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L'INTEGRAZIONE INTELLIGENTE E RESPONSABILE

Non so se ancora operino, perché il mio incontro con loro risale a qualche anno fa e dopo di allora i contatti si sono diradati per esigenze diverse legate soprattutto ai miei impegni lavorativi. Ma la impressione lasciatami dal loro operare concreto, educato, portato direttamente sui problemi delle singole persone, e non sulle generiche posizioni astratte, mi aveva colpito e affascinato vivamente. Perchè cercava contremporaneamente il bene delle singole persone e quello di tutti.

 
La comunità si chiama Ripa dei Sette soli. Sono francescani e amici di francescani. Educati, senza insistere, ti offrono (così fu per me, nei paraggi di San Giovanni, a Roma, quando quasi casualmente li conobbi) questo loro piccolo pieghevole di presentazione: sono persone che hanno “trovato” l’unico modo davvero conreto e giusto concreto di affrontare il “problema immigrati” senza retorica e senza astrattezze. Il problema di quei profughi che sbarcano nel nostro paese, provenienti dall’Africa perlopiù, ed ai quali, una volta che abbiano messo piede in terra italiana, nessuno più dà una mano, lasciandoli a perdersi o a recuperarsi, per i fatti loro, altrettanto disperatamente, attraverso strade e campagne. Molti si salvano e molti si perdono, molti diventano risorse per la società ch eli ha salvati e molti altri diventano minacce e pericoli.
 
Mentre il resto d’Europa, generalmente, fa ancora peggio; da qualche parte (pare lo abbiano fatto più volte maltesi e spagnoli, ad esempio) sparano loro addosso perché non osino neppure mettere piede sul loro suolo.
 
Ripa dei Sette Soli ha letto il loro problema con semplicità ed efficacia immediata, con la semplicità di luce ispirata da San Francesco. Senza la barbara ostilità dei “nonvivogliamo” e senza la contrapposta stupidità irresponsabile dei “ venite-pure-venite-tutti-tanto-qualcuno-ci-penserà-basta-che-non-chiediate-nulla-a-me,  tipico di tanto pollame pacifista, buonista, sentimentalarcadico, compreso qualche cattolico dalla facile generosità retorica a carico dello Stato e in genere degli altri.
 
Da Ripa dei Sette Soli i ragazzi vengono invece raccolti e avviati immediatamente, con amore, a imparare piccolissimi mestieri di vita quotidiana, o a perfezionarli se per avventura già ne conoscono qualcosa. Di quei mestieri utili così spesso alla nostra vita cittadina, e, così spesso, introvabili o trovabili a prezzi esorbitanti fra i nostri connazionali: piccole riparazioni di impianti elettrici o idraulici, piccole riparazioni di falegnameria, tinteggiatura, intonacatura, muratura, pulizia di ambienti e cantine, lavaggio auto, raccolta ortaggi e frutta, piccoli traslochi, servizi di giardinaggio, assistenza ospedaliera, accompagnamento anziani alle commissioni di posta, municipi, medico, ospedali, e ancora taglio capelli e barba, servizi di igiene personale,  preparazione pasti, recapito a casa della spesa, pagamento bollette, cura animali, e vari altri  “problemucci”, come li chiamano loro stessi, per i quali tanti cittadini hanno bisogno di una mano di aiuto e… non sanno proprio a chi rivolgersi.
 
La relazione che si instaura non comporta rischi, nel senso che chi desidera avvalersi di questo “servizio garantito” non ha che da chiamare (così era quando ho conosciuto la comunitài) il numero telefonico 327.1790333, dalle ore 9,30 alle ore 17, o inviare una email a ripadeisettesoli@gmail.com: risponde una operatrice che prende in carico il problema, individuando la persona adatta alla sua soluzione. La prestazione non ha un prezzo o una tariffa: la regola è quella di una offerta libera lasciata al buon cuore di chi chiede il servizio. Si tratta di donazione, oltretutto fiscalmente deducibile, purchè il pagamento di essa avvenga attraverso operazione bancaria o postale.
 
Insomma, la parola d’ordine dei frati minori è: “Accogliamo nella nostra fraternità persone condannate alla vita di strada, per ridare una opportunità a chi non ha più lavoro né un luogo familiare dove vivere. Ma vigiliamo anche sui comportamenti”. La Fraternità di Ripadeisettesoli è in piazza San francesco d’Assisi 88, nel luogo, mi dicono, dove proprio san Francesco di Assisi amava stare in Roma.
 
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NUOVA CLASSE DIRIGENTE PER UN MODELLO DI SOCIETA' PIU' UMANO: COME CAMBIARE LA FORMAZIUONE

E’ addirittura nel 2015 che Gianni Liazza scrive questa riflessione, facendo il punto sui pericoli del progressivo e preoccupante declino delle politiche formative nel nostro paese. Cinque anni dopo la riflessione di Liazza è uscito anche il mio libro di analisi e proposta (“Il sentiero stretto: formazione è un'altra cosa”), ma è da alcuni decenni che condividiamo, con lui e con tanti altri operatori sociali e studiosi dell’educazione, la medesima preoccupazione e i medesimi orientamenti di proposta. Dell’ampio scritto di Liazza pubblichiamo un significativo estratto che ne sintetizza spirito e contenuto.

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L’unico modo di uscire dalla crisi consiste nel cambiare il modo di fare formazione. Da troppi anni abbiamo inglobato acriticamente modelli anglosassoni, poco consoni alla nostra cultura e soprattutto alla nostra realtà imprenditoriale, fatta per lo più da piccole e medie imprese a carattere familiare. Ma lo stesso si può dire per le istituzioni e gli enti pubblici.  Dagli anni ‘80 ad oggi la formazione si è concentrata sull’acquisizione di tecniche e questo ha alienato le persone. Se facciamo dei bilanci, gli effetti sono nulli, se non addirittura devastanti. Le tecniche per fare cosa? Qualcuno ha mai insegnato ad un imprenditore o ad un manager ad essere più che a fare? Se non si torna alle origini e non si parte dalla ricerca autentica e creativa di sé, di ciò che vogliamo realizzare, apprendere una tecnica è solo tempo perso (e anche perdita di soldi…).
Occorre formare una generazione di nuovi imprenditori e manager saggi, solidali ed etici. Occorre ritornare all’essenziale: più alla sostanza e meno alla forma. Tutto questo per educare le persone alla libertà di essere se stesse e di amare sé, gli altri e l’ambiente che le circonda, quale premessa necessaria per innescare un cambiamento radicale del modello economico attuale, rendendolo più umano, liberandolo dalla subordinazione al profitto e magari riuscendo addirittura a renderlo socialmente responsabile e metterlo al servizio della comunità.
La strada è impervia, perché oggi la politica è arrivata a servire l’economia nella stessa maniera in cui i grandi paesi, gli industriali e le istituzioni commerciali o finanziarie si sono infiltrate o hanno subordinato i parlamenti e i governi. Non solo, le regole del gioco della nostra economia politica implicano ormai una subordinazione di ogni cosa a considerazioni meramente finanziarie, subordinazione che disumanizza e finisce per causare notevoli sofferenze. Il potere economico infine, attraverso le imprese a cui appartengono la maggioranza delle emittenti, ha reclutato i mezzi di comunicazione al servizio di una politica che serve all’economia e ai politici della nazione; eppure c’è uno spiraglio di luce: la speranza di un’iniziativa che parta dalle persone che ricoprono un ruolo di responsabilità e punti a sovvenzionare una riforma educativa di massa. Lo stesso vale per i sindacati, che dovrebbero rappresentare le vere istanze della gente ma oggi sembrano aver perso un contatto reale con la base.
Serve formare una nuova classe dirigente imprenditoriale, manageriale e politica.
Serve una riforma dell’educazione, i cui punti cardine devono essere il superamento dell’impronta patriarcale, delle azioni repressive volte a indurre l’essere umano a temprarsi per diventare una “macchina da guerra” in difesa o in offesa e dell’indottrinamento al conformismo nei confronti dell’ordine stabilito. Tutto questo perché se aspiriamo ad umanizzare le imprese, gli enti pubblici, la politica, le scuole, le istituzioni in genere, nulla sarà più rilevante quanto il progresso personale di coloro che le formano.
La crisi della civiltà, di cui oggi si parla, è, all’origine, una crisi della coscienza, che non può essere superata solo con il cambiamento politico ma richiede una trasformazione più profonda, interiore. Una nuova educazione che miri ad una formazione completa, che non si limiti ad un sapere nozionistico, ma fornisca competenze esistenziali in grado di migliorare il contatto e l’armonia con se stessi e gli altri, di sviluppare la creatività e l’intuizione, può essere il seme di luce, la spinta che favorisce il mutamento profondo di cui abbiamo bisogno. La coscienza che ha creato i problemi del mondo attuale non può essere la stessa che li risolve.
Il rapporto individuo–società, come recita uno dei principali assiomi della comunicazione, è circolare. L’individuo non può essere compreso fuori dal suo ambiente ma, a sua volta, il suo modo di percepire se stesso e la società contribuisce a creare, o meglio a dare forma al contesto che è in continuo movimento. La società è quindi un insieme dotato di senso ed è un organismo vivente che per sua natura si trasforma. Come la vita dell’individuo è segnata da situazioni di crisi, momenti traumatici e passaggi fondamentali, così avviene per la società nelle fasi di transizione da un’epoca ad un’altra. Nel nostro momento storico sembra esserci un’intensificazione di tale mutamento come se ci trovassimo a vivere tra due mondi: il mondo conosciuto che stiamo lasciando e quello sconosciuto verso cui tendere. Un cambiamento importante, o forse più una metamorfosi evolutiva, di rinascita, che segna il ritmo dell’ordito storico. Una fase di espansione della coscienza, di creazione, è seguita da una di contrazione, di ritiro, come nel battere e levare, nella inspirazione ed espirazione o nelle pulsazioni del cuore. In questo eterno ritmo vitale di ritiro ed espansione, nessuno è mai rinato prima di morire, prima di aver attraversato il vuoto (che i gestaltisti chiamano non a caso “vuoto fertile”) o, in senso ancora più profondo, quella che S. Giovanni della Croce chiama “la notte oscura dell’anima”. Riuscire a lasciar andare ciò che è diventato obsoleto e poter percepire, scoprire ciò di cui abbiamo realmente bisogno, sono le questioni di base da cui partire. Molti sono gli elementi obsoleti o che vorremmo di primo acchito lasciare indietro. Per esempio una politica delegittimata in cui personaggi scarsamente consapevoli non riescono a distinguere tra le proprie ambizioni personali o altre forme di nevrosi e la volontà di servire il bene pubblico.
Rappresentanti eletti così lontani che difficilmente possono rappresentare qualcuno, fosse anche sè medesimi. Anche l’idea di Nazione è ormai obsoleta da tempo. Il primo nazionalismo è parso positivo come modalità di unificazione dei popoli: tuttavia, la nazione di per sé è un noi che si distingue rispetto ad un essi. Una forma di amore di parte venuto meno con la presa di potere del mercato globale. E così è stato anche per l’idea di progresso legato ad una forma economica centrata sullo sfruttamento del pianeta. Ci si è resi conto, nella postmodernità, proprio con la questione ecologica, che non tutto ciò che possiamo fare è bene farlo, in quanto il rischio è di distruggere noi stessi.
 
La fine dell’idea di progresso ha generato un ulteriore vuoto di senso, molto profondo, ed un contemporaneo bisogno di trovarne uno nuovo. Tuttavia, per trovare l’origine del disagio e della crisi attuale è necessario andare più in profondità. Se si considera la società attuale come specchio di una situazione interna all’individuo, si scopre come da tempo sussista una condizione di dominio in cui una parte (l’ego) prevale sul tutto (il Sé). Viviamo in una dittatura interiore che si è accentuata in modo estremo nella modernità anche se al contempo si iniziano a cogliere i segni della sua messa in discussione. Sono piccoli segni che illuminano il buio, voci ancora troppo sottili che hanno a che vedere con la questione ecologica, il bisogno emergente di autenticità dell’individuo, la richiesta di risposte di senso, e di sacro, il ritorno ad apprezzare i valori del femminile come la solidarietà, l’accoglienza, il senso di comunità. Nonostante questi timidi segnali di speranza che caratterizzano il post moderno, attualmente siamo ancora come chi, pur possedendo una casa con molte stanze, ne abita solo una perdendo gran parte delle reali potenzialità della casa.
(…).
 La nostra società è sorta dal potere violento e dalla minaccia che oggi è incarnata dal denaro e dal potere commerciale. Si può ammazzare con decisioni economiche che hanno come conseguenza la morte di migliaia di persone. Morti che ormai sono solo dei numeri rilevati dalle statistiche. Si contano le vittime senza conoscerne il volto, senza la possibilità di riconoscere nell’altro il sestesso sofferente (Levinas). Abbiamo da secoli guardato il mondo e contemplato noi stessi dal punto di vista del razionalismo che dà attenzione ai dettagli, che misura, che segmenta, ma non permette di cogliere l’insieme, il contesto, il fenomeno che può essere rappresentato, percepito ma non capito intellettualmente. L’infinito non può essere pensato e chiuso in una scatola. Non essere capaci di cogliere “la forma” equivale a non essere capaci di comprendere ovvero di entrare in empatia, di sentire noi stessi, gli altri, il mondo di cui siamo parte. Senza empatia, che è una “distanza abitata” ovvero un movimento tra contatto ed osservazione, vicinanza e lontananza, non c’è conoscenza né valori e una vita senza valori diventa priva di senso. L’intelligenza intuitiva che comprende l’insieme, considera la coscienza individuale come matrice della realtà, dell’universo intero, per quella razionale la coscienza è come una secrezione del cervello che non serve.
 
Così la nostra società tende a porre un’enfasi su ciò che serve, soprattutto alla produzione e al consumo. Enfatizziamo ciò che è utile al mercato tralasciando ciò che ha valore e che è legato alla relazione, all’amore, all’essenza della persona umana. La nostra civiltà è quella dell’homo sapiens che idealizza la sua saggezza, anche se non ha tanta saggezza per capire che non è saggio. Idealizza tanto la saggezza che poi diventa, come dice Edgard Morin, homo demens, un incosciente attivo o un idiota che sa tutto e fa danni.
 
Cosa dobbiamo far entrare nelle nostre vite? E’ la domanda da cui deve partire una sana e responsabile formazione della classe politica oggi. Per riscoprire ciò che abbiamo smarrito e riempire questo vuoto siamo pronti a tutto, ma non sapendo bene dove cercarlo ci comportiamo come l’uomo descritto in uno dei più famosi racconti di Mullah Nasrudin: ”Una sera un amico lo vede mentre, carponi, cerca qualcosa sotto un lampione. “Cosa stai cercando?”, gli chiede. “La chiave di casa”. Così l’amico si china ad aiutarlo. Dopo diversi minuti di ricerca infruttuosa, gli domanda: “Nasrudin, sei sicuro di averla persa qui?” “No, l’ho persa dentro casa”. “Ma allora perché la stiamo cercando qui?” “Perché qui c’è più luce”. Cerchiamo nel luogo sbagliato perché in fondo non sappiamo bene cosa cercare e di cosa ci sentiamo vuoti.
 
L’essere di per sé è relazione, l’anima è ciò che genera relazione tra le parti sia a livello fisico che psichico e lo stesso vale per la società in quanto organismo vivente. A sua volta nessuno potrebbe vivere in virtù di se stesso ma solo all’interno di un contesto naturale ed in relazione con altri. Quindi, come dovrebbe cambiare la formazione? Una prospettiva educativa dovrebbe centrarsi maggiormente su abilità relazionali e personali dell’essere. Molte nozioni di per sé diventano presto obsolete, ma una persona completa, formata, sa essere resiliente rispetto ai cambiamenti della vita che oggi più che mai le vengono richiesti anche dal mondo del lavoro e da una società sempre più liquida e interculturale. Guardare alla persona, all’essere, in senso olistico. Significa educare alla conoscenza esperienziale della propria mente, fornire competenze relazionali e sociali, promuovere la libertà, la spontaneità e favorire la crescita spirituale e di senso coltivando i valori e l’etica (amore per ciò che è più grande di noi e di cui siamo parte, come afferma Viktor Frankl). In sostanza, si deve promuovere una formazione che permetta alla persona di diventare ciò che è seguendo l’imperativo “conosci te stesso”.
                                                                                                         
                                                                                                                           (Giambattista Liazza)
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COSTA DI PIU' FIDARCI O NON FIDARCI?


 
 
Lo stile di Ugno Righi, esperto consulente di gestione aziendale: uno stile essenzialissimo, veloce, senza fronzoli di sorta: ma una buona occasione, per chi legge, di riflettere sulla importanza centrale dei rapporti di fiducia e sui loro meccanismi, nella vita in generale e nel lavoro in particolare.
 
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Chiunque trascura la verità nelle cose di poco conto non può essere degno di fiducia con le questioni più importanti. (Albert Einstein). 
 
Parla, lo guardo, lo ascolto, è credibile ma non lo sento vero. Quindi non mi fido.
 
Quante volte accade questo, e sempre di più…
 
Nel micro dei contatti quotidiani e nel macro degli scenari.
 
Stiamo assistendo da tempo a questo fenomeno in politica, dove la percezione diffusa di sfiducia e inaffidabilità (intreccio di assenza di etica e di competenza) è che esse prevalgono su tutto.
 
Il tema della fiducia è davvero complicato, complesso, pieno di contraddizioni e di vicoli ciechi.
 
È difficile darla, la fiducia, e a volte non conviene farlo. È difficile riceverla, e a volte è bene che non ce la diano perché neanche noi abbiamo fiducia in noi stessi.
 
Si perde facilmente ed è difficilissimo riaverla; nelle relazioni d’amore o di amicizia è quasi impossibile.
 
Fidarsi dei banditi è da stupidi; fidarsi degli stupidi è da incoscienti.
Siamo circondati da banditi e da stupidi, che, giustamente, non si fidano tra loro.
 
Però sappiamo, ed è inesorabilmente vero, che la fiducia è fondamentale per il benessere sociale ed economico.
 

Possiamo fare tanti bei corsi di formazione, incitare le persone, usare parole luccicanti, avere capi «ispirati», ma se non c’è fiducia tutto crolla.
 
Ferrero ha successo perché ha come valore fondamentale quello della fiducia e come lui le imprese o le nazioni di successo: creano valore prima di prodotti.


Fiducia che le parole coincidano con i pensieri di chi le esprime, fiducia che siano tali anche i fatti, fiducia che non ci sia uno scopo dannoso verso chi si fida.
 
La fiducia è legata alle convinzioni che noi ci facciamo rispetto al comportamento degli altri, e spesso le nostre convinzioni rispetto al comportamento degli altri sono negative.
 
La sfiducia è diffusa, è cresciuta ed è diventata maestra di vita, la prassi e l’esperienza l’hanno resa dura e tenace. Sguardi attenti e un po’ bassi, espressioni corrucciate, cuore in allarme permanentemente. La minaccia è sempre presente, non si può abbassare la guardia.
 
Sembrerebbe quindi che le condizioni per agire bene siano rese impossibili: ma siccome dobbiamo vivere e agire pur non avendo, nella prevalenza dei casi, informazioni o percezioni sufficienti né per fidarci né per fare l’opposto, spesso “ci fidiamo” ma con bassa cooperazione.
 
La fiducia serve per partire e solo la fiducia può generare fiducia e quindi cooperazione.
 
La fiducia è dunque un prodotto potenziale della cooperazione e non una sua pre-condizione inevitabile (anche se quando c’è è un vantaggio).
 
Spesso la fiducia data in avvio di una relazione è leggera, incerta, debole, e piano piano si consolida pur rimanendo leggera; e quando diventa forte è ancora più «rischiosa» perché il tradimento di una fiducia che si è alimentata di fiducia è dolorosissimo.
 
I grandi professionisti della sfiducia sono esperti di questo gioco. Nel film La casa dei giochi si vede come il grande truffatore aveva come suo strumento base proprio la creazione della fiducia. Ma si vede ovunque,  questa perversa abilità.


Tale considerazione determina, quindi, la legittimazione del proprio scorretto comportamento perché fondata sulla percezione negativa del comportamento dell’altro o sulla valutazione della percezione negativa dell’altro su di noi, confermata poi, reciprocamente, dal risultato! “Faccio bene a non fidarmi perché vuoi danneggiarmi”.
 
L’alibi è quindi impeccabile e il gioco delle opportunità diventa subito quello della droga del conflitto, in cui a un certo punto l’obiettivo diventa «far fuori quel nemico».


Poter collaborare, cooperare, o addirittura vivere con gli altri, richiede, quindi, non solo che noi ci fidiamo di loro ma che siamo convinti che loro si fideranno di noi.
 
Anche se può essere di cruciale rilevanza avere motivi per cooperare (in aziende, con conoscenti, ecc.) è un errore pensare che ciò avverrà certamente, così come può esserlo pensare che se non avverrà è perché si preferisce il conflitto.
 
Come far capire che la cooperazione, spesso, può essere attraente e vantaggiosa al punto tale che valga la pena di investire un po’ di fiducia? Ecco la sfida!  Bisogna essere affidabili: tutto qui!
 

E bisogna che gli altri lo riconoscano. Se vuoi averla, la fiducia, devi darla. Poi devi confermarla con comportamenti che la aumentino.
 
Il contributo che una persona può dare nel far crescere ulteriormente la fiducia riguarda la sua capacità di fidarsi (non ciecamente) ma anche, se non soprattutto, di suscitare negli altri questo sentimento verso di sé.
 
Un aspetto che è presente spesso nel nostro tempo e nella nostra nazione esprime una variante rispetto a questo ragionamento: accade quando ci sono vantaggi elevati a operare con qualcuno (o costi elevati a non farlo) ma il livello di fiducia è basso. In questo caso, le relazioni vanno avanti ugualmente perché i soggetti in gioco, pur non fidandosi, hanno un alto vantaggio nel mantenere la relazione. È un’apparente paradossalità: «Non mi fido di te ma son sicuro che non mi tradirai perché farlo non ti conviene». È un gioco pericoloso, dove entrambi sanno che alla fine l’altro tradirà, e «vincerà» chi lo farà per primo neutralizzando la possibilità dell’altro di reagire.
 
Giochi velenosi riempiti di miele. Conferme verbali di lealtà e trucchi sommersi d’inimicizia. Giustificazioni morali sul proprio comportamento che senza le ali dell’ipocrisia striscerebbero nel fango. Ma fino allora (quando si dovrà sferrare il colpo) le carezze raffinate, le danze d’amore, i modi delicati saranno abbondanti e impeccabili.


Concludendo, voglio dire che la fiducia è un bene scarso e, come altre virtù sociali, aumenta con l’uso: quindi la sfida non è di presupporla ma di generarla e fare in modo che chi ci è vicino, chi lavora con noi, per effetto anche del nostro contributo aumenti la fiducia in se stesso.
                                                                          
                                                                                                                                                                (Ugo  Righi)
 
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LA VERGOGNA DEL RAZZISMO: MA SOPRATTUTTO LA SUA STUPIDITA'

Le diversità. L'educazione alle diversità è, in fondo, l'educazione all'umanità ed alla comunità. Si tratta dell'inizio di ogni processo educativo. Più alta è l'educazione al rispetto delle diversità accompagnata da contenuti valoriali, più alta è la civiltà. Il gerontologo Massimo Palleschi chiarisce la zona di confine in cui si aggira il pericolo di scantonamento che può portare a forme di razzismo. 

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La vergogna del razzismo si combatte con l’accettazione e la valorizzazione delle diversità, non con la loro negazione.

Si tratta comunque di un argomento che suscita forti contrapposizioni, dal momento che il razzismo, e cioè l’odio preconcetto verso una determinata etnia, è il principale responsabile di due tra le pagine più buie della storia dell’umanità: lo schiavismo ed il genocidio di diverse popolazioni.

E’ comprensibile come di fronte a questi orrori, resi possibili per l’aberrante opinione dell’esistenza non solo di etnie diverse, ma di razze inferiori o addirittura subumane, ogni discorso sulle diversità diventi quanto mai arduo. Però la ragione ci deve consigliare a non farci condizionare, nell’esaminare il problema delle diverse etnie, dalle farneticazioni di un pazzo criminale come Hitler, relative alla presunta inferiorità di alcune razze umane.

Secondo il mio parere tutti i movimenti e le correnti di opinioni che giustamente considerano il razzismo come una degradazione del pensiero e del comportamento umano, dovrebbero prescindere dal problema dell’esistenza delle razze umane, che di per sé non ha nulla a che fare con il razzismo. In senso biologico l’uomo a tutti gli effetti è un animale, e nessuno nega l’esistenza delle razze all’interno delle varie specie animali. Né sembra valida l’obiezione che le differenze razziali degli animali, valutate da un punto di vista genomico, sono superiori a quelle riscontrabili nella specie umana (nelle razze canine, ad esempio, si hanno delle differenze del Dna cento volte superiori a quelle osservate nelle diverse etnie dell’uomo).

Ad avvalorare la scarsa diversità dei vari gruppi etnici si porta anche il dato che nei trapianti di organi la reazione anticorpale e il conseguente problema del rigetto non presentano differenze significative tra le persone bianche e nere. Le analogie e le differenze tra organismi viventi e tra soggetti della stessa specie (anche umana ovviamente) sono presenti e distribuite in maniera comunque non sempre facilmente comprensibile. E’ compito degli esperti del settore di cercare di analizzarle tutte in perfetta libertà e senza alcun pregiudizio.

Nonostante quanto ho appena accennato, i genetisti sono contrarissimi ad ammettere l’esistenza di razze umane. E’ vero semplicemente che ognuno di noi è diverso dall’altro. Basti pensare alle impronte digitali diverse negli oltre sette miliardi di persone che popolano il nostro Pianeta. Diversi possono essere i tratti somatici, come il colore della pelle, diversi possono essere caratteri non somatici, ugualmente importanti, e tra questi i vari atteggiamenti, comportamenti e modi di pensare e di sentire. Come non citare in quest’ambito le diversità del sentimento religioso che hanno determinato tremendi conflitti e tanto spargimento di sangue?
 
In realtà è la diversità, qualunque forma di diversità, che può far paura ed essere fonte di discriminazione, di disprezzo, di odio. Ed è su questo versante che noi dobbiamo rivolgere tutta la nostra attenzione, cercando di promuovere una cultura  che veda nella diversità una fonte di arricchimento.

Insomma, non è la differenza del Dna a generare mostruose discriminazioni, ma è l’irrazionale non accettazione della diversità a scatenare i putiferi che hanno disonorato la storia dell’umanità. Secondo il mio parere la chiave di volta di questo complesso problema risiede nel rispetto della persona indipendentemente da ogni caratteristica  antropologica e genomica.

Un atteggiamento di contrarietà, di disappunto, di discriminazione  fino al disprezzo, si ha spesso, del resto, non solo verso gruppi di persone di etnie diverse  ma verso i gruppi più disparati anche all’interno della stessa etnia, compreso a volte il gruppo degli anziani. Mi rendo conto che paragonare la diversità della condizione anziana, rispetto al mondo dei giovani, alle differenze etniche, può essere paradossale, ma è una analogia che è stata fatta e che si collega al concetto di ageismo. Il termine “ageism”, coniato nel 1969 da un gerontologo statunitense, Robert Butler, indica appunto la presenza di un atteggiamento quasi istintivo, immotivato, di contrarietà, di discriminazione verso tutto ciò che ha a che fare con l’età avanzata.

Prescindendo dagli anziani e ritornando più specificamente al problema dell’esistenza delle razze, vorrei aggiungere che da un punto di vista biologico l’argomento va inquadrato nel meraviglioso e complesso intrecciarsi di fenomeni ereditari ed acquisiti (cioè ambientali). Si tratta di un’analisi difficile, che va condotta con rigore e razionalità, ma che non ci deve far dimenticare la nostra provenienza e il meraviglioso ed unitario cammino della nostra specie umana.

Noi homo sapiens siamo in realtà tutti africani e, spinti dal bisogno e dalla curiosità, abbiamo dato il via all’impetuosa colonizzazione del pianeta: l’Europa e l’Asia forse intorno a 55 mila anni fa, le Americhe forse più o meno 30mila anni fa. In sostanza siamo tutti discendenti dell’Homo sapiens africano, compreso “ l’ariano di razza pura”, alla faccia dell’imbianchino di Vienna. Potremmo anche aggiungere che alla luce di quanto ho appena accennato siamo tutti “bastardi” e meticci, frutto di incroci e migrazioni. Ma a chi è razzista (forse sarebbe preferibile dire xenofobo) non interessa molto se le differenze abbiano una base biologica o antropologica-culturale,  se siano molto antiche o comparse più recentemente , se siano isolate o accompagnate da tante altre caratteristiche. I razzisti avvertono solo che sono in presenza di qualcosa di sgradevole, che intendono contrastare ad ogni costo con i metodi più primitivi e brutali.

La discussione sul problema e sulle caratteristiche delle diverse etnie va impostata nella maniera più razionale possibile: un’analisi al massimo può essere sbagliata e in tal caso andrebbe confutata sulla base di precise argomentazioni e non con uno spirito ed un linguaggio da crociata, che male si addicono ad un tema di carattere scientifico. In quanto tale, la negazione delle diversità non ha senso e oltretutto va in direzione opposta a quanto emerge dalle conoscenze attuali. Infatti nella moderna Medicina si sta sviluppando sempre di più il ruolo della cosiddetta  Medicina personalizzata che amplifica, identifica e valorizza le diversità non solo tra popolazioni diverse, ma anche tra persone della stessa popolazione.
Le differenze tra organismo ed organismo possono essere così rilevanti, anche in soggetti apparentemente molto simili,  che persino la risposta ai farmaci può essere diversa. Questa multiformità di reazione costituisce la base della farmacogenetica, che avrà sempre più notevoli ripercussioni nell’ambito della clinica e della farmacoterapia.

Tutto questo ci deve inorgoglire per la ragione che facciamo parte di un mondo meraviglioso, straordinariamente complesso, popolato da creature  tanto simili e nello stesso tempo tanto diverse, che dobbiamo cercare di comprendere ed amare.
                                                                                          

                                                                                                                                                             (
Massimo Palleschi) 
                                                                                                     
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MIO ZIO ATTILIO E UNA GRAN BELLA AVVENTURA

Chissà perché il mio grande amico Silas non vuole saperne di firmare i suoi pezzi con il vero nome ma preferisce questo ininterpretabile Silas: tanto più interessante, il quesito, per il fatto che Silas ha davvero una penna raffinata e vivace, immaginosa ed attenta… doti che sarebbe bello sentirsi onestamente riconoscere dai lettori anche quando ci si incontra per strada. Ma non posso fare violenza alla sua precisa volontà: la firma sarà, ancora una volta, questo antipatico “Silas”. Ma il pezzo resta di un acuto ed elegante umorismo dietro cui si sviluppa una osservazione solo apparentemente bonaria su quei “mali quotidiani” che la città più bella del mondo, la nostra Roma, di cui sia Silas sia io siamo cittadini di adozione e appassionati tifosi, pare non riuscire a scrollarsi di dosso nonostante la loro così invasiva evidenza e nonostante il sostegno di quell’entusiastica folla che appena qualche anno fa ha gridato “Questa volta ci avemo la sindaca donna e vedrete come tutto migliorerà: noi donne pe’ Roma, finalmente… ve famo vede…”.
 
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L’altro giorno ho deciso di andare a trovare mio zio Attilio.
Lo zio è sempre stato considerato il saggio della famiglia, sebbene in alcuni momenti in passato si sia comportato quasi come uno scapestrato. Non si è mai sposato ma ha sempre avuto molte donne e, da quello che mi raccontavano i miei genitori, ha sparso il suo seme per il mondo contribuendo così al problema del sovraffollamento: infatti ha girato il mondo – non ho mai capito se per lavoro o per diletto – e ancora oggi continua a viaggiare, anche se io sospetto che lo faccia per andare a trovare qualche sua vecchia fiamma o il frutto delle sue passioni; in fin dei conti, ancora oggi che ha raggiunto una certa età, con il suo aspetto da gran signore, alto con capelli folti, barba e baffi ormai completamente bianchi, continua ad esercitare il suo fascino e ad essere coccolato da belle signore.
Ma sto divagando… Forse un giorno, se ne avrò tempo e possibilità, racconterò meglio di questo mio singolare parente. Stavo dicendo che per me visitare lo zio significa attraversare esattamente tutta la città, abitando egli nella parte opposta a quella dove risiedo io. E per una volta, ho pensato, me la prendo comoda, cercherò di utilizzare i mezzi pubblici e di godermi il più possibile il “viaggio”… perché di vero e proprio viaggio si è trattato.
Per arrivare alla prima fermata utile della metropolitana ho dovuto usare l’auto (nel mio quartiere l’unico autobus passa – se passa – ogni mezz’ora nelle ore di punta) ed ho percorso – quindi – gran parte di quella lunga strada che collega Roma con il suo quartiere sul mare, Ostia Lido, passando dall’Eur. Ora, dovete sapere che sin da quando ero bambino e percorrevo questa strada con mia madre sulla sua mitica Seicento, si parlava molto di un sistema automatico per sincronizzare i semafori – che sono numerosi, visti i tantissimi incroci – in modo da trovare sempre via libera, una volta trovato il primo semaforo verde, ed evitare le continue fermate con il rosso. L’avevano chiamata “Onda Verde”, questa ingegnosa soluzione e sembrava un toccasana per risolvere almeno in parte il problema del traffico. Sono passati cinquant’anni e, come parecchie cose nel nostro Paese, non se n’è fatto più niente, di “Onda Verde” è rimasto solo uno sbiadito ricordo ed il titolo di una trasmissione radio che si occupa appunto di traffico. E quando si percorre questa benedetta strada, ovviamente e chissà perché, si incrociano sempre tutti i semafori rossi!
Diciamoci la verità: è una strada molto bella, specie nel tratto che dall’Eur corre verso il mare, affiancata da pini ormai quasi secolari (ogni tanto ne cade uno, per vecchiaia o malattia o scarsa cura – ancora non si è capito bene – e qualche motociclista ci lascia le penne); ora, poiché le radici di questi alberi hanno la strana fissazione di cercare la superficie come se volessero emergere a cercare l’aria e il sole, sta di fatto che l’asfalto si è rigonfiato e spaccato in moltissimi punti, rendendo la via più simile ad un percorso di guerra che ad una strada di scorrimento e la nostra amministrazione comunale, notoriamente a corto di denaro, ha scelto – per evitare ricorsi e contestazioni in caso di incidenti – di imporre un limite di velocità, 50 km orari, e nel tratto più urbano 30 km, in attesa di interventi “più definitivi”. Tant’è…
Comunque, imboccata con la mia potente auto (per modo di dire) la ormai ben descritta strada, al primo incrocio (con semaforo ovviamente rosso) sono stato circondato da venditori di giornali e riviste di tutti i tipi; al secondo semaforo rosso ho respinto con garbo i lavavetri e i lava fanali anteriori; al terzo, un venditore di chitarrine ha tentato di appiopparmene una e mi ha guardato con evidente disprezzo quando ho fatto capire che non ero interessato alla musica; al quarto, mi sono rifiutato di comprare un mazzo di rose rosse oppure un panno di pelle artificiale per pulire i vetri; al quinto, ho trovato una squadra di barboni che, con molta dignità, chiedevano qualche soldo; al sesto semaforo, quello in genere più congestionato, sono improvvisamente comparsi un ragazzo e una ragazza che hanno eseguito in mezzo all’incrocio due minuti di esercizi di equilibrio con palle e birilli: non vi dico l’entusiasmo degli spettatori per questo spettacolo di alta acrobazia circense veramente bello, ma soprattutto – ho il forte sospetto - perché eseguito da una bella ragazza che indossava con disinvoltura una calzamaglia trasparente e appiccicata addosso come una seconda pelle.
Bene, giunto finalmente alla fermata della metropolitana, dopo aver trovato – dopo mezz’ora di ricerche -  un parcheggio “impossibile” a meno di non ricorrere a strani personaggi più con l’aspetto di pugili che di posteggiatori (abusivi), sono riuscito al terzo tentativo ad entrare in uno dei vagoni della metro, vagoni così affollati di gente che per tutto il viaggio non c’era bisogno di “reggersi agli appositi sostegni”, ci si reggeva in piedi l’un contro l’altro, tra ascelle evidentemente refrattarie all’acqua e sapone, colpi di tosse  e starnuti con annessi spruzzi. Nonostante l’affollamento, il nostro viaggio è stato allietato da suonatori di ogni tipo: fisarmonica, chitarra con accompagnamento di altoparlante a rotelle, strani strumenti tipo xylofono ma di evidente fabbricazione artigianale, mentre il programma spaziava dalla musica rock a quella più romantica con evidente preferenza per quella melodica. Ad una fermata è salita una zingara (non so se ancora si può usare questo termine o si rischia di essere tacciati di razzismo, omofobia o altre definizioni oggi usate dai benpensanti): i frequentatori di questa linea la conoscono bene, sono più di trent’anni che chiede – con le stesse parole – qualcosa per comprare un poco di latte per il suo figlio appena nato… deve essere un miracolo di fecondità, vista l’età ormai più che avanzata.
Bene o male, dopo più di mezz’ora di tragitto, sono riuscito finalmente a raggiungere l’agognata meta.   
“Caro zio – ho detto al mio saggio parente dopo i convenevoli d’uso – ora ti racconto il mio viaggio per venirti a trovare”… ed ho narrato le avventure capitate.
“Vedi, caro nipote – ha fatto mio zio – sei stato molto fortunato e non te ne rendi conto. Ti lamenti di buche e di limiti di velocità assurdi ma non capisci che non è cattiva intenzione o incuria quella dei nostri amministratori, anzi è una grande furbizia: evitare i dossi e le cunette costringe i guidatori e soprattutto i motociclisti ad una continua attenzione e a moderare la velocità, diventa una sorta di gara, ed è un po’ come quel gioco, ti ricordi?, che quando eri bambino ti portai da un mio viaggio ad Hong Kong: bisognava guidare una pallina di legno in una sorta di percorso obbligato evitando che cadesse in una delle numerose buche (e tu non ci riuscivi mai)… E i limiti di velocità sono una soluzione obbligata, non tanto per il limite in se stesso – che per una strada di grande scorrimento è evidentemente assurdo - ma per il fatto che si impone una velocità talmente minima nella speranza che il sicuro superamento rientri in un limite accettabile: vedi, noi italiani siamo per natura  insofferenti alle limitazioni e allora bisogna imporre divieti molto pesanti perché siano rispettati almeno in minima parte: hai mai fatto caso che in Italia sui cartelli che impongono una proibizione c’è sempre scritto “Severamente proibito” o “Divieto assoluto” quando basterebbe semplicemente la parola “Proibito” o “Divieto”, come se senza l’aggiunta rafforzativa si fosse ugualmente autorizzati ad ignorare tale proibizione? Sì, nessuno rispetterebbe mai un divieto semplice, cose che accadono solo nel nostro Paese. E tutti quei personaggi che bivaccano a questi benedetti incroci? Ringraziamo il cielo… si, mi ricordo anch’io della famosa idea dell’Onda Verde ma evidentemente i nostri amministratori che si sono succeduti negli anni sono stati lungimiranti: pensa cosa sarebbe successo se non vi fossero state tutte queste soste ai semafori rossi, cosa sarebbe stato di questi pseudo venditori, come avrebbero fatto a sostentarsi? E pensa anche al servizio che ci viene reso: noi italiani stiamo diventando sempre più pigri, per comprare il giornale ci saremmo dovuti fermare in edicola, magari sostando in terza fila e bloccando il traffico, pensa che caos; e avremmo dovuto passare magari una mezz’oretta della nostra beneamata domenica a pulire il parabrezza, cosa che un lavavetri extracomunitario riesce a fare benissimo in una trentina di secondi. Non mi meraviglierei se in un prossimo futuro una squadra bene organizzata riuscisse a lavare completamente una macchina in quei due minuti di sosta al semaforo. Già adesso ho sentito dire che per ovviare al problema degli spiccioli (spiccioli per modo di dire perché non dimentichiamoci che l’euro che oggi sborsiamo con tanta facilità equivale a ben duemila lire di una volta) qualche “venditore” sta pensando di dotarsi di apparecchio bancomat: vedi, nipote, la necessità aguzza l’ingegno… Mi incuriosisce, invece, l’esibizione dei due giocolieri, ma non più di tanto: in fin dei conti tutti noi siamo stati bambini e allora lo spettacolo del circo era una cosa che ci entusiasmava. Bene, in noi è sempre rimasto un po’ dell’animo di quel bambino, anche adesso che siamo adulti, e vedere certi spettacoli ci allieta la giornata, soprattutto se sono eseguiti da una bella fanciulla”.
“Ma zio – ho fatto io – cosa pensano di noi gli stranieri che vengono nel nostro Paese? Non è una pubblicità negativa, anche per il turismo?”
“Caro nipote – ha risposto lui – ancora non hai compreso certe cose… il turista è ammirato da quello che vede nel nostro Paese,  non viene qui soltanto per le bellezze naturalistiche o architettoniche ma anche e soprattutto perché l’Italia è come un grande parco giuochi, dove incontri uno spettacolo ad ogni angolo di strada: giocolieri, lavavetri, barboni, venditori di qualsiasi genere e dove – soprattutto – non ci sono proibizioni o divieti, se non puramente formali. In Italia si può far tutto quello che all’estero si sognerebbero soltanto: tuffarsi nelle fontane, incidere monumenti, gettare immondizia nelle strade, attraversare fuori delle strisce, salire gratuitamente su bus e tram… è tutto un grande giuoco ed è tutto gratis, chi vuoi che controlli, salvo qualche rarissimo caso in cui uno sfortunatissimo giocatore viene colto sul fatto da qualche “vigile” troppo zelante. Ma anche in questo caso, cosa vuoi che succeda, basta ascoltare la ramanzina di turno, non pagare l’eventuale contravvenzione e tornare tranquilli e beati al proprio paese, contenti di aver vissuto uno spettacolo indimenticabile. Quando mai fuori d’Italia potresti godere di questa libertà? Prova a non pagare il biglietto del bus o della metro in qualsiasi paese estero, o a buttare qualcosa per terra e vedrai che la vacanza sarà indimenticabile, sì, ma in un altro senso. Detto tutto ciò, pensa a quanto siamo fortunati noi, che lo spettacolo lo viviamo tutti i giorni in casa nostra, senza spendere un soldo… E in metropolitana la musica, la calca, gli odori rendono ancora più folkloristica la situazione: gli stessi giapponesi – che per cultura ed educazione hanno un innato senso di rispetto per il prossimo e si coprono naso e bocca quando sono raffreddati non per  proteggersi ma per non contagiare gli altri, gli stessi giapponesi – dicevo – sono stupefatti ma felici quando qualcuno in Italia gli starnutisce addosso: quando mai al loro paese potrebbe succedere qualcosa del genere, non gli capiterà mai più e potranno raccontare a parenti e amici quel senso di libertà che solo in Italia si può provare. Tutto questo da noi è normale, anche se qualche volta un benpensante o una persona troppo contegnosa può manifestare un senso di fastidio, mentre ad uno straniero riesce a dare ancora un piccolo brivido.
Vedi dunque, possiamo stare tranquilli, noi italiani, in fin dei conti è tutto un enorme giuoco e dovremmo essere proprio fieri di esserne gli attori principali. Ma adesso ti devo lasciare, nipote adorato, ho una cara amica che mi aspetta e tu sai che  - soprattutto alla mia età – non è bene fare aspettare una signora. E soprattutto devo attraversare tutta la città perché questa gentile signora abita proprio – guarda caso – dalle parti tue”.
“Bene zio – ho fatto io – allora possiamo fare il tragitto insieme e poi ti darò un passaggio con la mia auto…”
“No, caro nipote, ti ringrazio ma io ho già goduto abbastanza degli spettacoli che mi hai raccontato e non credo che alla mia età sarei in grado di sopportarli ancora. Certo, lo spettacolo della bella equilibrista in calzamaglia mi attirerebbe ma devo arrivare in buone condizioni all’appuntamento e preferisco chiamare il mio solito buon taxi. Vai pure, nipote, goditi di nuovo questa meravigliosa avventura e se dovessi incontrare al semaforo rosso il venditore di chitarrine, acquistane una, da piccolo eri tanto bravo e desideroso di imparare a suonare!”
                                                                                                                                    
(Silas)