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Prima e dopo le sardine

NON BASTERA' "BELLA CIAO"

Giovanni Ghiselli è uno dei più autorevoli ed appassionati latinisti e classicisti in circolazione oggi in Italia. Una missione lunga nel mondo della scuola, ma anche una grande attività di conferenziere, di cui ho apprezzato più volte la straordinaria attualità. La recente riflessione che qui vi propongo va peraltro molto al di là della cultura classica e diventa una formidabile meditazione sulla vita e sui suoi valori.
 
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Bene fanno le sardine a cantare Bella ciao invece di canzoni melense o maestre di trasgressioni disordinate; ma ora dobbiamo identificare l’invasore o gli invasori: il capitalismo senza freni, il mercato e la finanza, l’ignoranza, la volgarità, la pubblicità, la licenza di uccidere.
 
Oggi leggo sul quotidiano “la Repubblica”, a pagina 20:
“Gaia e Camilla uccise sul colpo. Il ragazzo alla guida rischia l’arresto.
Pietro, genovese, positivo a cocaina e cannabis. Tasso alcolico oltre i limiti.
Patente già sospesa due mesi fa per eccesso di velocità e sorpassi azzardati”.
 
Ha compiuto un atto criminale, terroristico, e “rischia l’arresto”!
 
Questa è licenza di uccidere.
 
L’invasore è la morte, l’assassinio legalizzato.
 
Ricordo un episodio del luglio del 1974,  quando noi, trentenni di allora, avvertivamo il decadere di un ethos politico e civile che aveva acceso tante speranze qualche anno prima.
 
 
Quel pomeriggio di luglio, noi italiani superstiti della Debrecen ’66, prossimi alla soglia dei trenta, cantavamo canzoni comuniste e partigiane: Bella Ciao, Bandiera Rossa, e altre del genere non ancora del tutto passato di moda, come i reduci di una guerra perduta: la nostra rivoluzione giovanile era invecchiata, senza lasciare ai ventenni l’eredità di un ethos politico. Noi stessi eravamo variamente appassiti, quanto meno segnati da rughe evidenti nel volto e sul collo, mentre le mani erano percorse da grosse vene bluastre. Alcuni avevano perduto i capelli, altri erano incanutiti, altri malamente ingrassati; insomma, noi eravamo diventati ormai gli “ospiti antichi” dell’Università estiva di Debrecen: così ci salutò il Rettore che ci aveva conosciuti ragazzi e battezzati quali matricole otto anni prima, così ci chiamavano anche i nuovi ventenni, poiché è  proprio vero che noi mortali siamo come le foglie.

Il nostro gruppo di nati alla fine della seconda guerra mondiale presentava personaggi ancora giovani eppure avvizziti, piegati e ripiegati su se stessi, anche se non degradati proprio del tutto, come sosteneva a gran voce il povero Bruno Pera, del resto non senza qualche ragione.
 
Si erano comunque già appesantiti gli arti di tutti noi e il sogno di realizzare presto su questa terra la giustizia, l’eguaglianza, il comunismo, o cristianesimo vero che fosse, perdeva forza, forma e colore nei nostri cervelli. La borghesia e il suo dio, il denaro, la mercificazione universale che riduce tutto a lucro, compresi gli affetti, stava prendendo di nuovo il sopravvento. Non riconoscevamo nei nuovi giovani i nostri eredi spirituali.  


Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, una ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei. Era venuta a Debrecen per la prima volta e, siccome tutte le cose e le persone ritornano, non solo eternamente nel cosmo, ma anche in una rapida, precipitosa vita mortale, la incontreremo di nuovo sei anni più tardi, nella primavera del 1980, a Roma, in casa sua, dove mi ospiterà con Ifigenia. Ma questo devo raccontarlo più avanti.


Suonava  il pianoforte, e in veste di ierofante suggeriva i toni vocali al nostro coro di  confratelli e compagni comunisti delusi un austriaco cieco, o non vedente come si dice adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva furiosamente gli orribili, inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava da froge  enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire dalla chiostra dei denti marci e dalle tumide labbra una lingua bovina, piena di brame. Credo di non togliergli niente ricordandolo come era: un bravo suonatore di piano e una cara persona. Anzi, mi fece pure pensare a un’opera d’arte: a un quadro di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino morto in odore di santità.


In quel nostro cantare, così accompagnato e diretto dai movimenti della testa del pianista e dalle braccia della ragazza romana, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le ragazzate, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo da fare, di cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire di noia.


Avevamo appena finito di cantare "Bella ciao" con euforia forzata, quando vidi entrare nell’ombroso cortile una giovane donna dai capelli rossi, tanto lunghi che le arrivavano al seno: sul volto serio, da persona abituata a pensare, aveva grandi occhiali da vista; sul corpo ben fatto portava una giacca e dei pantaloni di velluto rosso con negligenza elegante.
 
Post Scriptum:
 
Agli amici ancora vivi di quel giorno lontano suggerisco di non mollare come stavamo facendo allora. Oggi, dopo avere studiato, ho scalato la salita di San Luca in bicicletta, poi sono andato a mangiare insalata e tonno - senza pane - all’Arci di San Lazzaro.  Ero solo. Ho osservato delle bambine che giocavano rincorrendosi intorno ai tavoli, ridendo contente, e non ho potuto fare a meno di piangere pensando alla creatura che aspettavamo, la giovane donna dai capelli rossi e io, nel 1974, dopo quel mese di luglio.
 
Non sapevamo come fare. Io andai da lei ma non la incoraggiai a mettere al mondo la bambina, e lei abortì. E’ stato l’errore più grave della mia vita. Ma davvero in quegli anni era iniziata la decadenza morale che ci ha portato alla situazione attuale.
 
Ora la vita viene rifiutata, avvilita, rinnegata in mille modi.
 
Reagite a questo, sardine!
 
                                                                                                                                                                       (Giovanni Ghiselli)
 
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MM

Lingua italiana

DALL'ASSESSORA AL WEBETE

Il linguista Paolo Pivetti, scrivendo su Il Messaggero di Sant’Antonio, ha avuto modo di chiarire un’altra delle sciocche insulsaggini linguistiche messe in circolazione da piccoli trogloditi culturali che pensano in questo modo di combattere una loro battaglia ideologica in difesa delle donne: è una battaglia che invece va combattuta con politiche e comportamenti attenti alla dignità concreta di ogni singola persona in quanto tale, non umiliata da bambinesche scempiataggini linguistiche distraenti. Abbiamo avuto modo in passato di spiegare che non avrebbe senso pensar di tutelare i diritti maschili affermando cose del tipo “il mio patrio è l’Italia”, “io appartengo al chieso cattolico”, “adesso distruggeremo questo barriero architettonico”, etc. Osserva Paolo Pivetti:
 
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Maria Elena Boschi, basandosi su un parere dell’Accademia della Crusca, precisa in un pubblico dibattito che lei è la ministra non il ministro. Laura Boldrini, dal canto suo, esige di essere definita la presidente, non il presidente della Camera. Ad entrambe sfugge che nei loro casi la forma maschile (il ministro, il presidente) ha un valore neutro, in quanto mette in primo piano il ruolo rispetto alla persona, e non suonerebbe per niente come discriminazione anti-femminile.
 
Poi c’è il caso drammatico del Comune di Roma sul quale i giornali, dovendo parlare della Raggi e della Muraro, si sbizzarriscono coniando femminili tipo la sindaca, l’assessora. Forse per una malintesa preoccupazione di “quote rosa” nel linguaggio quotidiano, si coniano inusuali neologismi e non si tiene conto del fatto che anche qui la forma apparentemente maschile (il sindacao, l’assessore) è corretta e preferibile, sia da un punto di vista istituzionale che linguistico. E poi, a proposito di forme maschili o femminili, quando mai si è sentito il bisogno di dare forma maschile a nomi femminili ormai consacrati dall’uso, come la guardia, la guida, la sentinella, La spia, eccetera, che indicano ruoli spesso occupati dai maschi?
 
Tra le novità linguistiche di questi tempi c’è dell’altro. Ci sono anche particolari divertenti. Enrico Mentana, direttore del Tg de La7 butta lì un webete per dare il giusto titolo agli autori di commenti stupidi sui social network, creando un ironico neologismo, sintesi di web + ebete, cioè l’ebete del web. E’ un meccanismo non nuovo e ben collaudato se pensiamo, tanto per fare un altro esempio, al videota di qualche decennio fa, sintesi di video + idiota. Divertenti libertà, queste, che la lingua ci permette, a patto che siano guidate dal gusto e dall’intelligenza.
 
                                                                                                                                        (Paolo Pivetti)
                                                                                                                               Il Messaggero di Sant’Antonio
 
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MM

Ripresa politica dell'Italia

DALL'ALTO O DAL BASSO? MA NON C'ENTRA NULLA...

Ci scrive un amico che da molto tempo segue il lungo e non sempre lineare cammino verso la desiderata nascita di un nuovo soggetto politico di ispirazione cristiana da offrire alla politica italiana:
 
“Cari amici, nel corso dell’assemblea di Politica Insieme svoltasi lo scorso 30 novembre ho sentito dalla relazione del professor Stefano Zamagni che questa iniziativa è una esperienza nata dal basso, e in tal senso costituisce un fatto innovativo nella storia dei venticinque anni di diaspora dei cattolici in politica. Non so se ho capito bene tutto il ragionamento, perché non ho potuto partecipare per intero ai lavori, ero un curioso esterno quasi casuale, ma interessato: chiedo a voi se questa valutazione del professor Zamagni risponde al vero, perché in tal caso si tratterebbe effettivamente di una speranza nuova per il nostro paese, dopo tante delusioni di tanti capi e capetti politici autoinvestiti, anche cattolici. Cosa ne pensate voi?”.
 
Personalmente ne penso quanto segue: “Caro Antonello, non so se sia una esperienza dal basso o dall’alto: per capirlo dovrei riandare con la mente al suo già notevole cammino, ma francamente la cosa non mi interessa perché non ha, secondo me, nessuna importanza, ma proprio nessuna, per la valutazione di quanto questa speranza sia consistente e valida e buona per il futuro che aspiriamo a costruire nel nostro paese.
 
Vedi, nella storia umana, anche italiana, se tu la osservi attentamente, sono nate dal basso cose stupende e cose orride; e sono nate dall’alto cose orride e cose stupende. Dal basso sono nate feroci giustizie sommarie di masse imbestialite e meravigliosi movimenti di generosità collettiva. Dall’alto sono nate encicliche che guidano la storia buona del mondo (pensa alla Rerum Novarum) e governi illuminati o illuminatissimi, ma anche feroci dittature e brutali ingiustizie. E tantissimo altro, sempre, dal basso e dall’alto. E’ dunque del tutto insensato utilizzare la chiave valutativa “cosa che nasce dal basso è lodevole, cosa che nasce dall’alto è meno lodevole”.
 
Dobbiamo invece guardare alla oggettiva qualità, caratterizzazione, modalità concreta di azione, valorialità testimoniata, coinvolgimento effettivo delle persone, coerenza dei comportamenti, effetti, e così via. Dobbiamo insomma guardare la vita concreta delle iniziative, e gli accadimenti che ne sono effetto. Del fatto che partano dall’alto o dal basso, francamente, non ce ne frega proprio nulla. Chiediamoci solo: è buona iniziativa o è cattiva iniziativa, per come sta camminando in concreto?
 
Penso che il professor Zamagni, in realtà, esprimendosi nel modo da te citato, abbia semplicemente voluto lodare il fatto che Politica Insieme cerca effettivamente di coinvolgere un numero crescentemente vasto e composito di gruppi e persone. E abbia voluto incitare tutti a proseguire su questa strada.
 
Io aggiungo che oltre al coinvolgimento reale delle persone a tutti i livelli, naturalmente, occorre anche far crescere gradualmente ma tangibilmente la effettività di un metodo democratico e partecipativo per la discussione e per le decisioni. Con stima, Giuseppe Ecca”.
 
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MM

Il miracolo della vita

OCCHI SU MIA MADRE

Leggetelo e basta; non commentatelo, neanche con voi stessi; contemplatelo; e cercate, caso mai, di lasciarvi sprofondare nel tentativo di intuire il senso profondo del miracolo della vita. La prima prova, forse della esistenza di Dio. Comunque, l’inesplicabile infinito.
 
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Ho sperato a lungo che poeti, mistici e psicologi si fossero sbagliati. Molti tuoi turbamenti, insistevano, dipendono dalla nostalgia di tua madre. Ho creduto fosse un’esagerazione. Oggi riconosco che avevano ragione. Mia madre. Nove mesi trascorsi al suo interno in una assimilazione che non ha uguali nel creato. Nove mesi: un'epoca divina che nessuno potrebbe raccontare. Fu una breve stagione notturna, quella che gli antichi assegnavano alla luna perché tutto il ciclo femminile è notturno, umido e mutevole come la luna, in bianco e nero, senza colori e molti contrasti. Così lei mi instillò il suo mondo più ombroso, le sue ansie, le sue attese, le sue preoccupazioni, che a loro volta divennero le mie paure e le mie esitazioni. Tutto a quel tempo era debole in lei: qualsiasi farmaco era a rischio, qualsiasi fatica era troppa, qualsiasi trauma sarebbe stato pericoloso; a lei si addiceva il riposo, il letto, la sedia. Era divenuta rotonda come un’antica dea della fertilità.
 
Ma questo era l’esterno, l’evidente, il visibile, perché dentro, fra noi due, regnava un’altra logica e una legge diversa. Ancora oggi sono certo che mia madre mai potrò guardarla cogli occhi tesi in avanti, quelli che mi spuntano dalle orbite. Lei, e soltanto lei, potrò vederla,  apprezzarla e finanche giudicarla solo cogli “occhi di dentro”, quelli che si rivolgono all' indietro verso il centro di me stesso. Per tutti, perfino per la persona amata, potrei avere sguardi, parole e mani rivolte “in avanti”. Per lei, no. Per lei la direzione sarebbe sempre all’inverso, al profondo, all’interno. Perché lei non è un semplice essere umano ma un simbolo creativo, una divinità, un tempio con una liturgia composta di una sola parola: quella che si articola col semplice accostamento delle labbra.
 
Poi uscii verso la luce e fu il parto. In quel momento di travaglio (minuti, ore) lei mi comunicò la sua fame di vita, le sue passioni, la sua allegria, il suo desiderio di festa; la sua voglia di ballare, di cucinare, di abbracciare. Con le contrazioni del bacino lei mi spingeva fuori e mi costringeva a navigare alto, a tracciare il mio viaggio e a separarmi da lei. Forse il mio inconscio lo percepì come una lacerazione e addirittura un rifiuto. E una traccia di quella ferita e di quel necessario tradimento rimane qui, al centro del mio addome, sulla sommità della mia pancia: scosto la camicia e lo vedo, l’ombelico, una cicatrice cucita alla meglio, il goffo tentativo di chiudere un discorso e di reprimere un legame.
 
Ma nello stesso tempo avvertii un bisogno di fuga da quel mondo, regale sì, ma talmente chiuso e protetto che mi avrebbe per sempre accovacciato e sottoposto. Così, mentre cominciavo a fare a meno di lei, mi sorprendevo a disegnarne i tratti e a descriverla in modo maldestro; quasi volessi tenermela davanti e insieme dimenticarla e distruggerla. Non ero tanto io ad essere suo, quanto lei ad essere mia. Una presenza sacra e sovrana; onnipresente e forse onnipotente.
 
Anche se non lo avrei mai ammesso, qualsiasi carezza mi ripeteva la sua pelle; qualsiasi coccola, nell’inconscio, andava alla sua; qualsiasi atto di amore era come tornare ai suoi organi generativi. Una fascinazione e un tormento. Neanche oggi, che sprofonda nell’umido della terra, sento che mi lascerà. La proverò come un profumo e un aroma; l’avvertirò perfino annusando il sudore dei suoi vestiti, lasciati sul letto prima di correre in ospedale. Lei non ha luoghi, foto, tombe: tutto questo appartiene allo sguardo fisico, quello teso in avanti. Cogli occhi all’inverso tesi dentro di me continuerò invece ad avvertirla, puntuale come una luna che cresce e che cala a seconda di quanto mi resterà a mia volta da vivere.
 
                                                                                                          (Viscardo Lauro)
 
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Sperperi

BUONUSCITE MANAGERIALI: PEGGIO FANNO, MEGLIO VENGONO PAGATI


Sperperi
BUONUSCITE MANAGERIALI:
PEGGIO FANNO, PIU’ VENGONO PAGATI
 
L’articolo di Franco Sensi fu scritto per Studisociali nel 2017. Ebbene, il suo consiglio  non è stato per nulla ascoltato, né dai partiti politici né dalla classe dirigente in generale: e gli 8,5 milioni di euro consegnati a suo tempo a Bernabè come buonuscita aziendale, son diventati 13 a favore del manager di Autostrade che ha lasciato l’incarico dopo la tragedia del Ponte Morandi; di peggio in peggio, è giusto dire: non c’è stata alcun resipiscenza, caro Franco, anzi…
Non lo diciamo certo per scoraggiarci o scoraggiare i nostri concittadini: al contrario, per denunciare con ancora maggior forza il triste radicamento di questo abuso diffusissimo e corrotto a danno dell’Italia e degli italiani laboriosi e onesti, e accrescere ancor più la nostra lotta per contrastarlo.
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Talune notizie, seppure marginali, mi procurano un dolore interiore, che è a un tempo scoraggiante e deprimente. L’ultima è quella che ho  letto su “Il Giornale” del 17 u. s. a pagina 21: al sig. Bernabé spetterebbe una liquidazione di ben 8,5 milioni di euro  a conclusione del suo recente incarico in Telecom. E  come me ritengo assai probabile che una sensazione amara e struggente possano provarla anche tanti milioni di concittadini all’apprendimento di notizie del genere. Peraltro quella di Bernabé non rappresenta un caso solitario. Elargizioni di tantissimo denaro a favore di pochi soloni ne sono avvenute diverse, e questo stride notevolmente con l’attualità, in un periodo di crisi larga e profonda, che procura sacrifici economici tanto dolorosi alla maggior parte del nostro popolo. E le somme di cui trattasi sono tutte di derivazione – diretta od indiretta – dalle casse del pubblico denaro.
Naturalmente nessuno crede che – stante la dimensione della crisi – pure con la eliminazione (ipotetica) di quelle buonuscite ( certamente eccessive )  la situazione economica nazionale potrebbe risentirne in modo significativo. Ma ciò che soprattutto dovrebbe preoccupare le autorità di governo è l’effetto psicologico negativo su tantissimi cittadini quando apprendono di quegli sperperi; effetto  che concorre ad un atteggiamento dello spirito in senso “antistato”, verso una totale mancanza di partecipazione attiva e cosciente ai bisogni della collettività, mancanza che può anche toccare il dovuto rispetto delle più comuni regole civili: non ultima la tendenza – già molto diffusa – all’evasione degli obblighi fiscali.
Nell’ipotesi che i responsabili di governo avvertano il pericolo di cui sopra, in che maniera potrebbero configurare un possibile rimedio? A mio avviso come primo provvedimento  uno stop immediato all’attuale andazzo smisurato, seguito da  un significativo ridimensionamento di quei compensi straordinari.
Ed un’altra cosa a me piacerebbe che si facesse: la pubblicazione in chiaro  (a chi, quanto e quando) di tutte le grandi somme - cosiddette di liquidazione – elargite ad esempio negli ultimi sei anni, ovvero da quando il popolo ha cominciato a soffrire per la crisi tuttora perdurante.  Con questo non vorrei colpevolizzare  troppo  i beneficiati del tempo (alti dirigenti, direttori di banca, ecc.) poiché in verità quell’andazzo era diventato costume…  Un costume, però, che poteva essere generalmente  tollerato in un periodo di vacche grasse, non dopo.  Perchè poi  quel costume è divenuto  obbrobrio, ovvero un grande e vergognoso pugno alla miseria.
Ma “a posteriori” un rimedio in una certa misura sarebbe pensabile? Sarei per una risposta affermativa se si tiene conto che i nostri attuali membri del Governo sono tutti animati da spiccata inventiva, coraggio e determinazione.
 Per di più i soloni beneficiati a suo tempo con grandi compensi, se  sollecitati  potrebbero anche adire spontaneamente a moti di resipiscenza. Potrebbero, ad esempio, farsi promotori di concreto sostegno a taluni centri di ricerca universitari da loro stessi selezionati.
Con l’immaginazione, il buon senso ed una certa dose di bontà d’animo tante cose buone sarebbero ancora possibili
                                                                                                        

                                                                                                                                                     (Franco Sensi)


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Evasione fiscale

IL DIMENTICATO APOLOGO DELL'IMPERATORE TRAIANO

La riduzione della cedolare secca al 10% ci sembra leggermente esagerata, per considerazioni globali di assetto fiscale: ma la logica complessiva descritta da Achille Colombo Clerici risponde, a nostro avviso, a un buon senso di cui i politici dovrebbero diligentemente prendere atto. L’apologo di Traiano vale per tutti i tempi.
 
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Ho sempre presente l'insegnamento del mio maestro Enrico Allorio, che definiva borbonico il nostro fisco perche' improntato all'antico  principio: “poiche' un' elevata quota di evasione e' endemica, per ottenere il gettito si tenga alto il carico fiscale, cioe' l'aliquota”.
Il risultato e' conseguito, ma l'esito e' disastroso per i contribuenti a regime, che rappresentano la maggioranza.
 
La ricetta giusta per un fisco equo, e che nel contempo  riduca l’evasione, si basa invece su due fattori:  che sia sopportabile e facile da pagare.
 

La prova deriva da un documento ufficiale al di sopra delle parti, il "Rapporto sulla lotta all’evasione fiscale" del ministero dell’economia: grazie alla cedolare secca sugli affitti l’evasione dei proprietari di casa, che nel 2012  ammontava a 1,3 miliardi di euro, nel 2017, l’anno più recente di cui si conoscono i risultati, è scesa a 655 milioni, con un crollo del 50,5%. Le imposte sui canoni di locazione sono adesso le meno evase d'Italia: ad esse sfugge solo, a quanto sembra, il 7,9% del dovuto.
 
La cedolare secca, fortemente voluta dagli stessi proprietari immobiliari, consente di non versare l'imposta di registro e l'imposta di bollo, dovute per i normali contratti, e permette al proprietario di pagare sul reddito da locazione un'imposta sostitutiva pari al 21%, che scende al 10%  per i contratti a canone concordato adottati nelle undici aree (praticamente le maggiori città italiane e loro hinterland) ad alta tensione abitativa.
 
Considerato che l'evasione in Italia nel complesso ammonta a 91 miliardi di euro l'anno per la parte fiscale e arriva a quota 109 miliardi aggiungendo al conto i contributi previdenziali non pagati – dati che ci pongono in testa alla poco invidiabile classifica di primi evasori d’Europa -  si può immaginare quale sarebbe il beneficio  per le casse dello Stato, per il debito pubblico, per la generalità dei contribuenti, in primis stipendiati e pensionati che pagano circa l’80% delle imposte complessive,  se si potesse raggiungere in pochi anni anche solo una parte del recupero legato all’evasione immobiliare. Non staremmo, come ora, con la spada di Damocle dell’Iva sulla testa e si potrebbe rispondere alle sacrosante richieste di tasse più basse, di scuole migliori, di asili nido per tutti, di più qualificata ricerca, di una sanità più efficiente, e altro.
 
In definitiva, evasione ridotta se c'e' equita' fiscale. E per raggiungerla vanno coniugati tra loro due dei tre principi etici fondamentali che, come sostenuto nell'apologo di Traiano, citato da Plinio il giovane, debbono presiedere ad una corretta azione socio-politica:
 
  • Il principio della speranza, secondo il quale il miglior rendimento si ottiene attraverso la speranza di un bene e non il timore di un male.
  • Ed il principio dell'incremento e non della distruzione della ricchezza.
 
                                                                                                                                 (Achille Colombo Clerici)
 
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Politica

DEMOCRAZIACOMUNITARIA: IL NUMERO DEI PARLAMENTARI VA RIDOTTO


DemocraziaComunitaria non intende prendere posizione se non su problemi, piccoli o grandi che siano,  il cui significato sia effettivamente e sostanzialmente collegato  con il bene comune e con la centralità valoriale della persona umana. Coerente a tale spirito ci è sembrato il comunicato da essa emesso oggi.

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La maggioranza di governo ha proposto e fatto approvare dal parlamento la riforma che riduce la consistenza numerica del parlamento nazionale, composto oggi, come è noto, da 630 deputati e 315 senatori, oltre i senatori a vita.
 
Lo ha fatto con una metodologia infantilmente irresponsabile, come se si trattasse di una leggina su problema secondario o provvisorio del paese, e non di un aspetto sostanziale del nostro assetto istituzionale e democratico. Lo ha fatto anche elitariamente e senza alcun sostanziale dibattito della opinione pubblica nazionale.
 
Per reagire a tale immaturità e scorrettezza di metodo è stata assunta da un gruppo di cittadini autorevoli, facenti parte anche di realtà di ispirazione cristiana, la iniziativa di un referendum che annulli tale riforma.
 
DemocraziaComunitaria ribadisce peraltro quanto sempre sostenuto, e cioè che va nettamente distinto il metodo scorretto ed irresponsabile utilizzato dal governo per proporre questa riforma, dal merito della riforma stessa: la riduzione del numero abnorme dei componenti il parlamento nazionale resta necessaria e del resto viene proposta da moltissimi anni da studiosi e cittadini di ogni condizione e grado culturale e responsabilità sociale, oltre che da noi.
 
DemocraziaComunitaria ha fra l’altro sempre ampiamente spiegato le ragioni storiche, culturali, politologiche, e anche di semplice efficacia ed efficienza della funzione legislativa e dei concetti di rappresentanza e rappresentatività, per le quali il numero dei parlamentari va ridotto.
 
Inoltre, poiché si sente a volte fare richiamo, da parte di chi è contrario alla riduzione del numero dei parlamentari, alle decisioni assunte a suo tempo dai padri costituenti, DemocraziaComunitaria ribadisce che il pensiero dei padri costituenti, per chi conosca bene i lavori ed il dibattito dell’Assemblea costituente, era lontanissimo dal considerare la tecnicalità del numero dei parlamentari come facente parte dei principi e valori costituzionali.
 
Infine, DemocraziaComunitaria ricorda il dovere di tutti gli italiani democratici, a qualunque orientamento partitico appartengano, di agire non pro o contro uno o altro governo o maggioranza parlamentare, ma per la lunga prospettiva del bene comune. Per il quale, a settant’anni dalla nascita della Costituzione, la riduzione dell’abnorme e costosissimo numero dei parlamentari è dovere di limpida salubrità istituzionale.
 
Resterà ulteriormente da affrontare, su questa delicatissima tematica, l’ancor più cruciale questione del sistema elettorale. E lo faremo.
 
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Politica

STUDIARE I PROBLEMI E' UN PRECISO DOVERE

Interessante, questa lettera aperta del professor Carlo Maria Bellei, dell'Università di Urbino, al vice  premier Di Maio, durante lo scorso mandato governativo. “Roba del passato”, direte voi. Noi pensiamo che le “robe del passato” vadano spesso rivisitate: per capire meglio le persone, per capire meglio il loro e il nostro oggi. La lettera ci viene riproposta da Danilo Bertoli.
 
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"Caro Di Maio,

leggo che lei ed il suo Ministro Toninelli siete rimasti perplessi dalle aperture della Lega a Società Autostrade.
Se ha un minuto provo a spiegarle come stanno le cose.

Se, invece di continuare a gridare proclami, vi foste presi la briga di approfondire la materia riguardante le concessioni autostradali, vi sareste accorti di una serie di cose interessanti. Prima di tutto, il contratto capestro. Non le pare che invece di lanciare le solite accuse a destra e a manca vi sareste dovuti chiedere chi c’era dietro la stipula di condizioni così svantaggiose per lo Stato? È evidente che sia lei che Toninelli non ne sapete nulla.

Partiamo dal principio: nella sua breve vita il tanto bistrattato secondo governo Prodi si accorge di alcune anomalie e decide di intervenire per sanarle. L’intervento più importante che viene fatto è del 2006, con esso praticamente si obbligano i gestori privati a legare gli aumenti dei pedaggi a sostanziosi interventi di ammodernamento e manutenzione. Detta in parole povere, se vuoi soldi devi prima metterci soldi.

Solo che il governo Prodi cade e, mi ascolti bene caro Di Maio, nel 2008 arrivano Berlusconi e la Lega, già proprio quella Lega con cui oggi lei governa e nella quale Salvini era già uno degli elementi di spicco. Nel giugno dello stesso anno il centrodestra elimina tutti i vincoli, cambia le condizioni della concessione dando vita all’attuale contratto-capestro con il quale si affidano le autostrade ai privati.

Vuole sapere il perché, caro Di Maio? Perché alcuni imprenditori veneti, interessati al business della viabilità, fecero molte “pressioni” proprio sulla Lega. Comincia a capire, ministro Di Maio? Vede, alla lunga è difficile occupare un dicastero importante come il Suo raccontando tutto ed il contrario di tutto. Capisco che in questi anni giornalisti ed elettori le abbiano fatto credere che nessuno l’avrebbe mai contraddetta, ma questo non è più il tempo in cui inventarsi balle per giustificare ai genitori il fatto di non riuscire a passare gli esami all’Università: questo è il tempo in cui lei ha in mano il futuro di milioni di persone.
Spero  di  esserle  stato  utile.”
                                                                                                                                             
                                                                                                                                                 Carlo Maria Bellei
                                                                                                                                                (Università di Urbino)
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Religione e politica

L'AMORE COME RISPOSTA ALLA CRISI

E’ Raniero La Valle che scrive, all’inizio del gennaio 2018. O, meglio, è Raniero La Valle che svolge una sua riflessione in conferenza, davanti a un uditorio di prevalente composizione cattolica preoccupato per l’apparente o reale inconcludenza dei propositi e programmi e principi dichiarati dalle autorità mondiali e nazionali, settoriali e locali, in materia di crisi che continuano a imperversare nel pianeta: guerre, migrazioni forzose, disoccupazioni strutturali e licenziamenti, nichilismi che sfociano in suicidi od omicidi, sistemi sanitari e di presidio sociale brillanti in molti punti ma pervicacemente carenti in altri…
La crisi, o, meglio, le crisi, continuano insomma imperterrite: e le formule adottate per superarle, il più delle volte senza effettive attuazioni, per quanto solenni e condivise sembrano non rispondere con efficacia strutturale alle lacrime di una umanità incapace, semplicemente, di darsi un assetto di pace operosa.
Raniero La Valle dice la sua, da cattolico militante che fin dagli anni 1960 fu al fianco e dentro il grande movimento conciliare, ma anche da giornalista attento osservatore, da studioso appassionato, da formatore di vocazione e da cittadino attivo. Non tutte le sue singole posizioni sono destinate a trovare il consenso di tutti, neppure fra i cattolici, essendo egli portatore di una sensibilità molto specifica sulle tematiche che tratta. Ma certo la riflessione che egli propone è di profondità strutturale, e strutturali restano i quesiti sui quali egli riflette con noi.
 
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Ringrazio “Ore 11” dell’invito e del tema che mi avete proposto. In effetti questa è la tesi della mia vita: l’amore come risposta alla crisi. Ed è proprio “la tesi”: non è un’ipotesi, nel senso pragmatico in cui i cattolici liberali dell’800 parlavano di tesi ed ipotesi per stemperare un po’ la rigidità della tesi intransigente. L’amore come risposta alla crisi non è per me un’ipotesi, è la tesi della mia vita.


Ma se l’amore è la tesi, se è la risposta alla sfida stessa della vita, allora deve essere una cosa molto seria, non può essere solo una cosa romantica, un’espressione di buoni sentimenti; deve essere qualcosa che ha a che fare con la struttura dell’esistenza e dell’essere.


Ora, che ciò possa essere vero per la vita personale, per la storia singolare di ciascuno, molti sono disposti a riconoscerlo, soprattutto in ambito cristiano: l’amore è sì difficile, doloroso, ma nella vita personale si può vivere d’amore, si possono dare risposte d’amore. Questo fa parte di una diffusa convinzione cristiana.
 
L’amore come problema politico
 
Ma che l’amore possa essere la struttura della vita pubblica, la risposta ai problemi della vita collettiva, il criterio della storia, questo non è creduto da nessuno. Anzi, al contrario, il criterio del politico, cioè della vita organizzata degli uomini e delle donne insieme, è stato identificato in Occidente nel rapporto tra amico e nemico; e questo non solo nella dottrina, ma nella pratica della gestione politica, nella definizione del compito stesso della politica: nel nuovo modello di difesa italiano, ad esempio, varato dal governo nel 1991, dopo la rimozione del muro di Berlino, dal momento che non c’era più il comunismo come nemico, si programmò che il nuovo nemico fosse l’Islam, prefigurando un rapporto tra Islam e Occidente sul modello del conflitto tra Israele e il mondo ebraico da una parte, e il mondo arabo e palestinese dall’altra. E al posto della difesa sulla soglia di Gorizia, si istituì la cosiddetta “difesa avanzata”, fuori confine; e se oggi torniamo in Africa con l’esercito per fermare i profughi, è perché allora si adottò quel modello.


Anche le leggi elettorali seccamente bipolari e maggioritarie incorporano, magari inconsciamente, il criterio della politica intesa come una competizione tra amico e nemico: tutto il ceto sociale amico da una parte, tutto il ceto nemico dall’altra.


L’amore come criterio del politico è dunque una proposta del tutto estranea all’Occidente; una fantasia di quelle che a sentirle avanzare ti dicono: di questo ci parlerai un’altra volta, come i greci nell’areopago di Atene.


E se il cristianesimo ha come suo precetto più alto l’amore dei nemici, il cattolico Carl Schmitt, che è stato il grande teorico di questa idea della politica, dice che esso si riferisce al nemico privato, l’inimicus, che si dovrebbe amare, ma non al nemico pubblico, l’hostis; questo si può non amare, si può odiare, si può annientare.


Dunque, che l’amore possa essere una risposta alla crisi pubblica, politica, è un problema molto serio.


Dovendo venire a parlare con voi di questo, ho ricercato un mio discorso di qualche decennio fa, di quando facevo politica in Parlamento, che era intitolato “L’amore come problema politico”, forse arieggiando il titolo del libro di Peterson, “Il monoteismo come problema politico”. Ma purtroppo non l’ho trovato. Invece ho trovato un altro discorso del 1989, attinente al nostro tema, che feci a Spello in una celebrazione del primo anniversario della morte di Carlo Carretto, promossa dal Comune. Ho poi ripreso quel ricordo di Carretto nel libro “Prima che l’amore finisca”, pubblicato nel 2003. La tesi di quel libro, uscito dopo le Torri Gemelle, era che la devastazione prodotta dalla vecchia politica, che con la guerra del Golfo si era riappropriata dello strumento della guerra, stava portando il mondo alla rovina; però restava una speranza che veniva dal fatto che molto amore era stato sparso sulla terra, come dimostravano le straordinarie figure del 900 che erano rievocate nel libro, tra cui c’era appunto Carlo Carretto, oltre a Balducci, Turoldo, padre Benedetto Calati, Ivan Illich, papa Giovanni e così via. Però, e questo era il messaggio del libro, bisognava cambiare le cose prima che l’amore finisse – perché anche l’amore può finire o entrare in regime di scarsità -; prima che finisse bisognava cambiare il corso della storia, bisognava prendere un’altra strada prima che fosse troppo tardi, per impedire che la storia stessa giungesse alla fine.
 
Quel libro fu venduto più degli altri, sicché quando poi, qualche anno fa, chiesi all’editore se ne aveva ancora delle copie, mi rispose Cristina Palomba, che conoscevo bene perché era stata lei che ne aveva curato l’edizione, scrivendomi lapidariamente: “L’amore è finito”. Che era il titolo del libro. Mi parve, nella sua intenzione, che la notizia non riguardasse solo il magazzino. Fuor di metafora, era proprio l’amore che sembrava finito: la crisi mondiale si era andata aggravando sempre più, la politica italiana era a pezzi, la Chiesa, 50 anni dopo il Concilio, sembrava in stato di glaciazione, il terrorismo imperversava, la guerra perpetua inaugurata da Bush continuava, Palestina e Medio Oriente stavano sui carboni ardenti pronti ad esplodere, ed era cominciato il grande esodo di profughi, perseguitati, affamati in cerca di un posto migliore per vivere, barconi interi di migranti naufragavano nel Mediterraneo, senza che nessuno se ne desse cura.
È in quel momento preciso che arriva papa Francesco.
 
La variante introdotta da papa Francesco
 
E la prima cosa che fa, dice che Dio è misericordia. La seconda cosa che fa, va a Lampedusa. La terza cosa che fa, ferma la guerra già pronta contro la Siria. La quarta cosa che fa va a Cagliari a dire ai lavoratori di non rassegnarsi, ma di continuare a lottare per il lavoro, che quella è la loro dignità. Ai poveri, ma anche ai ricchi, dice che questa economia uccide, e che bisogna cambiarla. E infine dichiara che il Dio della guerra non esiste, e perciò mai più, mai più alcuna guerra potrà essere intesa o potrà essere chiamata guerra di religione.


L’evento di papa Francesco e della sua Chiesa ha pertanto rimesso in gioco l’amore, appena in tempo prima che l’opera di demolizione si compisse. Ha messo l’amore come argine, come freno, come porta tagliafuoco allo scatenarsi della crisi che potrebbe giungere a cancellare il diritto e la stessa vita umana sulla terra.
Per questo abbiamo parlato, in un appello, di un katécon, di una resistenza che trattenga le attuali spinte al genocidio, e abbiamo ripreso in mano la parola di Gesù alla Samaritana, richiamata ora da papa Francesco: “Ma viene un tempo ed è questo”. Di ciò ha parlato l’assemblea di Chiesa di tutti Chiesa dei poveri che si è tenuta a Roma il 2 dicembre scorso.


Ma resta la domanda: davvero il tempo può essere questo? Ossia davvero può verificarsi che all’amore sia attribuita un’efficacia politica e pubblica, davvero esso può giungere ad esercitare un’egemonia, in senso gramsciano, davvero può prendere su di sé il ruolo che un famoso frammento di Eraclito attribuiva alla guerra? Aveva detto Eraclito, all’inizio della nostra cultura, che la guerra, il pólemos, è “il padre e principio di tutte le cose, di tutte re, gli uni disvelando come dei (o forse come idoli), gli altri come uomini”. Può essere assunto invece l’amore come padre e principio di tutte le cose, di tutte re, cioè reggitore – invece della guerra, invece della bomba, invece della violenza – della vita pubblica degli uomini e dei popoli?


Se questo davvero accadesse sarebbe un rovesciamento, una cosa inaudita; eppure voi lo avete messo a tema nel cuore del vostro convegno, segno che lo ritenete possibile. Ma allora bisogna chiedersi come questa cosa mai vista sia possibile, e come proprio oggi diventi possibile. Certo poteva accadere, da quando è stata annunziata la pienezza dei tempi, ma di fatto non è accaduta.
 
Perché può accadere
 
Dunque, perché può accadere? Prima di tutto bisogna dire che in ogni caso si tratterebbe non di un colpo di fulmine, ma di un processo, che certo viene da lontano, ma di cui credo che significative avvisaglie vadano cercate nel Novecento.


Per questo sono andato a rivedere le carte di quel tempo, e ho trovato quel discorso su Carlo Carretto di cui vi dicevo, in cui mi pare che ci sia una pista per cercare una risposta. Certo si potrebbero seguire altre piste e interrogare altre figure, ma intanto questa può essere utile per indirizzare la nostra ricerca.


Che cosa aveva fatto Carlo Carretto? Aveva lasciato alle sue spalle “i giorni dell’onnipotenza”, i Baschi Verdi, l’Azione Cattolica che allora era cantata come “un esercito all’altar”, aveva abbandonato i sogni di riconquista cristiana di Gedda e di Pio XII, ed era andato nel deserto del Sahara. Perché era andato nel deserto? Questa era la domanda. Non c’era andato per offrire la sua vita a Dio, perché quella gliela aveva offerta anche prima, negli anni ruggenti. Non c’era andato per salire dall’azione alla contemplazione, perché nella vita cristiana non c’è dualismo e non c’è superiorità dell’una via sull’altra; anzi, come dice Gregorio Magno, non si può restare a lungo nella contemplazione, essa non può essere uno stato di vita, ma ben presto dalla contemplazione, dall’estasi, si deve tornare all’azione, dove però essa non si perde, ma resta come “il ricordo della soavità di Dio”.


Dunque non per questo, non per contemplare era andato nel deserto; invece c’era andato, dicevo, per porre con radicalità la questione di Dio, e più precisamente la questione: “quale Dio”. Ora, se dopo tutto quello che aveva fatto egli sentì il bisogno di aprire la questione di Dio, vuol dire che nonostante tutto il suo impegno apostolico quel Dio non l’aveva veramente trovato. Ma questo problema, a quel punto del ‘900, non era solo di Carretto, era il problema della modernità, e della stessa Chiesa.
 
L’impedimento della cattiva copia di Dio
 
La modernità si era costruita non sull’ateismo, che verrà dopo, ma adottando la finzione che Dio non ci fosse, si era costruita cioè su una espulsione cristiana di Dio, per costituirsi come società politica e non religiosa, laica e non clericale.


Senonché il Dio espulso era in realtà una cattiva copia di Dio. Era il Dio della guerra tra gli stessi principi cristiani, il Dio che rendeva l’uno all’altro nemico, il Dio che veniva dall’alto, il Dio della trascendenza e del potere, il Dio che fondava il trono dei potenti e sequestrava nei cieli il tesoro dei deboli, il Dio della cui trascendenza Bonhoeffer dirà che fosse “un pezzo di mondo prolungato”.


Questo è il Dio che arriva a Carretto allo metà del Novecento, e a tanti cristiani come lui. E così era la Chiesa, come Carretto la descriverà più tardi in una lettera a papa Woytjla, “una Chiesa arroccata in una fortezza da difendere, come un esercito perennemente lanciato in crociata, come un partito che doveva diventare più forte e schiacciare il nemico. Nemici, nemici, sempre nemici. Ecco il mio apostolato di quel tempo”.


E a un certo punto egli avverte che il Dio professato nella sua fede non è pari al Dio cui si rivolge la sua speranza. Ci deve essere un equivoco, forse un errore. E va nel deserto che è il luogo privilegiato per spogliarsi delle false immagini di Dio, dei suoi rivestimenti fuorvianti, delle false certezze ricevute. “Mi trovai nel deserto – scriverà più tardi al fratello e alle sorelle – a svuotarmi delle mie sicurezze e a liberarmi degli idoli”.


E lì trova un Dio diverso da quello che aveva conosciuto. È il Dio di una trascendenza che viene dal basso, che ti si fa incontro nel fratello, nel prossimo, nell’altro, è il Dio della condizione umana più indigente e più umile. È il Dio dei minori, dei fratelli piccoli e minori, come il Dio laico di san Francesco che non caso fratel Carlo andrà a cercare a Spello, dall’altra parte del Subasio. È il Dio non del potere ma del servizio. Non dell’onnipotenza ma della discrezione, della soavità, della silenziosa compagnia con l’uomo. Il Dio che non tiene niente per sé, nemmeno la sua divinità, la scambia con l’uomo, e così rende possibile l’amore.


Tutto questo si poteva dire in quella riflessione del 1989. Del resto c’era stata tutta una teologia nel 900 che aveva lavorato a restituire una più autentica figura di Dio, per non parlare del Concilio.
Però Dio continuava ad essere predicato al vecchio modo nella grande Chiesa, e il mondo continuava ad essere conformato al vecchio modello, e l’amore continuava a non poter essere la risposta alla crisi; e a prendere il sopravvento fu invece la secolarizzazione.
 
L’impedimento della perduta dignità dell’uomo
 
Un anno dopo tornai a Spello, per riprendere il discorso. Come vedete non vi sto dando una teoria, vi sto facendo una narrazione. Quel discorso doveva in effetti avere uno sviluppo, perché è chiaro che la domanda su Dio non può stare da sola, e alla domanda su Dio immediatamente deve seguire la domanda sull’uomo. Esse sono in rapporto di necessità: perché quale è la risposta su Dio, tale, almeno per noi cristiani, è la risposta sull’uomo. Per noi e per la nostra salvezza, diciamo nel Credo, è disceso dal cielo. Fuori di questo rapporto, anche la religione è vanità.


La teologia non è nulla se non c’è un’antropologia che le corrisponda. Si può fare un’antropologia senza teologia, il mondo la fa. Ma non si può fare una teologia che non si occupi dell’uomo.
In effetti, il modo in cui l’uomo è stato pensato in Occidente dipende dal modo in cui Dio è stato pensato in Occidente. Se Dio è il Dio dei filosofi, il Dio della trascendenza e dell’assoluto, il Dio che dall’alto domina la storia, il Dio nel quale c’è violenza, c’è il nemico, il Dio buono con i buoni e cattivo con i cattivi, il Dio la cui giustizia è la proiezione della giustizia umana, retributiva e punitiva, allora l’uomo sarà secondo questa immagine, secondo questa somiglianza, e la storia sarà fatta in questo modo.


In effetti le vecchie antropologie, come erano giunte al Novecento, avevano fallito, sia sul versante laico che su quello religioso.


Sul versante laico l’antropologia che aveva dominato e determinato la storia dell’Occidente era un’antropologia costruita a partire non dagli ultimi, ma dai primi. Er un’antropologia signorile, che lasciava fuori i servi, da lei stessa creati, era un’antropologia dell’uomo creatore, dell’uomo padrone della natura; dell’uomo magari peccatore, ma senza limiti alle sue conquiste, capace di appropriarsi di tutto, di produrre tutto, di dominare tutto, e sempre pronto a rapinare l’assoluto. Era un’antropologia dell’identità, non dell’alterità, tutta concentrata sull’io, e incapace del riconoscimento dell’altro, della comunione e dell’immedesimazione con l’altro. E perciò un’antropologia avara nell’amore. Certo i poveri c’erano, magari destinatari di sussidi e di assistenza sociale, ma non erano veramente cittadini, non erano sovrani. E quando questa antropologia ha voluto proclamare l’eguaglianza di tutti gli uomini, senza distinzioni, certo ha potuto farlo, assumendo però come soggetto e tipo di tale eguaglianza un uomo astratto, molto somigliante all’uomo bianco, alfabetizzato, produttivo, benestante dell’Occidente, scontando, nell’apparente eguaglianza delle regole, un’ineguaglianza di fatto sempre più penalizzante e pauperizzante, sia nelle società ricche che, soprattutto, nella grande periferia del mondo.


Senonché l’altra antropologia, quella della Chiesa, l’antropologia della natura corrotta, decaduta e peccatrice, non aveva prodotto frutti molto migliori; essa non era riuscita a superare l’antropologia signorile; anche per essa l’uomo è signore, però è un signore decaduto, che non domina neanche se stesso; angelo o fiera, per usare una terminologia rinascimentale, egli non è in grado da solo di determinarsi verso il bene, ciò può avvenire solo per grazia, solo perché portato per mano da Dio.


Ha pesato come un macigno la pregiudiziale antipelagiana piantata da Agostino nella teologia nascente della Chiesa. Essa ha estremizzato questa eteronomia e insufficienza umana, ha esacerbato questo ridurre a nulla l’opera dell’uomo, sequestrata dall’iniziativa divina, ha convalidato l’ascesi spiritualistica per cui Dio è tutto e l’uomo è niente.


Ma per un uomo siffatto il rischio è la paralisi. Perché mentre i tesori dell’uomo sono dispersi nei cieli, come Italo Mancini diceva citando il giovane Hegel, mentre l’uomo da solo non può fare niente, Dio è lassù, inafferrabile e misterioso, e per lui un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno; ma allora come si fa a gestire l’operazione umana, come si fa a governare la storia?
 
La Chiesa invece di Dio
 
Ed ecco che la Chiesa offre il rimedio che è peggiore del male; si fa essa stessa sostituta e vicaria di Dio, offrendo così un Dio anche troppo visibile e quotidiano; e così viene meno il dualismo tra la Chiesa e Dio, essa ne assume i poteri, si innalza sui tre regni, ne prende in mano le chiavi, assume insomma non solo la rappresentanza ma, come è stato detto, la rappresentazione di Dio sulla terra. Essa agisce per lui e in nome di lui, ed è antipelagiana sì, ma mettendosi al posto di Dio lo è al modo per cui la Chiesa è tutto e l’uomo è niente.


Forse le tinte che uso sono forti, e certo la Chiesa è stata anche molte altre cose, né lo Spirito l’ha abbandonata. Ma ci deve pure essere una ragione per cui una moltitudine di uomini e di donne hanno perduto la fede e l’amore non ha potuto governare la terra. Come l’Angelus Novus di Walter Benjamin questo amore si è trovato con le ali impigliate nella tempesta, sospinto verso un futuro a cui dava le spalle, mentre guardava il mare di macerie che nella storia lasciava dietro di sé.


Dunque se da questo veniamo, ripeto la domanda: come è possibile ora fare dell’amore la risposta alla crisi? Come pensare che l’amore non sia travolto dalla tempesta e sia invece lui a governarla?
La mia risposta è che è oggi possibile perché è avvenuto qualcosa, una novità si è prodotta nella Chiesa. Non dico solo la novità di papa Bergoglio, ma la novità che unisce il Concilio a papa Francesco, i quali non sono due eventi della storia della salvezza, ma sono un unico, indivisibile evento.


Non è qui il momento per evocare tutte le cose, le parole e i segni con cui si sta svolgendo il magistero di papa Francesco, e attraverso cui questa novità irrompe in tutta la Chiesa. Dico solo che nel ministero di papa Francesco è come se la percezione di Dio, dell’uomo e della Chiesa fosse passata attraverso un processo di spoliazione e di rivestimento, fosse passata cioè alla prova e al vaglio del deserto.
 
Il nuovo annuncio di Dio
 
Dopo tale passaggio Dio continua certo ad avere i suoi cento bei nomi che gli riconoscono i musulmani o gli innumerevoli nomi con cui lo invoca il salmista e ogni altro orante dopo di lui, ma il nome che riassume tutti gli altri nomi e con cui la Chiesa oggi lo annuncia è il nome che racconta la misericordia di Dio. Amore è il nome proprio di Dio, unico come l’unigenito, e nessun altro nome gli può essere attribuito, né di giudice né di re, che non sia inteso come compatibile e coerente con questo; e questo è il nome che non può essere pronunciato invano, secondo il primitivo comandamento, perché l’amore nominato invano è un amore tradito.
La riscoperta dell’uomo
Quanto all’uomo egli è naturalmente sempre riconosciuto nella sua condizione creaturale di indigenza, finitezza e povertà, ma non è mortificato come se fosse un fuscello nelle mani di Dio né come una coscienza appaltata alla Chiesa; la sua dignità è la dignità di colui di cui porta l’immagine, e il Vangelo oggi annunciato gliela riconosce anche se non ha fede, gli riconosce la dignità della sua opera, il lavoro, e gli riconosce la libertà della sua decisione etica, che non sta fuori di lui, ma dentro di lui, sta nella coscienza in cui il Concilio ha visto lo scrigno di Dio, e se la Chiesa l’invade papa Francesco la chiama un’ingerenza.
La riforma della Chiesa
E quanto alla Chiesa visibile essa non si presenta più come il tutto di Dio sulla terra, non più come il fine di tutto, non più come il luogo, anche materiale, di cui si diceva che fosse l’unico in cui si potesse trovare salvezza, al punto da essere paragonata, come fece s. Ambrogio, alla casa di Raab, la prostituta che aveva tradito il suo popolo e l’aveva consegnato allo sterminio; la Chiesa si presenta invece come un ospedale da campo, essa è cioè uno strumento, un segno di risanamento di riconciliazione e di pace in mezzo alla battaglia, e non è solo il Samaritano che cura il ferito, ma è essa stessa ferita, incidentata, anch’essa ha bisogno che le sue piaghe siano curate e lenite. Ma non è una Ong, è la serva di Dio, figlia del suo figlio. Si tratta di una rivoluzione copernicana per l’ecclesiologia romana, per questo il cardinale Muller la contesta.
Nella continuità della tradizione
Ma come può papa Francesco far questo, come può fare della riforma del papato la riforma della Chiesa e dello stesso suo annuncio? Lo fa mettendosi nella tradizione, e in perfetta continuità con essa, senza lasciar cadere nulla, nemmeno delle forme meno raffinate della devozione popolare.
Ma anche questo lo fa attraverso un processo di spoliazione, di deserto, come si è spogliato della mozzetta rossa imperiale fin dal primo apparire al balcone di san Pietro.


In primo luogo si è spogliato di quella sacralizzazione del papato che aveva reso inemendabili gli errori della Chiesa e dello stesso magistero pontificio, inemendabilità degli errori che era culminata nella dottrina dell’infallibilità, ma che era all’opera già prima a presidio di tutte le dottrine, i catechismi, i Sillabi e perfino i comportamenti di una Chiesa tutta identificata col clero.
E in secondo luogo papa Francesco ha preso in mano il Vangelo, e ha preso sul serio la previsione fatta da Gesù a Pietro quando gli ha detto: ora non capisci, ma dopo capirai; e perciò Francesco cerca di capire e di far capire quello che prima non si era capito, anche delle Scritture, anche del Vangelo, anche da parte dei dottori e degli esegeti. Cioè ha tirato giù la rivelazione di Dio dagli archivi, e l’ha fatta diventare una realtà contemporanea, quotidiana, che avviene nell’oggi. Erano 1500 anni che non succedeva, da quando Gregorio Magno aveva detto che i divina eloquia, la Scrittura, cresce con chi la legge.


E voglio dare un esempio per mostrare come questa novità del messaggio portata da Francesco sia sostenuta da un grande rigore teologico, da ortodossia e afflato pastorale e perfino da una difesa apologetica della fede.
 
Il definitivo congedo dalla violenza di Dio
L’esempio è il definitivo congedo dal Dio violento e l’affermazione, contro ogni fraintendimento e smentita, della non violenza di Dio. È il messaggio di Francesco; ma esso ha dietro di sé un documento di altissimo valore teologico curato e firmato dal cardinale Muller, proprio quello che oggi sembra il più severo censore del papa. Vi si trova una formale presa di distanza da tante pagine della Scrittura, difficili a sopportarsi, che parlano di un Dio guerresco e violento, vendicatore e duce di un solo popolo. Si tratta di un documento della Commissione Teologica Internazionale intitolato “Il monoteismo cristiano contro la violenza”, pubblicato a Roma nel 2014, nei primi mesi del pontificato di Francesco, ma frutto di una lunga elaborazione precedente. È un documento che nasce con una intenzione apologetica, perché si trattava di difendere il monoteismo cristiano contro l’accusa che professando un Dio unico fosse causa di violenza. Esso ammetteva però che questa falsa immagine di Dio era veicolata da molte pagine della Scrittura, che erano tuttavia il prodotto di un fraintendimento umano. La ragione teologica profonda per cui questa rappresentazione di Dio andava congedata era che essa è in contrasto con il dogma fondamentale del cristianesimo, quello del rapporto trinitario tra il Padre, il Figlio e lo Spirito, che non può essere altro e non può esprimersi altrimenti che come amore.
Al “kairos dell’irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa” bisognava riconoscere, secondo il documento vaticano, “il tratto di svolta epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire nell’odierno universo globalizzato”; un trapasso d’epoca che comportava un cambiamento non solo del cristianesimo, ma dell’idea stessa di religione, e perciò di ogni religione.
E dunque, giunti a questo crinale del processo, se cambia l’idea di Dio, della religione, della Chiesa, cambia anche l’uomo e la sua condizione; può nascere l’uomo inedito intravisto da padre Balducci, può cambiare lo stare insieme degli uomini e delle donne nella casa comune sulla terra, e l’amore può diventare la risposta alla crisi.
Non so se sono riuscito a svolgere in modo persuasivo il tema che mi avete affidato; in ogni caso ho cercato di rendere ragione della speranza che è in me.

                                                                                                        
                                                                                                                                                  (Raniero La Valle)

MM
 
 
 

Esperienze

CAMMINARE... NON STANCA

Ma ci pensiamo? Camminare, mangiare, respirare… Ciascuna di queste semplicissime dimensioni della nostra vita quotidiana costituisce un immenso miracolo permanente, la cui misteriosità dovrebbe continuamente lasciarci pieni di stupore, di gratitudine, di meditazione sul senso più profondo della vita e del suo dono.
 

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Sto in piedi, cammino.
 
A disegnare un uomo ci metto un minuto: un cerchietto, un rettangolino, due zeppetti per gambe, due trattini a fianco per braccia. Fatto. Tutto in verticale.
 
Un uomo, un uomo in piedi: ci pensi, che prodigio, stare in piedi? La pianta del piede, trenta- quaranta centimetri che reggono 80 e più chili.
 
Me ne rendo conto solo quando mi fanno male le ginocchia, quando ho il colpo della strega,  quando mi viene la sciatica. Solo allora mi accorgo che reggermi e muovermi da solo e allungare il passo è una fortuna e una grazia.
 
Un paio d'anni ci mette il cervello a maturare la zona dell'equilibrio: prima la regione del truncus poi il cervelletto poi il sistema vestibolare e, a completare tutto, certe zone della corteccia. Da quel momento so dove mi trovo, so da dove vengo, so dove vado. Intanto mi reggo in piedi e mi oriento, poi metterò un piede dietro l'altro, poi camminerò: ma la cosa più difficile è stare dritto. E sarà sempre la più faticosa. Un bambino, i primi anni corre, si agita sempre, non sta fermo un minuto,  non lo tieni a tavola perché non ce la fa: il suo sistema nervoso è immaturo, stare in equilibrio a lungo (in piedi o seduto) gli è impossibile. Ancora, per me in bicicletta sto in equilibrio solo se pedalo. Non sono un trapezista o un atleta, tanto meno una ballerina che volteggia, beata lei, sulle punte. Fare la fila mi riuscirà sempre più faticoso che un chilometro a piedi.
 
E questo, che ti sembra un ripasso di ortopedia, è invece una contemplazione. Certe volte mi fermo e guardo i tre nipotini: il primo disteso in culla, il secondo già gattona, il terzo barcolla, corricchia,  casca e si rialza da solo. In miniatura, l'evoluzione della nostra specie. E tenersi eretto su due piedi e non curvo su quattro zampe mi dà subito un orizzonte, mi fa allungare lo sguardo, mi fa organizzare lo spazio e il tempo.
 
Insomma, stare sulle gambe: da ringraziare Iddio a mani giunte.
 
Poi mi metto paura e immagino quando non ce la farò più e mi dovranno accompagnare e sostenere
sottobraccio e farmi tutto. Oggi ancora posso da solo, decido io, vado, non vado, mi chiudo in casa,
faccio una corsa al supermercato. Un istante e sto per strada: la metafora della mia libertà; e quando penso strada dico vita, quella che mi scelgo io e so io dove arrivare e nessuno me lo può imporre. Perché… Perché la strada che faccio a piedi tutti i giorni avanti e indietro mi riempie la testa di tanti pensieri. Tu pensa che sarei io oggi se non avessi scelto una strada mia, se non avessi seguito un sentiero mio, se avessi dovuto star dietro passo passo a qualcun altro, plagiato e schiavo della volontà di un altro. Invece a un certo punto ho detto signori io vi saluto, scendo, svolto e me ne vado per conto mio. Ne avevo le forze, dritto in piedi ci stavo, i mezzi per fare avanti e indietro li avevo. E la mia strada che porta a te… era la nostra ballata di tanti anni fa, col vento in poppa degli
anni giovanili.
 
S'infilano qui le belle pagine che abbiamo letto tante volte: i percorsi dei maestri della vita spirituale
oppure i poemi quasi disperati dei poeti laici. Beh, qualche riga del Canto del pastore errante di
Leopardi me la ricordo ancora ma il finale di Meriggiare pallido e assorto di Montale te lo trascrivo perché è troppo bello:
e andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
come tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare di muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
 
Strade dure, strade accidentate, strade in salita, strade col fiatone, col magone, fermandomi mille volte, farò bene farò male, perché tu sai cos’è restare in mezzo a una strada e ti senti abbandonato e non sai se andare di qua oppure prendere per laggiù.
 
Eh sì: camminare significa tante cose; e se non hai uno scopo e un traguardo vero tutto quel
camminare diventa una disperazione. Andare tanto per andare, camminare alla cieca, sbandare: ti
viene la tentazione di mandare tutto al diavolo e buttarti per terra e dire “basta, ho sbagliato strada,  ho imboccato un sentiero che non era il mio e, alla fine, che ne ho avuto...”.
 
Invece, anche se al buio e anche se in salita, una fiammella i maestri della vita spirituale, in testa, ce
l'hanno sempre, e un calore lo conservano sempre nell'anima, e quella tua macchinetta, che secondo
te solo allo sfascio dovresti portarla, loro ti dicono ma no, ma che dici, vieni qua, mettiamoci le mani, proviamo a darle un'aggiustatina, vedrai che ci cammini ancora. Insomma, piano piano pure io mi oriento, metto la freccia, ingrano le marce e ci provo ancora, a camminare, proprio come Giovanni della Croce che cerca di prendere di petto il suo immaginario monte Carmelo. Come?
Ecco, t'infili in macchina e ti fai il giro, di notte, nientemeno, che del grande raccordo anulare di
Roma, e a un certo punto ti metti a seguire le ambulanze con la sirena che strilla e ogni tanti ti fermi da una parte e dai un'occhiata a quello che è successo e alla fine dici mamma mia e te ne torni a casa. Ma che stupido a lamentarmi di tante cose invece di ringraziare Dio che ci ho ancora la buona salute e posso ancora camminare.
 
Ma camminare non è sempre così serio e duro. Quando camminare è invece un piacere...
 
E dai, facciamo due passi, tanto per muoverci, passeggiare, divertirci con lo struscio della domenica e un'occhiata alle vetrine, approfitto dei saldi, vuoi un caffè, ci sediamo, pronto, sì, certo, veniamo (dice che ha sotto mano una pizzeria che è un amore), ok, alle otto e mezzo, perfetto, veniamo, ciao. Lo vedi quanti regali la vita… e mi viene una fitta allo stomaco per impormi un grazie che non spunta mai da solo.
 
Non ti dico le foto di capodanno, ma davvero quello sono io: oh Dio, che ballo, volteggio, tango,  polka, qualche rock un po' sbilenco, un po' così, ma che importa, ma che ridere, ma che divertimento, che spasso, che allegria, e chi se le scorda quelle ore... “Tic tac”… fermi con i tappi dello spumante,  ancora non è mezzanotte. Abbracci, baci, e poi brindisi, in alto i calici e vieni,  balliamo il valzer del Gattopardo.
 
Il mappamondo non si ferma mai, gli do una giratina e plaf si ferma in America e resto col dito
puntato lì e ora papà ti fa vedere dove andremo l'estate prossima. Guarda da qui a qui: aereo a
Fiumicino e via sull'azzurro dell'Atlantico fino qui, a New York: guarda i grattacieli, la statua della
Libertà, il Central Park. I viaggi. I viaggi che solo a immaginarli ti faranno galleggiare in un sogno.
Vieni a papà, decidiamo insieme, prenotiamo, clic, ecco il volo, ecco qua l'albergo e se vogliamo
strafare pure i traghetti al largo di Manhattan. Pensa la felicità: per lui è il primo viaggio.
 
Ora però smetto, mi vengono le lacrime agli occhi. Per tanta grazia.
 
                                                                                                    (Viscardo Lauro)
 

Religione

DIO ESISTE: FRA MIRIADI DI PROVE E RICERCHE, UN'ANALOGIA STRAORDINARIAMENTE SEMPLICE E SIGNIFICATIVA

Pubblichiamo il modo originalissimo con il quale cui uno scrittore ungherese ha spiegato l’esistenza di Dio. Semplice ma tutt’altro che superficiale. Buona riflessione.
 

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Nella pancia di una mamma c’erano due bambini.

Uno chiese all’altro: ”Ci credi in una vita dopo il parto?”.

L’altro rispose: “E’ chiaro. Deve esserci qualcosa dopo il parto. Forse noi siamo qui per prepararci per quello che verrà più tardi”.

“Sciocchezze”, disse il primo. “Non c’è vita dopo il parto. Che tipo di vita sarebbe quella?”.

Il secondo rispose: “Io non lo so, ma ci sarà più luce di qui. Forse noi potremo camminare con le nostre gambe e mangiare con le nostre bocche. Forse avremo altri sensi che non possiamo capire ora”.

Il primo replicò: “Questo è un assurdo. Camminare è impossibile. E mangiare con la bocca? Ridicolo! Il cordone ombelicale ci fornisce nutrizione e tutto quello di cui abbiamo bisogno. Il cordone ombelicale è molto breve. La vita dopo il parto è fuori questione”.

Il secondo insistette: “Beh, io credo che ci sia qualcosa e forse sarà diverso da quello che è qui. Forse la gente non avrà più bisogno di questo tubo fisico”.

Il primo contestò: “Sciocchezze; e inoltre, se c’è davvero vita dopo il parto, allora perché nessuno è mai tornato da lì? Il parto è la fine della vita e nel post-parto non c’è nient’altro che oscurità, silenzio e oblio. Lui non ci porterà da nessuna parte”.

“Beh, io non so”, ha disse il secondo “ma sicuramente troveremo la mamma e lei si prenderà cura di noi”.

Il primo rispose: “Mamma… tu credi davvero alla mamma? Questo è ridicolo. Se la mamma c’è, allora dov’è ora?”.

Il secondo disse: “Lei è intorno a noi. Siamo circondati da lei. Noi siamo in lei. E’ per lei che viviamo. Senza di lei questo mondo non ci sarebbe e non potrebbe esistere”.

Disse il primo: “Beh, io non posso vederla, quindi è logico che lei non esiste”.

Al che il secondo rispose: “A volte, quando stai in silenzio, se ti concentri ad ascoltare veramente, si può notare la sua presenza e sentire la sua voce da lassù”.
 
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Antologia

SMANTELLARE LE PERSONE?

Scritto  nel 2013, questo piccolo pezzo riportava la pura cronaca di un incidentale episodio che attirò la mia attenzione mentre mi apprestavo a imboccare la via XX Settembre, a Roma, vicinissimo alla sede del ministero dell’agricoltura. Nonostante il tempo trascorso mi pare che esso, purtroppo, continui a essere attuale per diversi aspetti e a richiamare la nostra attenzione attiva di cittadini onesti. Per questo lo ripropongo.
Il 2013… diversi governi si sono succeduti da allora alla guida del nostro paese, formati  dal centrodestra o dal centrosinistra, ma nessuno di essi ha saputo spostare in alto l’asticella della civiltà con la quale la politica affronta la questione di far funzionare con efficienza le strutture pubbliche senza sprecare il lavoro delle persone e nello stesso tempo senza confondere efficienza con arbitrio di gestione o asetticità sociale di contenuti. Siamo ancora al punto di allora, dunque: e abbiamo l’impressione che anche il governo appena entrato in carica in questi giorni abbia sì cambiato colore e nomi dei suoi ministri, ma non abbia annunciato un orizzonte metodologico di miglioramento relativo al come impostare i problemi.  Almeno a giudicare dai fiumi di frasi fatte e generiche con cui si sono presentati i nuovi capi dei dicasteri con i relativi programmi.
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Me lo rigiro fra le mani, questo libretto di novantotto pagine, dal titolo Linee guida per una sana alimentazione italiana, che mi viene consegnato con una targhetta appiccicata sopra, la quale reca: Omaggio dei dipendenti ex Inran, in protesta sotto il Ministero dell’Agricoltura perché senza stipendio.


Di sottecchi torno a guardare la ragazza che con gentilezza me lo ha offerto. Gratis. Ma perché me lo offre? Che ci fanno, qui, sotto il ministero dell’agricoltura, tante decine di lavoratori radunati educatamente, anche se non silenziosamente?

L’Inran è l’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione. Il nome lo conoscevo. Faceva opera di divulgazione intelligente, questo istituto, come ricordo.

Ma… dipendenti privati o pubblici? – azzardo alla ragazza, per avere una conferma.

“Pubblici, pubblici… Ed è questo che non capiamo; sono i tagli: ma che tagli, se non ti spiegano nulla? Le sembra civile? Questo è lo Stato al cui servizio lavoriamo… Posso capire (mica scusare) le imprese private, che prendono e licenziano su due piedi: ma lo Stato dovrebbe spiegare, preparare, aiutare… E’ il modo, capisce? Il modo incivile: lo Stato è la comunità di tutti...”.

E la ragazza gentile, affiancata da alcuni colleghi, continua a raccontarmi una storia inverosimile:


- Sa che succede? Siamo ricercatori, soprattutto, ma anche impiegati… comunque quasi tutti con una famiglia da mantenere. Ora, succede che andiamo a ritirare lo stipendio e ci viene detto che… lo stipendio, semplicemente, non c’è.


- Come, non c’è? E dov’è? – facciamo noi.


- Beh, noi non lo sappiamo – rispondono; - ci hanno detto che da questo mese siete stati smembrati, in diversi gruppi, ma non sappiamo dove, non sappiamo altro… Provate a chiedere… non so… a un dirigente…

E comincia il calvario, perché in realtà nessuno ti riceve. Nessuno di quelli che possono realmente fare qualcosa. E nessuno sembra sapere nulla. Ma come è possibile? Riusciamo a far giungere la nostra voce, finalmente, al ministro, ma questi non solo non ci riceve ma si limita a farci sapere che… ignora tutto del problema. Ma che Stato è? Ma che politici sono? E che dirigenti sono?

In effetti, tutto questo ha dell’inverosimile: non perché non si possa decidere lo smantellamento di un istituto; anzi, ciò a volte è necessario, quando non sia possibile la sua trasformazione utile. Il fatto è che non si può decidere lo smantellamento delle persone. Questa è un’altra cosa. Lo impedisce la costituzione, lo impedisce anche il diritto naturale, lo impedisce una sana logica d’impresa pubblica.

Eppure la legge, in Italia, da un po’ di tempo a questa parte, non risponde più né alla costituzione né al diritto naturale né a una sana logica d’impresa: la legge agisce ormai come se vivesse per conto suo, essa è il ghigno di una entità astratta che si chiama formalmente parlamento o governo, ma forse questi formalizzano solo quanto stanze più oscure e nascoste decidono con obiettivi più oscuri e nascosti.

Delle cose non discute il paese, in modo che poi il parlamento riassuma la discussione e responsabilmente formuli l’approccio migliore di affrontarle: la legge è pronta, già preparata in qualche oscuro luogo da oscuri esperti al servizio di qualcuno, e viene data ai capigruppo parlamentari perché la facciano ingoiare a quei poveretti di parlamentari (il modo con il quale sono stati eletti, in liste preconfezionate, come branchi di buoi ubbidienti, è adatto in effetti solo a un ammasso di suddetti, anche se non raramente i suddetti sono o si trasformano a loro volta in carognette) e questi formalizzano senza sapere, il più delle volte, neanche l’oggetto della legge che votano. Il capo manda in giro a dire “lunedì ore 12 tutti in aula: si vota sì al decreto numero…”. Ed è fatta.

E’ fatta, cioè quelli votano. E poi, naturalmente, a tempo debito, vanno a riscuotere la pacca sulla spalla, da parte del capo soddisfatto. Il che assicura loro sempre qualcosa: una riconferma di mandato, comunque il lauto stipendio parlamentare, la lauta pensione parlamentare, spesso anche un incarico di consulenza presso un ente quando parlamentari non saranno più… Quale ente? Mah, chissà: forse anche un Inran qualsiasi: le cui spese cresceranno, ma che importa? Male che vada, diremo ai lavoratori che non ci sono più soldi e che dei licenziamenti sono inevitabili. Pian piano si rassegneranno.

Rassegnarsi? Ad esempio non andare a votare? No, no… mai. Cerchiamo piuttosto con il lumicino le persone in gamba, dovunque siano, rinforziamo quelle, quanto più possiamo, dovunque siano. Anche questo è fare politica. Ma non arrendiamoci, mai.
                                                                                                         
                                                                                                                                            (Giuseppe Ecca)
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Medicina e società

MENOPAUSA ED ANDROPAUSA A CONFRONTO

Salvatore Mancuso è medico autorevolissimo e famoso da tanti anni, a livello nazionale ed all’estero, soprattutto nel campo della ostetricia e ginecologia. Ed è, fra l’altro, presidente del Comitato di Bioetica presso il Policlinico Gemelli di Roma. Pubblichiamo di seguito una sua recente conferenza di aggiornamento e divulgazione tenuta presso la Fondazione Palleschi per l’Aiuto all’Anziano, sul tema, sempre più diffuso per via del crescente invecchiamento della popolazione, relativo a “menopausa e andropausa”. L'accento particolare posto nella sua riflessione sull'andropausa è di particoalre interesse in quanto fino ad oggi incredibilmente trascurato da una opinione pubblica media più attenta al solo  problema della menopausa.

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Sono due fasi della vita di ogni essere umano, che coincidono con l’esaurimento della funzione riproduttiva e si manifestano nei due sessi con modalità e decorsi differenti. Di regola compaiono dopo il quinto decennio e, stante la raggiunta aspettativa di vita che negli uomini, ma soprattutto nelle donne, in condizioni normali dovrebbe superare gli 80 anni, si calcola che in media si vive più di 30 anni in menopausa ed in andropausa.
Entrambe le condizioni nell’uomo e nella donna si accompagnano con segni e sintomi di disagio e talora di sofferenza, che spesso sfociano in una vera e propria sindrome, che risente di innumerevoli influenze, per lo più di carattere socio-antropologico e dipendenti da più fattori, quali lo stile di vita, l’armonia nell’ambito della famiglia, il livello culturale, gli interessi nati al termine dell’abituale attività lavorativa, il rapporto di coppia e lo stato di salute psico-fisico. Anche il fisico risente dei mutamenti che accompagnano l’interruzione dell’effetto degli ormoni sui diversi organi bersaglio, e più nella donna che nell’uomo.
Nella donna, infatti, la menopausa, cioè l’arresto della funzione ciclica ormonale e riproduttiva dell’ovaio, con scomparsa del periodico flusso mestruale, è carica di simbolismi e di significati per lo più negativi, a causa dei mutamenti che lei stessa avverte nel suo organismo ma anche alla sua stessa immagine. Infatti, la mestruazione ha dato da sempre il ritmo alla sua vita e la menopausa è ritenuta come la perdita dell’effige della femminilità, l’evento che apre le porte alla senescenza con le conseguenze di un’irrimediabile scomparsa dei paradigmi del fascino della gioventù e della bellezza muliebre. Oggi invece la menopausa giunge "nel mezzo del cammin" della vita della donna, che molto spesso vivrà in post-menopausa più anni che in età fertile.
  Tutto ciò è dovuto essenzialmente alla scomparsa repentina degli ormoni femminili, gli estrogeni, che durante il periodo fertile sono prodotti dagli stessi follicoli ovarici che contengono anche gli ovociti, i gameti femminili, il cui numero in ciascuna donna è predeterminato durante la pubertà e, una volta esauritosi, cessano simultaneamente le due funzioni, sia quella ormonale e sia quella riproduttiva.
  Nell’uomo, invece, le due funzioni sono separate: i gameti maschili, gli spermatozoi, sono prodotti nei tubuli seminiferi e poi convogliati nell’epididimo, mentre l’ormone maschile più attivo, il testosterone, è prodotto da altre strutture: le cellule di Leydig che sono del tutto separate e svincolate nella loro funzione da quelle che producono i gameti e le due attività non hanno la caratteristica della ciclicità ma funzionano in maniera continua. Per questo motivo un uomo potrebbe procreare anche in età avanzata e il suo ormone  diminuisce molto gradualmente con l’età, dato che la sua produzione non si arresta bruscamente, come invece avviene nella donna con gli estrogeni.
  Tutto ciò comporta che nell’uomo, oltre al mantenimento della capacità procreativa, persistono gli stimoli ormonali, a cui però non fa riscontro il mantenimento a lungo termine della funzione erettile e quindi l’andropausa si associa alla difficoltà di conservare a lungo l’esercizio attivo della sessualità e questo si può associare con uno stato depressivo a diversi livelli di intensità.
  Nella donna questo non avviene, anche se spesso si verifica una  progressiva riduzione della libido, dovuta sia alle nuove condizioni ormonali e sia alla distrofia delle mucose, che rende difficile e dolorosa l’attività sessuale. Insieme a questo consistente disagio, la menopausa si caratterizza con altri sintomi, che sono di natura psicologica, come il sopraggiungere di uno stato melanconico fino alla depressione, insonnia, nervosismo, difficoltà a socializzare e talora persino a mantenere l’abituale armonia familiare. Inoltre si manifestano disturbi metabolici, specie a carico del ricambio dei grassi e del calcio osseo, fino alla tendenza all’aumento di peso e alla comparsa dell’osteoporosi nei soggetti predisposti.
  La farmacologia clinica ha prodotto numerose soluzioni a questi problemi di natura sia psicologica e comportamentale che fisica, tanto per la menopausa quanto per l’andropausa, e tra queste le più adottate sono la terapia ormonale sostitutiva in entrambi i sessi, e quella per la disfunzione erettile nell’uomo. E’ innegabile che in entrambi i casi le terapie devono essere personalizzate e calibrate con estrema attenzione, tenendo conto non solo della presenza di patologie concomitanti a carico dei vari organi ed apparati, ma anche delle predisposizioni sotto forma di disfunzioni latenti, che potrebbero esitare verso quelle patologie degenerative che sono proprie dell’età avanzata.
  In assenza di controindicazioni relative ed assolute, la terapia ormonale in menopausa a basse dosi e con la giusta scelta delle combinazioni ormonali e della via di somministrazione, se eseguita con attenzione e con i dovuti controlli periodici, rappresenta un caposaldo che offre un sicuro beneficio, non solo per i sintomi fisici ma anche per l’effetto psicologico che produce. Purtroppo il suo impiego è stato limitato a causa di un’informazione che ha amplificato in modo esagerato i possibili rischi e minimizzato i benefici che si ottengono dal suo impiego attento e personalizzato, e questo soprattutto nella donna.
 Nell’uomo la graduale riduzione dei livelli di testosterone si accompagna con sintomi meno vistosi ed improvvisi, tuttavia anch’essi carichi di disagio e di sofferenza. Gli organi ed apparati dove l’azione del testosterone è rilevante sono: il sistema nervoso, lo scheletrico, quello muscolare, il cardiocircolatorio e la cute. Si registrano anche alterazioni dell’umore e della funzione cognitiva, con facile irritabilità, nervosismo, depressione, insonnia e sensazione di malessere generale; inoltre scarsa capacità di concentrazione, deficit della memoria a breve termine, carenza di energia e forza fisica, riduzione graduale del desiderio sessuale e della capacità di ottenere e mantenere l’erezione. Si possono rilevare anche una diminuzione della massa muscolare, aumento del grasso a livello addominale ed osteoporosi con maggiore rischio di fratture. Altri effetti metabolici della carenza di testosterone sono rappresentati da modificazioni dei livelli del colesterolo, specie della frazione ad alta densità (HDL), con conseguente aumento del rischio di patologie cardiovascolari.
  La terapia con basse dosi di testosterone sotto forma di gel per via transcutanea o per via parenterale di preparati a lento assorbimento somministrati con lunghi intervalli, giova molto e ristabilisce una condizione di salute psico-fisica soddisfacente. Il trattamento dovrà essere monitorato con estrema attenzione, con frequenti esami clinici e di laboratorio per verificare specialmente i livelli di colesterolo, del testosterone e della sua proteina vettrice (SHBG) e del PSA. L’impiego del Sildenafil Citrato e derivati per la terapia della disfunzione erettile in andropausa, a dosi appropriate e con estrema attenzione agli effetti collaterali, specie quelli dovuti ad interazioni con altri farmaci, ha indubbiamente cambiato la condizione di benessere e la vita di relazione dell’anziano.
Il confronto tra menopausa ed andropausa va quindi considerato in termini temporali e fisiologici ma, quando si rende necessario, con il tentativo di ristabilire quell’equilibrio  alterato  dal dissesto ormonale, che è causa di molteplici disturbi psico-fisici. Questa carenza deve essere ricomposta per riguadagnare il benessere, la gioia di vivere, il gradimento della propria immagine e la capacità di relazionarsi con gli altri.
  Va ricordato che, come più volte affermato dagli esperti, le terapie ormonali sostitutive sono state studiate a lungo e presentano profili di sicurezza superiori a quelli di farmaci di largo impiego e simili a quelli delle preparazioni da banco vendute senza ricetta medica.
 
                                                                                                          (Salvatore Mancuso)
 
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Politica

DEMOCRAZIA COMUNITARIA: UNA VIA NUOVA PER UNA META ANTICA

Centosette: li ho contati con puntiglio, per curiosità, e tanti sono stati, fino a questa mattina, gli amici che, incontrandomi  o scrivendomi, in queste ultime settimane, mi hanno chiesto: Ma chi è in realtà Democrazia Comunitaria, che sentiamo citare o vediamo prendere posizione su questo o quel problema della società, della politica, dell’umanità?
 
Rispondo una volta per tutte e in modo scritto e formale, dopo averlo spiegato tante volte in modo verbale e informale a molti fra gli amici citati. Democrazia Comunitaria è Una nuova via per una meta antica”.
 
Si occupa di politica, Democrazia Comunitaria? Sì, ma anche semplicemente di società, di  umanità, di cultura, di valori condivisi e di solidarietà.
 
La sintesi ideale che Democrazia Comunitaria considera come suo riferimento di visione e missione è quella espressa nella frase che mi avete sentito ripetere, o mi avete visto riscrivere, più volte, in più di un documento: si chiama Umanesimo plenario. E, come sottotitolo interpretativo, Per tutto l’uomo e per tutti gli uomini”. Le espressioni furono coniate da Paolo VI, un grandissimo uomo e un grandissimo papa. Le trovate anche come sottotitolo di studisociali.org. E, se ci pensate, sono pregnantissime.
 
“Allora siete cattolici, tutti voi di Democrazia Comunitaria”, mi direte. Molti di noi sì, lo sono; altri no: personalmente sono credente e cattolico, e praticante, come la maggior parte di noi, ma fra i nostri e miei amici di ideali annoveriamo anche persone di sensibilità culturale laico-repubblicana (in particolare della tradizione mazziniana), o laico-liberale (in particolare della tradizione einaudiana) o laico-socialista (in particolare della tradizione pertiniana) e altri ancora. Uniti però tutti da alcuni connotati specifici di opzione morale e politica nella concezione dell’umanità, della società e della politica.
 
Il fatto centrale, in fondo, non è la novità delle cose che diciamo, le quali sono in verità antichissime. E’ invece il fatto che siamo decisamente “quelli dei puntini sulle i, come modo di concepire sia la Democrazia sia la Comunità, cioè le parole presenti nel nostro nome, e tutto il programma che ci sta dentro, e soprattutto i comportamenti conseguenti. E più precisamente, per citare alcuni di tali “puntini sulle i”:
 
Primo puntino sulle i: la democrazia è un valore essenziale ma a condizione che anche le minoranze e le singole persone vengano sempre rispettate, ascoltate e valorizzate; la democrazia che si limiti a ritenere che la maggioranza può decidere e basta, è un tradimento del valore di democrazia: questa è tale se, pur consentendo alla maggioranza di decidere, come è necessario e alla fine giusto, attribuisce valore centrale alla persona e riconosce a proprio fondamento valori che neppure la maggioranza può violare: come la libertà di pensiero e di religione, la libertà di voto, la libertà di candidarsi alle elezioni, il valore integrale di ogni vita umana, e così via; insomma, ad esempio, la democrazia che, fosse pure con ineccepibile scelta di solida maggioranza, decidesse che è vietato criticare un governo in carica, non sarebbe affatto democrazia e non sarebbe affatto legittima.
 
Secondo puntino sulle i: l’aggettivo Comunitaria significa che la persona, centro di imputazione di tutti i diritti e di tutti i doveri, non nasce, non si sviluppa, non si realizza, se non nel contesto naturale e armonico e solidale di una comunità, cioè insieme con gli altri: e gli altri sono innanzitutto la famiglia naturale, e dopo di essa via via la comunità locale in cui si vive,  la comunità statale di cui si è cittadini, l’umanità intera, la propria comunità religiosa di appartenenza, la comunità della impresa nella quale si lavora, il proprio eventuale sindacato, e insomma tutti i luoghi nei quali la persona realizza e sviluppa appunto pienamente sestessa insieme con altre persone. La persona, in questo quadro, è il centro di tutto ed ha diritti inderogabili ma ha parimenti doveri assolutamente inderogabili, quali il rispetto del bene comune, il rispetto degli ambienti pubblici, il pagamento delle tasse in misura equa, la solidarietà sociale, e così via.
 
Terzo puntino sulle i: l’economia e il lavoro sono binomio inscindibile di efficienza e dignità di una società. Inscindibili, avete capito? Non c’è una economia che non produca lavoro, e non c’è un lavoro che non generi una economia. Cioè, non c’è una economia legittima se è economia di finanza speculativa,  non c’è un lavoro legittimo se è lavoro puramente nominale, cui corrisponde una mera rendita o un ruolo parassitario. Il diritto al lavoro è assoluto, ma anche il dovere al lavoro lo è. Il lavoro è dunque per definizione produttivo, cioè utile, mai parassitario. L’impresa deriva dal lavoro e non viceversa. L’impresa a sua volta ha diritto a nascere e svilupparsi avendo a riferimento una burocrazia autorizzativa, fiscale, di controlli, etc., semplici, snelle, trasparenti. Il diritto di fare impresa non è soggetto a capricci autorizzativi o di veto di alcuna burocrazia nè statale né locale: ha solo l’obbligo di rispettare i suoi doveri fiscali, ambientali, sociali. E di essere partecipativa, cioè connotata da cointeressenza, anche economica, fra tutti quelli che vi operano; cioè olivettiana, se così volete chiamarla.
 
Quarto puntino sulle i: la scuola e la formazione sono diritto e dovere di tutti, anch’esse, ed hanno impronta umanistica per tutti. Le tecniche sono indispensabili, con le conseguenti competenze, ma seguono l’umanità, e mai viceversa. Ci interessano le persone, non i robot. Questi li inventiamo e li usiamo ma semplicemente come macchine che ci aiutano, alla stregua della lavatrice o del sistema di allarme in casa. E inoltre la scuola e la formazione sono per tutte le età, non soltanto per quella giovanile.
 
Quinto puntino sulle i: la famiglia e la solidarietà sono centro fondativo della società. La famiglia è quella naturale prevista dalla costituzione italiana, dal diritto naturale e dalla dottrina sociale della Chiesa. La famiglia naturale va protetta, favorita, sostenuta e, ove occorra, vigilata, non sostituita né abolita.
 
Sesto puntino sulle i: la dimensione internazionale. Basta con la vuota retorica europeista e internazionalista. L’Europa non è un bene in sé: l’Europa è un bene in quanto si comporti da paradigma del processo verso il mondo unito, che è il nostro ideale. Come era per i padri fondatori. Sono europeista da sempre. Eravamo bambini, quando ci insegnarono a essere europeisti. Ma ci insegnarono ideali di condivisione, non affari in comune. Sì, di condivisione, proprio come dice il mio amico di studi salesiani Nunzio Saviana. E l’Italia si chiamava Italia, non Italy. E si imparavano le lingue reciproche, non una lingua unica (per giunta brutta) con la quale vedo che anche voi spesso volete continuare a ingurgitare modelli mentali e culturali spesso obbrobriosi e monodimensionali. Fatela finita.
 
Settimo puntino sulle i: la natura casa comune. Il vincolo del rispetto ambientale non conosce né privilegi né eccezioni. Non è concepibile alcun diritto di costruzione, di qualsiasi tipo, se non corredata da proporzionale superficie a verde. E il rispetto della natura comprende il rispetto della vita animale come di tutta la vita e di ogni singola vita. Gli animali vanno protetti come bene comune: protetti dalla immaturità, dalla crudeltà e dalla imbecillità criminale di troppi cittadini.
 
Ottavo puntino sulle i: il diritto, la giustizia, l’efficienza amministrativa. Alla base hanno una legislazione semplice. Il tradimento attuale del sistema legislativo e normativo italiano nei confronti dei cittadini italiani è colpevole e dovuto alla irresponsabilità e inadeguatezza grave della classe politica. La legislazione, in particolare, va assolutamente semplificata. Assolutamente. Come pure l’amministrazione della giustizia e le sue procedure. Come pure il fisco e i suoi adempimenti. Come pure la normativa elettorale, che deve restituire ai cittadini il potere di scegliere persone, non simboli  o liste.
 
Nono puntino sulle i: i melensi luoghi comuni categorizzanti. Non ci sono uomini e donne, ma persone. Non ci sono ceti medi e ceti alti o bassi, ma persone. Non ci sono “nordici” e “sudici”, ma persone. Non ci sono autonomie differenziate, ma l’autonomia di ogni persona e di ogni comunità, uguale in un paese di cittadini e di comunità uguali. Non ci sono imprenditori e lavoratori, ma persone che lavorano. E così via.
 
Ma il nono puntino sulle i è il più importante di tutti. Infatti molti di voi mi diranno (e mi hanno già detto): Se Democrazia Comunitaria è come tu dici, allora ci piace, e vogliamo farne parte. Ebbene, non vi voglio. Non vi voglio se appartenete alle aberranti categorie oggi zavorranti intorno a noi, che formano le schiere cialtronesche di quanti, sedicenti di ispirazione cattolica o laica che siano, tronfi di una lingua lunghissima quanto mal governata, sono bravissimi nel ripetere forbite prediche pseudo-politiche o pseudo-religiose agli altri, razzolando poi malissimo nei comportamenti personali. Il nono puntino sulle i è proprio questo: Democrazia Comunitaria è un raggruppamento, od organizzazione, od ordine, o partito, o gruppo, o come decideremo alla fine di chiamarla, caratterizzato dalla necessità assoluta, in chi vi aderisce, di comportamenti personali ineccepibili, e di ineccepibile cultura delle regole. Ho definito monastico e militare, nel senso più bello e più alto, il modello organizzativo e politico di Democrazia Comunitaria: monastico quanto a elevatezza etica dei comportamenti, militare quanto a spirito di comunità, ad attenzione al bene comune, e anche, perché no, a spirito di corpo nel senso, anche qui, di cultura ineccepibile delle regole e della solidarietà (solidarietà che non è mai connivenza, come devo precisare per i troppi analfabeti che, drogati dall’anglofonia, hanno dimenticato il senso corretto delle parole in lingua italiana). Se tu che leggi sei di quelli che predicano la elezione interna dei capi con voto segreto salvo riservarti di essere personalmente eletto per acclamazione, non fai per noi. Non venire in Democrazia Comunitaria. Non ti vogliamo. Se predichi la meritocrazia nella gestione dei concorsi pubblici e poi operi per corrompere la graduatoria del concorso e far entrare tua nuora a spese di un concorrente migliore che non ha santi in paradiso, non fai per noi. Non ti vogliamo. Te lo ripeto con chiarezza, non ti vogliamo. Vai a cercare dimora politica e morale altrove. Ti offriremo il caffè senza inimicizia personale, ma non sei ammesso in Democrazia Comunitaria.
 
Adesso, però, amici che leggete, fatela finita. Fatela finita con il tornare a chiedermi cosa è Democrazia Comunitaria. Perché non vi risponderò più. Democrazia Comunitaria è quello che vi ho appena sintetizzato, e tutto ciò che di ulteriore vi ho spiegato anche per scritto tante altre volte, in documenti che molti di voi hanno certamente letto e che risalgono anche a qualche anno fa, e anche più indietro. Democrazia Comunitaria non vuole morire di chiacchiere retoriche, ma vuole vivere di comportamenti civici, politici e umani, elevati; anzi, pienamente umanistici nel senso già detto: “per tutto l’uomo e per tutti gli uomini”.
 
                                                                                                                             Giuseppe Ecca
 
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Democrazia Comunitaria

"AUTONOMIE DIFFERENZIATE": E' CONFUSIONE CHE RESPINGIAMO

Viene chiesto a Democrazia Comunitaria, da diversi amici, di esprimere una posizione anche formale in materia di “autonomie differenziate”, oggetto di crescente dibattito politico e di conseguenti polemiche, in questo periodo, fra i diversi partiti.
 
Si tratta di un tema sul quale Democrazia Comunitaria ha in corso una elaborazione compiuta di analisi e proposta, ma non vi sono dubbi circa la sempre confermata sua posizione sostanziale in materia generale di autonomie, da cui è in realtà facile, anzi facilissimo, desumere quella specifica in materia di “autonomie differenziate”: Democrazia Comunitaria è assolutamente contraria al principio delle autonomie differenziate.
 
La ragione di tale contrarietà è logica, politica e culturale insieme: in un mondo sempre più globalizzato e sempre più interconnesso, in cui dunque anche l’Italia è sempre più globalizzata e interconnessa, le autonomie sono un immenso valore di democrazia, di personalismo, di solidarietà e sussidiarietà, e proprio per questo devono essere più che mai vere, forti, sostanziali, facilmente praticabili, tali da rinforzare uguaglianza, solidarietà e potere partecipativo fra cittadini nei confronti dello Stato: non devono invece mai essere fonte e pretesto di separatezza confonditrice fra normative e condizioni di cittadinanza. Le autonomie differenziate in effetti frantumano, dividono, differenziano appunto, e corrompono.
 
In altri termini: l’autonomia non è mai la libertà di vivere una condizione di diversità normativa o economica, più favorevole o meno favorevole, fra cittadini. E’ del tutto impensabile, ad esempio, che esistano procedure e oneri diversi, per il cittadino, in materia di accesso al servizi sanitario nazionale o alla scuola; è del tutto impensabile (come invece capita) che un certificato medico valga in Toscana e non valga in Puglia; è del tutto impensabile che in un liceo della Sardegna sia previsto il voto di condotta e in un liceo del Veneto no. Il cittadino italiano ha gli stessi diritti e gli stessi oneri in qualunque regione viva. Ma in qualunque regione viva (ed in qualunque comune, per alcuni profili della cittadinanza) il cittadino attraverso gli istituti di autonomia concorre più direttamente alla gestione di diritti e oneri, e al loro miglioramento. La comune italianità solidale di tutti non è indebolita, la personalità di ciascun cittadino, come singolo e come gruppi intermedi cui appartenga, è valorizzata dovunque egli viva.
 
In questo quadro, anzi, DemocraziaComunitaria conferma anche che è ormai maturato il tempo di abolire la differenziazione storica fra regioni ad autonomia speciale e regioni ad autonomia ordinaria: tutte le regioni devono essere ricondotte alla medesima autonomia ordinaria prevista dalla Costituzione repubblicana, perché sono radicalmente superate le ragioni storiche che motivarono nel 1948 la nascita delle autonomie speciali in capo ad alcune di esse (Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, e successivamente anche Friuli Venezia Giulia). Del resto, i semplici dati storici confermano che Sicilia e Sardegna, ad esempio, si sono servite della loro autonomia speciale per accrescere corruzione e inefficienza, mentre Veneto ed Emilia, ad esempio, si sono servite della loro autonomia ordinaria per realizzare il loro grande cammino di crescita. E’ problema di cultura e di buon uso delle autonomie, non di differenziazione delle autonomie! Lo dico anche da orgogliosamente sardo, immarcescibilmente sardo, testardamente sardo, entusiasticamente sardo, e sdegnosamente deciso a non avere connivenze con la parte marcia e corrotta della mia isola, vergognosamente e vigliaccamente nascosta nella retorica dell’autonomia speciale per continuare le sue abitudini parassitarie e le sue malcondotte amministrative.
 
Le regioni devono piuttosto, a prescindere dalla tipologia di autonomia definita in capo ad esse,  venir sottoposte (cosa che finora non è stata fatta) a più efficaci ed effettivi diritti di intervento, controllo e partecipazione da parte dei Comuni e dei cittadini, e dello stesso Stato, in materia di gestione delle risorse finanziarie ed economiche: infatti la notevolissima, e probabilmente eccessiva, mole di risorse che la stessa autonomia ordinaria affida alle regioni attualmente si è palesata densa di effetti corruttivi e di sprechi ampi e generalizzati. Vanno ridotti questi, non differenziata l’autonomia!
 
Né questa affermazione può essere, come tenta di essere, una scusa per cercar di mantenere in  piedi le province, che avrebbero dovuto essere abolite fin dal 1970 in quanto anche per esse sono del tutto superate  le ragioni storiche della loro esistenza: le province furono la creazione di un modello di decentramento burocratico-prefettizio dovuto alle precise e limitanti condizioni storiche in cui l’Italia venne a trovarsi nell’immediato post-risorgimento. Condizioni determinate contingentemente dalla improvvisa morte di Cavour e, con lui, del suo progetto naturalmente regionale, nonché dal conseguente indebolimento ed anche smarrimento della classe dirigente politica, che dovette orientarsi a un decentramento di fatto puramente burocratico, da affidare sostanzialmente alle prefettura come emanazione del potere centrale in funzione essenzialmente di controllo dell’unità nazionale ancora non consolidata. Del resto, anche sul piano psicologico, storico e culturale, uno si sente toscano e fiorentino, non si sente “della provincia di Firenze”; si sente sardo e di Orgosolo, non si sente “della provincia di Nuoro”; si sente “lombardo e milanese”, non “della provincia di Milano”. Le provincie non hanno identità, sono solo partizioni amministrative. E, ancora, chi pensi con attenzione troverà che nel periodo del loro maggior ruolo esse non furono certo una realtà meno clientelare e corrotta e burocratizzata dei comuni e dei ministeri.
 
Insomma, le autonomie sono un valore vero e doveroso e grande di potere partecipativo dei cittadini, non un pretesto per frantumare ancora di più il paese né per rinforzare corporazioni e potentati locali finalizzati all’acquisizione di ulteriori privilegi o alla ulteriore evasione dagli oneri della più complessiva comunità e solidarietà nazionale.
 
                                                                                                                             (Giuseppe Ecca)
 
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Democrazia Comunitaria

"AUTONOMIE DIFFERENZIATE": E' CONFUSIONE CHE RESPINGIAMO

Viene chiesto a Democrazia Comunitaria, da diversi amici, di esprimere una posizione anche formale in materia di “autonomie differenziate”, oggetto di crescente dibattito politico e di conseguenti polemiche, in questo periodo, fra i diversi partiti.
 
Si tratta di un tema sul quale Democrazia Comunitaria ha in corso una elaborazione compiuta di analisi e proposta, ma non vi sono dubbi circa la sempre confermata sua posizione sostanziale in materia generale di autonomie, da cui è in realtà facile, anzi facilissimo, desumere quella specifica in materia di “autonomie differenziate”: Democrazia Comunitaria è assolutamente contraria al principio delle autonomie differenziate.
 
La ragione di tale contrarietà è logica, politica e culturale insieme: in un mondo sempre più globalizzato e sempre più interconnesso, in cui dunque anche l’Italia è sempre più globalizzata e interconnessa, le autonomie sono un immenso valore di democrazia, di personalismo, di solidarietà e sussidiarietà, e proprio per questo devono essere più che mai vere, forti, sostanziali, facilmente praticabili, tali da rinforzare uguaglianza, solidarietà e potere partecipativo fra cittadini nei confronti dello Stato: non devono invece mai essere fonte e pretesto di separatezza confonditrice fra normative e condizioni di cittadinanza. Le autonomie differenziate in effetti frantumano, dividono, differenziano appunto, e corrompono.
 
In altri termini: l’autonomia non è mai la libertà di vivere una condizione di diversità normativa o economica, più favorevole o meno favorevole, fra cittadini. E’ del tutto impensabile, ad esempio, che esistano procedure e oneri diversi, per il cittadino, in materia di accesso al servizi sanitario nazionale o alla scuola; è del tutto impensabile (come invece capita) che un certificato medico valga in Toscana e non valga in Puglia; è del tutto impensabile che in un liceo della Sardegna sia previsto il voto di condotta e in un liceo del Veneto no. Il cittadino italiano ha gli stessi diritti e gli stessi oneri in qualunque regione viva. Ma in qualunque regione viva (ed in qualunque comune, per alcuni profili della cittadinanza) il cittadino attraverso gli istituti di autonomia concorre più direttamente alla gestione di diritti e oneri, e al loro miglioramento. La comune italianità solidale di tutti non è indebolita, la personalità di ciascun cittadino, come singolo e come gruppi intermedi cui appartenga, è valorizzata dovunque egli viva.
 
In questo quadro, anzi, DemocraziaComunitaria conferma anche che è ormai maturato il tempo di abolire la differenziazione storica fra regioni ad autonomia speciale e regioni ad autonomia ordinaria: tutte le regioni devono essere ricondotte alla medesima autonomia ordinaria prevista dalla Costituzione repubblicana, perché sono radicalmente superate le ragioni storiche che motivarono nel 1948 la nascita delle autonomie speciali in capo ad alcune di esse (Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, e successivamente anche Friuli Venezia Giulia). Del resto, i semplici dati storici confermano che Sicilia e Sardegna, ad esempio, si sono servite della loro autonomia speciale per accrescere corruzione e inefficienza, mentre Veneto ed Emilia, ad esempio, si sono servite della loro autonomia ordinaria per realizzare il loro grande cammino di crescita. E’ problema di cultura e di buon uso delle autonomie, non di differenziazione delle autonomie! Lo dico anche da orgogliosamente sardo, immarcescibilmente sardo, testardamente sardo, entusiasticamente sardo, e sdegnosamente deciso a non avere connivenze con la parte marcia e corrotta della mia isola, vergognosamente e vigliaccamente nascosta nella retorica dell’autonomia speciale per continuare le sue abitudini parassitarie e le sue malcondotte amministrative.
 
Le regioni devono piuttosto, a prescindere dalla tipologia di autonomia definita in capo ad esse,  venir sottoposte (cosa che finora non è stata fatta) a più efficaci ed effettivi diritti di intervento, controllo e partecipazione da parte dei Comuni e dei cittadini, e dello stesso Stato, in materia di gestione delle risorse finanziarie ed economiche: infatti la notevolissima, e probabilmente eccessiva, mole di risorse che la stessa autonomia ordinaria affida alle regioni attualmente si è palesata densa di effetti corruttivi e di sprechi ampi e generalizzati. Vanno ridotti questi, non differenziata l’autonomia!
 
Né questa affermazione può essere, come tenta di essere, una scusa per cercar di mantenere in  piedi le province, che avrebbero dovuto essere abolite fin dal 1970 in quanto anche per esse sono del tutto superate  le ragioni storiche della loro esistenza: le province furono la creazione di un modello di decentramento burocratico-prefettizio dovuto alle precise e limitanti condizioni storiche in cui l’Italia venne a trovarsi nell’immediato post-risorgimento. Condizioni determinate contingentemente dalla improvvisa morte di Cavour e, con lui, del suo progetto naturalmente regionale, nonché dal conseguente indebolimento ed anche smarrimento della classe dirigente politica, che dovette orientarsi a un decentramento di fatto puramente burocratico, da affidare sostanzialmente alle prefettura come emanazione del potere centrale in funzione essenzialmente di controllo dell’unità nazionale ancora non consolidata. Del resto, anche sul piano psicologico, storico e culturale, uno si sente toscano e fiorentino, non si sente “della provincia di Firenze”; si sente sardo e di Orgosolo, non si sente “della provincia di Nuoro”; si sente “lombardo e milanese”, non “della provincia di Milano”. Le provincie non hanno identità, sono solo partizioni amministrative. E, ancora, chi pensi con attenzione troverà che nel periodo del loro maggior ruolo esse non furono certo una realtà meno clientelare e corrotta e burocratizzata dei comuni e dei ministeri.
 
Insomma, le autonomie sono un valore vero e doveroso e grande di potere partecipativo dei cittadini, non un pretesto per frantumare ancora di più il paese né per rinforzare corporazioni e potentati locali finalizzati all’acquisizione di ulteriori privilegi o alla ulteriore evasione dagli oneri della più complessiva comunità e solidarietà nazionale.
 
                                                                                                                             (Giuseppe Ecca)
 
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Lavoro

ATTENZIONE AI COMPUTERS AZIENDALI: UN CASO DI GIUSTO LICENZIAMENTO

Il computer aziendale è un bene, appunto, “aziendale”: va usato per il lavoro aziendale. Ed è diritto dell’azienda verificare, a certe condizioni, che così effettivamente avvenga. Manuela Lupi spiega e commenta una interessante sentenza della Corte di Cassazione.
 
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Con sentenza n. 13.266 del 2018, la Corte di Cassazione ha precisato che il controllo datoriale, attraverso un’indagine retrospettiva di carattere informatico sull’utilizzo del computer fornito in dotazione al dipendente, non viola la normativa sui controlli a distanza con la quale l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori tutela i lavoratori stessi.
 
In particolare, non rientrano nel campo di tutela dello Statuto dei lavoratori le verifiche effettuate dal datore di lavoro tramite il tracciamento informatico, quando siano dirette ad accertare comportamenti illeciti del dipendente che determinino un effetto lesivo sul patrimonio aziendale e sull’immagine dell’impresa. Ne consegue che i dati raccolti in un’indagine sull’utilizzo del computer da parte del dipendente possono essere validamente posti a fondamento di un licenziamento disciplinare.
 
Il caso de quo riguardava un lavoratore sorpreso dal direttore tecnico dell’impresa ad utilizzare il computer per finalità ludiche, così che la società aveva effettuato un’indagine retrospettiva sulle attività che il dipendente aveva svolto anche nelle settimane precedenti avvalendosi dello stesso computer. Poiché i riscontri avevano consentito di appurare un ampio ricorso al computer per giocare, il dipendente veniva sottoposto a contestazione disciplinare sfociata nel licenziamento
 
Al licenziamento il lavoratore si era opposto sul presupposto che i riscontri erano intervenuti in aperta violazione della disciplina che impone un previo accordo sindacale o, in difetto di questo, l’autorizzazione dell’Ispettorato. 
 
La Cassazione ha escluso che la raccolta dei dati da parte dell’azienda sia avvenuta in violazione dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, in quanto il monitoraggio non riguardava l’esatto adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di lavoro bensì la tutela di beni estranei al contratto di lavoro in sé.
 
Il necessario bilanciamento tra l’esigenza datoriale di proteggere gli interessi e i beni aziendali, e le tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, comporta che l’uso degli strumenti di controllo avvenga in base a principi di ragionevolezza e proporzionalità, essendo necessario che il lavoratore sia stato previamente informato dal datore del possibile controllo delle sue comunicazioni. Ne consegue che, se i dati personali dei dipendenti relativi alla navigazione in internet, alla posta elettronica o alle utenze telefoniche da essi chiamate, sono estratti con lo scopo di tutelare beni estranei al rapporto di lavoro, tra cui rientrano il patrimonio e l’immagine aziendali, i dati acquisiti possono essere legittimamente utilizzati in funzione disciplinare contro il lavoratore.
                                                                              
                                                                                                                                                    (Manuela Lupi)
 
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Politica

DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA E DEMOCRAZIA DIRETTA SONO ALTERNATIVE?

Da un lato la necessità di rinnovamento dei partiti politici affinchè tornino a saper essere luoghi di interpretazione, partecipazione e mediazione degli interessi in una visione di bene comune costantemente discussa fra i cittadini e con i cittadini, dall’altro l’arricchimento della macro-democrazia, che esprime le istituzioni di rappresentanza e governo generale (parlamento, sindaci, etc.) con elementi diffusi di micro democrazia che offra al cittadino la possibilità di forme partecipative sostanziali anche a livello di scuola, sindacato, economia, servizi pubblici, etc. E’ su questo duplice e contestuale piano di azione che si snoda in sostanza la proposta di Giuseppe Bianchi, riprendendo per aspetti importanti quella riflessione più generale di analisi che Giuseppe De Rita, per il Censis, ha definito più volte intorno al concetto di “crisi della intermediazione sociale e politica”.
 
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La crisi dei  sistemi democratici che tocca buona parte dei paesi occidentali è per lo più riportata nel dibattito pubblico alle crescenti diseguaglianze provocate da una globalizzazione priva di reti di protezione sociale. Un dato sicuramente influente, non esclusivo dell’attuale momento storico e non sufficiente a spiegare il crescente successo dei movimenti populisti la cui capacità di mobilitazione va ben oltre la rappresentanza dei cosiddetti svantaggiati.
 
Movimenti che si caratterizzano non tanto e non solo per le politiche sociali a riparazione dei torti subiti dalle fasce sociali più deboli quanto per l’attacco portato alle istituzioni della democrazia rappresentativa (partiti, sindacati...) in quanto parti di una “casta” privilegiata non più capace di interpretare la “voce del popolo”.
 
Un ribellismo, non di breve periodo come avvenuto altre volte nel passato, perché dietro questi movimenti ci sono trasformazioni strutturali che il sistema politico in atto ha saputo né cogliere né interpretare.
 
Un dato è costituito dalla disgregazione della società di massa, costola dell’industrializzazione di massa, che aveva creato le condizioni di crescita delle istituzioni rappresentative di massa (partiti, sindacati) la cui coesione sociale era sostenuta da fattori ideologici e da elitès intellettuali. Conseguenti, le spinte ad una maggiore individualizzazione dei bisogni e delle aspirazioni dei cittadini, peraltro coincidenti con la minor disponibilità di risorse pubbliche disponibili da parte degli Stati nazionali la cui sovranità è stata limitata da irreversibili processi di integrazione a livello sovranazionale.
 
Un ulteriore dato è di natura tecnologica. Lo sviluppo di internet e dei social ha dato vita a nuove reti di comunicazione tra i cittadini, non più intermediate da istituzioni rappresentative, all’interno delle quali aspirazioni incontrollate e pulsioni emotive alimentano, in via endogena, un nuovo populismo digitale. Un circuito di opinione pubblica che si forma nel recinto del web, indifferente alle tradizionali categorie politiche di destra e sinistra.
Un conflitto politico che si estende alle regole del gioco contrapponendo democrazia diretta a democrazia rappresentativa.
 

Questione antica che viene ora riproposta in termini di “democrazia elettronica” senza risolvere la contraddizione fra l’eguale diritto al voto dei cittadini e la disuguale capacità o volontà di partecipare alla vita politica (oggi più che mai complessa) aprendo la strada a manipolazioni da parte di minoranze attive.
 
D’altro canto va tenuto conto che è in particolar modo difficile oggi sollecitare una tale partecipazione responsabile dei cittadini in un contesto di democrazia rappresentativa debole nella capacità di governo, esposta ai condizionamenti delle burocrazie conservatrici, poco affidabile nelle sue promesse. Nello stesso tempo i cittadini sono frustrati da una offerta di servizi pubblici di prossimità (trasporti, cura del territorio) a volte indecenti in alcune grandi aree urbane, senza poteri di intervento per migliorare le loro condizioni di vita.
 
Le soluzioni sono implicite nella descrizione fatta: una democrazia rappresentativa “governante” e forme di controllo sociale dei cittadini sugli apparati burocratici che gestiscono, a livello locale, i servizi pubblici essenziali. Una forte democrazia rappresentativa è necessaria perché i cittadini non cadano sotto un potere autoritario ma non è sufficiente se non accompagnata da esperienze di micro-democrazie che diano voce e poteri agli stessi cittadini laddove sono in gioco interessi vitali.
 
Democrazia rappresentativa e forme di democrazia diretta vanno integrate in un progetto inclusivo di democrazia in grado di correggere la disgregazione sociale in atto e di valorizzare le potenzialità delle nuove tecnologie digitali per estendere il controllo sociale dei cittadini. La democrazia non è nel destino umano, come un codice genetico. E’ una costruzione politica che se non si rinnova rischia di autodistruggersi. Il popolo sovrano è una retorica politica in nome della quale si sono giustificati i peggiori autoritarismi. Ci sono i cittadini, nelle loro libere aggregazioni rappresentative, che devono divenire attori responsabili in una difficile transizione istituzionale in cui la macro-democrazia rappresentativa sia sostenuta e rinvigorita da esperienze di micro-democrazie a livello locale.
                                                                  
                                                                                                                                                      (Giuseppe Bianchi)
 
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Economia e società

L'UOMO DI MARKETING E LA VARIANTE LIMONE

Walter Fontana scrisse “L’uomo di marketing e la variante limone”, da cui traiamo il piccolo brano che segue, moltissimi anni fa, quando l’economia finanziarizzata aveva ormai già asservito di fatto l’economia reale, il dio dollaro aveva  già ucciso il valore persona, l’università aveva già tolto di mezzo il ricordo di Keynes, Olivetti era stato già espropriato da Debenedetti, a Bruxelles erano già insediati i bocconiani, l’uso dell’inglese commerciale aveva già soppiantato il buonsenso di tutte le lingue, il maestro di economia Federico Caffè non conversava più con gli studenti dell’Università, la buona condotta non veniva più considerata importante ai fini della promozione scolastica.
 
Fu allora che, come quasi sempre accade, di fronte ai disastrosi risultati di tanta “efficienza modernizzatrice”, cominciarono a manifestarsi anche i primi risvegli di coscienza, le prime analisi deluse sui risultati di tale intronizzazione dell’aziendalismo, i primi ripensamenti sulla dubitabile sapienza bocconiana, e sul marketing manipolativo, e sui diagrammi di budget... Walter Fontana fu testimone attivo e diretto di questo avvio di ripensamento.
 
A dire il vero si tratta di un movimento di ripensamento ancora in mare alto: ci vorrà ancora del tempo per compierlo, ci saranno ancora, come ci sono, tante resistenze. Ma intanto… accogliamo l’invito di Walter Fontana a considerare quanto si possa finir tristemente a idolatrare spread, andamento di borsa, Nasdac, burocrazia di Bruxelles, società di rating, marketing subliminale, e simili.
 
 
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L‘uomo di marketing si sente come un piede dopo ventiquattro ore di adidas torsion. Ha la testa gonfia di numeri, frasi e umori pestilenziali. Ne parlo in terza persona perché è come se mi vedessi dalla finestra di fronte con un cannocchiale, ma sono io l’uomo di marketing.
 
Sono ingorgato di carte, caffè, diagrammi, prodotti col loro prezzo. Scatolette con gli artigli per squartare il ventre della concorrenza, zerovirgola, schermate del computer.
 
Tutto interessante, tutto inutile.
 
L’uomo di marketing appoggia la testa contro una superficie qualsiasi. Visto dal cannocchiale sembra uno che ha avuto una notizia importante durante il giorno e adesso che è sera non se la ricorda più.
 
C’è un uomo in ogni uomo di marketing?
 
Intendo dire, milioni di anni fa è partito dallo stesso ceppo degli altri esseri umani o proprio nasce da una specie a parte? Forse è esistita una scimmia di marketing da cui derivo io.
 
Dico ai colleghi: risparmio energie, volevo fare il jazzista. Vado a casa e suono il jazz in un modo schifoso. Mi avrebbero fischiato pure i cani.
 
Quello che veramente voglio fare è: stare seduto davanti alla Tv a sgranocchiare caramelle senza zucchero, una dopo l’altra, sentire che si attaccano tutte insieme in un grumo sui molari di sopra. E poi staccarle con un colpo secco dei molari di sotto.
 
Questo è il mio ideale.
 
Oppure fare l’ospite in Tv per sempre, vivere il resto della vita in uno dei programmi della fascia pomeridiana che sono i più facili, un programma contenitore dove non devi fare niente. L’unica cosa che spero è che non mi diano mai il microfono, perché poi non c’è niente di più triste dell’ospite che ha finito di parlare e il conduttore si allontana e dice “passiamo ad altro”.
 
                                                                                                                             (Walter Fontana)
 

Politica

SE NON SI RIGENERA E' DESTINATA A DEGENERARE

 
 
Ugo Righi non è un politico e non dedica la parte prevalente del suo tempo alla politica, che io sappia: l’ho conosciuto molti anni fa come esperto e  consulente attento di azienda, di processi manageriali, di organizzazione d’imprese. Ma è anche cittadino sensibile: e in questa chiave ci invita a saper considerare la relativa novita’ dell’attuale governo Cinquestelle-Lega con la calma e la lucidità mentale dell’osservatore che studia prima di giudicare e di assumere posizione.
 
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Lo scenario politico attuale è interessante anche per riflettere sul tema del cambiamento e dell’innovazione.
 
Qualsiasi fosse stata la scelta del gruppo oggi al potere in Italia, sarebbe stata criticata; io non sono in grado di valutare se quello che avviene oggi sia il meglio rispetto a ieri, ma è evidente che è diverso da quello che c’era. Questo francamente mi piace: poi saranno i fatti a fornire indicazioni che potranno confermare le percezioni o smentirle.
 
Com’è successo per la guida di Roma: aveva creato tante attese positive, diventate delusione e rabbia a fronte del disastro, e di fronte allo sforzo patetico di non riconoscerlo come tale.
 
Ma una cosa è certa: se si fa sempre la stessa strada, si arriverà sempre allo stesso posto, se abbiamo sempre il medesimo comportamento, al massimo otterremo lo stesso risultato, e se facciamo sempre la stessa cosa erronea otterremo sempre risultati sbagliati. Anche se non c’è determinismo positivo nel fare diversamente.
 
E questo è il punto: faccio uguale e non rischio, mantenendo lo status quo, oppure faccio diversamente e rischio?
 
Il nuovo premier, Giuseppe Conte, ha un “copione” e questa cosa è criticata da chi è contro di lui. Io credo che il copione possa essere considerato come un piano strategico e che quindi rappresenti il cosa si vuole ottenere, che potremmo chiamare con linguaggio manageriale “scopo e obiettivi”.
 
Ma la strategia rappresenta il come, e questo è quello che fanno i vertici delle imprese. Ora, il “come” è legato al fatto che la via si fa con l’andare e quindi la strategia si realizza strada facendo.
 
Il programma è il tragitto e non può considerare a priori le variazioni e le complessità emergenti; e quindi fare una cosa giusta oggi non vuol dire che la stessa cosa lo sia anche domani: il mondo cambia e la strategia deve cambiare pur avendo chiaro il punto di arrivo. In ciò consiste il valore del comportamento strategico, in una rigenerazione permanente che considera lo scopo.
 

Questo è un principio generale: per mantenere qualcosa che abbiamo conquistato (nel business, nell’amicizia, nell’amore, con i genitori, con i figli, ecc.) bisogna rigenerarla continuamente perché se qualcosa non si rigenera è destinato a degenerare, e la generazione di un percorso innovativo attinge il suo senso dalla devianza dalla norma, dalla “trasgressione”.
 
La devianza è qualcosa che interviene in un processo che ha paradigmi interpretativi e comportamenti considerati normali per governare il proprio ambiente. L’evoluzione è un processo che trasforma il sistema in cui è nata la devianza: lo disorganizza e organizza mentre lo trasforma.
 
Quello che serve davvero è essere una squadra sintonizzata che ha un pensiero comune su cosa ottenere e poi, ripeto, la strategia si realizza giorno per giorno variando coerentemente i propri comportamenti, gestendo in modo intelligente il pregiudizio di chi è contro, che certamente osserverà  i momenti del processo che disorganizza e non quelli che riorganizza.
 
Le devianze, nel momento in cui si esprimono per il semplice fatto di nascere, sono frenate dal sistema e la loro affermazione è una lotta contro i difensori dell’invarianza, che vedono minacciata la loro sicurezza dai portatori delle novità. La storia insegna: tutte le persone che hanno segnato il cammino di trasformazioni profonde sono state devianti, fuori dal sistema e, molto spesso, perseguitate o ostacolate.
 
Io francamente non so se quello che avviene oggi sia meglio, solo che ho visto il peggio e quindi la speranza, ancora una volta, può nascere. Hanno voluto la bicicletta:devono pedalare: noi vediamo, ma non come spettatori passivi o sabotatori attivi.

                                                                                                                                                       (Ugo Righi)
 
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Democrazia Comunitaria

COME NON COMUNICARE, COME NON LEGIFERARE

 
Da anni immemorabili hanno confuso sempre di più la certezza del diritto con l’astruseria del diritto, la precisione del diritto con il bizantinismo del diritto, la positività del diritto con l’arbitrarietà del diritto.
 
Legiferano non “per tutti”, come dovrebbe essere, ma “per gli altri” (per loro ci sarà sempre un avvocato amico, a interpretare favorevolmente il guazzabuglio); legiferano spesso anche soltanto “per mettere le mani avanti” (l’importante è che loro abbiano messo per iscritto le cose: che queste siano comprensibili o no, è del tutto privo di importanza; si chiama “normazione difensiva”).
 
Ebbene, Democrazia Comunitaria è su una posizione opposta a tutto questo: sostiene che occorre assolutamente tornare a un linguaggio legislativo, e normativo in genere, completo ma anche semplice, cioè comprensibile da parte del “cittadino qualunque di buona volontà e di buona fede”. E ricorda che questo si può fare; basta:
a. studiare la lingua italiana;
b. mettersi nei panni dei cittadini;
c. non dimenticare la lezione degli antichi romani, secondo cui non c’è legge stupida quanto la legge difficile da capire o prolissa; e anche troppe leggi nessuna legge!
 
Eccovi, di seguito, un esempio di disastro della comunicazione normativa in cui versa la legislazione italiana, persino quando contenuta in una legge che di per sé dichiara ottime  intenzioni: se prendiamo infatti, ad esempio, la celebre “Riforma Biagi” in materia di lavoro, e andiamo al paragrafo 3 dell’articolo 19, leggiamo:
 
“3. La violazione degli obblighi di cui all’articolo 4-bis, commi 5 e 7, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n.181, così come modificato dall’articolo 6, comma 1, del decreto legislativo 19 dicembre 2002, n.297, di ci all’art. 9-bis, comma 2, del decreto-legge 1° ottobre 1996, n.608, così come sostituito dall’art. 6, comma 3, del citato decreto legislativo n.297 del 2002, e di cui all’art. 21, comma 1, della legge 24 aprile 1949, n.264, così come sostituito dall’art.6, comma 2, del decreto legislativo n.297 del 2002, è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 500 euro per ogni lavoratore interessato”.
 
Buona digestione a voi… Scommetto che quando vi siete laureati in giurisprudenza, lungo gli almeno quattro anni del vostro corso di laurea, nessuno dei professori vi ha mai neppure citato questo semplice problema di civiltà giuridica.
 
Democrazia Comunitaria è da un’altra parte.
      
                                                                                                                                                  (Giuseppe Ecca)


 
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Libri

L'OMBRA DELLE FOIBE, LA LUCE DEGLI EROI

La ferita profonda e sanguinante del destino che è toccato a Istria e Dalmazia a seguito delle vicissitudini del fascismo e della seconda guerra mondiale non si è mai rimarginata del tutto, nonostante la relativa saggezza con la quale l’Italia e le nuove repubbliche della ex-Iugoslavia hanno evitato di radicalizzarla. L’atroce destino di queste terre fu appunto deciso da due dittature: il fascismo e la sua maledetta seconda guerra mondiale da un lato, il comunismo e la sua maledetta persecuzione antitaliana e antireligiosa dall’altro.
 
Mario Ravalico, autore di “Don Francesco Bonifacio assistente dell’Azione Cattolica fino al martirio”, è egli stesso un diretto testimone della vicenda storica accennata, essendo istriano, precisamente di Pirano, e triestino di adozione a seguito della lacerante separazione di Pirano dall’Italia. Egli racconta la vicenda di un giovane prete del quale appena qualche anno fa si è celebrata nella Chiesa la conclusione del processo di beatificazione, motivato proprio dalla testimonianza cristiana da lui portata fino al martirio, che, nelle terribili vicende succedute appunto al termine della guerra mondiale (e basti citare la memoria delle foibe) egli seppe dare da autentico prete di vocazione totale. Fu ucciso, questo giovane sacerdote che testimoniava Gesù Cristo con la carità riversata a piene mani ed a pieno cuore su tutti indistintamente, fu ucciso brutalmente nel quadro di quelle demoniache retate che colpivano senza pietà chiunque manifestasse, appunto, italianità o religiosità. L’autore del libro ci reimmette vividamente proprio in quella bruciante temperie storica, e lo fa attraverso testimonianze, documenti, fotografie e analisi critiche di grande interesse. Ricordandoci che gli eroi sono tra noi anche nei momenti bui della storia.
 
Un libro che merita di essere letto affinchè più acuta sia la nostra consapevolezza storica e umana, e più sensibile la nostra responsabilità per il futuro di giustizia e pace durature ancora da costruire, in quelle terre e dovunque.
 
Don Francesco Bonifacio Assistente dell’Azione Cattolica fino al martirio. Autore: Mario Ravalico. Editrice Ave, anno 2016, prezzo euro 20, 00.
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Cultura e politica

LA DIMENTICANZA PIU' GRAVE QUANDO SI PARLA DI DEMOCRAZIA CRISTIANA

Bartolo Ciccardini (molti di noi lo hanno conosciuto personalmente) non era uno dei più eminenti personaggi della politica, nella storia della prima repubblica: era tuttavia personalità di spicco, di rilievo nazionale, più volte parlamentare, rappresentativo di quella realtà più specifica che, dentro la Democrazia Cristiana, veniva chiamata “corrente fanfaniana” (se ricordo bene). Personalità attenta sul piano culturale, acuta sul piano politico, non scevra da combattività e iniziativa coraggiosa.
 
Nei lunghi anni di travaglio seguiti alla fine del suo partito storico, Bartolo Ciccardini  mi pare non sia mai confluito in altre formazioni politiche, più o meno vicine che fossero all’antica matrice democristiana. Non ha però mai rifiutato di offrire le sue analisi e le sue testimonianze a chi lo chiamava a farlo, e in questo la sua riflessione rappresenta tuttora un elemento non soltanto interessante in sestesso, ma di una qualità di analisi che lo pone ampiamente al disopra del miserevole livello culturale che caratterizza, in tutti i partiti odierni, la politica italiana. Prima di morire intervenne fra l’altro, nel 2016, a uno dei convegni con i quali molti di noi cercavano di accelerare il processo di ricostituzione di una grande forza politica di ispirazione cristiana da proporre all’Italia, incontrando regolarmente frantumazione e inefficacia di esiti: e proprio sull’analisi di questa difficoltà la lucidità e l’equilibrio del vecchio uomo politico si palesarono ancora pienamente. Riproponiamo quell’intervento quasi a commento meditativo della tornata elettorale europea appena svoltasi.
 
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Rivolgendo il mio augurio alle iniziative dei democratici cristiani, promosse particolarmente attorno al riferimento coordinativo costituito da Gianni Fontana, accenno ad alcune  modeste considerazioni  politiche derivantimi dalla comune storia ed esperienza vissuta con molti di loro nella lunga stagione della Dc.
 
Parto da un giudizio preoccupato.  C’è una debolezza di fondo, in queste iniziative, dovuta alla influenza ed ai condizionamenti esterni. Molte delle difficoltà del mondo politico  e dello stesso mondo cattolico si riflettono sul travaglio e sull’esito di ogni iniziativa di questo genere. E non potrebbe essere altrimenti.
 
Perché Todi è fallito? Il tentativo di rifondazione di una qualche unità dei cattolici impegnati in politica ha il suo massimo esperimento nel Convegno di Todi, dove i protagonisti non erano le formazioni politiche, ma le formazioni sociali che erano storicamente la forza popolare (e la massa elettorale) della DC. Senza nasconderci dietro ad un dito, dobbiamo dirci che quella dirigenza del mondo cattolico era troppo orientata a destra per permettere alle forze sociali  e caritative di guidare l’operazione.
 
Nell’impossibilità di trovare un chiarimento all’interno della gerarchia cattolica fra i vescovi presenti a Todi ed i Vescovi presenti a Norcia, questo tentativo di federazione cattolica pre-politica, che somigliava più all’opera dei Congressi od ai Comitati civici, che non alla DC , si è a suo tempo spento nella culla.
 
Anche le vicende delle formazioni politiche condizionano il nostro giudizio. La crisi berlusconiana influenza una buona parte dei nostri propositi. Berlusconi ha fondato un partito dichiaratamente di destra: il suo miracolo è stato quello di essere riuscito a mettere assieme i separatisti leghisti con i nazionalisti fascisti, utilizzando come collante i cattolici “moderati”  ed il Movimento ecclesiale di “Comunione e Liberazione”. Si può capire che si cerchi di recuperare i voti prestati a Berlusconi  e di occupare quello spazio. Questa tendenza ora è divisa. Alcuni  hanno pensato di dare una direzione cattolica a Forza Italia e quindi di operare all’interno del berlusconismo, utilizzando provvisoriamente lo stesso Berlusconi. Altri hanno fatto una scissione da Berlusconi con l’idea di costituire un gruppo autonomo che potrebbe allearsi con Berlusconi. Ed infine un terzo gruppo pensa ad una proiezione italiana del PPE senza Berlusconi. Queste soluzioni sono ingombranti in un processo federativo perché mirano a ricostituire una DC più affine al modello tedesco che al modello italiano.
 
A questo punto si apre un problema: cosa è il Partito Popolare Europeo senza la componente democratico-cristiana italiana? Tutte queste soluzioni tendono ad escludere non solo i cattolici democratici ma anche  tutti i nuovi fermenti sociali del cattolicesimo italiano. Ma anche il gruppo dei movimenti che si muovono con diverse sfumature nell’area del Partito Democratico viene condizionato da quelle scelte politiche. Ci sono i cattolici adulti che sono militanti del PD. Alcuni (come Renzi) ritengono addirittura non corretto usare l’aggettivo cattolico per qualificarsi in politica e preferiscono vantare origini scoutistiche. Ci sono cattolici che si sentono di appartenere alla tradizione democratico-cristiana da cui provengono e che non hanno mai rinnegato, e che la vedono rispecchiarsi  in un partito che ha una cultura plurale. Ci sono infine quelli  che pur votando, per necessità, Partito Democratico, non si sentono a loro agio per un pregiudizio laicista tuttora molto vivo nelle formazioni di sinistra. Questo pregiudizio laicista non è simile a quello della prima parte del secolo scorso, che era anticlericale, antipapale, anticristiano. È piuttosto una forma di autoreferenzialità in nome dei nuovi diritti civili, che tende a trattare i cattolici come una specie minoritaria protetta da coltivare e rieducare nelle riserve indiane.
 
L’unica soluzione immaginabile è che i cattolici orientati a sinistra possano trovarsi solo in una formula organizzativa propria, orientata ad una alleanza con il PD, ma con la possibilità di esercitare politicamente l’obiezione di coscienza. Le differenze che oggi ci sono fra i cattolici sensibili al richiamo della destra ed i cattolici disposti a votare a sinistra, rendono difficile ogni discorso politico. Anzi le polemiche politiche fra i due blocchi riescono a tradursi in incompatibilità e veti reciproci fra associazioni e movimenti cattolici,  al punto da dare ragione a quelli che credono impossibile un progetto unitario.
 
Eppure quelle differenze e quei dibattiti convivevano all’interno della DC.
 
Tutti questi tentativi, sia quelli che restano entro i confini  di una zona che è stata chiamata moderata, sia quelli che si muovono all’interno di una zona di centro-sinistra, devono porsi una domanda: che cosa era  l’unità politica che caratterizzava l’essenza profonda della Democrazia Cristiana?
 
Cosa vi si oppone oggi? Per prima cosa il bipolarismo: accettando il concetto di bipolarismo i cattolici che volessero far politica con un loro organismo autonomo dovrebbero per forza collocarsi o nel polo di destra o nel polo di sinistra. Ne consegue che la nascita di un organismo politico rappresentativo dei cattolici debba per forza muoversi o all’interno del blocco berlusconiano o all’interno del blocco di sinistra nato dall’Ulivo di Prodi.
 
Bisogna liberarsi da questi schemi. Non è scritto da nessuna parte che il bipolarismo debba funzionare come se si trattasse di due blocchi intoccabili ed eterni. E dall’altra parte non bisogna sentirsi obbligati a ripetere l’esperienza del lungo conflitto tra berlusconiani ed antiberlusconiani. Anzi, tutta l’esperienza storica della Dc ci porta a pensare che in Italia abbia un particolare valore una formazione politica di grande spessore sociale e con un programma avanzato di pace e di giustizia nella politica estera e nella politica sociale, che abbia anche valori tradizionali da difendere e comportamenti capaci di mediazione (quelli che con un vocabolo sbagliato vengono chiamati valori ”moderati”).
 
In fondo il riferimento all’esperienza storica della DC dovrebbe consistere non soltanto nella memoria dei risultati conseguiti, ma soprattutto nella scelta di quel metodo politico, che permetteva a quel partito di sviluppare un programma di sinistra  con il contributo dei voti che altrimenti avrebbero avuto una collocazione di destra. E tutto questo si fondava su due pilastri: la capacita di unità tra diversi e la temperanza, vale a dire la desueta virtù cristiana di tenere insieme valori opposti. Non dico moderazione, dico temperanza.
 

Credo che sia intellettualmente importante verificare il giudizio storiografico sulla DC. L’attuale crisi politica italiana è tutta fondata su un giudizio storiografico non veritiero fondato sulla obliterazione, persino violenta, del merito storico del grande miracolo italiano. Una obliterazione in cui confluiscono  sia il rifiuto del 18 Aprile  come conseguenza logica e determinante della Resistenza e della Costituente, sia la rabbia conservatrice  di aver dovuto sopportare e sostenere un partito progressista come male minore per evitare il comunismo.
Ma per correggere il giudizio storiografico corrente dobbiamo essere estremamente coscienziosi e precisi nel ricordare cosa fosse  veramente la DC.
 
Partiamo da una constatazione che è difficile esprimere. I voti razzisti e dei separatisti che sono finiti nella Lega c’erano già nelle nostre valli alpine. Ma la DC con la sua presenza severamente educativa e con un controllo sociale accurato riusciva a trasformare quei voti in cioccolato.
 
Anche allora esistevano nella mentalità popolare e familiare del nostro Meridione i voti che non chiamerò mafiosi, ma nei quali prevaleva lo spirito di clan o di campanile. Ma la DC con una capacità di giudizio colta ed appassionata riusciva a trasformarli in partecipazione democratica ed in speranza di riscatto del Mezzogiorno d’Italia. La riforma agraria e l’abbattimento della oltraggiosa borghesia agraria assenteista  non è stata cosa da poco, anche se oggi è volutamente dimenticata. I voti fascistoidi, di un fascismo retrivo e persecutorio, che si cibava di barzellette della Domenica del Corriere, sul contadino stupido con la evidentissima pezza accuratamente cucita sul fondo dei pantaloni, memoria della mentalità squadristica, esistevano anche allora. Ma la Dc riusciva a trasformarli in un doveroso omaggio all’ordine democratico.
 
È così che va reinterpretata e capita la funzione politica dell’unità dei cattolici, in questa capacità di tradurre gli antichi difetti italiani in virtù civili. Ed in questa DC c’era anche una sinistra democratico-cristiana che svolgeva un compito di apertura e di mediazione. Non si capisce il contributo della DC all’Italia se non si ricorda quello che De Gasperi definiva “il partito di centro che guarda a sinistra”, se non si ricorda che il capolavoro di Fanfani e di Rumor fu “l’apertura a sinistra” ed il “Governo di centro-sinistra”: in pratica il recupero del socialismo italiano alla democrazia; se non si ricorda il tentativo di Moro di spostare l’attenzione ancora più a sinistra, nel periodo più scuro della nostra vita democratica, negli anni di piombo.
 
Allora, in quei tempi, Antonio Segni poteva espropriare la terra non solo ai suoi elettori, ma persino ai suoi parenti stretti, senza permettere che questo desse spazio, non dico ad una rivolta armata, come nel 1921, ma neppure ad una agitata protesta familiare. Allora Nicola Pistelli poteva parlare con una certa supponenza delle “fanterie parrocchiali cattoliche”, che dovevano votare senza troppe proteste il programma di sinistra della DC. Ma erano quelle stesse fanterie cattoliche da cui mai si sarebbe distaccato e da cui mai avrebbe preso le distanze. Senza questo “miracolo politico” la DC non avrebbe portato a termine il miracolo economico e sociale.
 
Queste considerazioni non sono reliquie storiche, sono un necessario esame di coscienza  nei confronti di quelli che pensano al PPE ed alla sua edizione conservativa come ad una ricetta valida per l’Italia. Il Partito Popolare Europeo sarebbe ben altra cosa se ci fosse in campo la Democrazia Cristiana di De Gasperi, di Fanfani, di Rumor e di Moro. Non un punto di riferimento (punto di riferimento lo è piuttosto l’internazionale democratico-cristiana) ma  un impegno a far tornare il Ppe al suo compito di  realizzare il programma federalista democratico cristiano.
 
Detto questo dobbiamo anche ricordare che le obiezioni alte e qualificate della destra democratico- cristiana non erano, nel partito, voci inconsistenti e secondarie. Non era solo un accigliato Ottaviani che inaugurava i “comunistelli di sacrestia”. Erano anche i discorsi di altissima finezza politica di Mario Scelba, le analisi di Guido Gonella, neppure lontanamente comparabili alla volgarità della nostra destra attuale. Erano la richiesta di coerenza morale democratica di uno Scalfaro giovane. Essi rappresentavano con dignità ed onore il pensiero “moderato” che in Italia aveva avuto una storia e che la Democrazia Cristiana sapeva accogliere come esigenza fondamentale della nostra società civile.
 
Ripensare al valore dell’unità dei cattolici non significa dimenticare che questa unità era una virtù civile dolorosamente conquistata. Durante il periodo formativo della DC non c’erano  soltanto i democratici-cristiani e diverse ipotesi si avanzavano perfino nelle stanze pontificie. C’erano anche i cristiano-sociali di Gerardo Bruni che coabitavano con De Gasperi nella Biblioteca Vaticana. C’erano anche i comunisti cattolici, a cui Monsignor De Luca dettò un nome diverso, battezzandoli “cattolici comunisti”, perché cattolico doveva essere il sostantivo e comunista doveva essere l’aggettivo.
 
E fu Giulio Andreotti, facente funzione di Presidente della Fuci, in assenza del Presidente Aldo Moro, trattenuto dal Sud perché non poteva superare la linea Gustav, a portare la notizia a Monsignor De Luca che non sarebbero stati essi i prescelti nella costruzione del grande partito nazionale e democratico. Sì, l’unità dei democratici cristiani aveva coscienza dell’esistenza di fratelli separati sulla sinistra. Ma che questo non fosse una incapacità di comunicare ce lo ricorda Augusto Del Noce quando racconta l’importanza che ebbero i comunisti cattolici, usciti dal Partito Comunista nel 1950, nella formazione della Terza Generazione della DC, e nella stessa gioventù di Azione Cattolica di quel periodo.
 
Questo panorama della vitalità politica della Democrazia Cristiana non è un reperto archeologico e non è soltanto una memoria da coltivare. È un giudizio storiografico preciso da rivendicare e da coltivare  perché  necessario in questo momento, hic et nunc,  per risolvere il problema della democrazia in Italia. C’è bisogno di sapienza aperta perché nasca una forza politica ispirata al cristianesimo illuminato degli ultimi Papi e legata alla volontà di pace e di crescita della grande maggioranza del popolo italiano. Non possiamo più andare avanti in maniera schizofrenica, sentendo prediche di sinistra in chiesa e proclami di destra in piazza.
 

Certo! Vicino al giudizio storiografico è necessaria la coscienza dei grandi cambiamenti che ci sono stati nella società italiana e che bisogna affrontare e risolvere in maniera positiva. Ce lo ricorda,  con la forza straordinaria del racconto cinematografico, Pupi Avati nel suo film “Il matrimonio” in cui racconta la famiglia italiana dei suoi tempi, a confronto con la famiglia italiana di suo padre e di sua madre. Ed è una lezione profonda sul cambiamento dell’Italia. Anche nel nostro campo politico dobbiamo ricordare che in questo cambiamento va recuperato quel che c’è di positivo e va curato, se si può, quel che c’è di negativo.
 
Tre generazioni (quella di Fogazzaro, quella di Murri e Sturzo, quella di Alcide De Gasperi) erano state formate in un’Associazione che aveva iscritto nel suo distintivo un motto stranissimo: “Preghiera, azione, sacrificio”. L’ultimo a portare in Italia, tutti i giorni, a tutte le ore, per ogni minuto, questo motto iscritto sul bavero della giacca fu il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il notaio che registrò la crisi del sistema democratico italiano.
 
Chi dirà oggi agli italiani che per pagare un debito sproporzionato che tuttavia bisognerà pagare, sarà necessario il sacrificio? Non il clamore osceno, non la rivolta irrazionale, non l’inseguimento di miti criminali, non il vittimismo di chi si sente perseguitato dall’Europa, niente di tutto questo! Ma il sacrificio, pensoso, responsabile ed accettato, sarà la medicina. E non solo l’immancabile sacrificio dei poveri che non fa mai scandalo.
 
Chi ricorda il discorso di Giustino Fortunato sul sacrificio degli italiani, quando fu finalmente pagato il debito che avevamo contratto per portare a termine il Risorgimento? Chi si ricorda quante lacrime e quanto sudore costò la tassa sul macinato? Chi si ricorda cosa significa la parola sacrificio, vale a dire rendere sacro qualche cosa? Chi si ricorda che la libertà fu riconquistata con il sacrificio dei migliori? Ci ricordiamo i tempi in cui la stessa politica era sacrificio? Chi di noi porterebbe oggi la parola sacrificio all’occhiello della giacca? È forse questa la risposta al nostro vero interrogativo? Confesso che in questo momento io non lo so.
                                                                                                         
                                                                                                          (Bartolo Ciccardini)
 
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Democrazia Comunitaria

DIZIONARIO PROGRAMMATICO A PARTECIPAZIONE DIFFUSA

E’ un “Dizionario programmatico a partecipazione diffusa”: così lo definisce Democrazia Comunitaria. Perché? Una esigenza fondamentale di semplificazione, chiarezza, invito partecipativo aperto a tutti. E’ la reazione di principio di fronte alla pessima abitudine assunta dalla politica e dalla burocrazia, di linguaggi incivilmente mastodontici, balordamente enfatici, criminosamente complicati, subdolamente chiusi di fatto alla trasparente partecipazione dei cittadini. Così Democrazia Comunitaria caratterizza fin dai fondamenti, cioè dal suo programma, il suo annunciato stile diverso, fondato su semplicità e trasparenza, centralità della persona, testimonianza morale. 

I temi proposti dal Dizionario non sono in ordine gerarchico bensì alfabetico: vogliono costituire infatti proprio i tasselli di un lavoro collettivo di elaborazione “a scorrimento continuo” delle linee di programma dell’Associazione, con la partecipazione aperta e permanente di iscritti, esperti e cittadini. Soprattutto, di iscritti. E’ uno strumento di lavoro informale approvato dagli organi associativi e da essi vigilato, e che, con la loro approvazione ufficiale, acquista nei suoi contenuti, via via, il crisma del documento formale di impegno per Democrazia Comunitaria.
 

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Acqua: è un bene comune, non privatizzabile. La responsabilità di garantirne qualità e quantità sufficiente a prezzi sociali appartiene alla mano pubblica in senso diretto. Alla mano privata non possono che essere riservati ruoli di carattere nettamente secondario e sussidiario, ininfluenti sulle politiche relative a questo bene. E’ escluso a priori che dall’acqua si possa trarre profitto privato a qualunque titolo.

Ambiente: è un bene comune, non privatizzabile. La responsabilità di mantenerlo tale appartiene direttamente alla mano pubblica. La legge stabilisce la proporzione tassativa di superficie verde da salvaguardare in ogni opera manufatta, pubblica e privata.

Authorities: le autorità di settore, gemmate, sul modello di organismi funzionanti negli Stati Uniti in diverso contesto culturale, sono venute manifestandosi organismi costosi e, alla fine, non adatti a costituirsi come garanti super partes nelle materie di cui si occupano: così da porre ormai la esigenza di un ritorno alle naturali fonti di garanzia costituite dal parlamento, dai comitati interministeriali e dai loro già storicamente sperimentati strumenti di lavoro. Risparmiando gran parte dei relativi costi.

Banca: il miglioramento verso semplicità, controllabilità e trasparenza delle leggi relative all’attività bancaria parte dal ripristino di una netta differenziazione fra banca ordinaria di risparmio e investimento, e banca d’affari o speculativa. Democrazia Comunitaria vede con particolare favore il ripotenziamento di una cultura diffusiva delle forme bancarie popolari e cooperative, la riacquisizione allo Stato di una banca nazionale per la tutela del risparmio dei cittadini, e la valorizzazione del risparmio collettivo in sede d’impresa.

Conflitti d’interesse: DemocraziaComunitaria propone una più tassativa definizione dei casi nei quali si debba dare esito a una pura e semplice incompatibilità non sanabile.

Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro: DemocraziaComunitaria ne propone il superamento puro e semplice per esaurimento dei suoi compiti storici. 

Consumo del territorio: anche l’Italia è diventata un paese che, specialmente in alcune regioni, vede ormai diventare preoccupante il problema del “consumo del territorio”, un consumo talmente vasto e nello stesso tempo abusato, da porre al paese stesso un quesito urgente circa il suo equilibrio ambientale di lungo periodo. DemocraziaComunitaria propone di stabilire un vincolo rigido alla percentuale di territorio consumabile (cementificazione e forme assimilabili di scomparsa del terreno vergine) per ogni unità di costruzione. Inoltre propone di rendere concretamente più severa e snella la funzione di controllo e salvaguardia attiva del patrimonio forestale e idrogeologico.

Costi della politica: DemocraziaComunitaria propone l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, a favore di un finanziamento libero da parte di ciascun cittadino nei confronti del partito in cui si riconosca. Riconosce il valore politico-istituzionale dei partiti nei termini esplicitati dalla Costituzione, e il relativo sostegno, esclusivamente nella forma della fornitura, a ogni formazione politica che abbia rappresentanza in parlamento, di una sede operativa, unica per tutto il territorio nazionale, con spazi limitati alle esigenze di funzionalità essenziali, con corredo di linea telefonica, computer, stampante, collegamento internet e similari secondo ragionevole coerenza. Escluso ogni altro supporto, che è da considerare strettamente riservato alla privata organizzazione del partito medesimo.

Diritto e obbligo della formazione: fino alla maggiore età la vita dell’individuo è dedicata in misura privilegiata alla formazione integrale della personalità, affidata innanzitutto alla famiglia con il sostegno della scuola: quest’ultima deve costituire, prioritariamente, un sistema pubblico a costi sociali fino all’università, aperto a tutti, nel rispetto per la eventuale scelta della singola famiglia che preferisca rivolgersi a scuole private; le quali ultime non avranno diritto a sostegno pubblico che vada al di là della mera corresponsione alle famiglie del costo che lo Stato sostiene per ogni suo alunno della scuola pubblica. Le scuole private non potranno comunque rilasciare titoli aventi valore di legge.

Emolumenti per incarichi pubblici: DemocraziaComunitaria sostiene una equa proporzionalizzazione reciproca fra gli emolumenti riservati alle cariche pubbliche, elettive e non elettive, a tutti i livelli compreso quello parlamentare e tutti quelli dirigenziali, assumendo a riferimento i trattamenti previsti dalle normative collettive generali e l’andamento complessivo del reddito nazionale, nonché i carichi di lavoro effettivamente affidati e gestiti.    
 
Etica pubblica: l’etica dei comportamenti anche personali è esigita con particolare forza in tutti i soggetti che svolgono funzioni pubbliche. Ogni ruolo pubblico è proprietà morale della collettività ed è incompatibile con qualsiasi comportamento che violi la fede pubblica. Tale eventuale comportamento va perseguito d’ufficio.

Europa: il ritorno ai padri fondatori, in particolare De Gasperi, Schumann, Adenauer, che anteponevano la messa in comune delle risorse e della solidarietà valoriale alla dominanza economica e finanziaria, è obiettivo esplicito di DemocraziaComunitaria.

Farmaci: impensabile che possano essere ambito di puro e semplice mercato privato, lo Stato cura sia il corretto controllo della loro qualità scientifica ed etica rispetto alla loro funzione di servizio nei confronti della qualità della vita, sia la loro equa accessibilità economica a tutti i cittadini nel quadro del Servizio sanitario Nazionale.

Finanziamenti pubblici: DemocraziaComunitaria sostiene l’abolizione di ogni forma di finanziamento all’editoria, compresa quella di partito. Sostiene inoltre una politica di rigorosa severità in materia di controlli, in corso ed ex post, sull’utilizzo completo e tempestivo  dei finanziamenti pubblici in generale, e sulla loro coerente finalizzazione.
 
Fisco: il controllo della evasione deve diventare più severo in parallelo con la semplificazione normativa e la riduzione della giungla delle differenziazioni impositive. All’autonomia impositiva di regioni e comuni va preferita una loro partecipazione pro-quota nella fiscalità generale. Un trattamento fiscalmente incentivante è giusto prevedere a livello di impresa per gli utili reinvestiti nell’impresa stessa rispetto a quelli distribuiti ad azionisti e lavoratori.

Formazione dei prezzi: un intervento più stringente, soprattutto di controllo, da parte della mano pubblica, è necessario in materia di formazione dei prezzi relativi a beni di pubblica utilità rilevante, come ad esempio la casa, i carburanti, i medicinali, a evitare distorsioni speculative. La stessa mano pubblica non deve escludere il suo intervento diretto come imprenditrice di libero mercato nei casi in cui non vi siano diversi strumenti atti ad assicurare prezzi equi a beni essenziali.

Formazione interna: DempcraziaCooperativa è soggetto di formazione permanente nei confronti di tutti i suoi aderenti. L’attività di formazione, oltre a essere concepita come permanente e diffusa, è anche articolata fra coordinamento centrale e autonomie del territorio. Tenendo conto della sua missione, l’associazione può offrire opportunità formative anche ai non iscritti, soprattutto giovani.

Giustizia: lo snellimento dei tempi processuali e la effettiva esecuzione delle sanzioni sono elemento essenziale per la credibilità e la giustizia amministrata dallo Stato nei confronti di tutti i cittadini,  ed hanno importanza fondativa pari a quella della chiarezza, semplicità ed equità delle normative di riferimento.

Impresa: essa va sostenuta come bene di inestimabile valore per tutta la comunità; ne va perciò semplificato il processo burocratico di nascita, e facilitata la propensione allo sviluppo, soprattutto attraverso un tangibile snellimento delle normative riguardanti le autorizzazioni, i controlli ed il credito. DemocraziaComunitaria favorisce il modello d’impresa partecipativa nelle sue diverse forme possibili, dalla cointeressenza nei risultati alla cogestione ed alle forme variamente cooperative.

Impresa privata e impresa pubblica: superando i contrapposti eccessi storici di interventismo assistenzialista e di privatizzazione pregiudizialmente preferenziale, DemocraziaCooperativa è favorevole a una ottica diffusa di liberalizzazione senza privatizzazione, per quanto attiene al campo delle imprese pubbliche che si occupano di beni e servizi essenziali o primari per la dignità e lo sviluppo delle persone. Senza rinunciare alla propria partecipazione diretta nella erogazione di tali beni e servizi, lo Stato e gli enti territoriali di decentramento consentono che l’iniziativa privata, sia con scopo di lucro sia senza scopo di lucro, partecipi competitivamente a tale erogazione, senza sussidi pubblici.     

Innovazione:
DemocraziaComunitaria è per introdurre forme di tutela semplice ed efficace per quanti depositano  brevetti o sono autori di importanti  realizzazioni o idee artistiche e culturali. Nei limiti delle risorse disponibili, una politica di premialità per la innovazione efficace è tra le priorità che DemocraziaComunitaria sostiene nel contesto delle politiche di sviluppo.

Intervento dello Stato in economia: è possibile ed è doveroso l’intervento dello Stato, come pure, ai rispettivi livelli, della regione e del comune, sia direttamente come imprenditore in regime di liberalizzazione quando si tratti di beni incidenti direttamente sulla qualità essenziale di vita delle persone, sia indirettamente con efficaci politiche di sostegno ai consumi, sempre nel campo dei beni relativi alla dignità e allo sviluppo della persona.
                  
Lavoro:
fonte essenziale di dignità e fondamento della repubblica, il diritto al lavoro è un diritto soggettivo e non una semplice legittima aspettativa. Democraziacomunitaria sostiene in tal senso una lettura precettiva della Costituzione. La realizzabilità di questo diritto si fonda su una politica sicura di redistribuzione sia delle opportunità di lavoro sia dei redditi in generale, a cominciare dalla riduzione della forbice immorale attualmente esistente spesso anche all’interno delle imprese. Il trattamento economico del management deve essere in questo senso collegato e non scorporato da quello di tutti gli altri lavoratori. DemocraziaComunitaria propone la riorganizzazione del sistema pubblico tradizionale di collocamento per trasformarlo in moderno istituto dell’accompagnamento attivo al lavoro. Correlativamente, una concezione precettiva del diritto al lavoro esclude che esso possa venir interpretato come diritto al “posto fisso”. Con pari importanza rispetto alla sua dimensione di diritto, infine, il lavoro è un dovere primario del cittadino e di chiunque viva nell’ordinamento giuridico dello Stato.

Legge elettorale: DemocraziaComunitaria ritiene una democrazia non compiuta, e anzi vistosamente e negativamente limitata, quella che si esprime attraverso sistemi a liste bloccate. Occorre che i cittadini abbiano la possibilità di scegliere persone, o persone e liste, ma mai solo liste.

Mediterraneo: il “lago comune” delle tre grandi religioni monoteiste, nostro comune “lago di Tiberiade” secondo la fascinosa espressione di La Pira, è per DemocraziaComunitaria una dimensione di pari dignità rispetto a quella europeista, per una politica del dialogo permanente e solidale.

Mercato: lo Stato è chiamato a svolgere  funzione di garante del mercato per tutte le componenti di esso, operando attivamente, in particolare, per il rispetto e la tutela dei soggetti deboli nei confronti di distorsioni speculative. 
 
Numero chiuso nelle università: va superato in considerazione del valore intrinseco della formazione universitaria, che non può essere concepita come finalizzata al mercato del lavoro ed alle sue esigenze, bensì alla formazione compiuta e integrata della persona ed alla massima valorizzazione concreta della ricchezza culturale di tutta la società.
 
Onu: il cammino delle Nazioni Unite è verso un autentico parlamento dei popoli; in tale spirito deve venir sviluppato, gradualmente ma senza attendere, il rinnovamento delle norme regolative del consiglio di sicurezza, sottraendone composizione e metodo di lavoro agli equilibri ormai inadeguati scaturiti dalla seconda guerra mondiale.

Ordini professionali: la semplificazione dell’accesso e una più evidente esigibilità del codice etico sono, per DemocraziaComunitaria, passaggi necessari ma che non escludono il possibile superamento degli stessi ordini, a favore di istituti di più snella, accessibile e trasparente tutela delle garanzie di professionalità e di etica nei rispettivi settori. Anche l’assetto istituzionale degli ordini ha infatti come valore di riferimento il bene comune.

Parlamento: DemocraziaComunitaria propone la riduzione del numero dei deputati da 630 a 500, e dei senatori da 315 a 250. Propone inoltre l’abolizione della figura dei senatori a vita di nomina del presidente della repubblica, e la unificazione, in logica di tendenziale unicameralità del parlamento, di un significativo numero di funzioni fra le due Camere.

Pensioni: così come per la forbice delle retribuzioni all’interno delle imprese, adeguati rapporti di equità vanno costruiti nel campo delle prestazioni pensionistiche, senza eccezioni di categorie e con la universalizzazione rigorosa del metodo contributivo. 

Persona e famiglia: DemocraziaComunitaria è partito di personalismo sussidiario e solidale. La persona è centro di imputazione di tutti i diritti e di tutti i doveri. Essa si sviluppa innanzitutto nella famiglia, che perciò deve essere protetta a sostenuta attraverso la tutela attiva della paternità e della maternità responsabile, attraverso servizi di assistenza, cura e formazione dei giovani, attraverso una organizzazione del lavoro che oltre ad assicurare il diritto a una occupazione produttiva faciliti forme di telelavoro e flessibilità organizzativa tutte le volte che siano compatibili con le esigenze oggettive della giusta produttività aziendale.  

Posizione costituzionale delle regioni: DemocraziaComunitaria ritiene maturati i tempi per parificare la dignità costituzionale fra regioni attualmente a statuto ordinario e regioni attualmente a statuto speciale. Appaiono infatti ormai superate le ragioni straordinarie che storicamente giustificarono tale differenziazione.

Province ed altri enti intermedi: DemocraziaComunitaria propone l’abolizione pura e semplice delle province, e di tutti gli altri enti territoriali intermedi fra comune e regione, fatte salve le possibili libere semplici fusioni o anche associazioni o consorzi di comuni per la gestione di singoli servizi.

Reati economici e finanziari: la certezza e tempestività di esecuzione delle sentenze è prioritaria soprattutto per i casi di violazione della fede pubblica. Si impone comunque una revisione del sistema che restituisca prudenza ed eccezionalità agli istituti degli sconti di pena, dell’amnistia e dell’indulto, nel campo dei reati commessi ai danni dell’intera società civile e della citata fede pubblica.

Riferimento culturale e valoriale dell’azione democratico-comunitaria: esso è costituito essenzialmente da: a. la storia del cattolicesimo democratico in Italia, nella sua interezza; b. la dottrina sociale della Chiesa e gli insegnamenti del suo magistero; c. la Costituzione italiana.

Sanità: il bene primario della sanità dei cittadini non è considerato da DemocraziaComunitaria come appartenente al campo del libero mercato privato bensì a quello del diretto intervento dello Stato attraverso un sistema sanitario nazionale unitario, che pur decentrandosi a livello di regioni e comuni non vanifichi la effettiva uguaglianza fra tutti i cittadini  di fronte a tale servizio. La struttura centrale si sostituirà tempestivamente alle strutture regionali inadempienti o inefficienti, fino a che non siano ripristinate le condizioni di piena adeguatezza di esse. Ugualmente lo Stato farà nei confronti delle eventuali strutture cittadine ove non intervenisse tempestivamente la struttura regionale di competenza. L’iniziativa privata opera liberamente e competitivamente nel campo della sanità, nel rispetto delle normative pubbliche che garantiscono la tutela e la promozione della salute dei cittadini come prioritaria rispetto al profitto d’impresa.

Stato di diritto: ogni legge e normativa pubblica deve prevedere e garantire reale pari dignità e tutela tra il soggetto pubblico e il cittadino o entità sociale intermedia, in sede di contenzioso privatistico. In tal senso devono, ad esempio, essere garantiti i tempi e la certezza di pagamento da parte dello Stato e degli Enti pubblici verso fornitori e prestatori d’opera.

Strumenti e qualità della formazione: prezzi e contenuti dei libri scolastici e degli strumenti didattici collegati devono andare rispettivamente in direzione di una evidente socialità i primi e di una altrettanto evidente caratterizzazione unitaria e integrata della formazione, i secondi, contrastando le spinte a una separatezza specialistica che DemocraziaComunitaria vede opportuna soltanto al livello universitario. Altresì, DemocraziaComunitaria annette valore essenziale e imprescindibile alla formazione permanente dei docenti, come di tutti gli adulti. 

Tassazione. Il criterio costituzionale della progressività, che trova la sua ragion d’essere nel principio valoriale della equità, va sempre ed in concreto misurato su di essa: vanno pertanto superate le condizioni inique prodotte tecnicamente sia dalla frantumazione distorsiva delle norme sia da passaggi di aliquota mal calibrati quanto a gradualità.

Titoli di studio: la missione di formare la personalità dei ragazzi lungo tutta la loro vita fino alla soglia dell’università, è prioritaria rispetto a quella del rilascio di titoli di studio formali destinati al mercato del lavoro, e rispetto allo stesso mercato del lavoro, cui invece può essere più direttamente attenta l’università. In tal senso DemocraziaComunitaria propone di approfondire la ipotesi di superamento del valore legale dei titoli di studio, perché l’attenzione della scuola possa più e meglio concentrarsi sull’effettivo impegno formativo nei confronti degli utenti.
                 
Tolleranza e rispetto in campo religioso:
la laicità dello Stato si accompagna a una considerazioni attentissima dei valori collegati con il riconoscimento della dignità integrale della persona e della dimensione trascendente della vita. DemocraziaComunitaria ritiene che la scuola, in particolare, debba accentuare la educazione alla citata importanza del trascendente ed al rispetto delle diverse vie attraverso le quali la persona realizza la sua esigenza di religiosità.  

(Aggiornato al maggio 2019)
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Antologia

A ME GLI OCCHI... IL REGALO PERFETTO

La vita quotidiana, i suoi doni, le sue opportunità… Ma ci pensiamo davvero, almeno qualche volta?
Ad esempio gli occhi, i nostri occhi: il nostro sguardo, e attraverso di esso il nostro pensiero e la nostra anima, verso l’infinito, a dominare il creato regalatoci per essere contemplato e conquistato…
Piccola meditazione per la consapevolezza, scritta da Lauro Viscardo, sempre acutissimo. La pubblichiamo per la rubrica Antologia, perché il suo testo apparve già qualche anno fa nella versione di Studisociali inviata per posta elettronica, e ci sembra utile riproporlo.
 

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Chiudi gli occhi un momento ...
Ora dai, aprili ...
Un attimo, ecco, li sgrano:
Oh... oh, Dio, ma è mia, proprio mia questa meraviglia:
ma è vero? Ma no, ma non ci posso credere…
Gli occhi.
 
Oggi ti parlerò degli occhi, il regalo perfetto.
Veggenti e visionari lo siamo un pò tutti
senza bisogno di stare nelle favole e nelle apocalissi.
Perché la vita stessa è un poema che mi scorre davanti
e all'improvviso si arrampica e mi penetra dai sensi
e guai a farmela sfuggire.
 
Ma per averla e per gustarla ho bisogno degli occhi
non importa se di materia o di spirito
non importa se veri o immaginari
non importa se umani o divini
non importa se di carne o con i tasti del Braille.
Vedo, e tutto l'universo mi scivola dentro.
E però non come se dicessi “io sto di qua e il mondo di là”:
no, no: è il contrario, sono proprio io che me lo prendo,
io che me lo ingoio, io che me lo digerisco,
il mondo, la vita e tutto.
Cogli occhi.
 
E cosa sono gli occhi? Che gioiello ci portiamo in fronte?
A dirla facile,
gli occhi sono un pezzo di cervello che sbuca da due finestre.
Il sistema nervoso centrale, sempre così nascosto
misterioso, geloso, sotterraneo e sfuggente
a un certo punto si tira fuori, si affaccia, si mette in mostra
e sono gli occhi.
Resti a bocca aperta appena te lo studi, pezzo a pezzo.
L'occhio: foglietti uno sull'altro, cellule a prisma, a bastoncino, a spirale
una diversa dall'altra, una incastrata all'altra
bianco, nero, colori, e, subito dietro, i serbatoi d'acqua
e tutto è lubrificato e scorrevole, lenti e pellicole, nervi e muscoli,
miscele chimiche e proiezioni che s'incrociano, si specchiano
vanno a testa in giù e alla fine sbattono sullo schermo,
laggiù, al fondo della testa, proprio come al cinema.
 
Insomma, una perfezione che neanche riesco a dirtela;
e però, studiando,  studiando, e imitando, e copiando…
nasce la foto, e poi il film, e poi il video.
Capisci che roba?
Dimmi tu se vedere non è proprio il regalo definitivo.
E luce fu, come nella creazione.
 

Averceli, gli occhi buoni
(anche con un bel po' di diottrie in meno mi contento)
ci ho davvero l'universo sotto mano.
Che stai leggendo di questi tempi, che film t'è piaciuto ultimamente,
non mi dire che ti sei perso il festival.
Teatro, cinema, libri, paesi, mari, montagne, un paradiso, una giostra,
una mostra che non finisce mai.
Fisso, contemplo, ci vado a vivere in mezzo,
e gli occhi che non si riposano mai.
Sì, hai ragione, la sera mi ci sguercio sui libri, me l'ha detto pure l'oculista e… che vuoi, quando comincio non la smetto più.
 
E poi c'è uso e uso degli occhi.
Aspetta, gli dò un occhiata, un colpo d'occhio e ti dico,
vengo subito, ci prendiamo un caffè di corsa.
No, caro: tu mi devi guardare bene,
ho bisogno di leggertelo negli occhi se mi dici la verità,
per me è importante fissarci a lungo se è vero che ci capiamo
 e se è vero che ancora ci amiamo.
Allora apro gli occhi perbene, mi fermo, mi calmo, ti guardo,
ti contemplo e non la smetto più:
è il primo, secondo, terzo, infinito atto di amore.
Bastano gli occhi.
Te lo leggo negli occhi, te lo leggo nel cuore,
come nella bella canzone di Battiato.
Senza occhi, senza sguardi, senza ammiccamenti divertenti,
non c'è intesa, non c'è fiducia, non esiste accordo.
Tutto è possibile se lo sguardo è chiaro, è leale, è complice,
è innamorato.
 
Rileggo il capolavoro di Josè Saramago Cecità e tremo tutto:
un'intera città e alla fine tutti, proprio tutti, uno appresso all'altro,
brancolano, si oscurano e piano piano non vedono più niente.
Buio,  scuro, zero.
E le strade che sfumano e i volti che si sciolgono
 e il sole che è un disco vuoto e tutti che si fanno nemici
e si odiano e si combattono,
e un manto infernale copre l'intera città.
 
Sfoglio l'ultima pagina e sospiro e non mi escono preghiere e parole:
alzo la testa e pure stamattina è una visione
e pure oggi è un'apparizione
e pure oggi sarà una rivelazione.
Che grazia.
La luce negli occhi e sono un re.
Oggi… cos'è che sarebbe oggi se non aprissi gli occhi?
Invece è una sorpresa, è un'emozione forte,
è uno schianto di felicità e non mi lascia respiro,
e io che mi do i pugni in testa: “Ma quando la smetti di lamentarti per fesserie e non ti tieni stretto questo gioiello?”.
 
Però, calma: c'è guardare e guardare.
Va’ a testa alta diceva mio padre,
non ti vergognare mai di quello che sei, non abbassare lo sguardo
di fronte a nessuno, fosse il più potente e prepotente.
La gente la devi guardare in faccia
senza che nessuno ti metta paura e ti infili nel sacco.
E non fidarti di chi ti sfugge cogli occhi mentre ci parli,
forse ha già parlato male di te o non ti sopporta.
 
Gli occhi. Gesù sembra ossessionato con la faccenda degli occhi
e prima di chiamarlo, un discepolo, lo fissa dritto negli occhi.
Lucerna del tuo corpo è il tuo occhio,
se il tuo occhio è chiaro tutto in te sarà luminoso
ma se il tuo occhio è opaco tutto in te sarà buio.
Mi appari e ci hai gli occhi sorridenti, ohé come stai, che bello dopo tanto…
e già siamo uno nelle braccia dell'altro.
Gli occhi che sorridono (e meglio se ridono) s'illuminano,
anzi sfavillano e quasi quasi vorrebbero uscire dalle orbite,
tanta è la felicità.
Ma come abbiamo fatto a stare lontani tanto tempo.
Gli occhi ridenti… e tutto cambia.
 
E fermiamoci un altro momento. Di occhi in realtà ne abbiamo due:
uno fuori e uno dentro,
ma connessi, stretti, appiccicati uno sull'altro.
Lo vedo, me ne accorgo subito se ti bolle il cervello,
se ti passa una grana e non la vuoi dire a nessuno
e ti porti un peso sullo stomaco
e hai passato una nottataccia: lo vedo subito, ti conosco,
sbatti le palpebre, i bulbi sono slavati
e torno torno rossi rossi
e forse ci hai pianto sopra, forse..
Che posso fare per te, cosa stai passando?
 
Dell'occhio di fuori te n'ho parlato e non mi basta:
è nell'occhio di dentro che tutto succede.
E ognuno lo chiama come gli pare.
Per psichiatri e neurologi si dice sistema sottocorticale,
per psicologi è psiche e inconscio,
per poeti e religiosi è anima e vita interiore.
Basta metterci d'accordo, ma il risultato è quello.
Là dietro, là dentro e là sotto, quello che ricevo da fuori io me lo organizzo,
me lo trasformo, me lo manipolo, 
e alla fine ci lavoro sopra: costruisco, creo, compongo,
come se fosse mio;
ed è mio: immagine o pensiero, fantasia o sogno,
memoria o pretesa, felicità o disperazione.
L'occhio di dentro è la mia sibilla, il mio profeta, il mio artista,
ma anche la mia voglia di vivere
o la mia depressione e la mia distruzione.
Che mondo sconosciuto, gli occhi.
 

Non è ancora tutto.
Perché quell'occhio di dentro non è detto che invecchi
e cogli anni si logori;
anzi.
Anzi… potrebbe perfino migliorare, se voglio ci lavoro,
mi ci appassiono
o semplicemente sono fortunato e pieno di grazia.
Dipende. Lo chiamerò l'occhio di fondo, tanto per capirci.
Pochi ce l'hanno, beati loro.
Sì, l'occhio di fondo è il più raro,
l'occhio magico delle radio a valvola dell'infanzia,
quando mamma diceva aspetta, si allarga, si allarga, si fa verde e...
ora è pronto e puoi girare la manopola e lui parlerà.
Se mi si aprisse l'occhio di fondo io sarei vigile, sarei teso, sarei spalancato.
E qualcuno mi direbbe vai.
È l'occhio del Buddha, l'occhio del mistico, l'occhio del genio,
l'occhio di colui che è sveglio, che è iniziato e ha le braccia aperte:
attento! attento!
Ora ti verrà sussurrato il verbo, ora ti si spalancherà il vero,
ora disegnerai il bello che col primo occhio non vedresti mai.
Dai, apri l'occhio vero
e tutto conoscerai e tutto ammirerai

e non ci saranno più segreti per te
e una vita sconfinata ti scorrerà di fronte
e tu a bocca chiusa,
inerme, istupidito, intontito, saprai.
 
La contemplazione dei mistici inizia così:
notte che non ha più tenebre,
notte che non fa paura,
notte che non dà angoscia.
Tutto segreto, tutto silenzio, tutto appartato.
Occhio di anima, non di corpo,
occhio quasi divino, occhio penetrante.
Veggente, e non importa se con religione o senza.
È nato il Veda, il Quarto Vangelo, la Sistina, la Settima, il Parsifal.
 
In quel sole accecante io brancolo: ma sono felice lo stesso.
 
                                                                                           (Lauro Viscardo)
 
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Società

LA VERGOGNA DEL RAZZISMO: MA SOPRATTUTTO LA SUA STUPIDITA'

Le diversità. L'educazione alle diversità è, in fondo, l'educazione all'umanità ed alla comunità. Si tratta dell'inizio di ogni processo educativo. Più alta è l'educazione al rispetto delle diversità accompagnata da contenuti valoriali, più alta è la civiltà. Il gerontologo Massimo Palleschi chiarisce la zona di confine in cui si aggira il pericolo di scantonamento che può portare a forme di razzismo. 

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La vergogna del razzismo si combatte con l’accettazione e la valorizzazione delle diversità, non con la loro negazione.

Si tratta comunque di un argomento che suscita forti contrapposizioni, dal momento che il razzismo, e cioè l’odio preconcetto verso una determinata etnia, è il principale responsabile di due tra le pagine più buie della storia dell’umanità: lo schiavismo ed il genocidio di diverse popolazioni.

E’ comprensibile come di fronte a questi orrori, resi possibili per l’aberrante opinione dell’esistenza non solo di etnie diverse, ma di razze inferiori o addirittura subumane, ogni discorso sulle diversità diventi quanto mai arduo. Però la ragione ci deve consigliare a non farci condizionare, nell’esaminare il problema delle diverse etnie, dalle farneticazioni di un pazzo criminale come Hitler, relative alla presunta inferiorità di alcune razze umane.

Secondo il mio parere tutti i movimenti e le correnti di opinioni che giustamente considerano il razzismo come una degradazione del pensiero e del comportamento umano, dovrebbero prescindere dal problema dell’esistenza delle razze umane, che di per sé non ha nulla a che fare con il razzismo. In senso biologico l’uomo a tutti gli effetti è un animale, e nessuno nega l’esistenza delle razze all’interno delle varie specie animali. Né sembra valida l’obiezione che le differenze razziali degli animali, valutate da un punto di vista genomico, sono superiori a quelle riscontrabili nella specie umana (nelle razze canine, ad esempio, si hanno delle differenze del Dna cento volte superiori a quelle osservate nelle diverse etnie dell’uomo).

Ad avvalorare la scarsa diversità dei vari gruppi etnici si porta anche il dato che nei trapianti di organi la reazione anticorpale e il conseguente problema del rigetto non presentano differenze significative tra le persone bianche e nere. Le analogie e le differenze tra organismi viventi e tra soggetti della stessa specie (anche umana ovviamente) sono presenti e distribuite in maniera comunque non sempre facilmente comprensibile. E’ compito degli esperti del settore di cercare di analizzarle tutte in perfetta libertà e senza alcun pregiudizio.

Nonostante quanto ho appena accennato, i genetisti sono contrarissimi ad ammettere l’esistenza di razze umane. E’ vero semplicemente che ognuno di noi è diverso dall’altro. Basti pensare alle impronte digitali diverse negli oltre sette miliardi di persone che popolano il nostro Pianeta. Diversi possono essere i tratti somatici, come il colore della pelle, diversi possono essere caratteri non somatici, ugualmente importanti, e tra questi i vari atteggiamenti, comportamenti e modi di pensare e di sentire. Come non citare in quest’ambito le diversità del sentimento religioso che hanno determinato tremendi conflitti e tanto spargimento di sangue?
 
In realtà è la diversità, qualunque forma di diversità, che può far paura ed essere fonte di discriminazione, di disprezzo, di odio. Ed è su questo versante che noi dobbiamo rivolgere tutta la nostra attenzione, cercando di promuovere una cultura  che veda nella diversità una fonte di arricchimento.

Insomma, non è la differenza del Dna a generare mostruose discriminazioni, ma è l’irrazionale non accettazione della diversità a scatenare i putiferi che hanno disonorato la storia dell’umanità. Secondo il mio parere la chiave di volta di questo complesso problema risiede nel rispetto della persona indipendentemente da ogni caratteristica  antropologica e genomica.

Un atteggiamento di contrarietà, di disappunto, di discriminazione  fino al disprezzo, si ha spesso, del resto, non solo verso gruppi di persone di etnie diverse  ma verso i gruppi più disparati anche all’interno della stessa etnia, compreso a volte il gruppo degli anziani. Mi rendo conto che paragonare la diversità della condizione anziana, rispetto al mondo dei giovani, alle differenze etniche, può essere paradossale, ma è una analogia che è stata fatta e che si collega al concetto di ageismo. Il termine “ageism”, coniato nel 1969 da un gerontologo statunitense, Robert Butler, indica appunto la presenza di un atteggiamento quasi istintivo, immotivato, di contrarietà, di discriminazione verso tutto ciò che ha a che fare con l’età avanzata.

Prescindendo dagli anziani e ritornando più specificamente al problema dell’esistenza delle razze, vorrei aggiungere che da un punto di vista biologico l’argomento va inquadrato nel meraviglioso e complesso intrecciarsi di fenomeni ereditari ed acquisiti (cioè ambientali). Si tratta di un’analisi difficile, che va condotta con rigore e razionalità, ma che non ci deve far dimenticare la nostra provenienza e il meraviglioso ed unitario cammino della nostra specie umana.

Noi homo sapiens siamo in realtà tutti africani e, spinti dal bisogno e dalla curiosità, abbiamo dato il via all’impetuosa colonizzazione del pianeta: l’Europa e l’Asia forse intorno a 55 mila anni fa, le Americhe forse più o meno 30mila anni fa. In sostanza siamo tutti discendenti dell’Homo sapiens africano, compreso “ l’ariano di razza pura”, alla faccia dell’imbianchino di Vienna. Potremmo anche aggiungere che alla luce di quanto ho appena accennato siamo tutti “bastardi” e meticci, frutto di incroci e migrazioni. Ma a chi è razzista (forse sarebbe preferibile dire xenofobo) non interessa molto se le differenze abbiano una base biologica o antropologica-culturale,  se siano molto antiche o comparse più recentemente , se siano isolate o accompagnate da tante altre caratteristiche. I razzisti avvertono solo che sono in presenza di qualcosa di sgradevole, che intendono contrastare ad ogni costo con i metodi più primitivi e brutali.

La discussione sul problema e sulle caratteristiche delle diverse etnie va impostata nella maniera più razionale possibile: un’analisi al massimo può essere sbagliata e in tal caso andrebbe confutata sulla base di precise argomentazioni e non con uno spirito ed un linguaggio da crociata, che male si addicono ad un tema di carattere scientifico. In quanto tale, la negazione delle diversità non ha senso e oltretutto va in direzione opposta a quanto emerge dalle conoscenze attuali. Infatti nella moderna Medicina si sta sviluppando sempre di più il ruolo della cosiddetta  Medicina personalizzata che amplifica, identifica e valorizza le diversità non solo tra popolazioni diverse, ma anche tra persone della stessa popolazione.
Le differenze tra organismo ed organismo possono essere così rilevanti, anche in soggetti apparentemente molto simili,  che persino la risposta ai farmaci può essere diversa. Questa multiformità di reazione costituisce la base della farmacogenetica, che avrà sempre più notevoli ripercussioni nell’ambito della clinica e della farmacoterapia.

Tutto questo ci deve inorgoglire per la ragione che facciamo parte di un mondo meraviglioso, straordinariamente complesso, popolato da creature  tanto simili e nello stesso tempo tanto diverse, che dobbiamo cercare di comprendere ed amare.
                                                                                          

                                                                                                                                                             (
Massimo Palleschi) 
                                                                                                     
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Storia

ATTENZIONE ALLA LEGA DI DELO...

Si ipotizza di togliere la storia dalle materie di insegnamento nella scuola, e di limitarsi a coltivarla come disciplina... libera? Vagante? Solo universitaria? Non sappiamo coon esattezza cosa si stia muovendo dietro le quinte del potere, politico o economico o culturale che sia, ma sappiamo che, con la medesiam logica nefasta e antiumanistica che spinge a togliere centralità nell'insengamento scolastico alla lingua italiana, si tratta di tendenze che convergono nell'oscuro obiettivo strategico che punta a trasformare le persone da essere pensanti ad automi di consumo. Noi ci guardiamo bene dall'accettare simili pericolosissime tentazioni. Quanto al valore della storia ed ai suoi inesauribili insegnamenti, in particolare, un esempio recente ci viene richiamato da un breve ma interessantissimo articolo firmato da Achille Colombo Clerici per  Il Giorno. Egli propone di ripensare gli accadimenti tendenziali attuali di una Europa che quasi non riusciamo più a riconoscere rispetto a quella dei padri fondatori, e di confrontarli con quanto si verificò, ad esempio, nell'antica storia ateniese del quinto secolo avanti Cristo. Davvero stimolante...

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Giulio Tremonti, nel suo recentissimo saggio «Le tre profezie. Appunti per il futuro» analizza le radici di populismo e sovranismo nell’Europa di oggi. Per capire il grande disordine che  investe le nostre vite, prende spunto da tre profezie.
 
Quella di Marx sulla deriva del capitalismo globale; la previsione del Faust di Goethe sul potere mefistofelico del denaro e del mondo digitale; infine l’intuizione di Leopardi sulla crisi di una civiltà che diviene cosmopolita. Tre chiavi di lettura che l’autore intreccia con la personale esperienza di studioso e di protagonista della politica.
 
La giovane ‘talpa’ del populismo sta scavando il terreno su cui, appena caduto il muro di Berlino, è stata costruita l’utopia della globalizzazione. Oggi sembra di essere tornati agli anni ’20 della Repubblica di Weimar, in una società stravolta e incubatrice di virus politici estremi. 
 
Passando alla storia, rifletto: la complessita' della questione europea nasce dal fatto che nel progetto dei padri fondatori si intrecciavano economia e politica; ma poi oggi e' la prima a tener banco.  Molte regole vanno raddrizzate se non si vuole che si ripeta la vicenda della Lega di Delo.  Nel 477 a.C. si costituiva un'alleanza economico-militare che univa gli ateniesi e le città-stato indipendenti  (poleis)  loro alleate in una difesa comune contro il pericolo persiano. Ciascuna polis contribuiva a mantenere la flotta sia fornendo direttamente le triremi, sia pagando un tributo al tesoro comune. 
 
Nel giro di una generazione la Lega di Delo era divenuta un pretesto per coprire l'imperialismo di Atene, il suo sogno di egemonia.  Il tesoro della Lega venne trasferito dal santuario di Apollo, nell'isola di Delo, al tempio ateniese del Partenone. 
 
 La giustificazione fu che, così, era messo al sicuro da un eventuale attacco persiano nell'Egeo; in realtà da allora in avanti Atene ebbe mano libera nell'utilizzo dei fondi. Nel 449 a.C. fu stabilito un accordo tra Atene e la Persia. A quel punto, di fatto, cadevano i motivi per cui era stata costituita la Lega.
 
 Diverse poleis sospesero il pagamento dei tributi, ma Atene reagì: richiamò gli alleati e ridusse l'autonomia di quelle città che si erano ribellate. Il predominio ateniese divenne sfrontato. Il Consiglio della Lega non fu più convocato; tutte le decisioni vennero prese da Atene.
 
 Fu imposta la dracma come moneta comune, ma ancora più pesanti furono le ingerenze di Atene nella politica interna delle varie città: molte di esse passarono ad un governo di tipo democratico non per libera scelta, ma per obbedienza, visto che ovunque Atene imponeva le sue guarnigioni militari. Dopo un tentativo di riforma (nuova Lega di Delo, ma Atene continuava a prevaricare sulle altre poleis), tutto finì con la rivolta di alcune città e la sconfitta di Atene.  
 
                                                                                                                                                 (Achille Colombo Clerici)
 
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Godetevi una fiaba

L'ALBERO E LA NUVOLA

Delicatissima fiaba della nostra Valentina Tuccella, che fa parlare fiori e animali, nuvole e alberi, fiumi e fronde ventose, per ricordare agli uomini quanto sia possibile e meravigliosamente bello costruire un mondo in cui semplicemente si impari ad aiutarcisi capendo e donando piuttosto che ad ostacolarcisi chiudendo e invidiando.
 
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C’era una nuvola, alta nel cielo; con le guance gonfie e gli occhi chiusi soffiava forte forte. Tutt’intorno, ogni piccola cosa si alzava al passare del vento. I piccoli animali corsero a nascondersi, i fiori richiusero la loro corolla. Ed il grande albero, il più saggio di tutto il prato, si svegliò. Le sue foglie avevano preso a tintinnare, come dolci scampanellii fruscianti nel vento.
 
  • Hei tu! - Esclamò il saggio albero alla nuvola: – smetti di soffiare sulle mie foglie! Le perderò tutte!
 
  •  Scusami – disse prontamente la nuvola – ma mi annoio, sono qui, tutta sola.
 
  • Anche io mi annoio tutto solo, ma non reco alcun fastidio a nessuno! - rispose l’albero.
 
  • Tu solo? Eppure hai tanti alberi intorno a te, bellissimi fiori ai tuoi piedi, animaletti piccoli e grandi che ti si rifugiano.
 
  • E allora, tu? Sei lì in alto, voli nel cielo, puoi vedere tutto e tutti. Sei vicina al sole e alla luna.
 
  • Sono un po’ monotoni, quei due lì, non parlano mai. - rispose mogia la nuvola.
 
  • Gli stessi uccellini che dormono sui miei rami, la mattina vengono a trovarti.
 
  • Sì è vero, e sono molto belli, ma anch’essi sfuggenti, come le mie sorelle nuvole …
 
  • Io invece sempre qui, immobile. Cosa darei per volare nel cielo, un sol giorno … - sospirò il saggio albero.
 
  • Cosa darei io per restare lì sulla terra un sol giorno … - sospirò la nuvola.
 
  • Oh, nuvola! Guarda, le mie foglie! Ora che son diventate gialle e leggere, sembrano volerti raggiungere!
 
  • Anche le mie gocce d’acqua, cadendo leggere sui tuoi rami, sembrano volerti raggiungere!
 
  • Nuvola, siamo gelosi l’uno dell’altra – disse il saggio albero: – facciamo così, io ti regalerò le mie più belle foglie una volta l’anno, esse danzeranno per te, colorando il tuo cielo grigio d’inverno.
 
  • Ed io ti donerò le mie gocce più pure e più fresche, per far sì che le tue radici e i tuoi rami siano sempre dissetati.
 
  • Affare fatto, nuvola! Avrai un pezzetto di terra tutto per te … ed io, un pezzetto di cielo tutto per me...
 
(Valentina Tuccella)

 

 
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Antologia

LA RESSA

Le nostre chiese sono vuote?

Lo sento ripetere spesso, da tanti e da tanto tempo: l’ho sentito ripetere anche a ridosso della Pasqua appena trascorsa, come se quel gran giorno, con le sue chiese piene, fosse stato poco più che una felice eccezione; ma ho l’impressione che si tratti di una lamentela reiterata con eccessiva criticità e con troppa indistinzione di tempi e di luoghi. Non ho la stessa impressione di vuoto, insomma, o non ce l’ho così uniforme.
Comunque non era certo vuota, nel corso della settimana santa da poco passata, la chiesa che frequento di solito. Per il vero, anzi, essa è piena proprio ogni domenica dell’anno, a entrambe le messe della mattina. Quest’anno, poi, per la domenica delle palme, in particolare, la folla dei fedeli traboccava addirittura un metro al di fuori di tutte e tre le porte d’ingresso, e tutte e tre le navate interne hanno continuato a riempire i loro banchi di fedeli lungo i giorni successivi, fino alla straripante domenica pasquale e dopo.

C’è ancora molta religiosità, fra noi: di diverse motivazioni e di diverse intensità e colorazioni, piuttosto; ed è su questo punto che, in realtà, mi pare si propongano alla nostra riflessione quesiti particolarmente impegnativi e talvolta eccessivamente trascurati.

Ad esempio, un piccolo episodio ricorrente continua a incuriosirmi ogni anno, da tanto tempo, proprio il giorno della domenica delle palme: un piccolo episodio che torna invariabilmente a ripetersi, regolare come la campana di mezzogiorno, nella mia e in tutte le chiese che in tanti anni mi è capitato di frequentare per questa festività; l’ho notato perciò anche quest’anno.

Si tratta della ressa disordinata ai banchi nei quali, subito prima e subito dopo la messa, si distribuiscono i rami di ulivo benedetti.
La ressa, la folla, l’accalcamento, la gara, l’ansia inconfessata, l’entusiastico desiderio, il gesto tradizionale, il segno scaramantico, l’attesa, la momentanea dimenticanza dell’essenziale, l’euforia generale dell’ambiente specifico, chissà…

Fatto sta che in questo piccolo episodio ricorrente trovo in effetti una piccola ma significativa “prova del nove” della effettiva sostanza della Pasqua, e della partecipazione alla chiesa, per tanti di noi, o per alcuni di noi: la ressa per accaparrarsi i rami più belli dell’ulivo benedetto, i più grandi, i più frondosi, e per accaparrarsene non uno per sé ma più di uno, uno anche per i figli, uno per i nipoti, uno per i vicini di casa, uno per l’amica, uno in sovrappiù perché non si sa mai…

Cosa che, di per sé, costituisce buono e lodevole pensiero, naturalmente.

Ma il lato che mi lascia sempre nuovamente perplesso, e malinconicamente curioso alla ricerca di qualche eventuale indizio di cambiamento, è che la ressa, nel suo malcelato tentar di essere pure educata e rispettosa, di palesarsi senza escandescenze, è proprio “ressa”, e in quanto tale finisce oggettivamente per non avere quasi mai compassione né rispetto del prossimo più debole, quello che al rametto di ulivo giunge in ritardo, per debolezza di passo o per buona educazione.

Nella ressa ognuno agguanta il suo piccolo malloppo come una conquista, lo rende il più corposo possibile, e scappa via; qualcuno lascia l’obolo, qualcuno un sorriso, qualcuno un augurio di Buona Pasqua, qualcuno persino si sforza di fare spazio a chi viene dopo di lui: ma relativamente pochi, alla fine, lasciano una traccia esplicita, chiara, testimoniata, di solidarietà e comprensione, di tenerezza e generosità, per chi resta senza ramo di ulivo o deve accontentarsi dei rimasugli semidefoliati, quelli che proprio, anche nell’aspetto esteriore, non hanno neanche più la sembianza di rami di ulivo.

Beh, c’è poca Pasqua, in questo piccolo, particolare gesto della festa; poca Pasqua cristiana, almeno. C’è poco Gesù Cristo, poco di quel Gesù che subito dopo confessiamo tanto solennemente alla messa come il nostro Dio e Signore insieme con i nostri fratelli. E per questo, a volte, invece che sentirmi “felice come una pasqua” in tanto tripudio di rami, mi sento un po’ malinconico.

E mi vien da pensare, più o meno, rivolgendomi mentalmente a ciascuno dei miei fratelli di fede, e scoprendomi anche ogni tanto a distrarmi per un momento dalla messa: “Caro fratello (e soprattutto cara sorella, dato che in questa Milano-Sanremo liturgica mi pare empiricamente che le donne, e non quelle giovani, prevalgano di gran lunga): forse dovremmo ricordare con più attenzione il significato di quel ramoscello d’ulivo che stiamo prendendo in mano, ricordarlo davvero alla luce di quel giorno di duemila anni fa raccontato dal vangelo; e sentire perciò l’impulso che, se ne prendiamo uno per noi e per la nostra famiglia, e magari uno anche per il vicino di casa, dobbiamo però aver cura di lasciarne uno all’altra donnina che avanza più educata o meno muscolosa di noi nella ressa, o al giovane che per rispetto dell’età altrui si lascia sopravanzare ma osserva il banco che si svuota rapidamente lasciando per lui e per gli altri soltanto tronchicini defoliati…”. Perché essere cristiani, in quel momento, mi pare anche questo…

Insomma, domenica delle palme, anche quest’anno, e per questo piccolo aspetto… poco liturgica e molto rituale, poco cristiana e un po’ folclorica. O almeno, così a me sembra. Ci penso su, uscendo dalla chiesa. Mi accontento dei miei ramoscelli non foltissimi. Anzi, ne ho potuto prendere uno anche per le mie figlie. Sono davvero contento. E’ il segno della mia Pasqua. Il segno profondo, anche se solo simbolico, di quel Gesù nel quale credo e che ho davvero incontrato nella messa. No, non ho fatto e non farò mai la gara per i ramoscelli più belli e più folti.

Ma, durante la messa, mi è restato il pensiero fisso anche su come doveva essere la folla che osannava Gesù nella Gerusalemme storica di quell’anno primo della Pasqua cristiana, o meglio di quel primo anno di “festa delle palme”: c’era la ressa, anche allora, ed era fatta di appassionati di fede in attesa del messia promesso dai profeti, di discepoli del Battista dal cuore grande, di umile gente sincera del popolo e sbalordita dai miracoli di Gesù, e anche di un nugolo di curiosi, di pettegoli, di indifferenti, di ritualisti del tempio in gara per catturare un ramo di palma o di ulivo da tenere per ricordo perché “questo Gesù di Nazareth sta facendo parlare tanto di sé che, chissà, passerà alla storia, magari caccerà i romani dalla nostra terra, magari ci farà rivivere le glorie di Davide e di Salomone… il grande Israele… magari farà arrabbiare tanto i nostri sacerdoti e scribi perché, dopotutto, si dimostra più coerente di loro… E insomma… è importante esserci, oggi, è importante dire ai nipoti: “Vedi questa palma? E’ proprio del giorno in cui il nuovo re passava in mezzo a noi: e io c’ero, e ne ho catturato una anche per te, per tuo ricordo, perché io facevo il tifo per lui…”.

Tutto il resto, che lui sia Dio o non lo sia, che occorra davvero amare il prossimo come lui dice, che poveri e umili valgano davvero, davanti a Dio, come quelli del sinedrio, come lui sostiene… Beh, che importa tutto ciò? Apparenze, convenienze, riti, tradizioni… belle, giuste, ma, diamine, con un po’ di giudizio, senza esagerare…”.

Sì, siamo proprio noi, siamo proprio quelli, siamo uguali, ancora dopo duemila anni; anche nelle piccole cose. Anche nella gara per i ramoscelli d’ulivo in questo giorno di festa. Chissà, forse è anche per questo che il regno dei cieli dura tanta fatica ad affermarsi, anche fra noi credenti… Ancora dopo duemila anni non ci riesce… e ancora continuiamo a pensare che sia questione di miracoli tonanti, non anche della piccola vita quotidiana affidataci…

Lo so, ora voi mi direte: “Beh, a cosa ti attacchi, tu… a simili quisquilie… la gente è così, si sa, ma che c’entra con la Pasqua? Ci sono ben altri problemi… I musulmani… le scuole cattoliche… le elezioni con una lista di ispirazione cristiana…”.
Avete ragione. Forse. Lo sapete, del resto, che io sono fatto così. Non riesco a levarmi dalla testa che le cose piccole siano segnacolo di cose più grandi, che le une e le altre siano legate fra loro, che tutto anzi cominci forse dalle piccole… Mah!... sono fatto così…

Eppure: che grande spettacolo sarebbe stato, che predica silenziosa per i non credenti, che profumo di amicizia ed affetto avrebbe pervaso la chiesa, la piazza, gli estranei passanti, che misericordia fra noi… “Guarda… gente che si vuole bene, che si dà la precedenza anche per un ramoscello di ulivo… qualcosa di serio e di bello deve pur esserci, fra questi... di diverso da ciò che si vede fra gli altri…”.
Che bella Pasqua sarebbe! Questa, sì, da contrapporre con giusto orgoglio alle bombe di Bruxelles.

                                                                                                                                                      ​(Giuseppe Ecca)
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Europa

LA CULTURA PER USCIRE DAL GUADO

Leonardo Guzzo scriveva questo articolo circa un anno fa: ed è interessante osservare, oggi, come un’attenzione crescente circondi effettivamente il tema dell’indebolimento qualitativo dell’azione culturale in Europa, quasi a risottolineare la necessità di riscoprire finalmente il primato necessario di questo tema se si vuole restituire presa forte, nella coscienza degli europei, all’idea della unificazione del continente. Non avevamo presente l’articolo di Leonardo Guzzo, in occasione del recentissimo convegno di Padova dedicato al tema europeo, ma non è casuale che anche a noi sia venuto spontaneo proporre al convegno, nell’intervento introduttivo, la necessità del “rovesciamento necessario di paradigma: dalla centralità dell’economia alla centralità della cultura, anche per fare economia sana ed europea”.
 

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In un lungo articolo del 1984 (!!!) sul Corriere della Sera il celebre storico francese Fernand Braudel lamentava come, a quasi trent’anni (all’epoca, oggi a oltre sessanta) dalla firma dei trattati comunitari, stentasse a emergere e ad essere valorizzata la concezione di una “cultura comune europea”. Eppure, sosteneva Braudel, agli albori della globalizzazione, al cospetto di una prossima radicale ridefinizione della mappa geopolitica del mondo, la cultura era (ed è) la carta vincente dell’Europa. Se il primato politico ed economico del continente era ormai un lontano ricordo e i limiti dell’integrazione mettevano in forse la stessa capacità di competere sul mercato globale, l’Europa poteva ancora contare su un indiscutibile, per quanto vago, primato culturale. Il Vecchio Continente era il punto di irradiazione di un sistema di valori capace di attecchire in tutti gli angoli del mondo, all’interno di soggetti politici dai caratteri assai diversi: dalla superpotenza americana ai moloc sbreccati d’oltrecortina, dall’America Latina all’Oceania, dall’Estremo Oriente alle immense sabbie della “Umma”.
 
In nessun altro ambito come in quello culturale, sosteneva Braudel, “l’Europa è esplosa sul mondo”. Con l’effetto che “l’Europa culturale si stende, come una veste immensa, sopra l’Europa geografica”. Figure come Dante e Cervantes, Shakespeare e Mozart, Goethe e Rabelais hanno inciso sul Vecchio Continente, e su ogni angolo del pianeta, assai più di quanto non siano riusciti a fare, anche solo lontanamente, Carlo V o il Re Sole, Cromwell o Garibaldi, Bismarck o Napoleone. E allora perché mai, si chiedeva Braudel, nell’Europa “adolescente” degli anni ’80, “la cultura non è all’ordine del giorno con il massimo rilievo possibile?”.
 
Oggi, a trent’anni di distanza da quell’articolo, la situazione è perfino peggiore. L’Europa ha compiuto l’unione monetaria e ha moltiplicato la sua burocrazia, ma sembra aver perduto lo slancio vitale che l’ha accompagnata attraverso i secoli: appare invecchiata, sciupata dalla crisi, dalla stanchezza, da un’idea politica che doveva essere “giovane” e “grandiosa” e si è provata “vizza”, “cervellotica”, “vacua”. La parabola dell’integrazione pare ricondotta, per ironia, all’essenza del mito classico: come la fanciulla irretita da Zeus e derubata della verginità con l’inganno, il progetto politico più ambizioso del XX secolo è stato scippato dai governi (e dai burocrati) ai popoli. Oggi il pallido fantasma di quel progetto è sospeso a metà del guado, tra la tentazione di regredire allo storico canovaccio di rivalità nazionali e lo sforzo immaginoso di proiettarsi verso il futuro globale; vacilla, resta esposto alle correnti e a tutto il turbinio di vortici che può definitivamente travolgerlo.
 
Di un’autentica, consapevole integrazione culturale ancora neanche l’ombra… Ticchi e ubbie, pregiudizi e idiosincrasie governano i rapporti tra le nazioni molto più della coscienza di un’identità comune. Al punto di aver innescato un progressivo decadimento dello spirito europeista negli stessi cittadini europei. Altro che lenta ma crescente affezione verso la causa (e la casa) comune! Tutte le più recenti intese comunitarie sottoposte al voto popolare, a cominciare dalla cosiddetta “costituzione europea”, sono state malamente rigettate o accolte freddamente, per non dire controvoglia, con margini risicati e un certo disagio. La crisi economica e la risposta, timida e tardiva, dell’Unione hanno chiaramente esasperato questa tendenza fino a portare, per la prima volta, al centro della ribalta movimenti che apertamente contestano la moneta unica e l’impalcatura comunitaria. Come mai nel recente passato, l’idea di Europa rischia di diventare “fuori moda”. Irrealistica e perfino impopolare.
 
Per scongiurare la iattura le ricette sono arcinote. Alla dittatura dei numeri, si dice, dovrebbe sostituirsi una strategia più flessibile e un programma di vera politica economica; l’unione monetaria dovrebbe trasformarsi in una concreta aggregazione politica. Ma forse l’antidoto va cercato più a fondo, nella cultura come fonte e cemento essenziale dell’unità europea.
 
Recuperare e ricostruire un’identità comune del Vecchio Continente è la via maestra per orientare la bussola del processo di integrazione, il passaggio indispensabile per far emergere un senso di solidarietà e fratellanza tra i popoli. Non solo: riaffermare e rinnovare la sua identità culturale è il modo, per l’Europa, di conquistare nuova dignità sulla scena internazionale, di comprendere e magari di dirigere i processi che governano l’evoluzione della società globale. E’ l’unica maniera di tenere gli occhi aperti, a un tempo, su se stessa e sul mondo, sulle “altre Europe” che popolano il mondo.
                                                                                                                                     (Leonardo Guzzo)
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Congresso mondiale delle famiglie

MA CHE STRANE ISTITUZIONI...

La dice chiara, Giuseppe Bianchi, e noi la pensiamo come lui. Non si tratta di “quali idee si hanno” ma del livello infimo a cui sembrano porsi sempre più il rispetto reciproco fra opinioni, la correttezza istituzionale e la chiarezza di ruolo delle rappresentanze di parte. E, a quest’ultimo proposito, se la Cgil si è pronunciata, la Cisl non esiste in Istat? E cosa pensa? Non vale proprio la pena che ce lo faccia sapere? E il presidente dell’Istat presiede una istituzione dello Stato e di tutti i cittadini, o un accordo fra partiti?

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Chi dice che il Sindacato è in crisi? Il nuovo Presidente dell’Istat, Prof. Blangiardo, illustre demografo, ha ritirato l’adesione personale alla tavola rotonda dedicata alla “protezione della vita e crisi demografica” organizzata dal Congresso Mondiale delle Famiglie, perché il sindacato interno della Cgil e la rappresentanza delle donne dell’istituto hanno giudicato sbagliata questa scelta.
In quale paese un sindacato interno ha tanto potere da condizionare le scelte personali di un presidente, ed in quale paese un presidente si piega a tale potere sindacale? Si ammetta pure che il citato congresso sia una raccolta di parrucconi reazionari, espressione di un cattolicesimo “medioevale” (così è stato definito). Ma si tratta pur sempre di una sede in cui si manifestano idee, si ragiona, si scambiano opinioni, non si producono norme che impegnano chi non è presente né, tanto meno, si progettano ritorsioni nei confronti di chi la pensa diversamente. E’ così compromettente che il presidente dell’Istat, a titolo personale, porti la sua competenza demografica in un dibattito pubblico? Forse il sindacato interno avrebbe avuto precedenti occasioni per difendere l’autonomia dell’Istat quando l’elezione del presidente è entrata nel crogiolo degli scambi tra partiti in un’asta politica per aggiudicare tale poltrona prestigiosa.
                                                                                                                                            (Giuseppe Bianchi)

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Europa

TRA NANI E GIGANTI

E’ un articolo già apparso di recente su Il Giorno, fra i tantissimi che trattano, come è giusto e nello stesso tempo come va (forse) troppo di moda, il tema europeo. “Va troppo di moda” significa soltanto che vediamo, nei ragionamenti sull’Europa, molta più retorica che dibattito profondo. Ma resta il fatto che votare, e votare al meglio possibile, secondo coscienza, per il prossimo parlamento europeo, è atto di responsabilità dal quale nessun buon cittadino dovrebbe dissociarsi. Riproduciamo dunque l’articolo, scusandoci per qualche espressione bruttamente dialettale che esso contiene (“tink tank” è semplicemente un Laboratorio di Pensiero, se si sa parlare in italiano e con eleganza). Preannunciamo che il prossimo 5 aprile si terrà a Padova un convegno proprio sul tema "Europa sì... Ma quale?".
 
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Se la maggioranza degli italiani ritiene l’Unione Europea non madre ma matrigna, una maggioranza ancora più grande vuole restare nell’Eurozona dei 19 Paesi. Segnale evidente di una certa confusione che è bene dipanare alla vigilia delle prossime elezioni per l’Europarlamento. Le prime, nelle quali 27 Paesi – non è ancora dato sapere quale sarà il destino del Regno Unito - voteranno non per scegliere un partito nazionale, ma il futuro dell’Unione. Si prospetta infatti una risicata maggioranza per i partiti moderati e l'ascesa di gruppi più nazionalisti ed euroscettici in quello che sarà il Parlamento Ue piú frammentato di sempre.
                                                                
Che Europa sarà?” si è chiesto in un convegno l’ISPI, uno dei più autorevoli think-tank europei fondato nel 1934. Un’Europa che deve completare, e in fretta, la traduzione nel concreto della magnifica utopia di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi (ispirati da un libro scritto da Junius, pseudonimo di Luigi Einaudi) con la collaborazione di Eugenio Colorni e di Ursula Hirschmann.
 
Al centro di tutto l’Euro, che nel 2019 compie vent’anni, dal quale dipende l’intera Unione Europea. Una moneta priva di una istituzione di riferimento, conseguenza dell’illusione che all’unione monetaria sarebbe seguita l’unione politica e fiscale, grazie ad un governo continentale in grado di tassare, investire, indebitarsi quando necessario. Non è avvenuto. Ed ogni Paese dell’Eurozona fa la politica economica che gli pare, anche se le sue scelte influiscono sui bilanci di tutti.
 
Solo per citare, le norme bancarie sono un cantiere aperto dove è stata imposta una sorveglianza europea sulle principali banche, ma non è stata ancora varata una normativa che garantisca chi nelle banche deposita i propri risparmi. E ci sono da adottare politiche fiscali comuni e in tema di lavoro, di difesa, di welfare, di diritti, di innovazione, di immigrazione, di ambiente.
 
Il problema di fondo, in tema di economia e di vincoli, viene dai Paesi del Nord guidati dalla Germania e investe scelte di ben maggiore calibro: ad esempio, la riluttanza dei Paesi ricchi ad accollarsi i debiti dei Paesi in difficoltà (anche indirettamente attraverso la flessibilita'): saremmo anche disposti a farlo, dice il Nord al Sud del continente, ma prima dovete  mettere a posto i vostri conti. Se non ci aiutate, risponde il Sud, non saremo mai in grado di farlo. I fatti e la logica sembrano dar ragione a questi ultimi.
 
Diversamente, si richiederebbe uno sforzo ultra vires: ad esempio, pur funzionando l'Italia sostanzialmente allo stesso modo dei paesi del Nord ( consistenti avanzi di bilancio) i conti non li riesce a sistemare a causa del costo dell'indebitamento.
 
A maggio sapremo se l'Unione, gigante economico e nano politico e militare, si darà un assetto in grado di competere con le superpotenze Usa e Cina oppure se è destinata a fare la fine della Lega di Delo.  
 
                                                                                                                              (Achille Colombo Clerici)

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Ma mi faccia il piacere...

PROPOSTA DI MODIFICA UNILATERALE: CON TRANELLO INCORPORATO

E’ incerto, quasi imbarazzato, e mi guarda come per scrutare se io mi infastidisca o meno alla sua richiesta di aiuto, dato che è la seconda volta che si rivolge a me. Poi prende confidenza, vedendo il mio sorriso incoraggiante, e si fa avanti:
 
"Sa’, dotto’, io me scuso proprio, ma è quella stessa cosa che le accennai l’artra vorta: nun ci capisco nulla e ho l’impressione che quarcosa nun vada bene. Nun vojo pensa’ male, ma, sa’, con quello che se sente in giro, quarche banca dove miei amici avevano messo i loro risparmi… tutto in fumo… io vojo solo che me li custodiscano, 'sti risparmi… Sa’, pei  figli… Ma nella banca nun ci capisco più nulla. Tant'anni fa te spiegaveno le cose pe' fattele capi', ora è come se proprio facessero apposta a nun fatte capì gnente. E non è solo questione de 'sta stronzata d'inglese, scusi… ma anche quanno parleno in italiano… Scusi, sa’, ma io capisco mejo er mi'  cane… ”, fa con crescente coraggio che inizia a diventare indignazione a mano a mano che si accorge che io lo ascolterò fino in fondo. 

La lettera che mi porge consiste di due fogli a stampa fitti fitti: e gli occhi, in mancanza di un titolo,  mi cadono inevitabilmente sull’”oggetto” della lettera, rilevato in neretto e lungo due righe. Dice: Proposta di modifica unilaterale di alcune delle condizioni economiche del Contratto Quadro del Conto Corrente, dei Servizi Aggiuntivi e delle Operazioni di Pagamento”.
 
“Addio - penso fra me, cercando di non tradire il pensiero per non angustiare l’interlocutore -: lo stanno fregando di nuovo”. Ma gli dico:
 
"Beh, vediamo: diamo un’occhiata a questa lettera, per capire bene, e poi magari ci rivolgiamo anche a qualcuno esperto di banca, e di cui fidarsi", gli dico rassicurante. E leggo ad alta voce, al suo fianco, quanto il suo istituto di credito gli dice

“Gentile cliente, le scriviamo in merito al Conto Corrente numero…di cui lei è titolare. Negli ultimi anni significative modifiche hanno interessato il mercato monetario e il sistema economico nel suo complesso… Il principale indicatore di politica monetaria, il Depositi Facility Rate”.
 
Prosegue per due pagine fitte e incomprensibili, questo testo dissennato, firmato da un tale Mario C…, che si qualifica come “Head of Private & Commercial Clients (ma parlare in italiano no, signor C…? O almeno tradurre, dato che pretende di rivolgersi a italiani?”).
 
E più il testo prosegue, più le parole si gergalizzano e più l’astrusità del pensiero che celano è sospetta.  Sì, mi pare che siamo proprio davanti a una solenne fregatura servita in guanti di velluto a questo poveretto e a chissà quanti altri clienti della banca: ma di quelle fregatura inferte talmente in punta di fioretto, fondate rocciosamente sulla consapevolezza che, salva una piccola minoranza della clientela, il povero che no, se non se ne intende un pochino, non le coglie, perché il cliente medio non capisce e non può capire questo linguaggio da imbecilli incravattati: intanto, perché infarcito di tecnicismi anglofoni mentre si parla a italofoni, e questo è segno di grossolana scorrettezza; in secondo luogo, questo vocabolario tecnicistico è così astruso e improprio che anche gli operatori professionali di banca lo hanno potuto apprendere soltanto dopo specifica preparazione ragionieristico-universitaria, che li ha fatti complessivamente più tonti, meno affidabili e in compenso più capaci di estorcere clausole-tranello ai clienti. Che è quello che piace sommamente agli incravattati  dei piani alti della direzione bancaria.

Ma la sostanza… La sostanza cui questo linguaggio, a un tempo stupido e truffaldino, va a parare, la sostanza, ragazzi, è quella che fin dalle prime righe mi aspettavo: la banca sta dicendo al povero cliente frastornato e fregato, semplicemente, che dal 30 settembre… non soltanto non riceverà più alcun interesse per il suo deposito, ma sarà lui a pagare alla banca un costo per la custodia che la banca fa di tale suo deposito.
 
Ecco la fregatura: la banca prende in custodia i tuoi soldi, ne fa quello che vuole, cioè li investe (se è una banca seria), o li gioca sul mercato finanziario, se è meno seria, cioè ci guadagna in ogni caso, come ogni altro imprenditore che investe o specula, e invece di pagarti, o almeno di garantirti la restituzione piena della somma a tua richiesta, ti chiede… di essere pagata!
 
Orsono una ventina di anni fa ero in vacanza da qualche parte delle Dolomiti e ricordo che vicino a me, in una passeggiata calma di sentiero, un amico della Brianza, conosciuto in quei giorni, mi disse: “ Caro signore, ma cosa crede che ci sia dietro la lentissima ma continua diminuzione degli interessi che la banca riconosce ai Suoi risparmi, e che lei lamenta? C’è un disegno precisissimo: passetto per passetto li ridurranno a zero, questi interessi, e poi sarà lei a dover pagare la banca per la semplice custodia dei Suoi risparmi. In Svizzera già succede, sa’? Lo lasci dire a me, che lavoro in banca…”.
 
Mi era parso veritiero ma anche un poco esagerato e pessimista, quel signore: pensavo che sì, le banche avrebbero progressivamente ridotto ancora e limato i tassi di interesse riconosciuti ai clienti che la finanziavano con i loro risparmi: ma con buon senso ed equità, cioè fino a un certo punto. Mi sbagliavo. Le banche non hanno né buonsenso né equità.
 

Se ci penso… è proprio inevitabile: mi viene alla mente il grande Enrico Brignano e la sua parodia del rapporto fra cittadino e banca. E’ la scena esilarante del “signor Brignani con la o”, che tutti conoscerete, e che comunque vi invito a rivedere: perché è proprio come lui dice; la banca di oggi e il suo rapporto con i cittadini sono così. Competenza e falsità si servono e si rinforzano a vicenda. Parte della nostra storica e bellissima economia pubblica italiana è falsificata da un mercato che ha obnubilato il senso morale e del bene comune, e mantenuto soltanto l’odore putrescente degli affari nascosti e per pochi.
 
No, banca, non sei onesta e, in fondo e nel lungo periodo, neanche intelligente. Sei giocattolo di un ristretto grumo di pescecani criminosi che sanno di essere scaltri e sono pronti a corrompere e farsi corrompere. Probabilmente alla lunga finiranno male anche loro, insieme con te. Tu comunque non meriti più la fiducia delle persone oneste. Sarà meglio che ci orientiamo a rivedere il tuo ruolo, la tua pelle, la tua natura, affinchè torni degna di una economia a misura di civiltà, prima che sia troppo tardi.
 
E al povero cittadino fregato di nuovo a partire dal 30 settembre… lo farò spiegare bene, tecnicamente, da uno degli ancora esistenti, anche se silenziosi e impauriti, operatori di banca onesti.
 
                                                                                                                             (Giuseppe Ecca)
 
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Parlamentari d'Italia

IL GIURAMENTO CI STA BENE

Confermiamo di essere ancora assolutamente d’accordo con la proposta avanzata già molti mesi orsono da Fucsia Nissoli, parlamentare italiana eletta nel Nordamerica: e ne ripubblichiamo qui volentieri il testo, su richiesta di alcuni amici, per sollecitare partiti, governo e colleghi della parlamentare a voler prendere finalmente posizione. La proposta, come ricorderete, è stata sintetizzata dall'interessata con l'affermazioe che “Anche  noi Parlamentari dovremmo giurare fedeltà alla Costituzione.  E sarebbe ancora più solenne se il giuramento fosse seguito dall’inno nazionale”. Ad oggi, infatti, i parlamentari della Repubblica italiana non giurano sulla Costituzione, mentre sarebbe necessario che ciò avvenisse come monito a servire il Paese con lealtà. Spiegava la signora Nissoli  nella sua proposta: 

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“Ho preso spunto dalla vicenda di un collega parlamentare che intende candidarsi al Parlamento di un altro Paese mentre è deputato in carica in Italia. Voglio affermare l'importanza della fedeltà alla patria e agli elettori, ipotizzando appunto di introdurre un giuramento sulla Costituzione all'atto dell'insediamento in parlamento, per richiamare alla lealtà verso il nostro Paese, così come era stato ipotizzato, inizialmente, dai padri costituenti.

Il giornalista Enrico Mentana e altri giornalisti italiani parlarono a suo tempo della candidatura al parlamento federale brasiliano dell’on. Fausto Guilherme Longo, già eletto alla carica di deputato italiano per la Circoscrizione Sud America. E’ necessario fare alcune riflessioni sull’attuale figura del parlamentare italiano, e anche rivalutare la figura di noi parlamentari italiani eletti all’estero, su cui tante ombre e critiche già pesano, e che casi come quello di Guilherme Longo danneggiano ancor più pesantemente.

Per i deputati italiani non è previsto alcun giuramento di fedeltà alla Costituzione della Repubblica italiana, nel momento dell’assunzione delle proprie funzioni. In realtà i padri costituenti si erano posti il problema del giuramento dei parlamentari e se ne può trovare traccia nei lavori della Sottocommissione per la Costituzione durante la discussione sull’organizzazione dello Stato da parte della stessa assemblea costituente.

La commissione era presieduta dal Terracini e nella seduta del 19/09/1946  proponeva di inserire nel testo costituzionale il seguente emendamento: “ Al momento di assumere l’esercizio delle loro funzioni i deputati presteranno giuramento di fedeltà alla Costituzione Repubblicana e di coscienzioso adempimento ai propri doveri”.

Se non che l’Assemblea Costituente nelle sedute del 23/09 e 24/10 del 1947 respinse l’obbligo dei membri del parlamento di prestare giuramento di fedeltà alla Costituzione prima di essere ammessi all’esercizio delle loro funzioni, asserendo che “i deputati, per il solo fatto dell’elezione, entrano, con la proclamazione, immediatamente nel pieno esercizio delle loro funzioni. Tale immissione non è più subordinata alla condizione del giuramento”.

Quindi siamo arrivati alla situazione attuale, per la quale prestano giuramento di fedeltà alla Costituzione ed alle leggi della Repubblica, prima di assumere le loro funzioni, solo il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Presidenti delle Deputazioni regionali, i magistrati, le forze armate e quelle assimilate. 

Risulta effettivamente abbastanza anomalo che i parlamentari italiani godano, secondo l`art. 68 della Costituzione italiana, dell`immunità parlamentare senza dover sottostare a nessun giuramento, codice o regolamento deontologico/morale in qualità di funzionari pubblici, e senza essere neppure controllati nelle loro funzioni e comportamenti da nessuna Commissione disciplinare ad hoc.

Questi aspetti si sono ripresentati con forza di fronte al comportamento dell’on. Longo che si candida al parlamento di un altro Paese. Davanti a una tale situazione viene infatti spontaneo chiedersi: a chi deve la sua fedeltà il parlamentare, in quanto parlamentare italiano? 

Credo che di fronte a questo scenario sia opportuno tornare all'idea originaria dei padri costituenti e cioè prevedere la formula del giuramento per tutti i parlamentari italiani, che potrebbe essere vicina a questa : “Giuro fedeltà e lealtà al Popolo italiano che mi ha eletto ed alla Repubblica italiana. Giuro di difendere i diritti dei cittadini italiani che rappresento, nel rispetto della Costituzione italiana che è la mia guida”.

Un richiamo forte, per noi parlamentari, con cui confrontarci ogni giorno! E un monito a servire il Paese con lealtà, dedizione e onore. Un richiamo che sarebbe ancora più solenne se il giuramento fosse seguito dall'inno nazionale, come già ho chiesto mesi fa in una mia lettera al Presidente Fico, che aspetta ancora una risposta. 

Spero che si affermi la sensibilità istituzionale necessaria per apportare queste modifiche almeno a livello di regolamento parlamentare, per dare un segno chiaro ai cittadini di dedizione al bene comune, superiore ad ogni interesse di parte. Fedeli alla patria, leali e rispettosi verso i cittadini.

                                        (Fucsia Nissoli Fitzgerald)
                                       
Deputata al Parlamento Italiano
                                           Per la Circoscrizione Nord America
 
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Cultura e politica

A PROPOSITO DI DON CAMILLO E PEPPONE...

“Peppone e don Camillo…”: e giù risate. Ancora, il grande capolavoro di Guareschi  fa sorridere, rasserena e infonde positività agli innumerevoli appassionati che lo seguono, ormai da decenni, soprattutto attraverso i volti di Gino Cervi e Fernandel, più ancora che attraverso le pagine del romanzo.
 
Senonchè, per il misterioso destino che a volte colpisce autentici capolavori, e i loro autori con essi, si pensa diffusamente a Guareschi e alla sua opera, più che altro, come a una sorridente descrizione  bonaria della realtà italiana dell’immediato dopoguerra, descrizione tesa a togliere, quasi per principio di buona volontà civile, drammaticità e importanza effettivamente decisiva agli eventi che in quella società si svolgevano.
 
Vale invece assolutamente la pena di sottolineare che Giovannino Guareschi è stato una grande personalità umana, civile e politica, e che la sua opera, e in particolare i personaggi di Don Camillo e Peppone, oltre che un capolavoro d’arte sono un capolavoro di cultura civile e di responsabilità politica, raffinato e impegnato.
 
Per dare una idea della effettiva profondità e radicalità di convincimenti e di impegno anche politico del Guareschi, riportiamo qui un breve passo del suo “Diario clandestino”. Recita:
 
“Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. È inutile, signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. […] Entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti. […] Tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. È inutile, signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d’importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. […]
 
L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te, signora Germania”.
 
Uno studioso di cui non ritroviamo la firma annota giustamente che “Guareschi è famoso soprattutto come autore del Don Camillo. Non molti, però, conoscono l’ampiezza della sua produzione, e soprattutto la sua forza di carattere.
 
Quest’uomo ha affrontato ben due prigionie: la prima in un campo di concentramento tedesco, la seconda nelle carceri italiane. Ed entrambe per una pura questione di principio (nel primo caso, in particolare, perché rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò).
 
Moralmente, inoltre, egli era una delle colonne portanti del campo, nonostante la salute declinante (quando arrivò pesava 86 chili; quando se ne andò, 46). Fondò persino una sorta di giornale clandestino: scriveva articoli che poi diffondeva oralmente, leggendoli nelle baracche per rialzare il morale dei compagni. “Signora Germania” fu, appunto, uno dei pezzi più fortunati.
 
In questo brano troviamo la stessa semplicità dei racconti di Don Camillo (una semplicità, peraltro, non priva di ricercatezza, perché tutto il testo è costruito su metafore e simmetrie). Guareschi stesso, infatti, si vantava di usare in tutto 300 parole per scrivere i suoi racconti. E tuttavia è riuscito a comunicare un’incredibile profondità di sentimenti. Ma da dove viene questa forza?
 
Sicuramente le sue scelte lessicali sono provocatoriamente incisive, e lo stile affabile cattura il lettore senza che se ne accorga. Ma non solo: Guareschi si sforza di trovare parole che abbiano un’eco diretta nell’esperienza del destinatario. Parole, cioè, tanto vitali da poter sopravvivere anche in contesti in cui ogni retorica si disgrega.
 
E non sceglie parole di odio, la cui potenza è più immediatamente percepibile. Sceglie invece di richiamarsi ad altre risorse: la dimensione affettiva (il ricordo di casa) e spirituale (la fede religiosa). Questo infatti è, secondo Guareschi, il nucleo profondo e universale dell’anima umana.
 
E dunque a partire da questo si può costruire un ponte tra gli uomini, ricordando loro la propria dignità. Una vera «fregatura» per ogni riduzionismo ideologico”.
 
                                                                                                                                                   (Anonimo)
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Politica

I CATTOLICI E LA POLITICA: E' RICOMPONIBILE IL DIVORZIO?

I tentativi di costituire ex novo un partito di ispirazione cristiana come risposta all'attuale povertà qualitativa della politica italiana, ma anche alla ininfluenza dei cristiani nella politica italiana, si ripetono quasi con la insistenza con cui si ripetono i tentativi di rimettere in piedi, semplicemente, quello che fu il più grande partito storico dell'Italia repubblicana, cioè la Democrazia Cristiana.

Entrambi i tentativi condividono in realtà, insieme con la insistenza, un vistoso insuccesso che non accenna, per ora, a risolversi, nonostante gli inviti rivolti crescentemente dalla stessa Chiesa a serrare le fila e a voler assumere, da parte dei cattolici, più esplicite responsabilità nella "città dell'uomo".

Agli osservatori più attenti non sfuggono le due cause essenziali del duplice insuccesso registrato finora: nel caso del ritorno a operatività della Dc storica, è la caratura culturale e politica dei personaggi che guidano il tentativo a rivelarsi - non ce ne vogliano - del tutto inadeguata alle necessità comportate da impresa tanto grande che non si perita, con pose retoriche un poco esagerate, di richiamare a riferimento figure del calibro di De Gasperi, Dossetti, Moro, Fanfani, e simili; nel caso della ipotesi di una forza politica da creare ex novo, a colpire è soprattutto la frantumazioe spinta, e i diffusi egocentrismi, dei tanti soggettini che si affannano in una impresa la quale esigerebbe, ad affiancare un pensiero strategico certamente superiore rispetto a quello degli attuali partiti, una grande dote di autodisciplina organizzativa e di cultura interna delle regole, che pare ancora ampiamente mancare, ma che significativamente viene segnalata da un numero crescente di persone in questo variegato movimento, a cominciare dal piccolo gruppo di Democrazia Comunitaria, che ne fa uno dei suoi punti caratterizzanti. 

Tuttavia l'impegno viene confermato e non è detto che un più decente livello di consapevolezza delle citate esigenze di autodisciplina e di cultura delle regole non cominci, anche se lentamente, a fare capolino. L'importanza della posta in gioco è sottolineata, nello scritto che segue, da Giuseppe Bianchi, che dal suo osservatorio Isril, particolarmente attento al mondo del lavoro, non manca di proiettare considerazioni importanti anche sul più ampio scenario sociale e politico del Paese.

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L’occasione creata dal centenario della fondazione del Partito Popolare, ad opera di Don Sturzo, ha riproposto l’impegno dei cattolici in politica che, come è noto, è proseguito con la Democrazia Cristiana, asse centrale del Governo per oltre quarant’anni.

Una cultura ed una rappresentanza oggi dispersa sul piano politico con significative presenze rimaste nelle organizzazioni di volontariato. Analoga sorte è capitata ad altri movimenti politici laici portatori di culture altrettanto solide e consolidate sul piano della rappresentanza.

Fenomeno questo evocato come crisi delle ideologie del Novecento di cui i partiti erano espressione con le loro identità collettive in cui motivazione, ideali e azione politica si sostenevano tra loro, almeno nella rappresentazione offerta al comune cittadino. Sarebbe inutile ora parlare di questo passato se il presente non evidenziasse segni di regressione nella vita politica e civile del Paese.

Il dato emergente è che la politica post-ideologica, avviata da Berlusconi e proseguita dalle successive maggioranze per arrivare a quella attuale, ha assunto un connotato fortemente utilitaristico basato su uno scambio tra benefici economici e consenso politico. Nuove offerte politiche, in concorrenza tra di loro, che si fanno carico di offrire protezione al cittadino, disorientato di fronte alle nuove sfide della precarietà sia essa economica che valoriale.

Due sono gli effetti di accompagnamento di questa evoluzione politica: il cittadino non più partecipe della galassia dei corpi intermedi che, soprattutto a livello locale, lo legavano alla politica, cerca nuove identificazioni in qualcuno che lo rappresenti e lo rassicuri; la nuova concorrenza tra i partiti per acquisire consenso si realizza nella generosità delle promesse che avallano una concezione totalizzante della politica, destinataria esclusiva dei bisogni dei cittadini.

Questa riaccreditata concezione di Stato Provvidenza, alla prova dei fatti non ha prodotto i risultati attesi: sia in termini di soddisfazione dei bisogni economici ed occupazionali dei cittadini, sia in termini di risposta alle inquietudini derivanti dalla messa in discussione di consuetudini e di credenze sfidate dai nuovi sviluppi scientifici la cui irradiazione coinvolge l’insieme del loro vissuto.

A questo punto diventa legittima una domanda? Questa politica ha le energie morali per offrire un futuro al cittadino visto che non tutto è riconducibile a decisioni politiche ispirate dalla razionalità economica (reale o presunta) e/o dalla soddisfazione degli interessi individuali?  Conseguente l’ulteriore domanda che ci riporta al tema iniziale: la cultura cattolica può contribuire a rendere le nostre società più sicure e solidali? Dal punto di vista astratto la risposta non può che essere positiva: per la centralità che viene data alla persona ed ai gruppi in cui si riconosce che riposiziona la politica al servizio dei loro obiettivi; per il rilievo accordato ai valori del pluralismo sociale, della sussidiarietà con cui sconfiggere l’isolamento dei cittadini facendoli partecipi di una rete di aggregazioni comunitarie.

Sul piano pratico tale prospettiva si presenta più problematica. Improbabile un nuovo partito dei cattolici, oggi minoranza dispersa, improponibile un ritorno nostalgico alla Democrazia Cristiana esaurita dal troppo lungo governo, fragile l’ancoraggio alla dottrina sociale della Chiesa alla luce dei mutamenti strutturali intervenuti.

Una soluzione può essere offerta da un rinnovato appello, a cent’anni da quello Sturziano, agli uomini liberi e forti che condividono ideali di libertà e di giustizia e che si riconoscono nei fondamenti dei valori cristiani.

Un appello rivolto ai cattolici praticanti, ma anche ai cattolici insofferenti nei confronti delle prescrizioni ecclesiastiche troppo limitative delle loro condizioni di vita.

Un appello per un comune impegno culturale, prima che politico organizzativo, che accresca la consapevolezza pubblica della modernità e dei problemi inediti che essa produce sui diversi piani della vita in comune, grazie ad un supplemento di virtù che l’umanesimo cattolico può portare alla politica. I cittadini per partecipare alla politica chiedono che non solo i loro interessi ma anche che i loro valori, i loro progetti di vita trovino accoglienza nel dibattito pubblico nella condivisione delle procedure democratiche che ne determinano l’esito.

Questo circuito virtuoso di partecipazione presuppone cittadini informati e consapevoli che la pratica dei doveri è il presupposto per il godimento dei diritti.
                                                                                                                     
                                                                                                                                              (Giuseppe Bianchi)
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Adc-Agenzia di Democrazia Comunitaria

ECONOMIA: IL PIACERE DELL'ILLUSIONE O LA VERITA' DEI FATTI?

La segreteria nazionale della Federazione Lavoratori Elettrici della Cisl, Flaei, ha espresso una posizione semplice e chiara: importa ciò che si fa, piuttosto che ciò che si vieta di fare. Lo afferma, o meglio lo ricorda, prendendo spunto dalla questione energetica, che è la sua competenza settoriale specifica, ma esprimendo una posizione riferibile a tutta la impostazione delle politiche di sviluppo nel nostro paese. Ne riportiamo il testo, con la cui sostanza concordiamo.
 
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La semplificazione dei concetti e delle situazioni porta a riassumere spesso problematiche complesse in domande facili e retoriche per ottenere un’unica risposta buona per qualunque caso, alla ricerca del supporto emotivo delle masse, senza precisare peraltro effetti e costi delle azioni conseguenti.
 
Tutti vogliono il lavoro, ma non si vogliono né le infrastrutture né le grandi industrie che sono
indispensabili per l’occupazione!
 
Esistono centinaia di comitati contro qualunque intervento, che dicono “No, e soprattutto non qui vicino!” (“non nel mio giardino”, direbbero gli anglosassoni).
 
No Tap. I pugliesi non disdegnano il gas nelle case, ma sono certi che continueranno a goderne anche senza il Tap? Dipendere da pochi fornitori mette a rischio l’economia e la sicurezza del Paese: è indispensabile differenziare le fonti per un’equa negoziazione e per un sicuro approvvigionamento.
 
No Tav. Un’infrastruttura che permetterà di trasportare merci e persone su rotaia, e che in questo momento significa anche lavoro, dovrebbe essere bloccata senza valide alternative?
 

No Termovalorizzatori. Il problema dei rifiuti si risolve esportandoli in Austria-Portogallo-
Germania-Cina?
 
No carbone - No Centrali a Gas. Il futuro è dell’energia pulita e poco costosa proveniente da fonti rinnovabili. Ma la transizione energetica va accompagnata. La chiusura delle
centrali a carbone va programmata: la Germania ha definito una strategia prevedendo la fine
dell'utilizzo del carbone entro il 2038. E le centrali a gas dovranno continuare a svolgere un ruolo
sussidiario per garantire la potenza di base. Nel rispetto della sicurezza e dell’ambiente.
Per le prospettive future del nostro Paese non possiamo prescindere da alcune considerazioni: il costo dell’energia in Italia è del 30% superiore al resto dell’Europa; i prodotti della nostra industria
nascono quindi più cari per la componente energetica e meno competitivi sui mercati. Se si aggiunge il differenziale nei costi della manodopera si comprende quanto sia difficile mantenere la produzione nel nostro Paese.
 
Anche da qui nasce la cosiddetta “fuga dei cervelli”: se in Italia non c’è industria non ci può essere ricerca di base né sviluppo di prodotti né lavoro per le nuove generazioni che hanno studiato e che hanno ambizioni e progetti. Opportunità di lavoro, studio e ricerca esistono all’estero! In Italia sembra si voglia misconoscere il valore dell’istruzione e dello studio!
 
Resistere al richiamo di certe sirene, essere consapevoli che il privilegiare l’oggi rispetto al domani farà pagare a qualcun altro il conto di queste scelte “illusorie” e superficiali comporta la necessità di prendere in mano il nostro futuro ed alzare la voce, analizzando pro e contro di ogni scelta, nell’interesse nostro, dei nostri figli e del Paese, oggi e domani.
 
 
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Adc-Agenzia di Democrazia Comunitaria

ELEZIONI D'ABRUZZO: AL DI LA' DEI BATTIBECCHI

Siamo cittadini responsabili e attivi e ci sembra conseguentemente giusto seguire anche la vicenda politica del nostro paese e della sua democrazia. La citazione del commento di "Democrazia Comunitaria" al risultato elettorale d'Abruzzo, in questo quadro, vuole stimolare, ove i lettori lo gradiscano, un costruttivo di battito sul bene comune del nostro paese anche sotto questo profilo
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Ma che importanza si è mai convinti che possa avere il continuare a commentare gli esiti elettorali in modo reciprocamente avvelenato, sempre astiosamente ostile verso gli avversari, vincitori o sconfitti che siano? E’ un costume soltanto negativo, e soprattutto diseducativo per la cultura democratica. Un costume che appartiene sostanzialmente a tutte le attuali formazioni politiche senza eccezione alcuna, da molti anni a questa parte.
 
A noi preme piuttosto osservare la oggettiva realtà dei fatti, in questo caso quelli della tornata elettorale abruzzese, che mette in primo luogo davanti ai nostro occhi, ancora una volta, la molto scarsa affluenza alle urne: appena poco più del 50% degli elettori è andato a votare. Brutta china, questa, per la pratica democratica. Davvero brutta. Soprattutto per un motivo semplice: meno elettori partecipano al voto, più viene facilitato il lavoro oscuro delle cosche organizzate, o anche soltanto dei semplici gruppi organizzati di interesse, e meno rilevante diventa il peso del reale e complessivo “bene comune”. Noi, personalmente e come Democrazia Comunitaria, ci preoccupiamo tutte le volte che la partecipazione al voto scende al di sotto del 90%. Restare sempre al di sopra di questa percentuale è l’obiettivo ideale di Democrazia Comunitaria per l’Italia.
 
In secondo luogo, ci sembra doveroso prendere oggettivamente atto del largo successo ottenuto, sia pure dentro la citata percentuale scarsa di votanti, dalla coalizione di centrodestra, e specificamente dal candidato proposto per essa da Fratelli d’Italia. Ne prendiamo atto e gli auguriamo sinceramente buon lavoro per il bene dell’Abruzzo: e vigileremo attivamente sul positivo svolgimento del relativo mandato. Approveremo le cose positive che farà e lo sosterremo in esse, lotteremo contro quelle negative che dovesse proporre o fare.
 
Restiamo preoccupati, d’altro lato, della china non positiva confermata dal Partito Democratico, convinti come siamo che al crescere di una forza sempre più coesa del centrodestra – così ci sembra ragionevole presumere - la dialettica democratica debba giovarsi del confronto con una forza alternativa non meno strutturata e consistente. Pensiamo in verità che il Partito Democratico  debba concentrare ora su se stesso i suoi sforzi, cioè sul proprio lavoro interno di ricostruzione di una identità sociale e culturale forte presso la sua base sociale, piuttosto che sulle acrimoniose e aprioristiche accuse agli avversari.
 
Quanto al Movimento Cinquestelle, che esce sconfitto dalla tornata elettorale, esso deve semplicemente decidersi ad effettuare il passaggio strutturale verso la configurazione di un vero partito organizzato, organicamente raccolto intorno a una esperienza di democrazia associativa vera e localmente diffusa fra la gente: la brillantezza delle recitine eleganti in tv su temini preconfezionati che paiono imparati a memoria prima di entrare in camerino, non rende quanto la austera serietà delle analisi dei problemi e della relativa organicità di valutazioni che bisogna imparare a fare, studiando con serietà e continuità i problemi. Se si vuole avere la maturità necessaria per governare.
 
Infine: abbiamo visto comparire, sullo sfondo dei vistosi manifesti elettorali affissi nelle sedi in cui la campagna elettorale è stata vigilata e governata, anche l’antico e glorioso scudocrociato di quella che fu la storica Democrazia Cristiana. Non sappiamo neanche chi lo rappresenti, ormai, quello scudocrociato tirato a brandelli da un nugolo di piccoli e mediocri pesci pescatori senza oggettiva speranza (no, non vogliamo chiamarli pescecani: qualcuno lo è, ma la maggior parte sono solo mediocri pesciolini senza arte né parte, in un mare di cui dimostrano di neppure conoscere l’acqua). Informazioni non sappiamo ancora quanto definitive ci dicono che i suoi specifici suffragi si sarebbero aggirati intorno al 2%. La facile tentazione, per gli aspiranti eredi dello scudocrociato, davanti a un risultato simile, può essere quella di continuare la malinconica prosopopea autolaudativa e speranzosa, senza entrare mai nel nerbo vero (e temuto nei fatti, ci sembra, da quasi tutti questi veterodemocristiani) di questa presenza nel mondo politico italiano attuale: che è la semplice e profonda necessità di costituire un esempio diverso e superiore di pratica democratica e di testimonianza valoriale fra i cittadini. Quella che vuole essere, appunto, la caratteristica saliente di Democrazia Comunitaria. 
 

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Anzianità

LA LETTURA: UNA GRANDE RISORSA PER GLI ANZIANI

L’autorevolissimo gerontologo Massimo Palleschi si sofferma ancora sul tema di come la qualità della vita possa essere migliorata negli anziani: e questa volta tratta l’argomento “preziosità della lettura”. Ci dobbiamo ricordare di questa preziosità, e fare un allenamento indefesso alla sua compagnia, prima che l’età ce lo renda faticoso.

L’unica piccola riserva tecnica che ci permettiamo allo scritto molto bello e molto utile del professor Palleschi è la chiamata in causa delle statistiche di Economist. Non hanno la serietà e affidabilità con le quali vogliono accreditarsi: e gli italiani, per quanto leggano poco, non leggono affatto meno che negli altri paesi citati. Se ad esempio si prende il caso del Giappone, spesso chiamato in causa, si scopre che… la così diffusa lettura quotidiana da parte dei giapponesi è, in prevalenza, una lettura… dei titoli dei giornali. Proseguiamo dunque la nostra serena strada di miglioramento delle nostre abitudini, ma senza eccedere nei paragoni pessimistici con gli altri paesi.


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La lettura ci mette in contatto con il pensiero di tanti personaggi dotati di  grande ingegno. Già solo per questo motivo dovremmo cercare di conservarci questo privilegio ed immenso piacere fino alla fine dei nostri giorni.

La lettura amplia i nostri orizzonti e ci aiuta a dar voce al nostro mondo interiore.


Poco più di tre anni fa ci eravamo intrattenuti sull’argomento, visto soprattutto come un mezzo di comunicazione ed un antidoto contro la solitudine. Avevo anche accennato ad un confronto con i moderni sistemi di comunicazione (la rete).


Adesso vorrei approfondire soprattutto gli aspetti relativi ad un arricchimento spirituale della persona anziana esercitato da frequenti e buone letture.


Già in precedenti occasioni abbiamo avuto modo di accennare come la caratteristica fondamentale dell’attività cognitiva umana sia quella di un pensiero astratto ed articolato che può essere espresso con il linguaggio parlato e in forma anche più evoluta con quello scritto.


La lettura è comparsa circa 10.000 anni fa, molto dopo l’avvento del linguaggio parlato, nato circa 150.000 anni fa.


Le possibilità di comunicare agli altri con il linguaggio il nostro pensiero e di ricevere quello degli altri sono veramente imponenti e presentano variazioni all’infinito. Hanno però il limite di  doversi                                               
effettuare con un numero limitato di persone e soprattutto con i contemporanei.


La lettura ci consente invece di parlare con i morti, o se volete di viaggiare nel tempo, come ha fatto notare in un interessante e recentissimo articolo il prof. Sabino Cassese.


Anche se i nostri interlocutori non sono presenti, non ci sono più, però possono continuare a farci da consiglieri, da suggeritori, da maestri di vita.


La lettura produce un gran piacere che può essere messo a dura prova solo da gravi malattie (a volte non sufficienti neppure esse  a togliercelo ) e da una orribile consuetudine: non essere stati abituati a coltivarla sin dall’infanzia, a intenderne il significato, a praticarla per comprendere meglio il mondo e noi stessi ed in sostanza per migliorarci.


La lettura è un mezzo fondamentale per la formazione spirituale della persona. Diceva il sommo poeta, Dante Alighieri: “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtude e conoscenza”.

Uno dei modi migliori per seguire il consiglio di Dante è proprio la lettura. Qualsiasi lettura? Direi proprio di no, sottolineando subito che in queste mie brevi riflessioni prescinderò  da analisi per così dire sistematiche, come quella di Raymond Queneau che nel 1956 ha fatto un’inchiesta sui cento libri che vanno letti, o quella di Nicola Cardini che nel 2011 ha Indicato i libri della “biblioteca indispensabile”.                            
 
Io utilizzando criteri più semplici e pratici, distinguerei anzitutto “le letture professionali”, cioè quelle riguardanti le informazioni e gli approfondimenti attinenti alla propria attività lavorativa, presente o passata, dalle letture che concernono la cultura generale, il sapere per il sapere, ed è a queste ultime che mi riferisco in questo elaborato.

Per chi ha una discreta pratica di lettura, non è molto difficile fare un’ulteriore selezione ed escludere libri ed articoli fatti per guadagno o per propaganda o per altre misere ragioni e senza la minima capacità ed autorevolezza culturale.


La lettura così selezionata costituisce un importante motivo di gioia spirituale, non paragonabile a quello che si definisce semplicemente un passatempo.


E’ così evidente l’influenza che la lettura esercita sul modo di vivere e di pensare di una persona, da riconoscere subito in poche battute di conversazione se si tratta di un soggetto abituato o no a leggere.


Lettura e cultura costituiscono un binomio inscindibile, che tanta importanza riveste nell’evoluzione di una società.


Chi cerca di esercitare il pensiero critico ( o se volete la cosiddetta logica del quotidiano), chi cerca di comprendere meglio ed analizzare la realtà che ci circonda, senza anche arrivare all’ambizione di  contribuire a cambiare il mondo per farne un posto migliore, può però aspirare  ad essere un soggetto non completamente passivo. Inoltre l’attitudine a recepire attraverso la lettura il pensiero di persone di alto valore ci permette di considerarci cittadini più informati e più responsabili.


Il declino economico e complessivo del nostro Paese sembra sia fortemente connesso alla suo decadenza culturale.


In Italia vi è una bassa percentuale di laureati rispetto agli altri Paesi Europei, si legge poco e male, il 60% dei nostri concittadini non legge nemmeno un libro l’anno, secondo i dati dell’Economist siamo al 22° posto in Europa per diffusione dei quotidiani.


Eppure già dai tempi antichi era stato compreso ed apprezzato l’alto valore della cultura e della lettura. Seneca diceva che la lettura “è cosa giovevole e necessaria perché alimenta e ristora il cervello”.


In epoche più recenti ricordo che Italo Calvino pensava che la lettura ci permette di entrare in un universo straordinario, fatto di avventure e segrete emozioni dell’animo, ma anche di prese di coscienza e di analisi della realtà.


Se tutto questo è vero, lo è anche o soprattutto per la persona anziana.


I soggetti di età avanzata possono avere diversi problemi (di salute, ma non solo) incombenti, che facilitano il disinteresse verso le esigenze non impellenti, come quelle culturali.


L’assenza di un’attività lavorativa, i minori contatti con i propri consimili, le maggiori difficoltà di accesso alle fonti di informazione, uno stato dell’umore  tendente spesso verso livelli non elevati, tutto ciò rende forte il rischio di un isolamento e di un impoverimento spirituale, ideativo.


Uno dei migliori antidoti verso questa sfavorevole possibilità è la lettura che ci mette in contatto con il mondo meraviglioso delle idee, del pensiero, delle emozioni.


Si tratta di un mondo che nessuno ci può togliere, che in parte ci ripaga dell’ingiustizia di avere poco, rispetto a chi crede di avere tanto ma che in realtà è povero dei valori che danno un senso alla vita.                      
                                                                               
                                                                                                                                 (Massimo Palleschi)
                                                         
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Adc-Agenzia di Democrazia Comunitaria

E LA CHIAMIAMO "DEMOCRAZIA COMUNITARIA"

Beh, insomma: tanti di voi mi hanno scritto, o telefonato, chiedendomi "che succede". Succede che acceleriamo, succede che tutta la pazienza, la prudenza dell'attesa, la doverosa calma della costruzione, durata anni, se ne sono andate, giustamente: hanno esaurito il loro compito, e a noi è  parso che onestà e intelligenza richiedessero che i nostri ideali, la nostra onestà, e, perchè no? il nostro amore per l'Italia, e per il sogno di un mondo più giusto, dovessero passare decisamente all'azione. E così mi è parso giusto scrivere. In questo modo, semplicemente, è nata Democrazia Comunitaria. Come ho detto su Feisbuc. Per costruire. 



                                                                                                                                                                                             Preg.mi:
  • Dott. Giuseppe Ecca
  • Signor Ecca Giuseppe
  • Egregio Mestesso
                                                                                                                                                                                                 Roma
 
 
Cari amici,
 
il 18 gennaio 2019 appena trascorso abbiamo commemorato e approfondito, in tantissimi ed in tutta Italia, Luigi Sturzo e il suo grande messaggio all’Italia politica dei cattolici, dei laici di buona volontà, di tutti i “liberi e forti” animati da desiderio e volontà di bene comune.
 
Lo abbiamo fatto in diversi convegni di studio, accompagnati, a seconda dei casi, da momenti religiosi, da intenzioni culturali, da obiettivi dichiaratamente politici o prepolitici.
 
Personalmente ho partecipato a quello che si è tenuto presso il Senato della Repubblica, raccolto attorno a Gianni Fontana, con amici di diverse esperienze e provenienze d’Italia.
 
La sorpresa più bella, per me, in tale convegno, è stata costituita dalla presenza di un gruppo di giovani studiosi di diverse università italiane, del Nord e del Sud. Quanti mi conoscono sanno che sono contrario alle facili retoriche di categoria, e quindi anche a quella giovanilistica: e pertanto non le incoraggio. Ma, a mano a mano che questi giovani esprimevano le loro idee e l’approfondimento raggiunto dalle loro ricerche, mi dicevo: “Ecco pienamente confermata una delle meravigliose ricchezze italiane: il nostro paese è socialmente disordinato, amministrativamente affastellato, legislativamente elefantiaco, politicamente tribalizzato, economicamente frantumato… Eppure riesce sempre a produrre un livello alto di individualità, seminate in ogni campo: in questo caso, nel campo della pur confusa e clientizzata situazione universitaria. Quelli che stanno parlando ora sono bei cervelli, di valore molto promettente, personalità di nuovi italiani in crescita che sapranno farsi valere, in Italia o, eventualmente, anche al di là dei confini nazionali”.
 
L’Italia dei grandi sprechi, delle ingiuste sperequazioni, della burocrazia inefficiente e della politica parassitaria, riesce sempre a essere compensata, in effetti, dall’Italia delle belle intelligenze, delle coscienze ardenti, delle aspirazioni pulite, del coerente sentimento dei doveri e anche degli angoli di efficienza e produttività straordinariamente eccellenti. E’ problema di persone, appunto, non di categorie.
 
E resta comunque, questa Italia, il paese più bello e più ricco del mondo: lo è in tanti suoi giovani, in tanti suoi vecchi, in tante sue donne, in tanti suoi imprenditori, in tanti suoi lavoratori, in tanti suoi artisti, in tanti suoi eroi della solidarietà quotidiana, nella sua sovrumana Roma e nelle altre mille città che, quanto a storia o arte o clima o sacralità di luoghi o santità di persone, valgono, ognuna, una nazione estera. Sì, sono felice di essere italiano, ma sono nel contempo anche indignato della così prolungata incapacità di noi italiani di darci finalmente un assetto anche organizzativamente efficiente, coeso, giusto, progrediente.
 
Ho ripetuto qualcuno di questi concetti nel mio breve intervento introduttivo al convegno, con la solita passione e forse anche con il solito eccesso di velocità espressiva: ma ho ripetuto soprattutto il mio noto pensiero centrale, cioè che è tempo che la politica, e in particolare quella di ispirazione cristiana, riassuma una diversa e superiore consapevolezza di visione e di etica della responsabilità quanto alla necessità di un rinnovato passaggio all’azione concreta. Ecco anzi il senso essenziale della mia presenza al convegno: il passaggio all’azione concreta.
 
Qui ed a voi non ripeto nulla di quanto già conoscete, in termini di analisi e di proposte per il desiderato “passaggio all’azione”: sono cose che, come altre volte vi ho detto, sono abbondantemente presentate nei documenti da noi stessi elaborati, che spiccano, nell’oceano di parole più o meno vuote di questi anni, spiccano per la loro meditatività di lungo periodo, per la loro attenzione valoriale, e anche per le loro concrete indicazioni di traduzione operativa. Sono soprattutto la ormai famosa “relazione Fontana al congresso Dc del 2012”, i documenti del Mantegna e del San Sisto, e pochi altri, epersino, da ultimo, il cosiddetto “documentino” che un gruppo di amici, fra cui voi, ha condiviso con me nel tentativo di catalizzare il passaggio della esigenza di rinnovamento verso l’accennata fase operativa.
 
In fondo, i capisaldi di tale visione e del relativo programma sono sintetizzati anche in quella “bozza di statuto che fu elaborata, con particolare impegno di Fontana e del sottoscritto, nel momento cruciale nel quale, già intorno al 2013, pareva che i nostri propositi potessero finalmente tradursi in azione. Vi sono richiamati la centralità della persona nella sua duplice e inscindibile dimensione individuale e comunitaria, l’economia e l’impresa partecipativa, i sistemi formativi integrati in senso umanistico, lo Stato snello e le autonomie come sussidiarietà, l’Europa Unita come paradigma del mondo unito, la solidarietà diffusa e il bene comune, e così via.
 
Tenuto conto di ciò, questa mia lettera vuole semplicemente confermarvi, come ho ripetuto a voi ed al nostro riferimento di ideali politici, Gianni Fontana, che con il convegno di ieri è sostanzialmente finito davvero, per me, il tempo dell’attesa. E che da oggi passo, semplicemente e umilmente, all’azione per quanto mi riguarda, fosse pure soltanto in compagnia di voi tre, cari amici. Si tratta semplicemente, nella mia coscienza, di senso del dovere e della coerenza: si tratta di non caricarci più della responsabilità di non adempimento di un dovere storico di azione organizzata nei confronti del paese e del suo bene. Non sono infatti colpe e trame di altri partiti ad averci impedito finora di onorare tale responsabilità, ma la nostra incapacità e la nostra scarsa volontà di coesione.
 
Sento di dover aggiungere una sola precisazione: poiché la presente lettera annuncia con semplicità la nascita di un Gruppo che intende denominarsi “Gruppo di Democrazia Comunitaria, regolato dallo statuto cui più sopra ho già fatto cenno, vedo indispensabile che questa esperienza di “passaggio all’azione” venga caratterizzata dai due connotazioni essenziali di cui ho già avuto modo di illustrarvi le motivazioni in più di una occasione:
 
a. la vincolatività senza eccezioni delle norme di comportamento associativo dettate dallo statuto;
 
b. la esemplarità, altrettanto senza eccezioni, dei comportamenti anche morali di chi partecipa a questa esperienza.
 
A molti di voi, nelle conversazioni personali o di gruppo scambiate di recente, in particolare a livello di “caffè chiacchierato”, ho anticipato lo spirito di questo Gruppo dicendo che esso vuole caratterizzarsi, più specificamente, come un modello monasteriale dal punto di vista organizzativo, nel senso della coesione associativa, e come una sensibilità quasi militare dal punto di vista del rispetto delle regole come criterio di certezza, di equità, di garanzia per tutti, ed anche di formazione al vivere comune. Potete immaginare con quale attenzione io pronunci l’aggettivo “militare”, al termine di tanti spettacoli tristi e scandalosi vissuti in questi anni e soprattutto in questi ultimi mesi nel nostro povero e confuso mondo rissoso di matrice democristiana: l’aggettivo “militare” vuole dunque, semplicemente ma fortemente, significare che la regola, in qualche modo sacra perché volta a garantire il bene comune, proprio come lo è la Regola monastica, è anche così esplicitamente esigente da richiamare una disponibilità di autodisciplina anche personale di tipologia, appunto, quasi militare: le regole si perfezionano secondo metodo di partecipazione democratica, costantemente, ma mentre si perfezionano si osservano.Questa sarà dunque, insieme alla citata esemplarità dei comportamenti morali, la “differenza competitiva” della esperienza del gruppo di Democrazia Comunitaria.
 

Operativamente il gruppo prende spunto e accelerazione anche dalla necessità di consentire a chi oggi rappresenta e sintetizza più di altri la nostra concezione valoriale in politica, cioè Gianni Fontana, di passare con maggiore decisione alla citata fase necessaria di vera e propria organizzazione, che, a prescindere dalle eventuali opportunità elettorali, lo stesso Fontana ha più volte sottolineato, capace finalmente di “far politica” cominciando a parlare concretamente al paese attraverso iniziative che nascano e vivano credibilmente in mezzo alla gente, come veri e propri cenacoli comunitari di animazione sociale e di solidarietà sociale secondo la nostra visione valoriale.
 
Cari amici, non so se questo gruppo crescerà o resterà una semplice testimonianza attiva e onesta di impegno civile limitata… a noi tre. Ma in fondo, a ben pensarci, se siamo convinti dei nostri valori, il numero di tre costituisce già una realtà significativa: e allora… cominciamo! Invito intanto voi, se pensate di poter accettare con convinzione questa proposta, a fare anche un piccolo e simbolico, ma significativo, atto di impegno: aderire al gruppo. Formalmente costa soltanto un euro, più l’accettazione dello statuto, che vi comunico contestualmente alla presente; tanto, nella forma: nella sostanza, l’iscrizione “costa” invece la sincera adesione ideale e morale al programma appena richiamato ed ai suoi impegni; ma può rendere una speranza finalmente davvero concreta e operativa al rinnovamento della cultura del bene comune, per il nostro paese e oltre il nostro paese.
 
                                                                                                                                     Giuseppe Ecca
Roma, 23 gennaio 2019.
 
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Esperienze

ALLA SCUOLA DI ENRICO MATTEI

Giancarlo Lorefice ci ha lasciati da pochi giorni. Ha lasciato il grande mondo della Cisl, della Flaei, quello storico della Democrazia Cristiana, e il mondo della umanità lavoratrice, solidale, generosa e coraggiosa. E’ stato per tutta la vita, soprattutto, un sindacalista dal cuore ardente e dall’iniziativa inarrestabile. Un coraggioso che negli anni del terrorismo in Italia, quello delle “brigaterosse” (non meritano certo la lettera maiuscola) e delle sigle neofasciste, non temeva di andare per le strade ad affiggere, anche da solo, manifesti per la democrazia, per la libertà, per l’associazionismo, per i valori umani di fratellanza e solidarietà, per un sindacalismo di lotta e di corresponsabilità partecipativa. Sapeva di rischiare. Ma non si fermava. Lo animava un senso della giustizia grande e attenta agli umili, di fronte al quale metteva da parte anche amicizie e inimicizie. Ci vedevamo, ogni tanto, per un “caffè chiacchierato”. Nelle modalità esteriori poteva apparire facilmente, e appariva a volte, un poco irruento, disordinato, talvolta eccessivo: in realtà amava la cultura, l’attenzione al prossimo,  le cose fatte bene.

Lo avevo chiamato, l’ultima volta, per gli auguri di Natale e del nuovo anno, e mi aveva risposto con voce fioca:
  • Sono all’ospedale, Giuseppe, con una brutta broncopolmonite….
  • Guarisci bene, Giancarlo: ci aspetta uno dei nostri grandi caffè…”
era stata la mia risposta.

Qualche giorno dopo mi ha raggiunto la notizia della sua morte. Di fronte alla quale so soltanto rivolgermi, oltre che a Dio per una preghiera, ai suoi amori sociali e lavoristi di sempre, la Flaei e la Cisl, e dire loro: “Cara sua famiglia prediletta di impegno sociale, non dimenticare Giancarlo e non dimenticare queste figure umili ma a loro modo straordinariamente grandi per generosità, appassionate e ardenti di ideali. Portale a esempio di come si cresce e ci si forma, raccontane la storia prima di perdere tempo con le teorie accademiche e i dibattiti televisivi”.
 
Giancarlo Lorefice era, insomma, l’opposto della serpeggiante tentazione di autocompiaciuta medietà che minaccia anche tanta parte del mondo delle grandi intermediazioni sociali. E quando gli ho chiesto, sarà un anno fa, come mai ancora, “vecchietto pensionato come sei”, si agitasse e si desse da fare come trent’anni fa, mi ha risposto: “Ma tu lo sai bene quali maestri e quali esempi io ho conosciuto. Anzi… ti ricordi quando, qualche anno fa, ti avevo proposto di scrivere insieme un libro su Enrico Mattei, il grande fondatore dell’Eni? Ho iniziato praticamente a lavorare con lui, e ti assicuro che erano orizzonti pieni di efficienza e umanità insieme…”.
 
Fra i ricordi che affiorano nella mia mente ora che lui non c’è più, mi piace segnalarne uno, di pochi anni orsono, che testimonia con particolare efficacia l’impegno antifascista (ma anche anticomunista, e antidittatura in genere) che lo animava e che riprendeva vigore anche polemico quando si riandava a ragionare delle vicende storiche del nostro paese. Un giorno mi scrisse dunque:
 
“Caro Giuseppe,
 
eccoti il link riguardante il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, l’aberrazione del regime fascista, di cui ti parlavo l’altra volta..
 
Oltre a quanto potrai leggere nell'intera e odiosa legge, ti segnalo la seguente, testuale parte specifica: 
 
"Nei procedimenti pei delitti preveduti dalla presente legge si applicano le norme del Codice penale per l’esercito sulla procedura penale in tempo di guerra. Tutte le facoltà spettanti, ai termini del detto Codice, al comandante in capo, sono conferite al Ministro per la guerra".
 
Come se non bastasse, quanto previsto da una legge di inaudita inciviltà giuridica, la Legge 25 novembre 1926 - senza precedenti in nessuna nazione nel XX secolo - a cittadini civili, considerati meno che sudditi, viene applicata  in tempo di pace la procedura penale militare prevista per l'esercito in tempo di guerra, l'obbrobrio del giudizio unico, inappellabile e non cassabile. Nemmeno nella Romania di Ceausescu si era arrivati a tanto. E la firma di tale legge era: Vittorio E. III, Mussolini e il giurista Rocco. Tre criminali.
Giancarlo”.
 
Era così, Giancarlo. Lo ricorderò insomma come una persona anche ruvida ma di coraggio, di solidarietà  e di lealtà.
 
                                                                                                                            
                                                                                                                                             Giuseppe Ecca

MM
 
 
 

Politica

SE IL PROBLEMA E' LA CLASSE DIRIGENTE

Tempi di sintesi, sembra, per il venticinquennale processo di riflessione critica ed autocritica dei cattolici, e del mondo di ispirazione cristiana in genere, sugli effetti della “diaspora” che, dopo la fine della Democrazia Cristiana e degli altri partiti storici italiani, ha caratterizzato la loro presenza nella politica nazionale ed europea.

Non sappiamo come davvero i tormentati e tormentosi dibattiti in corso fra ex democristiani ad aspiranti nuovi democratico-cristiani termineranno, e con quali tempi reali: certo è però che in questi ultimi mesi si sono infittiti eventi e iniziative tese a trovare il modo di “passare alla fase organizzativa”. Non è affatto semplice, peraltro, questa impresa: fa ormai difetto da molto tempo l’abitudine alla grande disciplina organizzativa, e fa difetto anche l’abitudine alla formazione profonda ed organica delle coscienze che caratterizzava le leve storiche di questo e di altri partiti.

E proprio alla cruciale preoccupazione formativa fa riferimento il grande Giambattista Liazza, nella lettera inviatami fin dal luglio 2016 ( e in molte altre) che mi sembra interessante e utile ripubblicare qui di fronte al riaccelerarsi di dibattiti e speranze. Liazza fu  uno dei grandi protagonisti, forse il maggiore, proprio dell’ultima stagione formativa che in Dc impostò la costruzione di nuovi quadri dirigenti all’altezza delle esigenze del paese: poi, prima che se ne potessero vedere i frutti, l’intero fronte della politica nazionale cedette all’avanzare veloce e prepotente di nuovi equilibri anche internazionali. Restò comunque sintomatico che proprio la trascuranza delle grandi esigenze formative, dopo la stagione affidata a Giampaolo D’Andrea allo stesso Gianni Liazza, apparisse, come appare tuttora agli studiosi più attenti, una delle cause decisive dell’indebolimento strutturale del partito e della politica nazionale.

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Carissimo Giuseppe,

dopo la chiacchierata di ieri su Skype, sento il desiderio di scrivere a te e agli indimenticabili amici di cui abbiamo parlato a voce. Primo fra tutti Giampaolo. Quante cose abbiamo fatto insieme, lasciando un buon ricordo nelle persone giovani che abbiamo incontrato! Eppure sono passati anni. Qualcuna di tali persone ho avuto la buona sorte di ricontattarla e vedo che si è ben affermata nella vita: ma tutti questi giovani mi risulta che si siano ben realizzati, confermandosi anche come onesti e attivi cittadini.

Sono orgoglioso di ciò che abbiamo fatto insieme, con pochissimi mezzi e con un’organizzazione essenziale, quasi anemica: abbiamo avvicinato e aiutato a crescere migliaia di persone, in relativamente poco tempo. Sono orgoglioso del progetto Alone.

Lo dico a te e agli amici, con un poco di amarezza: è un grave peccato aver abbandonato quella strada. La crisi della nostra Italia è nelle coscienze dei cittadini ma anche nel suo funzionamento, ormai superato dall’evoluzione rapidissima che sta rendendo incerta ogni cosa, su questo pianeta. Abbiamo una penuria gravissima  di classe dirigente preparata e onesta.

Diciamolo: gli eventi, non sempre brillanti (anzi…) come la riforma del titolo V° della Costituzione, hanno aperto accessi alle posizioni di guida del paese per  gente non adeguatamente preparata e  molto incline a cedere alle tentazioni. La corruzione è diffusa, e i politici non sono sempre i più corrotti, anzi… E’ meglio sottolinearlo. E, purtroppo, in questa situazione, spesso chi fa bene riesce appena a gestire  correttamente l’ordinario: non vedo  progetti importanti, innovatori. Non vedo costruire futuro, soprattutto per le giovani generazioni.

Non vengono formati i cittadini, non vengono nutrite le coscienze, non si impara ad essere, prima ancora di acquisire  il sapere e il  saper fare. L’analfabetismo funzionale ci vede peggiorare nelle classifiche e non perchè la gente non va più a scuola ma perché non impara a ragionare, neanche a collegare la mente al corpo: e pensare che la moderna fisica quantistica ci informa che la coscienza sopravvivrà in eterno. Lo spirito che è in ognuno di noi è energia immortale, il corpo finisce e si dissolve: ma siamo più preoccupati di curare il corpo mortale che di arricchire lo spirito immortale. Come se fossero dimensioni separate.

Formare le coscienze, dunque, rendere gli esseri umani consapevoli e liberi e capaci di essere responsabili su questa terra. Ma chi lo fa? La scuola? Le famiglie? Meglio addirittura la strada, per quanto a volte mi viene da pensare ricordandomi del  ragazzo Gavroche de I Miserabili.

Mi hai detto di Giampaolo. Hanno lavorato seriamente, al ministero dei beni culturali, quando lui ci operava. Condivido ancora un pensiero colto al volo a suo tempo dall’allora capo del governo Renzi (mi si perdoni!...) e che cerco di riportare come lo ricordo; mi pare si riferisse al fatto ben conosciuto di essere depositari, come Italia, di tanta bellezza, ma di non esserne consapevoli, non saper vivere il ruolo storico dell’esserne custodi, e non saper organizzare una giusta “narrazione” in tal senso. Tutti nel mondo mangiano italiano (pensiamo alla diffusione della pizza e della pasta…), molti vestono italiano, scopriamo che la lingua italiana è una delle più studiate al mondo, e tanto altro. Molti stranieri visitano l’Italia proprio per vederne le bellezze. Ma è questa la cifra di consapevolezza e responsabilità degli italiani oggi?

La scuola è terribilmente deficitaria, non riesce a rinnovarsi; il mondo del lavoro non si rinnova nelle organizzazioni e nei metodi, i sindacati tacciono perchè non hanno nulla di significativo da dire e nessuno cura quello che alcuni giustamente chiamano il capitale umano, ma ci si ferma alle frasi retoriche che ormai rischiano di annoiare se non si sa come proseguire il discorso relativo al “cosa facciamo al riguardo”. Il capitale umano italiano dovrebbe essere arricchito e impregnato di storia e di bellezza, se non vogliamo lasciare anche questo patrimonio ad altri paesi, ad esempio ai tedeschi, che mostrano di apprezzarlo.

Serve coniugare il ruolo di chi custodisce e valorizza il patrimonio dei beni anche culturali, con chi dovrebbe lavorare ad arricchire il patrimonio dei giovani, che è il “capitale umano”. Creare classe dirigente con una cifra di identificazione specifica per la qualità umana, per i requisiti personali, per la competenza, per la capacità di servire il Paese. Per fare la differenza e cominciare a costruire futuro, finalmente.

Ci affidiamo alle Universita’? Non ne abbiamo avuto abbastanza? Hanno dilagato negli ultimi trent’anni dandoci quasi il nulla, in questa specifica dimensione. Hanno formato qua e là talenti che se ne sono andati, in gran parte: ma il nerbo della classe dirigente di cui abbisogna il paese non si è visto. Vuol dire che qualcosa non ha funzionato nel senso giusto.

C’è ancora qualcuno che ha voglia di ragionare di queste cose e magari di impostare qualche piccolo rinnovato esperimento, per vedere che effetto che fa, come cantava Jannacci? Se qualcuno, o la Scuola, volessero individuare e sperimentare qualcosa per rinnovare i processi di formazione delle persone, per  un nuovo umanesimo (ricordi le chiacchierate con Pasquino su questo concetto?), siamo ancora in tempo a rimettere in campo tutte le nostre belle esperienze.

Come può cambiare la politica, altrimenti? Occorrono nuovi processi, liberi ma efficaci, per aiutare giovani talenti a diventare classe dirigente. In carenza (purtroppo) di “maestri” bisogna inventarsi laboratori sperimentali dove nessuno predichi ma ognuno cerchi di fare bene e lo  faccia davvero. Io conobbi buoni maestri, che ricordiamo spesso insieme (basterebbe citare Dossetti…), ma adesso ne vedo pochi, in giro.

Non voglio tediarti oltre, ma mi dichiaro sempre disponibile a fare quattro chiacchiere ulteriori su questi temi, con te, come tante volte abbiamo già fatto, ma anche con gli amici che avessero ancora voglia di farne. Gli anni non hanno domato il mio spirito e la natura mi consente ancora di agitarmi come ai tempi in cui ci incontrammo per fare le cose che abbiamo fatto, tantissimi anni indietro, vedendo maturarne qualche bel frutto che tuttora fa onore al nostro paese, dovunque operi.

Continuo ad essere ottimista.
                                                                                                                                           (Giambattista Liazza) 
MM
                                                          
 
 
 

Stato e potere

IL POTERE IN MASCHERA

“Uno Stato nello Stato…”. Così si diceva un tempo, parlando di categorie professionali, di corporazioni di interessi, di gruppi chiusi particolarmente protetti. Ma era nulla, in fondo, nulla di pericoloso, rispetto alla realtà della grande piovra del “potere occulto”, di cui ci parla il grande Norberto Bobbio in questo articolo del 1984. Lo richiamiamo, a oltre trent’anni di distanza, perché non soltanto non tutto è stato ancora chiarito sulle oscure e tragiche vicende di cui Bobbio parla, ma non sappiamo cosa oggi bolla nella pentola italiana in cui sono venute a mancare figure dello spessore di una Tina Anselmi, che parole e concetti e valori come Repubblica, Stato, democrazia, e simili, sapeva cosa erano e lo sapeva con il cuore e con la vita, non con due putridi esami universitari, forse neppure sostenuti o forse “passati” con un diciotto da raccomandazione.

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            Nella realtà, e senza forzature, un doppio Stato esiste davvero in Italia, ma non è quello neo-corporativo: è lo Stato che deriva dalla sopravvivenza e dalla robusta consistenza di un potere invisibile accanto a quello visibile. Alcuni anni or sono uno studioso americano in un libro (tradotto anche in italiano, I confini della legittimazione (De Donato), per sottolineare l’estensione del potere occulto negli Stati Uniti negli anni di Nixon, ha usato l'espressione «the dual State» che corrisponde esattamente al nostro doppio Stato.
            Dei due presunti Stati di una società neocorporativa, dicevo che erano entrambi compatibili coi principi fondamentali della democrazia. La stessa cosa non vale quando dei due Stati l'uno è lo Stato visibile, l'altro quello invisibile. Lo Stato invisibile è l'antitesi radicale della democrazia. Si può definire la democrazia (ed è stata di fatto definita) nei modi più diversi. Ma non vi è definizione in cui possa mancare l'elemento caratterizzante della visibilità o della trasparenza del potere. Governo democratico è quello che svolge la propria attività in pubblico, sotto gli occhi di tutti,  e deve svolgere la propria attività sotto gli occhi di tutti perché ogni cittadino ha il diritto di essere posto in grado di formarsi una libera opinione sulle decisioni che vengono prese in suo nome. Altrimenti, per quale ragione dovrebbe essere chiamato a recarsi periodicamente alle urne, e su quali basi potrebbe esprimere il proprio voto di approvazione e di condanna?
            Che il potere tenda a mettersi la maschera per non farsi riconoscere e per poter svolgere la propria azione lontano da sguardi indiscreti, è una vecchia storia. Questa vecchia storia ha anche un celebre nome che al solo pronunciarlo mette i brividi nella schiena: arcana imperii. Nella sua analisi magistrale del potere Elias Canetti  ha scritto: “Nel segreto sta il nucleo più interno del  potere” (Massa e potere, Adelphi). I padri fondatori della democrazia pretesero di dar vita a una forma di governo che non avesse più maschera, in cui gli arcani del dominio fossero definitivamente aboliti e questo “nucleo interno” distrutto.
            Molte sono le promesse non mantenute della democrazia reale rispetto alla democrazia ideale. La graduale sostituzione della rappresentanza degl'interessi alla rappresentanza politica è una di queste. Ma rientra, insieme con altre, nel capitolo generale delle cosiddette “trasformazioni” della democrazia. Il potere occulto, no. Non trasforma la democrazia, la perverte. Non la colpisce più o meno gravemente in uno dei suoi organi vitali, la uccide. Di tutte le promesse non mantenute, è quella che maggiormente ne offende lo spirito, ne devia il corso naturale, ne vanifica lo scopo.
            Grazie ai risultati ormai noti della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’on Tina Anselmi, ai numerosi documenti resi pubblici, alle dichiarazioni di parlamentari e di personaggi variamente autorevoli, in seguito alle inchieste giornalistiche, sappiamo ormai sulla loggia segreta di Licio Gelli molto più di quello che si venne a sapere  in seguito alle perquisizioni nella villa di Arezzo e nell’ufficio di Castiglion Fibocchi del marzo 1981. Ma prima di allora io stesso avevo cominciato a parlare, se pure con una espressione che era apparsa eccessiva, di cripto governo (in un articolo del 23 novembre 1980). Ho ora sott’occhio la voluminosa e documentata relazione di minoranza dell’on. Massimo Teodori  del partito radicale sulla medesima inchiesta. La tesi principale ivi sostenuta, secondo cui la Loggia sarebbe stata parte integrante del sistema dei partiti e pertanto debba essere considerata come un effetto diretto della degenerazione partitocratica della democrazia italiana, dalla quale sarebbe derivata  una vera e propria dislocazione del potere fuori dalle sedi costituzionalmente riconosciute, si può anche discutere e non accettare integralmente.  Ma è da ritenere fuori discussione che la Loggia P2, come rileva giustamente Teodori, abbia esercitato in alcuni momenti della nostra vita nazionale una influenza ben più ampia, profonda, determinante, che una semplice lobby, e abbia costituito, per l’appartenenza degli affiliati alle più alte gerarchie dello Stato e ai più elevati strati della società, alti funzionari, diplomatici, generali, giornalisti, e quel che è ancora più scandaloso uomini politici di quella che si chiama – oh ironia dei nomi! – l’area democratica del nostro sistema politico, una compiuta organizzazione di potere occulto presso, dietro, sotto (o sopra?) lo Stato. 
            Indipendentemente dalle conseguenze direttamente politiche, che forse non sono da sopravvalutare, la formazione di una simile rete di potere sotterraneo è di per se stessa una vergogna nazionale dalla quale dobbiamo redimerci per potere diventare di nuovo democraticamente credibili. Senza pregiudizi, s’intende, verso le persone, giacché non tutte sono egualmente responsabili, pur senza indulgenze.
            Non possiamo però fingere di non accorgerci che sin d’ora ciò che è emerso dalla documentazione è una prova mortificante della mediocrità intellettuale e morale di una parte non piccola della nostra classe dirigente. Le rivelazioni sulla vita di Gelli sono tali da farci restare allibiti (e inorriditi) alla scoperta che la maggior parte di coloro che sono entrati volontariamente nella sua cerchia per sottomettersi alla protezione di un uomo che non aveva altro scopo che quello di estendere il proprio potere con qualsiasi mezzo, rendendo in cambio della protezione servigi presuntivamente illeciti per la loro stessa segretezza, siano personaggi quasi tutti di altissimo rango e nessuno di essi abbia avuto in anni di commerci sospetti con il fondatore della loggia un moto di ribellione, ed abbia compiuto un atto di resipiscenza.
            Sono considerato uno che vede sempre nero, un pessimista cronico. Eppure confesso che non avrei mai immaginato  che la vita italiana fosse stata inquinata sino a questo punto in cui non sai se più indignarti della bassa qualità dell’intrigo o del grande numero delle persone che vi hanno preso parte, per la spudoratezza di chi ha guidato il gioco o per l’insensibilità di coloro che l’hanno accettato, e dei quali molti vengono chiamati nella retorica di rito delle cerimonie ufficiali “servitori dello Stato”.  La realtà ha superato questa volta la più catastrofica delle immaginazioni.
            Lo Stato democratico deve essere ripristinato nella sua integrità.  Il potere occulto deve essere snidato ovunque si annidi, inflessibilmente. Non ci possono essere due Stati. Lo Stato italiano è uno solo, quello della Costituzione repubblicana. Al di fuori non c’è che l’antistato che deve essere abbattuto cominciando dal tetto ed arrivando, se mai sarà possibile, alle fondamenta.     
                                                          
                                                                                                                (Norberto Bobbio, 21.08.1984, La Stampa - numero 197)

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