accontentarsi dei luoghi comuni della propaganda pubblicitaria avida, interessata al lucro. E’ necessaria una nuova agorà dove confrontare le idèe, dove cercare la verità che è , non Latenza, disvelamento. La cultura, , come educazione e come apprendimento, nasce sempre dall’incontro, dall’attenzione, dall’ascolto e dalla cura degli altri.
 
Bologna 27 novembre 2014
                                                                                                          (Giovanni Ghiselli)
 
 
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DIritto e giustizia

QUANDO LA GIUSTIZIA PUO' DIVENTARE INGIUSTA

Lo avevamo preso per quello che voleva essere, in quell’anno 2013 nel quale elaboravamo ipotesi di ripresa di politiche alte e forti per il nostro paese, con una iniziativa di ispirazione cristiana tuttora in corso ma tuttora incapace di assumere dimensione organizzata e nazionale.
 
Lo avevamo preso per quello che voleva essere, cioè una testimonianza personale drammatica, di un cittadino del quale non possiamo naturalmente in questa sede riportare il nome, sul tema della “giustizia ingiusta” che così spesso attanaglia e uccide le persone: a volte per la persecutrice burocrazia, anche in questo campo, a volte semplicemente per i tempi che a loro volta costituiscono una ingiustizia, a volte per lo stravolgimento del valore della giustizia che le stesse normative pongono in essere a favore di un diritto formalistico arbitrario. Anche nel settore della giustizia pensavamo infatti di proporre una evoluzione strutturale di prospettiva.
 
Ci sembra che un poco d’acqua (poco, veramente) sia passata da quel 2013, e che una riflessione sia stata avviata anche in sede di poteri competenti, sul rapporto fra diritto e giustizia anche in materia di separazioni familiari. Qualcosa di meno ingiusto è stato avviato, ma molta resta la strada da fare. Giudicate voi.
 
Quanto al perché abbiamo deciso di pubblicare proprio in questi giorni una simile drammatica  testimonianza, le ragioni sono soprattutto due: la prima è che pensiamo doveroso, proprio in tempi di “carognavirus”, non perdere affatto l’orizzonte dei tempi di normalità, per consentirci di tenere costantemente presente la strutturalità dei problemi che dobbiamo affrontare oltre a quello di emergenza del virus stesso, e affrontare così con più lungimiranza anche questo; la seconda è che proprio tale emergenza incrementa, a esperienza storica di tutti i casi similari, in una fascia già debole di famiglie, il drammatico fenomeno della rottura dei legami familiari, delle violenze domestiche, degli inconfessati disagi di convivenza, che fanno da triste parallelo ai casi positivi di famiglie che invece trovano nella difficoltà dell’emergenza un motivo di rinsaldamento della loro coesione.
 
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Noi  italiani siamo  convinti di essere  fortunati e di far  parte di uno dei paesi più civili del mondo.
La Costituzione italiana garantisce i diritti, l’ uguaglianza e la libertà.
 
Il primo comma dell’ art. 3  recita testualmente: “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali“.
 
Ma è realmente  così? Ci sono seri dubbi, almeno per quanto concerne l’uguaglianza tra i sessi.
 
C’è solo da augurarsi di non avere a che fare con una moglie che, dopo alcuni decenni di normale matrimonio,  all’improvviso e senza alcun preavviso decide di cambiare il percorso della propria vita; prende la macchina e se ne va di casa per circa un mese abbandonando persino un minore. Poi rientra, si  rifiuta  di parlare ed avere contatti con il marito ed arriva a chiedere la separazione inventandosi di tutto con la complicità dei suoi parenti più stretti  e di uno  studio legale:  e  per il malcapitato  consorte sono guai seri, nonostante la sua intenzione  di ricucire il rapporto  o  quantomeno di arrivare ad una separazione consensuale.
 
Alla donna hanno fatto capire  che può assicurarsi una  vita agiata a danno del consorte che “ ormai  ha   un’età  avanzata  e  qualche  problema  di   salute“,  e  la  facilità di raggiungere l’obiettivo dal quale possono trarre vantaggi in parecchi, visto il consistente patrimonio familiare (diversi immobili in comproprietà ed uno stipendio da dipendente statale). Non a caso viene,  inspiegabilmente  ed in tutta fretta, depositata in tribunale una richiesta di separazione per le vie giudiziali, sebbene  vi sia una comunicazione  a mezzo missiva con la quale  viene dichiarata la piena disponibilità a  definire il tutto  in via bonaria. Evidentemente, la consapevolezza  di poter ottenere gli scopi prefissati (intera casa coniugale e consistenti  mantenimenti) già in sede di udienza preliminare invoglia  a tale scelta.
 
Con l’attuale legislazione, infatti, e consolidate consuetudini giuridiche,  il cosiddetto “sesso debole” ha la facoltà di far “buttare fuori di casa” e portare alla rovina la controparte impadronendosi praticamente di tutto (figli, immobili, stipendio del marito, risparmi e quant’altro).
Poi, specialmente se la donna è casalinga, può assicurarsi il futuro a spese di  chi  ha sempre lavorato  e  dovrà  continuare a farlo  per il resto della vita  per mantenerla  (e  chi  glielo fa fare di andare a lavorare?  Eppure, lei è un’esperta  artigiana,  che, tra  l’ altro,  in passato è stata  titolare  di una  propria  attività  svolta  per  diversi  anni e,  tutt’ora,  percepisce  redditi  propri  tali che le garantiscono di essere perfettamente  autonoma ed in grado di mantenersi. Con il suo  mestiere  le sarebbe molto facile trovare un lavoro da dipendente  oppure riaprire la  sua  ex attività  disponendo ancora  dello stesso locale di  prima  con relativi arredi ).
 
Non importa  di  chi  sono le  colpe  del fallimento del matrimonio (il marito  si è  sacrificato  per assicurare  alla  famiglia in cui credeva un buon futuro ed ha cercato di essere un  buon  padre  e un buon marito); l’importante  è  fare la “ vittima “: e persino  in presenza  di  documentate falsità,  si potrà  avere  la  “giustizia” dalla  propria parte; la quale, in pochi minuti (con il cosiddetto “provvedimento presidenziale”), non esiterà ad ordinare l’allontanamento del marito dalla  casa coniugale  acquistata  con sacrifici, nonché a disporre, inspiegabilmente, il versamento di un cospicuo mantenimento per lei ed il figlio, sebbene in affido condiviso (ben 3/4 dello stipendio, corrispondenti a  quasi il doppio di un normale salario corrisposto  alla  maggior parte dei lavoratori italiani ), violando  in  modo  evidente  i  principi  costituzionali  e  la  legge  54/2006. 
 
Al marito che  si alza  tutte le  mattine  per  andare  a  svolgere un  duro lavoro  rimarrà  una modesta  cifra  (meno di quanto  deve  versare mensilmente  per  il  solo  figlio ed in alcuni mesi le sue competenze si riducono persino a soli  58,oo  € con cui dover vivere e pagare un consistente affitto di casa )  e  se  non  dovesse  provvedere  a  corrispondere  tutto  quanto  è stato  deciso (e ci sarebbe la tentazione di dire “  estorto “, con  abuso  e  favoreggiamento!) verrà  pure  emesso un “decreto penale di condanna” per  violazione  dell’ art. 570  c.p.  e  si  procederà  persino  con il pignoramento delle competenze; tanto, per la  cosiddetta  “giustizia“  bisogna assicurare lo stesso tenore di vita  alla  donna  e  c’è   un  “provvedimento”  al  quale  bisogna  attenersi, tutto il resto  non conta  (non importa nemmeno se il malcapitato nei suoi primi 50 anni di vita si è sempre comportato bene e non ha mai avuto a che fare con la  giustizia, perché improvvisamente gli piomberanno addosso tante di quelle azioni legali da superare i più  conosciuti personaggi mafiosi).
 
Ma  poi,  qualcuno  si  chiede  se  anche  il marito  può  mantenere  lo  stesso tenore di vita ? Qualcuno  si  vuole rendere  conto  che  il  malcapitato  è  costretto  ad  andare  a  vivere  in  affitto e  viene  ingiustamente   umiliato, denigrato ed  offeso  e  non  potrà  che  vivere  in  condizioni  di  assoluto  disagio  pur  non  avendo  fatto  nulla?
 
Non  conta  neppure  se  la  casa  coniugale  è composta di  due  grandi e  distinti  appartamenti per  due  famiglie,  perché,  tanto,  verrà  comunque  assegnata  esclusivamente tutta a lei sebbene è documentato che quest’ ultima ha altre possibilità alloggiative (vuole così, il marito potrà  arrangiarsi  andando a vivere  altrove e se dovrà pagare un esoso  affitto  e vivere  il  resto  dei  suoi  giorni  in  condizioni  di  precarietà  saranno problemi  suoi ).
 
Anche se poi il figlio diventa maggiorenne, la Giustizia farà in modo che la donna continui a disporre a suo piacimento del mantenimento per lui  stabilito  con prelievo diretto dallo stipendio del malcapitato  consorte e contestuale versamento sul conto corrente esclusivo della donna ) e poco importa se il figlio ha raggiunto la maggiore età  già  da alcuni anni ed abbia chiesto al Giudice  di avere ciò  che  è un suo diritto, comunicando  le coordinate del proprio c/c  appositamente aperto.
 
Ma non basta…. per decisione della “Giustizia”,  lei continuerà a disporre, comunque, anche della intera casa coniugale e la motivazione addotta sarà che il figlio non è economicamente autosufficiente . Cosa importa se a mantenerlo  è il padre e se il ragazzo ha  un proprio stipendio  perché arruolatosi nelle  FF.AA. e , ormai ventunenne, abbia esplicitamente manifestato la volontà di volere il padre vicino ?
 
Dopo anni di durissime  e costosissime battaglie legali, l’uomo dopo 5 anni riesce a rientrare nella ex casa coniugale, che condividerà con il figlio,  ed il mantenimento alla donna viene revocato perché  la “giustizia”  è costretta a prendere atto della realtà dei fatti poiché la donna detiene immobili propri  dati in affitto e quindi possiede redditi idonei e sufficienti al proprio sostentamento. Persino il  decreto penale di condanna  viene revocato ( dopo aver cagionato molti danni )  poiché  l’ uomo  viene  assolto  perché  “il fatto  non  sussiste”. L’ uomo viene scagionato da qualsiasi addebito di colpa, ma tutte le denunce/querele presentate per calunnia, ecc. nei confronti della ex, caso strano, vengono puntualmente archiviate (eppure di qualcuno deve pur essere la colpa di quanto accaduto! ).  Si scopre, poi, che la donna svolge  pure lavoro   “in nero”, ma, sebbene vi siano le segnalazioni fatte, nessuno interviene al riguardo. Anzi, l’uomo viene pure preso di mira dal  “Fisco”  perché, ovviamente aveva portato in deduzione dal reddito  gli importi effettivi corrisposti a titolo di mantenimento ed ampiamente documentati per effetto dell’avvenuto pignoramento dello stipendio disposto in virtù dell’assurdo Decreto Penale di condanna di cui sopra e, così, subisce un nuovo pignoramento dello stipendio  (questa volta da parte del  “fisco” ), sebbene  vi  sia  un ricorso alla Commissione Tributaria in atto, per il quale detto  Organo non si è neppure ancora pronunciato (strano, però: il “fisco” non entra nel merito del lavoro in  nero svolto dalla donna e si limita a prendere per buone le dichiarazioni della  donna ).
 
Ma non finisce qui !!! Infatti, dove non arriva l’ ex consorte  subentra la ex  suocera, la quale  dopo circa 10 anni richiede esclusivamente all’ ex genero una somma volutamente elargita per l’acquisto della casa coniugale della quale è proprietario il nipote per espressa volontà della stessa. L’ elargizione  a titolo di  “regalia”  risulta anche dall’autorizzazione rilasciata dal  giudice tutelare ad  entrambi gli  ex  coniugi per l’ acquisto dell’ immobile  in nome e per conto del figlio, all’epoca minore. Nonostante all’epoca dell’acquisto dell’immobile i coniugi fossero in costanza di matrimonio, in  regime di comunione dei  beni e la  casa fosse intestata al nipote,  la ex  suocera dell’uomo pretende, a distanza di dieci anni e soltanto dopo l’avvenuta separazione dalla figlia, la restituzione della cifra soltanto dall’ ex  genero. Quindi, improvvisamente e senza alcun preavviso avvia l’ azione legale ed ottiene l’emissione di un decreto ingiuntivo al riguardo, sebbene  vi sia una dichiarazione di rinuncia alla restituzione della grossa cifra elargita (ovviamente, poi, disconosciuta)  e non considerando che la somma sia pari quasi ad 1/4 di quella totale spesa dall’uomo per l’ acquisto dell’ immobile. Nonostante l’evidenza dei fatti, l’uomo viene condannato a pagare la grossa cifra e così ove non era riuscita la ex  moglie a raggiungere l’obbiettivo prefissato (portarlo alla rovina ) ci riesce la ex suocera con l’ausilio della  “malagiustizia”. A nulla serve neppure il ricorso in appello avverso il decreto ingiuntivo emesso, alla mancata ammissione delle prove a proprio favore, al comportamento della  Ctu, alla  vistosa  “sentenza punitiva”  che ha tutto il sapore di una vera e propria  “vendetta giudiziaria”,  ecc. La  definizione della causa viene rinviata  a  distanza di oltre  tre anni dopo, e viene intanto confermato il pagamento di quanto stabilito in decreto ingiuntivo  con aggravio di spese ed interessi ( e così  si arriva a circa 200.000, oo €. ed il gioco è fatto !!! ). L’ uomo sarà, cosi,  costretto a  pagare  subito ( quindi rovinato ) e  non avrà  neppure  la  possibilità di  poter ricorrere in Cassazione perché la causa non è stata  neppure definita dalla  Corte d’Appello ( se tutto va bene se ne parlerà tra  4/5  anni ) ed ogni commento al riguardo appare più che superfluo. All’ uomo non resta altro da fare che rivolgersi alla  Corte  Europea per i  Diritti dell’ Uomo perché è inutile intentare  azioni legali contro appartenenti alla  magistratura, i quali, godono della più ampia impunita’ e non risponderanno mai in prima persona  per il proprio operato.
 
I  giovani  uomini  prima  di  pronunciare  il fatidico “sì”  riflettano  e  si regolino di  conseguenza.
E  poi  ci si  meraviglia  quando  accadono certi fatti di  cronaca…..
 
Ma ciò  che  lascia  davvero  indignati  è  l’ operato  della  Giustizia,  che  tale proprio non è,  e la  totale  indifferenza  delle  istituzioni  che al massimo  si limiteranno  ad esprimere solidarietà, ma che  si  guarderanno bene  dall’andare  a  fondo  delle  questioni.
 
Di certo alle Istituzioni non  conviene  sindacare l’operato della  Magistratura  e magari dover assumere provvedimenti impopolari che potrebbero generare l’ira  del  cosiddetto “sesso debole”, che, ormai,   ha  ben  compreso  come, nella maggior parte dei casi, separarsi  dal marito diventa una vera “convenienza”  ed  equivale ad  una  specie  di  “polizza  assicurativa a vita” a proprio vantaggio ed  a  totale  nocumento  dell’ ex  marito  ridotto  così  in stato di schiavitu’ perché costretto a dover lavorare per  mantenere la ex ed assicurarle una  vera e propria  rendita  vitalizia  e parassitaria.
 
In tal modo le donne conseguono contemporaneamente due  vantaggi: quello di  assicurarsi il futuro e quello di “rovinare” per  il resto dei suoi giorni  il loro ex (grande  risultato !!! ) . E  tutto questo in nome della   civiltà  e della giustizia di questo Paese.
 
In materia  di  separazioni  matrimoniali,  poi, difficilmente si troverà un giudice disposto a modificare i provvedimenti assunti in precedenza dai colleghi  ed a far emergere le eventuali responsabilità  di questi ultimi, per cui il povero uomo  sarà costretto ad avviare  tutta una serie di azioni legali per  cercare di difendere la propria  persona ed i propri interessi. Passeranno  anni per cercare  di   rimettere  a  posto  le cose  e verrà spesa una vera  fortuna per spese legali e giudiziarie (oltre duecentomila  €, per i quali il malcapitato deve indebitarsi per 5  anni,  e… non  è   ancora  finita !!!!  ). Intanto i  “media”, la stampa,  la Tv ed i politici  continuano  a parlare  di “violenza” e di  “ingiustizie” che riguardano esclusivamente il sesso femminile, trascurando totalmente l’altro sesso. Tutti  i giorni assistiamo ad intere  trasmissioni televisive ed articoli di stampa in materia di violenza  alle donne  e di  disparità verso il sesso debole,  ma  delle  violenze subite  dagli  uomini  da parte  delle  donne e dai loro legali (e  sono  tantissimi ! )  chi  osa  parlarne ??? In questo Paese le donne  hanno  ottenuto “ la  licenza  di  uccidere”  ( è chiaro, non ancora dal  punto di vista  materiale,  ma  sicuramente  dal punto di vista  morale  e psicologico ). Hanno distrutto la loro  femminilità e  i valori della  famiglia  e le  ripercussioni sull’ intera  società sono ben  noti,  basta  guardarsi  intorno.

In  un  Paese  che  si  vuole  davvero  ritenere  civile  le  violenze e le ingiustizie vanno combattute  in  ogni  caso, sia  se  riguardano le  donne  e  sia  se  riguardano  gli  uomini, senza fare distinzioni di sesso. E’  sicuramente  questa  la  vera  civiltà ! I  politici  ne  prendano atto e  si assumano le  loro responsabilità;  trovino il coraggio per  cambiare le  leggi  in materia  di  separazioni  che,  allo  stato attuale dei fatti e con la  corresponsabilità  della  Giustizia,  sono nettamente  di  parte ( e …..non si venga  a dire  che il tutto  viene  fatto per  tutelare  i  figli, perché  anche  i padri separati hanno il sacrosanto diritto ad esercitare  la  patria  potestà  e ad amare la  prole,  esattamente  come le  madri ). Occorre sicuramente togliere alle donne “furbe”  l’ “interesse economico di separarsi”  ( casa coniugale e mantenimento che spesso restano alla donna a vita ). Solo così si potranno salvare moltissimi matrimoni  e fare davvero gli interessi dei minori i quali hanno diritto ad  avere  un padre .

L’ operato dei  Giudici in  materia  di  separazioni  andrebbe  sicuramente  sottoposto a  controlli rigorosi  perché  non si  può  continuare a  permettere loro  di assumere  provvedimenti con  superficialità e rovinare  la  gente  per bene dietro falsità e calunnie  di  chi  agisce  in  malafede ed il guaio è  che,  poi,  tutte le  false  accuse  restano pure  quasi sempre  impunite. Alcune  statistiche evidenziano che negli ultimi dieci anni le separazioni  anno causato circa un migliaio di  suicidi/omicidi e nel  93 %  dei casi  chi si toglie la  vita è il padre. C’ è da domandarsi:

a)- Quanti altri morti ci dovranno essere prima che le istituzioni si decidano ad intervenire per cambiare la legislazione esistente e per controllare l’ operato dei giudici  e per obbligarli ad  essere più attenti, meno superficiali ?

b)- E’ mai possibile che si debba continuare a rovinare la gente per bene dietro falsità e calunnie di chi  agisce  in malafede ?

c)- E’ normale che per buttare fuori di casa un uomo (spesso senza alcuna colpa ) e per togliergli  tutto (casa, stipendio, affetto dei figli, dignità, ecc.) basta solo qualche mese ed una  udienza presidenziale che dura solo pochissimi minuti, ma poi, per rimettere a posto le cose in        qualche modo occorrono moltissimi anni e tanti soldi ( nel caso di chi scrive  oltre  duecentocinquantamila €.) e, nel frattempo,  la  donna  continua  a mantenere  la sua posizione di comodo ed  a  percepire  una vera e  propria  rendita vitalizia a danno dell’ ex consorte ??? Intanto, il malcapitato è costretto ad indebitarsi per sostenere le spese legali necessarie a difendersi dalle evidenti falsità, menzogne e cause varie  avviate dalla  ex  con i suoi legali, che comunque, per anni,  si è goduta la casa coniugale utilizzandola a “mò di albergo” per parenti ed amici  per  diversi anni (la madre, pur avendo un proprio appartamento poco distante,  si era  sistemata quasi stabilmente  nella medesima casa coniugale con la figlia ) .
 
 Tutto ciò  deve certamente far riflettere, visto che, a questo punto,  le separazioni  causano più vittime  di  tutte le  organizzazioni  criminali  messe insieme. Non  occorre  certo  creare  ministeri   o  numeri  verdi  (es.  1522) dedicati  esclusivamente  alle  donne  ove  gli  uomini  non   possono accedere  e  non  è  necessario  neppure  creare  “quote  rosa” (a modesto avviso di chi scrive, che  assicura  si  è sempre  battuto in difesa delle donne ed è sempre  stato  contro il “ maschilismo”, ciò  è  offensivo  per  le stesse  donne.  ). Il  successo  va  conquistato  sul campo  e per  meriti, senza  fare “vittimismo sfrenato” .

Ci si auspica  che  qualcuno  si decida ad intervenire al più presto per far cambiare le cose e la  soluzione alle  problematiche  potrebbe essere  raggiunta  con :
 
 1)-  L’ abolizione di  ogni  forma  di   mantenimento  a  favore di uno dei  coniugi (quasi sempre la donna ) con conseguente    istituzione    del   mantenimento    diretto  ed obbligatorio  dei   figli   da     parte    di  entrambi    i  genitori,  in  percentuale   e  sulla  base del loro reddito  accertato  ( salvo accordi diversi  o casi eccezionali, da motivare e documentare in sentenza ) ;

2)-  l’  assegnazione   della   casa    coniugale   a  chi   e’   il   legittimo proprietario   (qualora l’ immobile  sia  di   entrambi  i coniugi  andrebbe  diviso   o venduto  per  suddividerne il ricavato );

3)-  Tempi di permanenza  paritetici dei figli  presso entrambi i genitori, con conseguente istituzione della doppia residenza  per i minori ( salvo accordi diversi  o trasferimento di uno dei genitori in  diversa  città o  per comprovati e giustificati  motivi ) ;

4)-   Certezza della pena  per chi inventa  falsità  e  menzogne  allo  scopo di  conseguire i propri obbiettivi a discapito della controparte;

5)-   Responsabilità dirette  per gli  eventuali  legali che danno assistenza  a  clienti scorretti  o che forniscono  il   proprio  operato on    coscienza   e   volontà    e   “senza  scrupoli”   o  che fomentano   gli animi  dei    separandi    aiutandoli   a  fornire  versioni distorte dalla realtà alle  ompetenti  Autorità  Giudiziarie  per  ricavarne  lucro ;

6)-    Responsabilità  civile   per   i   magistrati    che  emettono  provvedimenti  con colpa grave  o dolo, con  conseguente  abolizione  dell’ attuale  diffuso concetto  di  “intoccabilità”,  affinchè rispondano   per   le    proprie   responsabilità   come  tutti  gli  altri  cittadini  italiani  per   gli eventuali danni arrecati a  terzi.

Per  le  responsabilità di  cui  ai  precedenti punti  5 e 6  non possono essere sufficienti semplici “polizze assicurative”, ma  occorre la  cessione  del  quinto dello stipendio e la confisca dei beni quantomeno nei casi di responsabilità gravi ed eclatanti. Le  citate  soluzioni   “a costo  zero”, a  quanto  pare,  però,  non   sono  ben accette  da chi,  magari,  ha    interesse  a   tenere  alto   il   tasso di  conflittualità  ed   a  lasciare  inalterato  l’attuale  assurdo  ”sistema”   in atto  (  il  “divorzificio”  in atto, fa comodo a molti  per poter  lucrare sulle disgrazie altrui  ed è questo che bisogna eliminare  per salvare molte famiglie e tantissimi bambini ).

Gli  interessi economici  che ruotano intorno alle  separazioni  sono tantissimi e  vistosissimi. Senza  voler  minimamente  generalizzare,  sono  tante  le  donne  “furbe”  ed     “in  malafede”  che ricorrono  volutamente  alla  separazione  di tipo giudiziale  per  potersi costituire la rendita ( casa e  lauti mantenimenti ) a discapito dell’ ex  marito . Ciò  costituisce  senza   dubbio   il vero incentivo alla  separazione  conflittuale  che va eliminato  con un’ adeguata ed  urgente  riforma  legislativa. I “ padri separati”  devono avere gli stessi diritti e gli stessi  doveri delle  madri ,    quindi    anche    pari     dignita’ ,  e  non si  venga  ancora  a  sostenere  che il tutto viene fatto nell’  “interesse e  per la tutela dei   minori”  perché  cosi   non   è  ( anche i padri  hanno il diritto di amare  ed assistere  nella crescita  la   prole  e non  si  comprendono  le ragioni per le quali dovrebbero essere esclusi/emarginati ).
 
Con    l’ attuale   sistema,  infatti,   i   figli   troppo   spesso  diventano  “ lo   strumento”   per  arrivare   all’ obbiettivo  da  raggiungere  e  non a  caso  diventano  “ contesi “  dai  genitori  con  le  conseguenti   problematiche che ne derivano. Pertanto, se davvero si vuole  l’ auspicata  “ bigenitorialita’  “  e fare  gli interessi dei figli  è  necessario  correre  ai ripari  con  urgenza.
 
P.S- :  Chi  pagherà  mai  per i danni  cagionati all’ uomo ??? Sulla    base    di    quale ragionamento   il   giudice  aveva   inizialmente assegnato  l’ intera  casa  coniugale , che   si  ribadisce è composta  di due grandi  e   distinti   appartamenti,   alla  donna,   costringendo  l’  uomo  ad  andare  in affitto ???  Quale  criterio   fu   adottato  per  assegnare  alla  donna,   provvista    di redditi  propri  documentati  i  3/4 dello  stipendio dell’ uomo  a titolo di mantenimenti, per una somma  di  €.  1.500  mensili, quando lo stipendio delle  due  sorelle  dell’ uomo  –  una  Dirigente   scolastico  con   doppia  laurea  e   due  figli    e   l’  altra  impiegata con regolare  assunzione - era  rispettivamente  di  €.  1.300   e  900  circa  mensili ??? - Sono  sicuramente   misteri  difficilmente  risolvibili  ! Ma,  purtroppo,  c’è  ancora di  più. Infatti,  non appena  si  viene a sapere che  l’ uomo riprenderà   la  casa  coniugale,  per  volere  del   figlio  intestatario  dell’immobile, inspiegabilmente, arriva un  improvviso trasferimento di  sede  a distanza  di  600  Km. e  tale  trasferimento  viene  motivato  con  generiche  e  dubbiose  esigenze  di   servizio ( ma  che  strano  !!! )  ed   il  tutto  dopo  che,  per  imposizione  dell’  Amministrazione di  appartenenza  l’ uomo  aveva  prestato  onorato servizio  per  circa  35  anni  sempre presso    lo    stesso  Reparto.  Inutile  presentare  istanza  motivata  di   revoca  del  trasferimento  o  quantomeno  di  trasferimento  ad  una  sede  più  vicina al  figlio  ed alla ex  casa coniugale. Tra l’ altro,  alla  nuova  sede  si  cercherà  in  tutti  i  modi  di rendere  la  vita  difficile  all’ uomo   e  così  il  mistero  continua .  Forse  è  il  caso  di poter   serenamente  affermare   che   è    un    caso  vergognoso   per   un  Paese   civile quale vuole essere  l’ Italia.
 
                                                                                                          (Anonimo)
 
 
         
 
 

Democrazia Comunitaria

IL RISCHIO DI UNA PANDEMIA AGGIUNTIVA CHE DOBBIAMO SCONGIURARE

Le grandi ed essenziali armi concrete per combattere oggi il coronavirus sono il distanziamento personale e la accurata igiene di tutti e di tutto, in parallelo con l’avanzare della ricerca medica specifica.
 
Nel quadro drammatico che si è creato, comprensibilmente è stato deciso, insieme con il distanziamento fra persone e con le misure di igienizzazione, anche il blocco complessivo delle attività economiche, salve quelle direttamente connesse con la immediata sopravvivenza delle persone stesse e della collettività relativamente alle loro esigenze primarie.
 
Pensiamo peraltro che, messa in tal modo sotto controllo, per quanto possibile, la crudele dinamica della pandemia nella sua attuale fase imperversante, sia ora indispensabile procedere con grande tempestività, e insieme con grande saggezza e prudenza, anche a riavviare le altre attività produttive, al fine di rimettere in piedi gradualmente i mezzi stessi con i quali sarà possibile affrontare l’altro lato del coronavirus, cioè il dopo-coronavirus.
 

Infatti, per una  politica sociale di sostegno affidabile alle persone ed alle famiglie in difficoltà occorrono risorse, e le risorse possono ottenersi soltanto con una economia che riprende a produrre con rallentata e controllata ma pur sempre strutturale  e completa continuità.
 
Se il blocco delle attività economiche continuasse con l’attuale sostanziale totalità, infatti, il rischio gravissimo, e già profilantesi,  può essere addirittura peggiore dell’attuale pandemia: è il rischio di una spaventosa pandemia a base di suicidi da fallimenti d’impresa e da disoccupazione; pandemia morale che tragicamente è spesso accompagnata dal rischio di un crescere di incomprensioni e violenze anche domestiche, di cui pare intravedersi l’inizio, per quanto poco annunciato.
 
Capacità tipica e necessaria di una politica alta è insomma sempre, e in particolare in casi come questo, quella di vedere ogni problema nella sua piena contestualità, oltre che nella vistosa urgenza dell’oggi.
 
Ebbene, l’attuale tempesta del coronavirus, maledetta ma anche potenzialmente provvidenziale, ci offre nostro malgrado un potente stimolo per cominciare concretamente a rivedere, con attenzione alle singole situazioni ma con visione generale, soprattutto l’organizzazione del lavoro, perché diventi, e resti anche per il futuro, meno demoniacamente dominata dalla velocità parossistica e dall’assembramento umano ubriacante, entrambi schiavi della pazza logica del massimo profitto, e più guidata dalla saggia e ponderata distensione di tempi e ritmi capace di dare spazio armonicamente a tutte le esigenze di vita, non solo materiale, e di rigenerare con ciò, in particolare, dimensioni umane, civili, sociali e lavoristiche di autentica comunità.
 
Quello che né politica, né impresa, né sindacato, né scuola, né altre istituzioni, né la società complessiva, hanno saputo fare in questi ultimi decenni, preoccupati pigramente, vigliaccamente, stupidamente e parassitariamente di gestire rispettive certezze e prebende di status dove comode, urge che sia avviato adesso dietro il pungolo violento del “carognavirus”, e che anzi venga, ove necessario, imposto: con la coscienza e il ragionamento, dove sopravvivono, con la lotta culturale e politica dove solo questa sia l’arma rimasta.
 
L’organizzazione del lavoro va rivista in generale, per essere avviata a diventare veramente comunitaria, come dicevamo, cioè a misura di persona e di comunità, e non di profitto speculativo e finanziario riservato ad azionisti e giocatori di borsa. Il profitto non viene certo da noi negato, anzi resta fonte di giusta stimolazione migliorativa, ma deve essere da un lato strutturalmente condiviso con tutti i lavoratori coinvolti, dall’altro sottomesso al criterio del “limite fino a un certo tetto”. Ai nostri amici laici ricordiamo fra l’altro che questo duplice criterio non appartiene soltanto a noi cristianamente ispirati ma è anche l’insegnamento e la testimonianza di grandissimi maestri laici di vario orientamento politico e ideologico, da Federico Caffè a Luigi Einaudi a Francesco Forte (cui si riferisce il virgolettato di poche righe sopra riportato) ed a tanti altri. Anche i salari devono essere avviati ad armonizzazione fra tutti i lavoratori di ogni impresa, senza eccezione alcuna, cioè compresi i trattamenti della dirigenza, pubblica e privata, compresa quella politica. Armonizzazione che per essere vera esige una trasparente e non aggirabile relazione di proporzionalità fra i diversi gradi di inquadramento dalla base al vertice. Solo così si riprenderà una economia forte, sana, stabilmente capace di crescita e di solidarietà attiva.
 
Sul particolare versante della politica, per lo stesso obiettivo generale urge restituire ai cittadini quel principio e valore centrale della democrazia, per il quale gli elettori si recano alle urne per scegliere nominativamente i loro singoli parlamentari e amministratori, non per scegliere liste o partiti, i quali sono soltanto strumenti per evidenziare e garantire meglio programmi e orientamenti delle persone candidate. E per il quale, inoltre, va contestualmente ridotta a decenza e buon senso (senso buono ed onesto) la strangolante e vituperosa e mafiosa numerosità attuale delle firme burocratiche da raccogliere oggi perché un cittadino possa candidarsi: massonica macchinazione concepita con la connivenza attiva di sostanzialmente tutti i partiti politici attuali per impedire l’ingresso in politica a chi non sia cooptato dalle segreterie partitiche; dando esito a quella che con piena precisione anche tecnica può oggi essere chiamata non già democrazia ma oligarchia.
 

Quanto alla scuola, essa deve tornare rapidamente e gagliardamente a svolgere programmi di formazione umana e umanistica della personalità dei ragazzi, a tutti i livelli ed in tutti gli ordini, ponendo fine alla barbarie delle sedicenti competenze tecniche che riducono le persone a macchine stupide e manipolabili. Occorre umanesimo per fare civiltà autentica, ma occorre umanesimo anche soltanto per fare buona e utile scienza. Non dovrebbe esserci davvero ulteriormente bisogno, oggi, di dimostrare la insulsaggine e irresponsabilità radicale della sloganistica politica che ha portato alla miserevole “scuola delle tre i, cioè internet-inglese-impresa” di berlusconiana memoria.
 
Al movimento sindacale, e oggi specificamente ed esplicitamente a Landini-Furlan-Barbagallo, chiediamo la lealtà umana e morale e civile di riprendere sollecitamente a pensare, studiare e assumersi responsabilità, ponendo fine al tradimento degli slogans a base di “rivendicazioni e piattaforme accolte oppure sarà sciopero”, che costituiscono, in sestessi e  radicalmente, un approccio privo di contenuto responsabile, oltre a lasciare i lavoratori e la intera società in stato rancoroso, sperequato e rimminchionito. A loro ed ai loro colleghi della dirigenza aziendale ricordiamo anche una nostra antica proposta di portata più tecnica ma ugualmente densa di significati anche morali, e cioè la necessità di porre fine alla di differenziazione di contratti fra “dipendenti” e “dirigenti” per unificare entrambe le categorie in un unico contratto collettivo. Né ci si rimproveri di demagogia a buon mercato: questa proposta veniva da noi formulata anche quando avevamo personalmente la qualifica ed il ruolo di dirigenti d’impresa. E’ in realtà semplicissima questione di trasparenza e onestà.
 
Così come alla impresa chiamata a gestire beni comuni chiediamo, aggiuntivamente allo spirito di comunità che deve caratterizzare ogni azienda anche privata, di porre termine alla rovinosa mentalità bocconian-luissina per la quale i risultati vengono valutati in chiave di finanza e di borsa piuttosto che in chiave di benessere prodotto e condiviso, cioè di bene comune. E’ la realizzazione di quest’ultimo che qualifica il successo d’impresa, non la droga artificiosa dell’azzardo borsistico né dello spread né del fognante operato delle agenzie di rating.
 
Agli inadeguati gestori della pubblica istruzione degli ultimi lustri, se ancora  si occupano di formazione, ed agli odierni loro successori e attuatori, chiediamo di porre termine all’immorale e autolesionistico criterio del numero chiuso per l’accesso al sapere universitario, cioè allo sviluppo dei talenti, diritto assoluto di valore sia naturale sia costituzionale. Come ai loro colleghi dell’economia e delle finanze chiediamo di semplificare e ridurre a criteri umani e civili la tassazione persecutoria e frantumata, adottando il criterio trasparente della deduzione delle spese, da parte dei cittadini, in dichiarazione dei redditi.
 
Cine al legislatore in generale, diventato responsabile di un pessimo bizantinismo normativo, chiediamo di tornare a parlare la semplice e trasparente lingua italiana tutte le volte che legiferano: quella lingua italiana che, lo ricordiamo loro, deve far sì che la legge venga capita direttamente dal comune cittadino, secondo il principio morale che, se “la legge non ammette ignoranza”, nello stesso tempo “la legge non deve ammettere neppure difficoltà a essere evidente e semplice per tutti in quello che prescrive”: altrimenti essa è abusiva e anticostituzionale. Oltre che essere stupida, come insegnavano già gli antichi romani collegando giustamente il gigantismo della normativa con la ingiustizia della normativa.
 
All’Europa, infine, o meglio ai suoi governi, chiediamo di uscire dal tradimento da essi perpetrato nei confronti di tutti gli ideali con i quali l’abbiamo fondata, autentica matrice di esempio per la progressiva costruzione di un mondo unito, e non camorra finanziaria di un gruppo di Stati potenti della terra: ai quali ultimi, o meglio ai loro geverni, ricordiamo in particolare che la nostra Italia, se può essere rimproverata, come effettivamente deve essere fatto, di avere un’amministrazione e una dirigenza spesso colpevolmente disordinate e affastellate, e un’opinione pubblica spesso frantumata, è pur sempre, e di gran lunga, da duemila anni ininterrotti, la nazione in possesso del più grande patrimonio culturale del pianeta, e che tale patrimonio essa ha generosamente dato a tutto il mondo, in bellezza, diritto, cultura, arti, religione, scienze e scoperte scientifiche e realizzazioni tecniche e civili ed umane e spirituali. Un primato che merita rispetto, solidarietà attiva e ammirazione, oltre che esigere dagli stessi italiani il dovere assoluto della coerenza gestionale. Se l’Europa non si mostra in grado di garantire tale fondativa e storica esigenza di lealtà, logico e doveroso sarà infatti per il nostro paese rivolgersi a costruire elementi di comunità alternativa con i paesi del mondo che meglio ne capiscano l’afflato ideale, come di recente hanno testimoniato anche nazioni e realtà di piccola e umile caratura economia e geografica quali l’Albania.
 
Tornare persone, tornare comunità. Tutti. Senza che nessuno, ma davvero nessuno, possa sentirsi esonerato, a nessun livello, dall’adempimento onesto e attivo del proprio personale dovere e del proprio contributo.
 
                                                                                                                             (Giuseppe Ecca)
 
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Cultura

IL NOSTRO TESORO INESAURIBILE MA IN PARTE SPRECATO

Mario Guadalupi riprende  un pensiero antico, la cui consapevolezza si è indebolita negli ultimi decenni della vita politica e della consapevolezza civile italiana, ma che va attivamente riscoperto se vogliamo dare al nostro paese una prospettiva davvero solida e stabile di nuovo sviluppo e di rinnovato ruolo mondiale, soprattutto di fronte alla emergenza pesante che ci verrà lasciata dal dopo-coronavirus. Riflette Guadalupi:
 
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Quando si parla di Arte e Cultura Italiana vale la pena di partire dall’ottima sintesi fatta da Benigni, che qui di seguito viene riportata:
 
La parola eccellenza l'abbiamo inventata noi italiani. Siamo sempre stati l'eccel­lenza nel mondo, abbiamo inventato la cambiale, la finanza, le banche. All'epoca di Dante, senza una lingua e senza uno stato, abbiamo inventato la cassa, il credito e il debito che adesso lo abbiamo noi: prestavamo soldi a re e papi, Edoardo I d'Inghilterra deve ancora restituirceli adesso. Dovremmo andarli a chiedere indietro. Ab­biamo inventato la prospettiva, lo sfumato, l'opera di San Benedetto che ha rifatto l'Europa e infatti ne è il patrono. Ha anche aggiunto il «labora» all'«ora» e così ha fatto lavorare tutti i monaci. Vedi che bella lista. Poi abbiamo alfabetizzato la musica, dato i no­mi alle note e ai tempi come forte, fortissimo e con brio, inventato il pianoforte, il violino e la viola. Se si suona nel mondo, è perché ci siamo noi italiani. Che bellissima lista, che gran gusto a dirla: e ancora strade, acquedotti e fogne, terme, igiene e pulizia, abbiamo insegnato al mondo a darsi la mano nel 1200 a Firenze. Le due corsie, il senso unico a Roma con Bonifacio VIII. Abbiamo inventato il bacio moderno, quello con la lingua, con Caterina de' Medici che poi lo insegnò a Enrico II e infatti si chiama «alla francese». Fu uno scandalo enorme, a quei tempi. È una lista bellissima quella delle no­stre eccellenze. Il tovagliolo e le posate; il sonetto, senza il quale non sarebbe esistito neppure William Shakespeare; la lirica, l'affresco, il primo artista moderno, Giotto; il primo intellettuale, Giovanni Boccaccio, che veniva pagato per scrivere; il primo architetto, Filippo Brunelleschi; il diritto, il Barocco, il Manierismo; la scienza politica con Niccolò Machiavelli. Un elenco bellissimo, che non finisce più. Abbiamo inventato l'Europa con Pio II, mentre a Lepanto gli italiani sotto le insegne di Venezia morirono per fare l'Eu­ropa; un italiano ha scoperto l'America e qualche anno dopo un altro italiano le ha dato il suo nome. Che lezione dal passato. Rinascimento, Risorgimento: questo è il Paese della resurrezione e del miracolo permanente. La nostra capacità di superare le crisi è stata presa a modello da tutti gli altri. Che lezione per il futuro. Oggi Renzo Piano è Brunelleschi, Claudio Abbado è il più grande direttore d'orchestra del mondo, Federico Fellini è stato il più grande regista. Che bell'elenco, non finisce più; che piacere dirveli tutti. La Ferrari è il simbo­lo dell'automobile che è la più bella che incontri sulle strade; la dieta mediterranea l'abbiamo inventata noi; Ennio Morricone che è classico e pop, che sta tra Giacomo Puccini e Jimi Hendrix; Umberto Eco è il più grande intellettuale vivente al mondo; Giorgio Armani è il Michelangelo della moda. E poi siamo generosi, noi italiani, che bell'elenco che ho fatto, quanti doni abbiamo dato noi italiani all'umanità. Ma, … e se continuo occupo tutto lo spazio. Roberto Benigni (testo raccolto da Carlo Piano).
 
Come fare allora per mantenere questo straordinario livello culturale che ci rende assolutamente primi nel mondo dell’arte, della cultura e dell’innovazione? Quale deve essere il progetto di una forza politica per sostenerlo? Questi sono strumenti strategici e non tattici e trascurarli porta a sicura sconfitta. Bisogna, oggi riappropriarsene. Capire che oltre alla tattica va inserito nel progetto politico la strategia e la strategia è il progetto culturale sotteso al percorso politico significa fare il grande balzo verso il futuro.
 
Di seguito vengono proposte tre ipotesi su cui lavorare: MECENATISMO – COMUNICAZIONE - FORMAZIONE
 
  1. IL MECENATISMO per l’imprenditore di cultura. L’intuizione strategica dell’importanza di sostenere arte e cultura risale, probabilmente, a Gaio Cilnio Mecenate, importante consigliere di Ottaviano Augusto, il quale instaurò un circolo di intellettuali e poeti che sostenne nella loro produzione culturale e artistica. Da Gaio Cilnio si origina l’uso della parola Mecenate. E’ stato il mecenatismo che ci ha reso i più grandi artefici di arte e cultura di tutti i tempi. Nel rinascimento il mecenatismo diviene un importante strumento di successo adottato da principi imprenditori del territorio, si sviluppa e si moltiplica con i mercanti, che non lo fanno per motivi specificatamente etici. Lo fanno per amore della bellezza, del prestigio, della reputazione, della credibilità nei confronti della concorrenza. Gli artisti, senza mecenati e senza impresa culturale, non sopravvivono. Deve essere capito che la cultura, l’arte e la conoscenza, affondano le loro radici nella storia e nella tradizione, e finiscono sempre per dimostrare che senza cultura non vi è economia. L’ignoranza ed il disinteresse generano solo povertà ed annichilimento per tutti. La grandezza dell’Italia ed anche il suo successo attuale sui mercati mondiali si origina proprio dalla sua capacità di fare arte e cultura. Non c’è cultura senza un potere economico illuminato. Oggi, tutto ciò non può essere sottovalutato, soprattutto in un contesto globale di sfida dei mercati mondiali (Cina, India, etc.). L’obiettivo è, dunque, consentire che oggi si possa condividere e consolidare il passato per dare forza e credibilità al futuro.  Investire in cultura ed arte, ma investire insieme. Il perno centrale e determinante attorno al quale ruota tutta l’attività economica è la cultura, alla quale si offre poco spazio di interazione con la realtà economica dell’impresa anche nel contesto della cosiddetta Responsabilità Sociale dell’Impresa. La cultura, l’arte e la conoscenza, affondano le loro radici nella storia e nella tradizione, e si finisce sempre per dimostrare che senza cultura non vi è economia, e l’ignoranza ed il disinteresse generano povertà e annichilimento per tutti. E’ necessario mettere l’accento e rendere palese che chi produce ricchezza e conoscenza deve partecipare alla creazione di valore culturale anche in considerazione del fatto che la globalità degli sforzi restituirà vantaggi a tutti singolarmente e moltiplicherà, nel tempo, la ricchezza del territorio (come i mecenati del passato hanno creato ricchezza per noi, oggi). Riaggregare l’imprenditoria italiana attorno ad un progetto culturale significa essere una forza politica lungimirante che fa del futuro il suo obbiettivo finale.
 
  1. L’INFORMAZIONE e la comunicazione. Non si può fare comunicazione politica senza inserire in qualsiasi documento anche sinteticamente annotazioni culturali. Non abbiamo, attualmente, alcun partito in Italia che parli o difenda gli interessi culturali dell’Italia nel suo territorio e soprattutto nel mondo. Nessun partito che riconosca il nostro immenso pozzo petrolifero: la cultura, riconosciuta invece da tutti nel mondo. Noi non sappiamo utilizzarla, venderla, difenderla. Importiamo materia grezza e sporca come il petrolio e non sappiamo esportare e difendere l’immensa nostra ricchezza; il nostro petrolio che non va nei motori ma direttamente negli occhi, nelle orecchie, nella bocca ed infine nel cervello di 7 miliardi di persone. Quale pazzia è questa? Bisogna chiamare a raccolta gli imprenditori e spiegare loro che la cultura fa ed ha fatto da sempre ricchezza molto più di qualsiasi altra risorsa anche perché è un prodotto umano e non un’estrazione di materiale terrestre. Inoltre, volendo, è una fonte inesauribile. Trascurare in qualsiasi discorso politico la cultura significa banalizzare qualsiasi progetto, significa portarsi allo stesso livello degli altri, significa parlare come al solito del Pil e basta, mentre “… il Pil non tiene conto della salute dei nostri ragazzi, la qualità della loro educazione e l'allegria dei loro giochi. Non include la bellezza delle nostre poesie e la solidità dei nostri matrimoni, l'acume dei nostri dibattiti politici o l'integrità dei nostri funzionari pubblici. Non misura né il nostro ingegno né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione per la nostra nazione. Misura tutto, in poche parole, eccetto quello che rende la vita degna di essere vissuta. Ci dice tutto sull'America, eccetto il motivo per cui siamo orgogliosi di essere americani. » (Robert Kennedy - Dal discorso tenuto il 18 marzo 1968 alla Kansas University). Come si direbbe in musica, bisogna cambiare registro. Offrire suoni nuovi, voci nuove, visioni nuove sia per gli anziani sia per i giovani.
 
  1. L’EDUCAZIONE e la formazione a tutti i livelli, non solo scolastici. Bisogna riformare i quarantenni, quelli ai quali la scuola ha proposto solo informazione e conoscenza senza dare educazione e cultura. Purtroppo si confonde molto spesso addestramento con formazione. La scuola oggi addestra ma non forma né educa. Se vi chiedessero qual è il miglior investimento in senso assoluto, cosa rispondereste? Vi è una sola risposta possibile: Formazione Comunicazione Informazione Educazione. Il miglior investimento è sempre mettere i soldi “nel cervello” delle persone, nello sviluppo dell’intelligenza, della capacità di essere creativi, competenti, capaci di adattamento al mondo moderno. La formazione-comunicazione ha un'importanza talmente rilevante che molte università hanno facoltà dedicate proprio alla Scienza della Formazione, dove si studia la materia in ogni suo aspetto. La formazione si riferisce, infatti, a ogni contenuto di sapere, sia esso di area tecnico-scientifica, di area umanistica e di area di ricerca. Alla formazione (crescita culturale) della persona devono partecipare tutte quelle forze politiche che vogliono rendere l'uomo diverso da tutte le altre creature della terra. La formazione-comunicazione, nel suo complesso, è indispensabile per preparare una persona allo svolgimento di un'attività; ma innanzitutto prepararla alla comprensione dei tempi e delle situazioni, o molto più semplicemente a vivere coerentemente con quello che fa e con quello che è, ed a contribuire al successo della società in cui vive.
 
Concretamente:
  1. Ogni documento politico deve riportare alcuni elementi di progetto culturale.
  2. Ogni sito deve aprire un’area dedicata al progetto culturale con un blog rivolto a imprenditori, studenti, professori, appassionati, neofiti.
  3. Creazione di un forum e di un comitato dedicato alla cultura e all’arte.
  4. Una manifestazione eclatante rivolta ai giovani e agli imprenditori per il ritorno alla cultura.
  5. Uno strumento periodico cartaceo dedicato alla cultura: un trimestrale politico incentrato sul progetto culturale.
 
In conclusione, non parlare ma agire con fatti concreti attraverso la partecipazione ed il coinvolgimento, senza paura e senza incertezze ma con una grande speranza perché “Senza la speranza è impossibile trovare l'insperato.” Eraclito (535 a.C. – 475 a.C). «Fare, o non fare. Non c'è provare» (Yoda a Luke Skywalker). Dunque bisogna iniziare da capo insegnando a noi stessi ed ai giovani che “C'è un'unica verità elementare la cui ignoranza frena innumerevoli idee e splendidi piani. Nel momento in cui uno si impegna a fondo anche la Provvidenza si muove. Infinite cose accadono per aiutarlo. Cose che altrimenti non sarebbero mai avvenute. Qualunque cosa tu pensi di fare o sogni di poter fare, cominciala. L'audacia ha in sé genio, potere e magia. Comincia da subito!” (Johann Wolfgang von Goethe). Le risorse di un territorio non sono le “cose” che possiede, ma gli uomini che lo abitano, che vi hanno vissuto, che vi sono nati; loro, solo loro, sono la ricchezza ed il successo del territorio. Solo loro potranno costruire il benessere ed un futuro per se stessi e per i propri figli ricordando che "Il futuro appartiene a quelli che credono nella bellezza dei loro sogni“ (Eleanor Roosevelt).
 
                                                                                                          (Mario Guadalupi)
 
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Società

COSTA DI PIU' FIDARCI O NON FIDARCI?


 
 
Lo stile di Ugno Righi, esperto consulente di gestione aziendale: uno stile essenzialissimo, veloce, senza fronzoli di sorta: ma una buona occasione, per chi legge, di riflettere sulla importanza centrale dei rapporti di fiducia e sui loro meccanismi, nella vita in generale e nel lavoro in particolare.
 
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Chiunque trascura la verità nelle cose di poco conto non può essere degno di fiducia con le questioni più importanti. (Albert Einstein). 
 
Parla, lo guardo, lo ascolto, è credibile ma non lo sento vero. Quindi non mi fido.
 
Quante volte accade questo, e sempre di più…
 
Nel micro dei contatti quotidiani e nel macro degli scenari.
 
Stiamo assistendo da tempo a questo fenomeno in politica, dove la percezione diffusa di sfiducia e inaffidabilità (intreccio di assenza di etica e di competenza) è che esse prevalgono su tutto.
 
Il tema della fiducia è davvero complicato, complesso, pieno di contraddizioni e di vicoli ciechi.
 
È difficile darla, la fiducia, e a volte non conviene farlo. È difficile riceverla, e a volte è bene che non ce la diano perché neanche noi abbiamo fiducia in noi stessi.
 
Si perde facilmente ed è difficilissimo riaverla; nelle relazioni d’amore o di amicizia è quasi impossibile.
 
Fidarsi dei banditi è da stupidi; fidarsi degli stupidi è da incoscienti.
Siamo circondati da banditi e da stupidi, che, giustamente, non si fidano tra loro.
 
Però sappiamo, ed è inesorabilmente vero, che la fiducia è fondamentale per il benessere sociale ed economico.
 

Possiamo fare tanti bei corsi di formazione, incitare le persone, usare parole luccicanti, avere capi «ispirati», ma se non c’è fiducia tutto crolla.
 
Ferrero ha successo perché ha come valore fondamentale quello della fiducia e come lui le imprese o le nazioni di successo: creano valore prima di prodotti.


Fiducia che le parole coincidano con i pensieri di chi le esprime, fiducia che siano tali anche i fatti, fiducia che non ci sia uno scopo dannoso verso chi si fida.
 
La fiducia è legata alle convinzioni che noi ci facciamo rispetto al comportamento degli altri, e spesso le nostre convinzioni rispetto al comportamento degli altri sono negative.
 
La sfiducia è diffusa, è cresciuta ed è diventata maestra di vita, la prassi e l’esperienza l’hanno resa dura e tenace. Sguardi attenti e un po’ bassi, espressioni corrucciate, cuore in allarme permanentemente. La minaccia è sempre presente, non si può abbassare la guardia.
 
Sembrerebbe quindi che le condizioni per agire bene siano rese impossibili: ma siccome dobbiamo vivere e agire pur non avendo, nella prevalenza dei casi, informazioni o percezioni sufficienti né per fidarci né per fare l’opposto, spesso “ci fidiamo” ma con bassa cooperazione.
 
La fiducia serve per partire e solo la fiducia può generare fiducia e quindi cooperazione.
 
La fiducia è dunque un prodotto potenziale della cooperazione e non una sua pre-condizione inevitabile (anche se quando c’è è un vantaggio).
 
Spesso la fiducia data in avvio di una relazione è leggera, incerta, debole, e piano piano si consolida pur rimanendo leggera; e quando diventa forte è ancora più «rischiosa» perché il tradimento di una fiducia che si è alimentata di fiducia è dolorosissimo.
 
I grandi professionisti della sfiducia sono esperti di questo gioco. Nel film La casa dei giochi si vede come il grande truffatore aveva come suo strumento base proprio la creazione della fiducia. Ma si vede ovunque,  questa perversa abilità.


Tale considerazione determina, quindi, la legittimazione del proprio scorretto comportamento perché fondata sulla percezione negativa del comportamento dell’altro o sulla valutazione della percezione negativa dell’altro su di noi, confermata poi, reciprocamente, dal risultato! “Faccio bene a non fidarmi perché vuoi danneggiarmi”.
 
L’alibi è quindi impeccabile e il gioco delle opportunità diventa subito quello della droga del conflitto, in cui a un certo punto l’obiettivo diventa «far fuori quel nemico».


Poter collaborare, cooperare, o addirittura vivere con gli altri, richiede, quindi, non solo che noi ci fidiamo di loro ma che siamo convinti che loro si fideranno di noi.
 
Anche se può essere di cruciale rilevanza avere motivi per cooperare (in aziende, con conoscenti, ecc.) è un errore pensare che ciò avverrà certamente, così come può esserlo pensare che se non avverrà è perché si preferisce il conflitto.
 
Come far capire che la cooperazione, spesso, può essere attraente e vantaggiosa al punto tale che valga la pena di investire un po’ di fiducia? Ecco la sfida!  Bisogna essere affidabili: tutto qui!
 

E bisogna che gli altri lo riconoscano. Se vuoi averla, la fiducia, devi darla. Poi devi confermarla con comportamenti che la aumentino.
 
Il contributo che una persona può dare nel far crescere ulteriormente la fiducia riguarda la sua capacità di fidarsi (non ciecamente) ma anche, se non soprattutto, di suscitare negli altri questo sentimento verso di sé.
 
Un aspetto che è presente spesso nel nostro tempo e nella nostra nazione esprime una variante rispetto a questo ragionamento: accade quando ci sono vantaggi elevati a operare con qualcuno (o costi elevati a non farlo) ma il livello di fiducia è basso. In questo caso, le relazioni vanno avanti ugualmente perché i soggetti in gioco, pur non fidandosi, hanno un alto vantaggio nel mantenere la relazione. È un’apparente paradossalità: «Non mi fido di te ma son sicuro che non mi tradirai perché farlo non ti conviene». È un gioco pericoloso, dove entrambi sanno che alla fine l’altro tradirà, e «vincerà» chi lo farà per primo neutralizzando la possibilità dell’altro di reagire.
 
Giochi velenosi riempiti di miele. Conferme verbali di lealtà e trucchi sommersi d’inimicizia. Giustificazioni morali sul proprio comportamento che senza le ali dell’ipocrisia striscerebbero nel fango. Ma fino allora (quando si dovrà sferrare il colpo) le carezze raffinate, le danze d’amore, i modi delicati saranno abbondanti e impeccabili.


Concludendo, voglio dire che la fiducia è un bene scarso e, come altre virtù sociali, aumenta con l’uso: quindi la sfida non è di presupporla ma di generarla e fare in modo che chi ci è vicino, chi lavora con noi, per effetto anche del nostro contributo aumenti la fiducia in se stesso.
                                                                          
                                                                                                                                                                (Ugo  Righi)
 
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Religione

"EFFATA'": LA STRADA E' APERTA

Il seguito del precedente articolo dello stesso autore, pubblicato il 3 marzo: o, meglio, la sua seconda parte.
 
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Una scia luminosa, e chiunque ci resta impigliato: è il battesimo di un bambino.
 
Nel battesimo di un bambino ci entri in punta di piedi, e non solo perché sei in chiesa. Ti fai avanti piano
piano e svicoli per la navata laterale perché già lo senti, già lo sai che oggi, qui, tutto sarà lieve e di mano
leggera.
 
Il battesimo forse più bello l'ho celebrato in un giardinetto di condominio e neanche mi ricordo come
strappammo il permesso. Tutto improvvisato, eppure che emozione, che commozione fra preghiere, canti,
chitarre e tamburelli: un rito un po' hippie come solo il battesimo di un bambino può diventare. Eppure, se lo
lasci scorrere liquido liquido, quel rito prenderà l'anima a tutti, anche a chi ci è venuto un po' così, anche in
una chiesa affollata e distratta. Durante il battesimo si snoda una scia talmente luminosa che chiunque ci
resta impigliato.
 
Il battesimo di un bambino è una cosa fragile, è un rito fatto con niente: gesti, parole, oggettini che lì per lì
fanno ridere: ma è quello il suo profondo, è quella la sua serietà e mai come adesso tornano le parole di Gesù: se non vi fate come bambini nel regno di Dio non ci entrerete mai. Difatti. Cose minute e cose minuscole ha preparato don Filippo: banchettino, tovaglietta, boccette, vasetti, batuffoli, brocca, bacile, asciugamani, candeline sigillate nel cellophane, vestina bianca. Tutto in miniatura, niente ingombro, non pompa magna: riti che durano un secondo, frasi brevissime, cenni, simboli, cifre, metafore.
 
Favolosamente misterico, il battesimo di un bambino mi si svela passo passo: l'importante è che io mi lasci trasportare senza pretendere e senza aspettarmi granché. Qualche dubbio? La grande teologia cristiana campeggia sullo sfondo e non la tradisco con la poesia, sta’ tranquillo. Se poi hai bisogno di un'immagine per ispirarti meglio, lascerei da parte le grandi tavole del battesimo di Gesù (Piero della Francesca, Verrocchio, Leonardo mi perdonino) e mi rivolgerei piuttosto ai ghirigori di Mirò, ai colori pastello di Klee, agli asini che volano di Chagall, o alle forme intrecciate di Vassily Kandisky. Ci stanno, ti assicuro, e mano nella loro mano entreremo nel tempio a misura di neonato.
 
Eppure l'inizio del rito, secondo me, è sconvolgente. Il nome, si comincia dal nome del bambino. E non per
iscriverlo, come all'anagrafe, no: adesso è per pronunciarlo, per proclamarlo, per gridarlo ai quattro venti. Quasi tutti lo conoscono, quel nome, sono giorni e mesi che gira fra i parenti: ma… che gli fa. Ora è un atto solenne, ora è una svolta, ora è una ribalta e tutti vogliamo sentirlo forte quel nome, perché è importante, perché è necessario, perché é insostituibile: e pare che qui tutto cominci da capo. Come si chiama il vostro bambino, ditelo a voce alta, fatelo risuonare, il suo nome, fatelo correre con l'eco di tutta la navata. Matteoooo… Agneseeeee… Andreaaaa… Elenaaaa….
 
Il tuo nome: comincia così il tuo battesimo, piccolo mio. Che mossa straordinaria, questo preludio, che tocco: in una società di numeri, di posti in fila, di codici a barre, di password, di nickname. Il tuo nome. E così dovremo chiamarti e così apprezzarti e così conoscerti e mai far finta di niente e guai a metterti nel mucchio: ficcarci bene in testa chi sei tu, che cosa sei tu, e no, scusa, m'ero sbagliato, t'avevo scambiato per un altro. E proprio qui, proprio adesso, giureremo di distinguerti, di guardarti negli occhi e mai girarti la faccia. Quel nome tua madre, tuo padre (domani la tua innamorata, chi lo sa) se lo stanno già incidendo come un sigillo sul cuore, quasi un tatuaggio che non si leva con niente. Così scrive il Cantico dei Cantici e così lo stiamo ripetendo noi, con le lacrime agli occhi. Il tuo nome scritto nella mano di Dio e abbandonino, bambino mio, non ci diventerai mai, e buttato lì da una parte coi videogiochi dalla mattina alla sera non ti ci lasceremo mai. Ora che ci sentono tutti, è il primo giuramento che ti facciamo.
 
Poi, rito rito, arriviamo all'effatà. E cos'è l'effatà? Effatà è un verbo aramaico all'imperativo: apriti, fatti largo, esci fuori. Insomma, vorremmo aprire la tua bocca e per assurdo pretendere che tu cominciassi a parlare adesso, qui, come nelle favole. Ci viene addosso il vangelo ed eccolo Gesù che si avvicina ai muti, eccolo che si fa largo tra i senza parola, eccolo accostarsi ai colpiti da ictus con la bocca storta e lui che gli spalma chissà che fango e chissà che intruglio e gli grida effatà, apriti, e quelli che cominciano ad articolare la mascella,  a incespicare, a sputare fra lingua e denti,  e poi una smorfia e piano piano una mezza parola e alla fine un mugugno di frase. Che miracolo la parola, che meraviglia poter parlare. Tu, amore mio, parlerai fra un anno-un anno e mezzo, man mano che matureranno le zone del tuo cervello: ma aspettando aspettando a noi ci prenderà l'ansia e proprio da quell'ansia oggi vorremmo partire mentre ti tocchiamo lievemente le labbra. Parla.
 
Parla, parla: questa è la nostra benedizione e la parola fiorirà nella tua bocca. Guarderai la gente negli occhi e
non ti chiuderai mai, non ti nasconderai, e mai ti metterai all'ultimo banco. Sarà il tuo vanto parlare e ridere e
gridare e farti sentire e dire la tua. E nessuno ti metterà sotto, e nessuno ti ridurrà al silenzio, e nessuno mai ti
chiuderà la bocca. E tu, soprattutto, tu di tua scelta, tu di testa tua, mai resterai in silenzio e mai farai scena
muta di fronte a nessuno dopo un sopruso, una vigliaccata o un tradimento. Ti ribellerai, alzerai la voce,  gliene dirai quattro. Coraggiosamente, sempre, con chiunque voglia fare il padreterno con te. Già ti vedo che ti esponi, ti fai avanti, ti presenti: senza paura di urlare in faccia a quei padroni, a quei dittatori a quei vigliacchi.
 
Effatà, amore mio: questo rito e questo sogno e questo augurio diventeranno realtà: sarà fatto, sarà compiuto,
sarà una grazia. Effatà, che verbo. Mentre lo pronuncio mi vengono i brividi. E siamo al cuore del battesimo, l'acqua. La faccio scorrere sulla tua testa nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e la mia mano chissà che sia la fontanella giusta per te.
 
L'acqua è la vita: sei stato immerso nell'acqua di tua madre per nove mesi e oggi la vai cercando fra di noi,
l'acqua: che azzardo, e va bè: provaci. Prendila e immergiti quanto vuoi nell'acqua che ti offriamo: chissà che
non tu non guarisca dai graffi che t'hanno lasciato le generazioni precedenti e che tu sia migliore dei tuoi
antenati. Migliore? Te lo auguro, ma lo sarai soltanto se conserverai una sete quotidiana, se non ti contenterai
di bere a un'unica fontana, se cercherai di bere da tutte le parti. Un assetato perenne, ecco come ti sogno. Mai sazio, mai soddisfatto, sempre alla ricerca di un'oasi successiva. È un pozzo senza fondo, l'acqua del battesimo.
 
Ma ancora non basta. Al centro della chiesa don Filippo ha piantato il grande cero acceso nella notte di
Pasqua. Una specie di faro che domina la comunità e la veglia notte e giorno. Viscardo, per favore, resta qui
anche questa notte; ma certo, dove vado, ancora la sento la voce di mio padre in ospedale. Ti accorgerai presto che vuol dire restare al buio, e che disperazione non trovare chi ti faccia luce sul pasticcio in cui ti sei
cacciato. Si farà giorno quando finalmente troverai qualcuno che ti libera da quella dipendenza, uno che ti
costringe a riflettere, uno che ti strilla “ripensaci” e poi ti strattona, dai, vieni via verso l'uscita di sicurezza.
Eccola la candelina che il tuo padrino di battesimo va ad accendere dal cero: sembra un faretto sul casco da
minatore per uscire dal tunnel.
 
Una conquista: vorremmo che la tua vita avesse sempre un traguardo più in là, che fosse una candidatura
perenne all'oscar, che diventasse una continua presa di responsabilità. La madrina ti infila la veste candida: la
tunica bianca che i pretendenti a una carica politica indossavano alla vigilia. I candidati: perché fosse chiaro
a tutti che erano senza macchia, che non avevano addosso ombra di sospetti e non si portavano dietro tracce
di precedenti. Candidato alla vita. Te ne accorgerai, piccolo mio, che fiatone e che faticaccia è la vita, ma vale la pena correrla. Mai imboscarti, mai arrenderti e mai tirare indietro la gamba: ti vogliamo a testa alta e con un cuore grande così. Conta su Dio e sulle tue forze, ma non ti avvilire subito e non ti squalificare da solo e, per favore, metti ogni giorno l'asticella un centimetro più in alto.
 
Siamo alle benedizioni finali. Ora il tuo battesimo è completo e non ci resta che festeggiare. La strada è
aperta: che sia lunga e felice.
Ciao, fatti grande.
 
                                                                                                          (Viscardo Lauro)
 
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Religione

IL BATTESIMO, E POI LA VITA...

Sempre potente e sempre stimolante, la riflessione di Viscardo. Anche se personalmente non condividiamo l’auspicio di superare il tradizionale “registro del battesimo”, che davvero non fa male a nessuno e anzi può avere una sua utilità pratica nel futuro del bambino pur senza riguardare il sacramento del battesimo in quanto tale, vi proponiamo la periodica meditazione interessantissima del nostro autore.
 
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Una promessa, quasi un giuramento: il battesimo di un bambino ci prende in parola.
 
Un po' di nostalgia ce l'ho, inutile negarlo. Sto parlando del battesimo di una volta, il battesimo in casa,
proprio lì dove tra i mille dolori di mamma la levatrice mi aveva tirato fuori. I fiocchi, i cuscini, le brocche di
acqua calda, il parroco con la sua piccola attrezzatura, alla fine biscottini e rosolio. Tutti lì, mamma, papà, il
compare, la comare, le vecchie zie, i parenti più stretti, nel calore affettuoso e un po' stantio delle osservanze
religiose. Nessun problema, niente domande, tutto procedeva da solo. La religione l'avrei assorbita piano
piano a piccoli sorsi e senza complicazioni.
 
Nostalgia? Di che, nostalgia? Ma, non so dirti, forse perché il battesimo di un bambino io continuo a sentirlo e ad amarlo solo se è una stretta, un abbraccio forte e uno sguardo intenso. Insomma, qualcosa di unico. A certi battesimi tirati via mi viene voglia di uscire.
 
Un bambino, te lo ripeto, e non ti annoiare, un bambino non è solo un regalo, la sua nascita non è solo una
festa e la sua apparizione fra noi non è soltanto un respiro in più, quasi che tutta casa avesse riaperto le
finestre e… ah! che aria nuova. No, no: quel lieto evento, come lo chiamano, è di più, è molto di più, è un mondo a sé, eppure, lì per lì, tutti presi e tutti euforici, non ci pensiamo.
 
Un bambino chiede, esige, pretende. Si pianta proprio nel mezzo della nostra vita e ci costringe (silenzioso o a furia di strilli) a un'attenzione, a una presa in carico, a uno scombinamento di piani tale che ci scordiamo tutto, rimandiamo tutto, e le cose che ci piacevano ieri le faremo più in là. Un ribaltone. Cose terra terra, ma proprio lì dentro c'è il battesimo come lo intendo io.
 
Quel giorno, quel rito, quella mezzoretta, rappresenta, almeno per me, una parola solenne, una promessa
dichiarata, stavo per dire un giuramento. Proprio così: il pronunciamiento (alla maniera dei sudamericani),  una specie di golpe che… noi ci compatteremo attorno a te, che… per noi tu sarai davvero importante, e che… tutti tutti, quelli che ci vedi qui stamattina, ci daremo da fare per te. Ti pare poco?
 
Ecco perché lascio perdere le nostalgie e mi scordo il battesimo di una volta, tutto intimità, quasi una religione in scatola. Presto quel bambino si affaccerà su un mondo intricato, dovrà sbrigarsela in una rete complicata, sarà chiamato a rispondere a domande troppo più grandi di lui. Ti rendi conto allora che il clan famigliare e quel calore così necessario, così decisivo, così indispensabile nei primi anni, poco alla volta non sarà più sufficiente, non arriverà a tutto, non coprirà tutti i suoi bisogni? Una ragnatela fitta fitta che egli troverà (si spera) fuori di casa per avvolgerlo, rassicurarlo, guidarlo.
 
Un battesimo è quindi un rito pubblico, celebrato in una chiesa aperta in faccia al mondo perché nessuno possa dire un domani io che c'entro? e nessuno mai tradisca la parola data.
 
“Viscardo, sono la tua figlioccia, è un anno ormai che ci siamo persi, ho bisogno di te”. “Eccomi, corro,  amore mio”. La mail si è appena accesa sullo schermo e già prendo in mano le chiavi della macchina.
 
Ho appena iniziato a celebrare il battesimo (mio Dio, quanti ne ho celebrati in vita mia?) nel nome del Padre
del Figlio dello Spirito Santo… e San Rocco si è accesa. Questa piccola chiesa del centro di Roma sembra fatta apposta. San Rocco una delle tante chiese dei fiumaroli, nasce come cappella di ospedale e la sezione
femminile diventa quasi subito reparto di ostetricia. Fine 1.500: tutta Roma si mobilita a favore dei più sfortunati. Sono i giovani che si organizzano in Confraternite, si danno la voce, chiedono sostegno, e sulle rive del Tevere nascono gli ospedali dei poveri. La confraternita della riva piccola, Ripetta come la chiamano i romani, ha mandato in giro alle donne di Roma un messaggio straordinario e modernissimo: se partorite un bambino e non avete intenzione di tenervelo, non lasciatelo sugli scalini delle chiese e non andate neanche dall'altra parte del fiume a ficcarlo nella ruota di Santo Spirito. Venite da noi. Vi faremo partorire tranquille in un letto e nessuno potrà mai conoscere il vostro nome. Avrete tutta l'assistenza necessaria e, dopo il parto, al bambino, se volete, penseremo noi. Nasce l'ospedale delle velate, le madri che non potranno mai essere identificate. Addirittura, se il parto dovesse andar male sarà garantita perfino una sepoltura gratuita e segreta in un angolo di piazza del Popolo, a due passi. Pensa tu dove sto celebrando il battesimo.
 
Per dire…. Senza una comunità che si rimbocca le maniche non esiste battesimo. E solo a questo punto sono in grado di rispondere a quelle domande pressanti che mi facevi la volta scorsa. Perché battezzare un bambino? Perché, senza che lui se ne renda conto? Perché non aspettare il suo consenso? Perché addirittura iscriverlo nel registro di una chiesa? Perché?... Hai ragione, intanto quel registro lo toglierei di mezzo perché il battesimo di un bambino non è l'affiliazione a una confessione religiosa. Il concilio anche da questo peso ci avrebbe liberato: ma siamo così lenti ad applicarlo… dài, Papa Francesco, accelera.
 
Però, ancora una volta, qui dovrei fermarmi perché la questione si fa complicata e prima di continuare
dovremmo metterci d'accordo su termini e vocaboli. Cos'è una religione? Che significa? Che posto prende, o dovrebbe prendere, una religione, all'interno, certe volte nel cuore stesso, di una società moderna?
 
La religione, ieri, oggi, e forse domani, non risponde solo a un bisogno personale. Non è soltanto un angolo
della mia struttura mentale (semplifico, lo so), quella parte di cervello che pretende un sogno e uno sguardo al di la delle cose che si toccano e dei giorni che passano. Poesia, cinema, pensieri amorosi, musica, fantasie, e lo stesso sogno religioso (permettimi di chiamarlo così) sono pane necessario e io lo chiedo mattina e sera, se no… andrei ai pazzi. Ma c'è di più.
 
Io non sono solo, io non vivo da solo, io non me la posso vedere da solo. Mi giro e m'accorgo che tutto un
popolo, un parentame, un'etnia, un clan, si trova unito e sorretto da convinzioni, tradizioni, devozioni, credenze, che s'impastano con le cure e gli impegni della mia e della loro vita. La religione la penso come una spinta superiore che ci trascina, e tutti siamo affezionati e grati a quelle credenze e a quelle figure e a quelle usanze e a quei riti che ci ricordano, ci rafforzano, e spesso ci spingono, alle cose migliori. La religione è uno dei legami forti e stretti che compatta una tribù, una famiglia, addirittura una società. Una grande idea che circonda e vincola un gruppo umano, a volte così strettamente da diventare una difesa e certe volte purtroppo uno strumento di aggressione. Una forza inarrestabile che ha bisogno di istituzioni, di guide, di solchi, di argini: se no, come tutte le passioni, si fa pericolosa e distruttiva. Proprio come la politica e lo sport.
 
Un bambino nasce in quel bacino, in quel golfo e in quel letto caldo. Per ora la religione vissuta dai genitori
sarà per lui l'espressione di una cura, di una veglia e di un tetto che giura di non crollare mai. Immaginazioni,
racconti, simboli, modi di dire, tutto si mescolerà nella fantasia del mio bambino e tutto farà corpo con le
usanze e le attenzioni di casa. Dio, Gesù, la Madonnina, il Papa, Natale, Pasqua, i morti, saranno tutt'uno a come si mangia, come si sta a tavola, come si rispettano i nonni, come ci si lava e ci si veste. È un clima, un lessico, un certo tipo di odori e di sapori, che non dimenticherà più. Non dovremo meravigliarci se Gesù Bambino non sarà poi tanto distinto dai cartoni che lo appassionano in tv. Parlerà, gattonerà, correrà, e insieme ci sarà Biancaneve e l'albero di Natale, le grandi feste e Peter Pan, le preghiere brevi e i mostri di Walt Disney, la scoperta della chiesa e i suoi miti infantili: tutto diventerà uno spicchio di anima perché a lui arrivi rassicurazione, custodia, trasmissione di cose belle e di figure importanti. Se saremo accorti, se sapremo scegliere bene, se lui resterà il nostro pensiero, anche la religione gli assicurerà la buona salute della mente che gli sta maturando dentro.
 
Non è ancora sua la religione, non fa ancora parte delle sue decisioni, perché solo più tardi la corteccia
cerebrale gli permetterà i primi ragionamenti e solo più in là gli si affaccerà il senso critico: una progressione
inarrestabile:  sei, dieci, quindici, diciotto anni… E proprio le soglie della maturità potrebbero essere gli anni della sua cresima, quando esprimerà la sua adesione convinta, perché solo allora scoppierà la consapevolezza, la capacità di discussione e la scelta dei valori forti. Sarà così in grado di una professione di fede personale. Ecco perché è sbagliata la cresima a dieci o a tredici anni: ho speso i miei anni giovanili per questa causa, che per ora sembra persa.
 
Di cosa avete paura? Se un giorno quel ragazzo lascerà la religione domandatevi se per caso avete mancato a
interessarlo, se avete continuato con le devozioni e i catechismi ingenui e noiosi senza rispondere con
intelligenza ai suoi interrogativi e al suo dissenso. Forse sarà stata la nostra ignoranza, forse il nostro e il suo
disinteresse, chi lo sa, non certo il battesimo alla nascita: quello sì, fu un atto di amore. Spesso coloro che
rimandano il battesimo non faranno mai niente perché quel ragazzo conosca le religioni e ne apprezzi il valore.
                                                                                                                                

Anche stavolta, come vedi, mi sono fermato ai preliminari. Mi concedi un'altra stanza? Non ti ho ancora presentato le meraviglie e i simboli che il battesimo ci mette sotto gli occhi. Per oggi basta così.
 
                                                                                                    (Viscardo Lauro)
 
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Politica

I PARTITI SONO STRUMENTI DELLA DEMOCRAZIA E DELLA SOCIETA' NON PROPRIETARI DELLE ISTITUZIONI NE' DELLA POLITICA


 
 Recita come segue, il nuovo comunicato di DemocraziaComunitaria:
 
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Viene mossa in questi giorni a DemocraziaComunitaria, da alcuni gruppi, anche amici,  la critica di aver annunciato che sosterrà il “sì” alla riduzione del numero dei parlamentari, su cui gli italiani sono chiamati a decidere attraverso referendum il prossimo 29 marzo. Anche nel mondo organizzato di ispirazione cristiana, dunque, a quanto pare, DemocraziaComunitaria… è quasi sola a sostenere il “sì”, contro una prevalenza di opinioni (a quanto pare) favorevoli al “no”.
 
Non solo questa relativa solitudine non ci scoraggia, ma ci invita a tornare ancora una volta a rimeditare e riapprofondire (va fatto sempre e per tutti i problemi e da parte di tutti) il perché della nostra scelta. In questa sede peraltro non replicheremo alle ragioni di nessuno dei gruppi citati, in quanto la nostra posizione, attenta alla costruzione di quello che da anni chiamiamo “Stato snello” per realizzare con coerenza ed efficienza il dettato della carta costituzionale italiana nel ventunesimo secolo e lo spirito dei suoi padri costituenti, è espressa da anni nei nostri documenti, che ne esplicitano continuativamente tutte le ragioni di lunga gittata, giuridiche, politiche, culturali e morali, al di là delle contingenti maggioranze di governo. Confermiamo dunque con semplicità e convinzione, semplicemente, il nostro “sì” alla riduzione del numero dei parlamentari.
 
Nello stesso tempo, confermiamo anche la necessità di una riforma elettorale che restituisca ai cittadini italiani il diritto di scegliere effettivamente e direttamente tutti i loro parlamentari, deputati e senatori, attraverso il criterio democratico del “collegio uninominale secco”. Ribadendo ancora una volta che i partiti politici, secondo la costituzione italiana e lo spirito dei padri costituenti, e secondo la nostra tradizione valoriale personalista di ispirazione cristiana, non sono affatto gli affidatari della politica italiana, e men che meno ne sono i proprietari, ma sono semplicemente, e devono essere fortemente, degli strumenti attraverso i quali la democrazia viene aiutata a realizzare due fondamentali suoi obiettivi:
 
a. aiutare i cittadini medesimi a identificare  e impegnare meglio personalità, orientamento, programma, rifermenti valoriali e culturali, dei singoli candidati;
 
b. costituire per il paese, in vista dei momenti elettorali ma, non meno, nel quotidiano svolgersi della vita istituzionale, sociale, civile, economica, culturale, soggetti attivi e permanenti di formazione della coscienza dei cittadini e di servizio alle loro istanze, di rappresentanza delle loro posizioni, di vigilanza su tutti i comportamenti istituzionali, e ben radicati nel territorio: insomma, appunto, strumenti vivi della società democratica e pluralista, vere comunità di elaborazione politica, mai proprietari e gestori oligarchici della democrazia. Riassumiano, dunque: democrazia è scegliere persone, non scegliere partiti. Che queste persone facciano riferimento a partiti o siano candidate da partiti è qualificante ma non essenziale.
 
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Racconti di vita

Piccola storia di cura del creato

Abbiamo conservato questo piccolo “racconto di vita” dal 2011, quando pervenne alla giuria di un concorso che chiedeva appunto “racconti di vita”; non potè essere premiato, questo piccolo racconto inviatoci da una signora di Vercelli, per via di alcune caratteristiche anche formali che gli scritti partecipanti dovevano osservare, ma è rimasto ben custodito fin da allora nei nostri cassetti: è una bella piccola storia di umanità, di quella umanità che sa anche prendersi cura del creato con armonia e amore; e perciò non può, alla lunga, non essere raccontata.
 
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Era un giorno caldo, profumato, di molti anni fa, che prometteva una bella settimana agli anziani arrivati da tutta Italia al Villaggio di Alimini.
 
Non sapevo ancora che qualcosa sarebbe cambiato nella mia vita e nella mia famiglia, che qualcuno di nuovo avrebbe fatto parte di noi.
 
Comparve un pomeriggio, all’improvviso, di corsa, con in bocca una pallina: era un cuccioletto di pelo bianco e irto, con macchie color arancio sulle orecchie pendenti, un grosso naso tondo e due occhi dolcissimi.
 
Scoprimmo poi, a casa, essere uno spinone italiano di un anno, sano e molto bello ma, purtroppo, decisamente sottopeso, trascurato e con il terrore dei maltrattamenti subiti fino ad allora.
 
Per quindici anni la mia famiglia aveva preso, da allora, a tornare a Vercelli dalla montagna per trascorrere con lui il Capodanno affinché non soffrisse in solitudine il baccano dei fuochi di fine anno.
 
Così non sarà per il 2011 perché, purtroppo, Valtur ci ha lasciati nell’ottobre del 2010.
 
Non ricordo bene, ancora adesso, come scoppiò il nostro amore, ma so con certezza che lui mi scelse subito tra centinaia di persone.
 
Era carino con tutti, accettava carezze e “grattini”, si vendeva per un pezzo di pane (cosa che fece per anni) poi, alla sera, spariva e scoprimmo solo dopo che nel suo rifugio aveva decine di palline da golf, cercate inutilmente dai ragazzi del villaggio.
 
Era sempre stato maltrattato, abbandonato, legato per molto tempo, e avrebbe dovuto raggiungere, da lì a pochi giorni, l’inceneritore di Ostuni.
 
Fu allora che non mi posi neppure la domanda di cosa fare, quel cane era mio, lui mi guardò con quegli occhi umidi e ci capimmo all’istante; chiesi di tenerlo ed occuparmene. Sembrava tutto sistemato quando, all’improvviso, scomparve.
 
Scomparve così, all’improvviso, e mi ero rassegnata a perderlo in quanto mancavano solo due giorni alla partenza, quando si ripresentò davanti alla mia camera.
 

Leccate, lacrime, abbracci e carezze e poco dopo, aiutata dagli amici di Trento, gli facemmo un profumatissimo bagno, sponsorizzato da Valtur,  che era la compagnia turistica con la quale viaggiavamo, e fu allora che gli dissi: “”Questo sarà il tuo nuovo nome: Valtur”.
 
E’ stato un cane bravo, divertente, sembrava non invecchiare mai, aveva una copertina che negli anni era diventata come un fazzoletto che non abbandonava.
 
Non capì mai come funzionavano i comandi, era un autodidatta, tutto il cortile, i vasi, le auto, erano un suo terreno per fare pipì; non andò neppure tanto d’accordo con il pastore tedesco, ma correva dietro al mio adorato gatto Pepe; e, così, ci recammo al canile e gli mettemmo insieme Ferdi, cucciolotto di razza sconosciuta.
 
Valtur lo prese in consegna: lo educava, lo faceva giocare quotidianamente, si faceva fare tutto da lui insegnandogli anche (questa volta) che un cane perbene non fa pipì ovunque. Poi, all’improvviso, si spense. Io avevo cominciato a pensare che Valtur fosse eterno ma a un certo punto mi resi conto che dimagriva e invecchiava ogni giorno di più.
 
Purtroppo era arrivato il giorno di salutarci, ma prima di farlo, accarezzando il suo corpo ormai scheletrico volevo sentisse quello che non gli avevo mai detto: “Valtur, sei stato un grande cane “ !
 
Ci eravamo incontrati lontano, nel verde di Alimini, e alla fine gli ho trovato un angolino nel nostro giardino ben esposto al sole; sopra, non so come, è cresciuta una ridente piantina di camomilla.
 
Io e Ferdi lo salutiamo tutti i giorni passandogli vicino, consapevoli che lui è tornato sano, bello, giovane e, sempre di corsa, con la sua pallina in bocca …. mi aspetta !!!
 

                                                                                                          (Daniela Balbiano)
 
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MM
 
 
 
 
 
 

Democrazia Comunitaria

IL NUMERO DEI PARLAMENTARI VA RIDOTTO: E' ESIGENZA DI EFFICIENZA OLTRE CHE DI COSTI

E' sempre bene distinguere con chiarezza i problemi contingenti da quelli strutturali, le prospettive di breve periodo dalle esigenze di lungo. Crescentemente ci sono stati proposti in questi anni quesiti relativi alla possibile "modernizzazione" della nostra meravigliosa costituzionie della repubblica italiana, davvero la più bella del mondo. Ci siamo sempre opposti a qualsiasi modifica, ma precisando in materia un criterio di riferimento che pochissimi mostrano di conoscere: la intangibilità della costituzione, nel pensiero e nei valori solidissimi dei nostri padri costituenti, riguarda la prima parte della costituzione stessa, cioè quella dei principi e valori, e dell'assetto strutturale dello Stato, non riguarda le tecnicalità della seconda parte, a proposito della quale anzi gli stessi padri costituenti erano consapevoli della probabile futura esigenza di adeguamenti in conseguenza del prevedibile evolversi delle condizioni del paese. Questo è il caso che riguarda l'abnorme numero attuale dei componenti il parlamento italiano. La proposta di ridurre tale numero è stata avanzata da molto tempo da studiosi di diversi orientamenti, proprio come fattore di efficienza tecnica e perfezionamento della rappresentanza, oltre che come economia di costi: oggi una tale proposta è stata formulata dalla maggioranza di governo in carica, che non brilla per lungimiranza nè di metodo nè di contenuti della sua azione, e che infatti ha affrontato il problema con la superficialità e la supponenza che la caratterizzano, mentre ben diversa avrebbe dovuto essere l'apertura di un dibattito di lunga gittata in tutto il paese e fra tutte le forza politiche. Resta però evidente che la riduzione del numero dei componenti l'attuale parlamento nazionale italiano è doverosa per ragioni profonde, di lunga gittata, attinenti alla efficientizzazione sia della rappresentanza sia dei costi del parlamento. Così, mi è parso alla fine indispensabile confermare agli amici che mi hanno posto il quesito un ragionamento di sintesi che in documenti pregressi era già stato sviluppato con più ampia e documentata estensione.

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Davanti al crescere di differenziazioni di posizione anche fra gruppi e movimenti di cattolici impegnati in politica, DemocraziaComunitaria conferma la posizione sempre espressa a favore di una ragionata e ragionevole riduzione del numero attuale dei parlamentari nazionali.
 
Si tratta di una posizione non motivata in effetti dal dibattito pro o contro l’attuale maggioranza di governo, bensì di un convincimento antico, che trova piena ed organica illustrazione, più specificamente,  nel capitolo intitolato alla esigenza di “Stato snello” contenuto nei documenti fondativi elaborati fin dal 2013 insieme al più vasto movimento di amici che intorno a Gianni Fontana hanno operato per una piena rivitalizzazione e attuazione, in chiave di ventunesimo secolo, dei valori politici, culturali  ed etici riconducibili allo spirito dei padri costituenti e fondatori della nostra Repubblica, non solo cattolici.
 
Come abbiamo più volte ricordato, l’Italia repubblicana, alla sua fondazione, decise molto saggiamente ed opportunamente una composizione particolarmente vasta ed articolata del suo parlamento in quanto si trattava di avviare e consolidare inequivocabilmente la esperienza di democrazia a carattere universale e popolare che il paese aveva scelto, e per la quale era necessario che tutte le espressioni territoriali, culturali, sociali, economiche e storiche del paese, fino allora il più delle volte reciprocamente sconosciute, si incontrassero e si integrassero – per la prima volta nella storia del paese – in un “luogo di rappresentanza e di elaborazione nazionale” compiuta ed armonica.
 

Con tali modalità e spirito il parlamento italiano  ha operato egregiamente lungo i primi decenni della vita repubblicana, adempiendo magnificamente alla sua missione. Ebbene, questo tempo storico è oggi superato – lo è almeno dall’aprirsi del ventunesimo secolo – e va riassorbito in una visione che, proprio per rispettare lo spirito della Costituzione repubblicana e dei padri costituenti, consenta alla massima istituzione di rappresentanza e di decisione nel paese un ruolo ed un operato efficienti e coerenti secondo quei medesimi valori.  
 
A chi – a nostro avviso del tutto infondatamente - sottolinea in particolare che la diminuzione del numero dei parlamentari diminuirebbe la rappresentatività e la rappresentanza del parlamento, rispondiamo che si tratta di affermazione, fra l’altro, contraddetta vistosamente da tutte le esperienze democratiche e rappresentative del mondo. Per citare un solo esempio, la Camera dei Rappresentanti negli Stati Uniti – paese che conta una popolazione sostanzialmente tripla rispetto  a quella italiana - è composta di 478 membri contro i nostri 630 deputati: e non ci sembra che essa rappresenti il popolo americano meno di quanto la nostra camera dei deputati rappresenti il popolo italiano. E’ infatti problema di cultura della democrazia e di modelli tecnici e valoriali di operatività, non di numero dei rappresentanti.
 
Non è irrilevante inoltre la evidenza del fatto che la pletora numerica dei parlamentari non solo non ha diminuito in nulla, ma anzi ha aggravato, la ipertrofia malata e incontrollata della legislazione più elefantiaca, affastellata e confusa del mondo avanzato, quale è proprio quella italiana.  Si obietta a volte, a questo proposito, che si tratterebbe di problema riguardante piuttosto  il modo di lavorare di commissioni e comitati e uffici parlamentari: ma è evidente che il sovraffollamento delle aule parlamentari non è riuscito neppure a risolvere questo semplice problema tecnico dei suoi uffici operativi, cosa che avrebbe dovuto senz’altro fare se il suo pletorico numero fosse, appunto, fattore di efficienza e di garanzia.
 
Si obietta ancora, per altro verso, che una diminuzione del numero dei parlamentari impoverirebbe la condivisione vasta dei processi legislativi: senonchè è davanti agli occhi di tutti il fenomeno della grave e frequente deresponsabilizzazione dei singoli parlamentari, spesso addirittura inconsapevoli del merito pieno di quanto sono chiamati a votare nelle aule e limitantisi a seguire più o meno passivamente le indicazioni di voto dei rispettivi capigruppo, quando non a occuparsi improvvidamente e impropriamente di normazione amministrativa piuttosto che di legiferazione.
 
Si è ironizzato, ancora, sul punto che “appena” cinquanta milioni di euro verrebbero risparmiati sul costo attuale del parlamento a seguito della proposta riduzione dai circa mille componenti ai circa seicento previsti. Rileviamo semplicemente che alla “diligenza del buon padre di famiglia” non possono essere certo indifferenti cinquanta milioni di euro in un paese nel quale ancora ci sono cittadini senza lavoro o senza casa o nella impossibilità di acquistare medicine oltre un certo costo. Senza contare il grande valore morale di un contenimento di costi sia pur “simbolico” (sic!) come questo.
 
Da ultimo, DemocraziaComunitaria rileva che lo snellimento del numero dei componenti il parlamento nazionale non basta certo a snellire ed efficientizzare lo Stato e la sua rappresentanza e rappresentatività democratica: occorre anche restituire agli italiani il diritto, sottratto loro dalle normative elettorali degli anni recenti, di eleggere le persone dei parlamentari e non semplicemente le liste formulate dalle oligarchie dei partiti. Questa è stato infatti un autentico tradimento della democrazia, che va non meno sanato.
 
Lo snellimento numerico dei componenti il parlamento, il ritorno a un voto diretto dei cittadini sui candidati al parlamento stesso, un graduale processo di unificazione tendenziale dei due rami del parlamento verso una futura e compiuta unicameralità, e il superamento dell’istituto dei “senatori a vita”, sono passi graduali ma coerentissimi e significativi verso la possibilità di attuare effettivamente, nel ventunesimo secolo, lo spirito valoriale della costituzione repubblicana, realizzando un parlamento nazionale semplicemente e pienamente democratico e pluralista fondato sulla responsabilità delle persone. 
 
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MM

Economia e lavoro

DIVIDENDO SI MOLTIPLICA

Il diritto al lavoro. Diritto, non facoltà, non legittima aspettativa. Diritto e anche dovere. Così fondamentali che la costituzioe italiana fonda su di essi la repubblica e la sua vita. I padri costituenti avevano ben presente questo valore della impostazione costituzionale. Eppure, dopo oltre settant'anni di vita costituzionale, questo principio resta inattuato e tutti i governi di fatto continuano a muoversi come se si trattasse soltanto di fare una politica più incentivante o meno incentivante in materia di occuapzione. Noi torniamo a dire dell'assurdità morale e tecnica di tale inattuazione. L'articolo che qui pubblichiamo risale al 2017 e fu scritto per essere pubblicato in altra sede e in diverso contesto, ma mantiene del tutto intatta la sua validità. E lo riproponiamo.
 
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Molti anni orsono, predisponendo un grande convegno sindacale sui problemi del lavoro, e incaricato di coniare uno slogan, mi era venuto in mente un concetto del quale tuttora sono convintissimo; diceva: Diritto al lavoro “è” diritto alla vita. Era un modo diverso di ripetere che il diritto al lavoro è un diritto assoluto di ogni persona in quanto senza l’attuazione di questo diritto la persona perde la sua dignità e nessun altro discorso di democrazia e di sviluppo può essere fatto. E continuavo affermando che oggi è ampiamente dimostrato come l’attuazione di questo diritto è del tutto possibile e addirittura facile, se si parte dal concetto di redistribuire davvero le opportunità di occupazione e la ricchezza. E’ dimostrato da esempi concreti in paesi concreti, oltre che dalla semplice razionale analisi dei dati della economia.
 
A volte mi hanno replicato: “Questa è una tua fisima di cattolico sociale”. Ma io osservo facilmente che parole sostanzialmente uguali alle mie sono state usate, ad esempio, dal grande padre costituente Piero Calamandrei, che non era né cattolico né “democristiano” come me, ma laico e socialdemocratico; e ricordo il grande Federico Caffè con la sua teoria dello Stato come “occupatore di ultima istanza”: non era cattolico né democristiano, neanche lui; e ricordo, soprattutto, che il grandissimo industriale (quindi non operaio, non “lavoratore qualunque”, e neppure cattolico ma ebreo) Adriano Olivetti, diceva che il vertice dell’azienda, cioè egli stesso, era giusto che non guadagnasse più di cinque volte il suo dipendente operaio. Cinque volte… Lo corresse l’allora amministratore delegato della Fiat, Valletta, il quale sostenne che sarebbe stato più giusto un divario da uno a dieci. Sarei d’accordissimo! Anche da uno a venti! Ma pensate agli amministratori delegati e presidenti di grandi aziende pubbliche e private tipo Fiat, Finmeccanica, o grandi banche, che pongono fra sé e il loro operaio un divario di uno a diverse centinaia di volte! Come possono mai capirsi ed avere la stessa idea dello sviluppo umano e sociale, della giustizia, delle opportunità, della democrazia, l’amministratore delegato della Fiat (con rispetto per le sue probabili generiche buone intenzioni) e il suo operaio della stessa Fiat? Un ragionamento del tutto analogo a quello dei citati Calamandrei o Caffè lo faceva, in altro contesto, il grande economista Francesco Forte, docente all’Università di Torino, e, anche lui, non cattolico né democristiano, ma laico e socialista, quando parlando d’impresa spiegava la saggezza lungimirante del criterio del “profitto fino a un certo limite”.
 
Ma noi, in concreto, cosa possiamo fare? Beh, intanto cominciamo a… non far finta che non possiamo farci nulla. Fra i tanti uffici, forse non tutti indispensabili allo stesso modo, di cui ogni comune e ogni regione, oltre allo Stato, sono dotati, c’è senz’altro ampio spazio, senza spendere neppure un centesimo, per un ufficio che si occupi a tempo pieno di ricercare davvero, e far attivamente incontrare, nel rispettivo territorio, tutte le offerte di lavoro e tutte le domande di lavoro: il primo passo è conoscere le opportunità e guardarsi in faccia, fra domandante e offerente. Poi, a seguire, si apprende la seconda fase del cammino: quella del “costruire” lavoro. Mai, comunque, restare con le mani in mano: che è un triste spettacolo cui ci fanno assistere troppi comuni e regioni e lo stesso Stato con l’insipiente scusa del “non ci sono soldi” o accontentandosi di costruire qualche condizione che “favorisca” il sorgere di occupazione. Nelle economie capaci di sviluppo si osserva costantemente, fra l’altro, che il lavoro non nasce dalla previa disponibilità di “molti” soldi ma sono questi a venir generati dalla capacità di mettere in movimento talenti e risorse presenti nella comunità. Esperienze vissute non a migliaia, ma a decine di migliaia.
 
La trasformiamo in slogan? Eccovelo: “Dividendo si moltiplica!”.
 
Non è la formula adottata dalla Fiat, che è azienda privata, ma non è neppure la formula adottata dalla Rai, che è azienda pubblica, quando ha offerto il suo contratto milionario a Fabio Fazio: a parte la valutazione dei contenuti culturali offerti dalla trasmissione di Fabio Fazio, che sono nella ragionevole e a volte discutibile media delle cose fatte dalla Rai, l’unico criterio usato è stato, a quanto si è potuto capire, quello della “audience” e del timore che la concorrenza scippasse il personaggio: ancora una volta. Ho sempre suggerito che, se il problema è l’”audience”, tanto varrebbe aprire in Rai una organizzatissima casa-mercato d’appuntamenti galanti, che certamente avrebbe successo strepitoso di “audience”. Che se invece il criterio è, come deve essere, quello per il quale formalmente la legge ci chiede di pagare un canone, cioè la informazione  e formazione culturale dei cittadini, di cui lo Stato è custode, beh…. con il contratto offerto a Fazio si sarebbe potuto realizzare il diritto al lavoro per tante decine di cittadini italiani che non lo hanno, senza perdere nulla, ma davvero nulla, della qualità dei programmi Rai: anzi… Lo Stato, insomma, usa il criterio opposto a quello da noi suggerito: Moltiplicando (gli emolumenti) si divide (la giustizia distributiva).
 
E il nostro paese resta purtroppo drammaticamente diviso.
                                                                                                                            
                                                                                                               Giuseppe Ecca
(Testo originale del 2017)
 
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Prospettive

ITALIANI, SU LA TESTA

Il titolo è di Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia Lombardia, che, pur critico spesso nei confronti delle vistose manchevolezze registrate soprattutto negli anni recenti dalla gestione del nostro paese, sottolinea il potenziale unico che, per aspetti diversi, l’Italia presenta nel mondo, pronto per il momento nel quale essa avrà una classe dirigente nuovamente degna di questo nome e del suo passato. Scrive dunque Colombo Clerici:
 
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Il nostro grande passato e’ il fondamento del nostro futuro. Su 125 Paesi, l’Italia, per l'Unesco, è primo Paese, insieme alla Cina, per patrimonio di beni culturali. E la difesa della lingua italiana è primo e fondamentale passo per salvaguardare e valorizzare tale identità culturale del nostro Paese. 
 
L'Italia e' l'unico Paese del mondo occidentale, fra quelli che vantano una ultramillenaria civiltà, che riesca ad influenzare ancora, a livello mondiale, la cultura contemporanea.
 

I campi nei quali si esplica la nostra sfera di influenza sono molteplici: letteratura, arti figurative, eleganza e stile (pensiamo all'automobilismo, alla sartoria e alla moda, alla gioielleria, all'architettura),  scienze naturali e mediche, tradizioni, cinema, musica, enogastronomia, sviluppo tecnologico.
 
Non trascuriamo il retaggio storico in campo monumentale, letterario, filosofico, musicale, artistico e le bellezze naturali e paesaggistiche. Dalla lista del patrimonio mondiale di 125 Paesi elaborata dall’Unesco risulta appunto che l’Italia è il Paese che detiene, a pari merito con la Cina, il maggiore patrimonio culturale del mondo, in termini di monumenti, musei, chiese, monasteri, palazzi e castelli, ma anche di beni paesaggistici. Seguono, ma a distanza,  Spagna, Francia, Germania.
 
In conclusione: la cultura italiana affonda le sue radici in un passato ultra bimillenario ed e' ancora vitale e determinante nel processo di formazione della cultura contemporanea. E studiando il passato riusciamo a comprendere e affrontare il futuro. Eravamo all'apice della presenza storica duemila e più anni fa e lo siamo tuttora.
 
Quella italiana peraltro e' la base della civilta' cristiana nel mondo occidentale. Per converso, la Chiesa ha sempre fortemente aiutato l' italianita' a  conservare la sua identita' al vertice storico mondiale.
 
Il più potente "collante" e "alveo" culturale che ha permesso questo prodigioso risultato e' stata la lingua, che ha mantenuto una linea di continuita', pur nella evoluzione delle diverse epoche, ed e' stata un determinante fattore di identità. Essa e' quindi un prezioso patrimonio da salvaguardare dalla minaccia di contaminazioni sbagliate che possano provocarne il declino.
 
Oggi, per la prima volta nella nostra storia, gli italiani, per parlare anche tra loro, usano a volte l'inglese: si comincia con gli anglicismi e gli americanismi  dell'aziendalese e si finisce con il cercar di  parlare nella lingua di Shakespeare, Faulkner ed Hemingway  e non piu' in quella di Dante, Petrarca e Manzoni, evoluzione, sintesi e  sublimazione, quest’ultima, delle diverse lingue popolari in cui si sono sempre espresse le nostre comunita' locali. Questo e' il vero segnale di una possibile rottura con il passato e una minaccia alla continuità ed alla rilevanza della nostra cultura.
 
Quanto all'Unione Europea
, essa ci offre oggi non un'area culturale comune nella quale possa trovare espressione significativa anche la nostra cultura, ma solo un mercato comune di ordine economico. E questo aspetto, se non corretto, puo' essere solo il preludio di un appiattimento culturale molto negativo. Non era così all’inizio della storia della Comunità Europea.
 
Sintetizziamo ancora i quasi incredibili numeri del nostro patrimonio ambientale, culturale e artistico, secondo la scheda elaborata dal Cescat (Centro studi casa ambiente e territorio, di Assoedilizia):
 
- 100.000 chiese, cappelle, pievi, basiliche, cattedrali,  templi; 
 
- 2.400 castelli iscritti al catasto;
 
- 90.000 palazzi di rilevenza storico-artistico-monumentale, di cui 42.000 vincolati; 
 
- 250.000 vedute, belvederi, luoghi-paesaggio di particolare pregio; 
 
- 540 borghi storici, di cui 193 con meno di 2.000 abitanti;
 
- 35.000 ville;
 
- 3.000 musei;
 
- patrimonio arboreo di 12 miliardi di alberi (200 ogni abitante; 40.000 per chilometro quadrato);
 
- 24 parchi nazionali che coprono oltre 1,5 milioni di ettari tra terra e mare, pari al 5% del territorio nazionale;
 
-  6 milioni di ettari (pari al 20% del territorio nazionale) di aree sotto il controllo pubblico, tra coste, cime, terre e aree marine;
 
- 8.000 chilometri di coste con 171 porti turistici (105.000 ormeggi);
 
- 4.000 teatri
 
In tale contesto, permettete che riserviamo un cenno particolare alla nostra Lombardia.
 
La Lombardia si pone, per numero di abitanti, per capacità imprenditoriale e culturale, sullo stesso piano di Paesi quali Svezia, Belgio, Austria e Svizzera. Conta 1.500 associazioni, ed è prima regione al mondo nel volontariato, fattore di sviluppo morale, civile, sociale ed economico. Conta dodici università, 2.200 biblioteche, 330 musei ed altrettanti teatri, e mostre e fiere di valenza mondiale.
 
Le università producono e trasmettono conoscenza puntando ad uno sviluppo non solo economico ma anche di miglioramento della qualità del vivere. Possiamo, grazie ad esse, attirare ingegni – come fece la Milano del Rinascimento con Leonardo da Vinci – per rinvigorire questo momento di particolare rinascimento che sta vivendo la regione Lombardia e fare di esso punto di forza per un analogo rinascimento di tutta l’Italia
 

                                                                                                          (Achille Colombo Clerici)

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Internazionale

ITALIA POTENZA SCOMODA: ECCO COME CI HANNO DEINDUSTRIALIZZATO

Lo scritto che pubblichiamo risale al maggio 2017:Salvatore Clemente e Claudio Messora sintetizzano la posizione dell’economista Nino Galloni, figlio del grande Giovanni Galloni, già ministro della pubblica istruzione, parlamentare, e soprattutto uno dei più autorevoli e fidati collaboratori di Aldo Moro lungo gli anni della “prima repubblica” e della Democrazia Cristiana.
 
Nino Galloni non ha mai nascosto, nel suo parlare autorevolissimo per competenza, ma anche esplicito e a volte ruvido per libertà di analisi, gli antichi e non superati pericoli ai quali l’Italia ha dovuto far fronte anche nei confronti dei suoi alleati, per preservare nel dopoguerra la sua piena indipendenza e anche semplicemente per evitare di essere ridotta a mero strumento degli interessi planetari di tali alleati.
 
Non che il nostro paese sia antipatico ai suoi alleati: tutt’altro. Il fatto è che quando l’Italia riesce a mettere in sinergia i valori pieni della sua cultura, della sua capacità di pensiero e della sua creatività, si rivela potenza seconda a nessuno. E questo è, in certe dimensioni, temuto dagli stessi alleati.
 
Non ci spingiamo ad affermare che a Galloni non accada mai di eccedere nelle sue valutazioni critiche: ma affermiamo la certezza, che ci pare più volte comprovata, che di tali sue valutazioni critiche non si possa non tener conto se l’Italia  vuole decisamente tornare a essere nazione stabilmente centrale nel mondo per ruolo economico, culturale e spirituale.
 
Scrive Salvatore Clemente incontrando Nino Galloni:
 
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Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anni dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.
 
E’ la drammatica ricostruzione che Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il blog “Byoblu”. All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. 
 
Nino Galloni: «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».
 
Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”. E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana avrebbe provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.
 
Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».
 
Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».
 
Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.
 
Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie speculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».
 
Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».
 
Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della BCE di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanza pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.
 
Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco.
 
Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa».
 
Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista. L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.
 
Prima, però, bisogna mandare a casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».
 
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