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Economia

BCC, NON LASCIARTI DISTRARRE: CONTINUA A PENSARE STRATEGICO...

Fino a che lo Stato, e la politica che lo governa, non rinsaviscano, il ruolo delle aziende cooperative, e in generale dell’impresa partecipativa, è ancor più strategico del solito, per richiamare la coscienza della collettività sull’unico modello di economia e d'impresa che garantisca davvero stabilmente sviluppo e benessere diffuso.
 
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Per l’imminente 13 gennaio 2019 viene annunciata l’assemblea dei soci della Banca di Credito Cooperativo di Roma. Non so quale decisione ci sia da discutere e ratificare. Questa piccola banca romana, comunque, è certamente, oggi, una delle più sane e belle banche italiane, a onta della minaccia rappresentata dalla legge escogitata da questa gaglioffaggine di un parlamento che non sa più legiferare pensando al futuro del paese, e che la costringe a “fare gruppo” forzosamente con altre piccole banche, in questo caso con il gruppo Iccrea, per acquisire una dimensione che la medesima gaglioffaggine mentale della politica ritiene indispensabile per vivere e svilupparsi nel mondo globalizzato di oggi.
 
Non mi addentro ora nella legislazione gaglioffa, frutto di commistione fra due irresponsabilità: quella culturale e morale dell’Europa, e quella analoga della classe politica italiana; si tratta di un orientamento legislativo, comunque, nel quale non mi è possibile vedere con chiarezza quanto sia frutto di ignoranza in materia economica, e quanto di iperscaltrezza maligna, verme che guarda lontano, guarda cioè al controllo e all’annientamento progressivo degli istituti bancari che non si sottomettono all’occulto potere sovranazionale che a livello planetario manovra anche la nostra e l’altrui mediocre politica attraverso la finanza.
 
A onta del contesto minaccioso, la Banca Cooperativa di Roma ha saputo mantenere finora il suo visibile e tangibile spirito cooperativo, il suo conseguente rapporto diretto e costante con i soci e con i clienti, e una trasparenza ancora palese e controllabile. Non solo, ma, in questi anni, gradualmente, saggiamente, si è anche espansa, compiendo da ultimo quella bella operazione che è consistita nell’assorbire la piccola banca cooperativa padovana in difficoltà e salvarne sportelli, personale e prospettive. Personalmente mi sento impegnato, come tanti altri cittadini e risparmiatori, a salvaguardare e rinforzare tali caratteristiche del modello cooperativo.
 
Francamente, peraltro, di recente sono rimasto un poco male, quando mi è capitato di partecipare a una assemblea di zona della stessa Bcc e, per la prima volta, mi ha attraversato la mente il pensiero fastidioso che i germi patogeni del fasullo economismo corrente possano aver iniziato a inocularsi, quasi invisibili, anche in questo organismo sano e pulito, per preparare il terreno a una sua possibile erosione crescente.
 
Ho ascoltato infatti la relazione di uno dei massimi esponenti del vertice della banca e, per la prima volta, ho avvertito la presenza, nel contesto di una analisi sana ed attenta, di qualche generica affermazione, sia pure secondaria, ma pur sempre sintomatica, dalla superficialità un po’ conformista e modaiola: ad esempio, quella secondo cui “uno dei seri problemi di competitività dell’economia italiana oggi è lo scarso numero dei laureati e lo scarso numero degli specializzati in materie tecniche ed economiche”.
 
E no, caro signor Unodeimassimiesponentidelverticebcc: non cominciare anche tu a smettere di studiare, di approfondire, di capire i problemi nella loro complessità e concretezza, di confrontarti ogni giorno con la vita effettiva dell’economia reale, invece che limitarti a leggere le baggianate, a loro volta conformiste, ma soprattutto pericolose, del Sole24Ore o dei bollettini Luiss o delle conferenze Bocconi o delle direttive di Bruxelles. Ragiona in profondità, lunghezza di visione e concretezza, e soprattutto mantieniti fedele al formidabile bagaglio di quel buonsenso pieno di luce che caratterizzava i fondatori di questo tipo di banca, cattolici e per il vero non soltanto cattolici, nonché i fondatori di quel corrispondente tipo di impresa partecipativa e di economia reale che ebbe in Olivetti la sua più bella espressione, e che oggi ha nella trucida finanza speculativa il suo più insidioso nemico.
 
I laureati… A parte la strana, diffusa contraddizione del lamentare lo scarso numero dei laureati nel nostro paese, e nel contempo mantenere o accettare passivamente nel nostro sistema universitario l’idiota criterio del numero chiuso (come se la mia passione per lo studio della medicina o dell’astronomia fosse lecita o non lecita a seconda del numero di medici o di astronomi programmato dalla politica o previsto dagli organici amministrativi!...), la questione non è affatto di laureati ma di studio e cultura, cioè di elevamento del livello formativo delle nostre scuole, tutte. E, in aggiunta, di essere consapevoli che nessun livello di formazione, anche tecnica e tecnologica e scientifica, si costruisce senza un quadro e un fondo di umanesimo: è la formazione umanistica che costituisce culla e alimento della formazione tecnico-tecnologica. Altrimenti avremo un nugolo di mezze macchinette a due zampe semoventi, incapaci di pensare al senso profondo delle cose che fanno. Questo sta anzi già ampiamente avvenendo, e in ciò, sì, consiste parte profonda della crisi, anche economica, in atto in Italia e non solo in Italia. Dunque, caso mai la debolezza del nostro paese è, al contrario, di avere uno scarso numero di ragazzi laureati e diplomati nel settore umanistico; ma, soprattutto, di ragazzi semplicemente laureati per uno studio vero, serio, organico  e profondo.
 
Dunque, ancora, caro Unodeimassimiverticidellabcc, riapprofondisci le ragioni fondative della missione delle banche cooperative, e più in generale della cooperazione, e dell’impresa partecipativa, e vediamo di parlarne ancora e con frequenza, e di rafforzarne le strategie con alti livelli di elaborazione culturale, altro che “lauree in materie tecniche e tecnologiche”!
 
Alla mia piccola e bella banca associativa vorrei rivolgere però anche una ulteriore, piccola osservazione di mera gestione (e potenzialmente anche di strategia, a dire il vero). Essa svolge un notevolissimo e lodevolissimo lavoro di supporto allo sviluppo sociale del territorio, ed all’incoraggiamento nei confronti delle iniziative sociali che in esso si svolgono. Ebbene, penso che andrebbe sviluppato un equilibrio più… equilibrato (ed equo) anche diminuendo il numero delle iniziative filantropiche per caratterizzarne ancor meglio la tangibile incisiva qualità, e aumentando leggermente la quota di utili destinata ai soci: la banca, infatti, è giusto che sia cooperativa innanzitutto proprio in questo senso: che è il più vero e profondo senso della cooperazione e delle sue origini, e il più motivante ed educante stimolo di essa; senza affatto trascurare, anzi sottolineando, la più larga solidarietà sociale, che certamente ne viene rinforzata e ulteriormente, anch’essa, incoraggiata.
 
Insomma, non perdiamoci per strada: non perdiamo il nostro futuro.
 
                                                                                                                                     (Giuseppe Ecca)
 

C'era una volta

AVANTI, C'E' POSTO...

Silas non ne vuole sapere. Preferisce lo pseudonimo. Padronissimo. Ne ha diritto. Noi continuiamo a suggerirgli di venire allo scoperto perché quello che ci racconta – in forma di piccoli episodi familiari di cronaca del tempo che fu (o del tempo che è…) – merita la piena luce del sole sul volto dell’autore. Il quale tratteggia le sue piccole storie con tono apparentemente bonario e finissima ironia, dietro cui è evidente peraltro il sottile accoramento per la irrazionalità e ingiustizia di alcuni profili di costume sociale o di assetto organizzativo che il nostro paese (non solo la sua capitale) è venuto via via assumendo in questi ultimi decenni. E’ importante parlarne, per concorrere a ritessere pian piano, anche per questa via, il filo di una possibile trama di rinnovamento di tale costume e fargli riacquisire – è possibile! – il grande crisma della saggezza e del buonsenso; senza pretendere scioccamente che quanto era del tempo antico fosse tutto buono, ma senza neanche cadere nella insipienza così diffusa di pensare che “il nuovo” sia meglio comunque. Spesso in effetti il “nuovo” è solo più appariscente, o più superficiale, o addirittura più ingiusto e più stupido. Ma questo… giudicatelo voi di volta in volta.
Quanto alla piccola venatura di dongiovannismo che lo zio Attilio ci lascia intravedere nel suo raccontare, beh… non fateci caso. E’ il nipote che utilizza, discolo come tutti gli adolescenti, questa chiave di approccio letterario pensando di avvincere meglio la vostra attenzione su un argomento che nel suo fondo è, invece, di grande serietà civile.
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“Caro zio – ho detto l’altro giorno a mio zio Attilio – ho letto che a Roma è pronta a partire una nuova sperimentazione sugli autobus: sembra che i biglietti saranno venduti direttamente dai conducenti e che questi saranno considerati a tutti gli effetti anche agenti di polizia amministrativa, in caso di atti di violenza fisica o verbale…”
“Mah – ha risposto titubante il mio caro parente – ho molti dubbi in proposito… Anzitutto, se è vero quello che hai letto, bisognerà vedere come reagiranno i sindacati: tu sai che in Italia vige una netta separazione dei ruoli, cosa che non si verifica negli altri Paesi del mondo, dove gli autisti fanno un po’ di tutto, direi proprio un servizio completo, guidatore, bigliettaio, controllore ed anche pulitore. Ebbene sì, ero rimasto meravigliato già tanti anni fa, quando andai per vacanza a Singapore e sui mezzi pubblici avevo notato a fianco dell’autista proprio una scopetta e un cestello per raccogliere l’immondizia. Ma anche recentemente in una mia visita a Berlino ho notato che all’arrivo ad ogni capolinea il bus si ferma, fa scendere i passeggeri, chiude le porte e l’autista, si, proprio l’autista, pulisce il mezzo dalla eventuale immondizia, la butta nei cassonetti situati vicino alla fermata e solo dopo aver controllato che tutto è perfettamente a posto, allora riapre le porte ed è pronto alla ripartenza. Tu dirai ‘sono tedeschi’, mah… beati loro, non mi meraviglierei se l’autista fungesse anche da meccanico!
 
Da noi, invece, esistono per ogni cosa ruoli ben distinti, con la conseguenza che per far girare un autobus bisogna coinvolgere autisti, controllori, uomini delle pulizie, bigliettai o rivenditori di biglietti, installare macchinette obliteratrici (che bel termine, vero?) e qualche volta emettitrici, con il risultato che quando sali a bordo e non hai un biglietto a disposizione non sai mai se riuscirai a comprarlo o dovrai viaggiare da clandestino.
 
Certo, in questo modo nel nostro Paese si moltiplicano i posti di lavoro, pensa all’aumento di disoccupazione che ci sarebbe se le cose funzionassero come negli altri Paesi, ma considera pure che alla fine i costi di questa disorganizzazione si ripercuotono sulle aziende di trasporto e quindi sui cittadini che pagano (ormai in pochi) il servizio, anzi il disservizio”.
“Ma non pensavo, zio, che tu usassi l’autobus per i tuoi spostamenti”.
“Vedi, caro nipote, io utilizzo molto gli autobus quando sono all’estero, per me sono una forma rilassante per girare la città in pace e tranquillità, come se fossero un bus turistico. In genere sono puntualissimi, in alcuni Paesi ad ogni fermata una palina indica l’orario di passaggio e questi orari sono rispettati al secondo, cosa incredibile per noi. E poi in tutti i Paesi che ho visitato gli autobus hanno una unica porta di salita e una sola di discesa, quindi non è possibile sbagliarsi. L’unica volta che mi sono trovato in difficoltà è stato a Rio de Janeiro - si, ho amiche anche lì – dove al primo bus che ho tentato di prendere, non conoscendo il portoghese non sapevo se entrare dalla porta con la scritta ‘SALIDA’ o da quella con la scritta ‘ENTRADA’. E pensa anche che in una capitale dell’Est Europa - non ti dirò quale, dovrai scoprirlo da te - all’ingresso della metro non esistono né tornelli né obliteratrici, per loro è inconcepibile entrare senza biglietto… poi però se un controllore ti pizzica senza biglietto, allora sono dolori!
 
Certo, qui a Roma per i miei spostamenti preferisco usare il taxi, oppure usufruire di qualche passaggio di mie carissime… ehm… amiche. Ma in altri tempi io ho viaggiato molto in autobus, sin da quando ero ragazzino. Allora il servizio era molto differente e tu – ovviamente – non lo hai mai conosciuto. Anzitutto gli autobus li riconoscevi da lontano: oggi ne girano di tutti i colori e quando ne vedi arrivare uno non sai mai fino alla fine se è un pullman, un bus privato o uno pubblico. Una volta - fino agli anni Settanta, mi sembra – gli autobus erano colorati tutti allo stesso modo, verde oliva nella parte inferiore e verde bottiglia nella parte superiore. Poi qualche intelligentone scoprì che questa colorazione era stata disposta nel lontano 1929 durante il fascismo e allora si gridò all’importanza di abolire il ricordo del passato!
 
Negli anni Sessanta io prendevo il bus per andare a scuola, all’epoca andavo alle medie e ci volevano cinque fermate per arrivare a destinazione. Il biglietto costava 25 lire, prima delle otto il costo era ridotto a 15 lire per agevolare studenti e lavoratori, e io facevo di tutto per risparmiare quelle 10 lire che mettevo rigorosamente da parte e mi permettevano di comprarmi una liquirizia, un gelato o una pizzetta. C’erano anche bus “veloci”, facevano meno fermate e allora la tariffa era di 35 lire, poi a un certo punto del percorso la tariffa cambiava, tornava a 25 lire e allora il bigliettaio gridava “cambio tariffa!”
 
Si, perché negli autobus c’era un bigliettaio, seduto su un seggiolino a fianco della porta posteriore: aveva proprio il compito di vendere i biglietti (che si compravano solo a bordo) e di controllare le tessere di abbonamento. La salita era obbligatoria dalla porta posteriore, mentre la discesa era dalla porta centrale  che una volta era unica. Poi entrò in funzione un nuovo tipo di bus con in più una porticina anteriore – vicino all’autista – riservata solo alla salita degli abbonati con la tessera. In questo modo la salita e la discesa erano facilitate, il controllo dei paganti era assicurato e nessuno si permetteva di usare la porta sbagliata, anche scendere dalla posta posteriore era severamente rimproverato dal bigliettaio. Quando la piattaforma posteriore si affollava, allora il bigliettaio gridava “avanti, c’è posto!” Devi sapere – me lo raccontava mia nonna – che una volta sui tram i tranvieri dicevano “favoriscano avanti” ma quando con il fascismo venne abolito il Lei, allora trovarono più comoda la soluzione di abolire il verbo, ecco da dove è nato “avanti c’è posto” che tu, ovviamente, non hai mai conosciuto.
 
Ma le cose più simpatiche che ricordo sono quei cartellini appesi in tutta la vettura con i divieti e le raccomandazioni, alcune anche assurde: ‘Vietato sporgersi dai finestrini’; Vietato sputare’, anche questo retaggio del passato, di quando la tubercolosi impazzava negli anni venti-trenta e si cercava di debellare la malattia causata da un bacillo che era trasmesso nell’aria dai residui degli sputi; ‘Sorreggersi agli appositi sostegni’, come se ci fosse bisogno di ricordare che altrimenti si poteva cadere; ‘Non parlare al conducente’, che oggi si potrebbe tranquillamente cambiare in ‘Non parlare al conducente quando sta al telefonino’! E che dire poi della manovella che il conducente usava per aprire le porte… ero affascinato da quella manovra e dal suono che faceva, e ancora di più quando per aprire la porticina anteriore introdussero una seconda manovella più piccola… Oggi con l’introduzione dei pulsanti di apertura non c’è più gusto”.
“Quindi anche tu, zio, hai usato i mezzi pubblici e come mai hai smesso?”
“Ma vedi, nipote adorato, ho smesso di prendere l’autobus – ed anche la metro, per la verità – diversi anni fa: oggi guarda la confusione che c’è ad ogni fermata: si sale e si scende da tutte le parti, l’altro giorno un gruppo di studenti è entrato addirittura da un finestrino, nessuno ti controlla se hai il biglietto oppure no, ogni tanto qualcuno ti alleggerisce del portafoglio – è successo anche a me – e la confusione, l’affollamento, i ritardi, gli scioperi e ogni tanto qualche autobus che va a fuoco mi hanno convinto che potevo – specie alla mia età – permettermi di spostarmi in taxi. Avevo anche pensato di prendermi la patente ma alla fine ho fatto bene a rinunciare: oggi un po’ a tutte le ore, ma specialmente la mattina per andare al lavoro e la sera per tornare a casa, gli automobilisti sono assatanati e la strada diventa un percorso di battaglia dove per conquistare qualche centimetro la gente dà sfogo a tutti i suoi istinti più bestiali…
 
Ma ora, come al solito, ti devo lasciare: sta per arrivare una mia cara amica e siccome ha deciso di venire con i mezzi pubblici, sono sicuro che arriverà stravolta e la dovrò consolare. Tu vai pure tranquillo, caro nipote, con il tuo autobus: spero che anche tu troverai al tuo arrivo qualcuna che ti consolerà. E non dare tanto retta ai discorsi degli anziani come me, sii ottimista e guarda sempre avanti, in fin dei conti… avanti c’è posto!”
                                                                                                                                                              
                                                                                                                                                           (Silas)
 
 

Esperienze

IL CRITERIO DEL FILO A PIOMBO

Caro Giuseppe, 

tardo un po’ nel mantenere l’impegno di comunicarti un’“idea” avuta nel periodo estivo. Le motivazioni di questo mio attardarmi sono due: una è dovuta alla mia funzione di nonno e l’altra, la più importante, è dovuta alla titubanza di continuare ad impegnarmi in ricerche culturali e sociali, non possedendo la strumentazione culturale adeguata per diffondere e rendere fruibili ad altri dei pensieri che necessariamente vanno messi in comune per ottenere una ”grande idea”, la quale diventa tale proprio perché non resta racchiusa in un cervello ma viene condivisa fino a raggiungere una partecipazione sociale e quindi politica. La propria idea può appagare la propria indole ma, se non diventa  “generativa”,  resta sterile.

Comunque, siccome sei un cocciuto stimolatore di speranza, non fosse altro per il rispetto che provo per la tua persona e per il tuo impegno ti invio questo scritto immaginando  che sia per te di una qualche utilità.
 
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Traguardare col filo a piombo

Una delle materie scolastiche che insegnavano a noi ragazzini che frequentavamo la Scuola Professionale per l’industria e l’artigianato di Voghera, aveva un nome strano: si chiamava “Occhio”, e si traduceva nell’apprendere non a guardare ma a traguardare, e cioè a frapporre tra il tuo occhio e l’oggetto in osservazione un punto di riferimento in modo da allinearlo al tuo campo visivo.
Nella fattispecie ti parlo del filo a piombo, che è uno strumento semplice, usato nel tempo per verificare la verticalità di un oggetto. Nel caso concreto mi è stato utile nei primi anni di lavoro svolto nelle valli biellesi per posare i pali di sostegno dei conduttori elettrici.
In quei primi anni di lavoro (1966-1968) l’attività prevalente che svolgevo era quella di piantare pali e tirare fili, ed in alcuni casi, quando questi rasentavano il percorso stradale, appendere i lampioni. Erano gli anni della nazionalizzazione di Enel e si dovevano cambiare e modernizzare tutte le linee elettriche che erano obsolete ed inadeguate  allo sviluppo che il Paese stava vivendo.
Non esistevano allora mezzi adeguati che alleviassero la fatica fisica nello svolgere tale lavoro e, nelle vallate, il tutto si svolgeva “a mano” e ad “a occhio”.  Potrà apparirti strano che ti parli di questo ma, credimi, piantare un palo che sia perfettamente in verticale  rispetto a tutti gli angoli d’osservazione e prevedere “a fiuto” quale piccola pendenza lasciare affinchè lo stesso ritorni alla perpendicolarità con il peso dei conduttori  e dei lampioni di pubblica illuminazione, senza utilizzare “il filo a piombo” è impossibile.
Oggi, con l’utilizzo di strumenti laser e di mezzi meccanici, è tutt’altro: ma, allora, quello si usava e, benché fosse di uso semplice, si trovava sempre qualcuno che obiettava che, a suo modo di vedere, il palo pendeva da una parte o dall’altra: e lì, se si voleva mettere la parola fine alla discussione, “il filo a piombo”, che non pende per propria natura, ti salvava.
Un tale modo di guardare o, meglio, di traguardare, mi è rimasto appiccicato sulla pelle e quindi anche la mia vita, e quella sociale, la guardo e la traguardo usando lo stesso metodo di riferimento e di verifica. Non più il “filo a piombo” ma alcuni valori che già in giovane età mi si sono incarnati e che,  pur in modo intermittente, tutt’ora mantengo ben saldi.
Veniamo all’oggi: ma non subito. Ancora un ricordo, perchè ho visto che  fai docenza ad un percorso formativo dal titolo ”Memoria e futuro”: ed allora… ancora un po’ di memoria.
 
Nell’aprile del 1997, in segreteria regionale Flaei (il sindacato dei lavoratori elettrici della Cisl, ndr), si pensò di  predisporre una copertina che richiamasse i temi contenuti nella relazione congressuale piemontese. Non sto a dilungarmi nella descrizione delle tematiche di tale relazione perchè le conosci bene quanto me:
 
 Le problematiche europee, l’allargamento degli Stati partecipanti, l’influenza che tale situazione poteva avere sul sindacato e sui lavoratori…
 Le dinamiche dei “capitali oscuri” che spostavano i risparmi familiari in investimenti azionari rendendoli economicamente appetibili ma privatizzandone la speculazione a vantaggio di pochi .
 Il fenomeno dei poveri e delle migrazioni che si affacciavano al mondo, e che in una città come Torino erano già presenti nel sottobosco lavorativo, ed avrebbero sorpassato in quantità esponenziale le problematiche legate alle migrazioni Fiat.
 Nello specifico del nostro settore elettrico, la privatizzazione e lo spezzatino di Enel, che ha prodotto l’esborso azionario delle famiglie italiane per un valore approssimativo di 30.000 miliardi di lire per riacquistare una parte di Ente che era già loro e che trasformerà definitivamente dal prossimo anno 2019 l’utente in cliente. Chi capisce la differenza che passa tra “utenza” e “clientela” non ha bisogno di  parole di commento.
 
Ci fu una discussione che durò per qualche tempo, sull’opportunità o meno di inserire, nella copertina del volumetto che conteneva la relazione congressuale, la scritta in rosso “dagli un’anima(al sindacato, s’intende: è una scritta che ricorderai). I temi trattati allora sono ancora di tutta attualità ed irrisolti, ma il dibattito era su quella scritta,  che poi non venne stampata. Qual’era la motivazione che mi spingeva ad inserirla?
 
Vent’anni fa la percezione che si respirava nel mondo del lavoro e tra lavoratori e imprenditori era mutata rispetto a quella del primo dopoguerra, dove ancora la dignità ed il valore di una persona venivano identificati con la professione che la persona svolgeva, tant’è che non era raro trovare in Torino persone che parlando dell’Avvocato (Agnelli) lo chiamavano “Giuanin-lamera”, colui che, grazie ai suoi predecessori, aveva fatto di Fiat una cultura e un simbolo di prestigio internazionale (e nel 1966 ne divenne presidente).
 
Eravamo già nel post-industria, con le tecnologie, la robotica, i supporti informatici, la cultura sociale, le conquiste sindacali, ecc… Non c’era più, nè si veniva percepiti più,come valore in quanto capaci di esercitare nella vita una professione: decideva ormai il successo di se stessi o dell’impresa. Il mondo si era ristretto. 
 
Le grandi aziende si chiamavano ormai holding, i supermercati avevano soppiantato la media distribuzione, molte erano le aziende che de-localizzavano alla ricerca di un più alto profitto. Tradotto e sintetizzato un po’ volgarmente, “la persona ed il prodotto cessavano di essere tali per la loro qualità o quantità intrinseca”. Mentre in casa sindacale si discuteva di consumismo, alienazione,realizzazione di sé attraverso la professione, altri lavoravano alacremente per la “finanziarizzazione” di ogni cosa,  sia che fosse un oggetto sia che fosse una persona, un prodotto o un popolo, uno stato, un  continente. Tutto correva veloce e la finanza allegra galoppava.
 
Ancora un passettino indietro. Da pochi anni era caduto il Muro di Berlino e l’accorpamento dell’ovest con l’est della Germania avvenne con il concambio di valore della moneta di uno a uno. In pratica l’Ovest fece la lungimirante scelta politica di “parità di valore” rendendo la Nazione omogenea a se stessa e spostando il baricentro geografico-politico del commercio europeo sul proprio territorio, e allargando l’Unione  ai  Paesi dell’Est. La “parte vincitrice della Germania”  seppe “traguardare”, non si limitò ad una raggiunta unità territoriale. Spostò l’orizzonte ad est e così, in Europa, divenne “geograficamente centrale”, con tutto ciò che tale centralità ha comportato. Non la stessa lungimiranza, successivamente, fu applicata da parte nostra con l’introduzione dell’Euro (pensa solo per un attimo se, nel mentre si dibatteva dell’allargamento ad est, in quell’alta assise politica europea si fosse posto il problema dei migranti mediterranei che già allora “lavavano i vetri delle auto” nelle nostre città).
 
Con la caduta del muro, e sostanzialmente del Blocco Sovietico, cadde anche il marxismo: ed il capitalismo festeggiò se stesso. Molti furono gli onori che si auto-attribuì, alcuni anche meritati, “la proprietà privata” apparentemente aveva vinto su un ideologia che la riteneva un’idiozia, e molti di noi hanno esultato tant’è che di lì a poco Papa Wojtyla ritenne utile la promulgazione dell’ enciclica Centesimus Annus che richiamava all’attenzione i cento anni trascorsi dalla  Rerum Novarum ma anche rimodulava il pensiero della dottrina sociale, e questo nonostante nei precedenti anni avesse già promulgato la Laborem exercens sul lavoro umano, e la Sollicitudo rei socialis sui problemi dello sviluppo degli uomini e dei popoli.
 
Lavorando in Cisl avevo avuto l’opportunità di avere contatti diretti con alcuni esponenti di Solidarnosc, e di seguirne per un certo periodo l’affermazione. Ben sapevo il ruolo che Papa Wojtyla e la Chiesa avevano giocato nella caduta del Muro e del Blocco: non tanto nell’affermazione del capitalismo ma bensì nel coagulo dei bisogni di un popolo in un movimento che per la dignità della propria vita, non solo lavorativa, per la prima volta nella storia conosciuta “disarcionava un potere” senza incorrere in una rivoluzione più o meno violenta ma,  con lotte anche rischiose e con estenuanti trattative, sbriciolava il muro ed il centenario conflitto ideologico tra capitale e lavoro. Un “quasi miracolo”, di portata storica.
 
  Non la faccio tanto lunga, questi aspetti li conosci quanto me e meglio di me. Quelle erano le pulsioni che provavo quando insistevo un po’ su quel “dagli un’ anima”.
 
Vedi, vivendo in Torino e seguendo un po’ le dinamiche politiche cittadine, avvertivo ciò che in seguito si sarebbe sviluppato  sul territorio nazionale e cioè il fatto che si formasse una “saldatura di compromesso” tra il potere del capitale (Fiat) ed il Potere del Popolo (politica locale) fissando libertà di movimento e di riconoscimento. In termini concreti Fiat lasciava la gestione della comunità a condizione che la stessa lasciasse libertà di movimento e non interferisse più sulle scelte del capitale aziendale. Si ridussero i conflitti di fabbrica, si ridussero i conflitti sociali nel territorio e gli ex comunisti o socialisti governarono Torino, il Piemonte e parte dell’Italia accreditati in tutte le strutture sia pubbliche sia private, nelle Università come nelle Banche e Assicurazioni, nella Stampa ecc., fino allo scorso anno con l’avvento dei 5 stelle, i quali non mi pare abbiano capacità o volontà di modificare tale “accordo non scritto” ma applicato.
 
Il potere economico, su scala mondiale, aveva dichiarato il “cessate il fuoco” ideologico, lasciando la gestione della Polis ai partiti purchè non interferissero più di tanto sulla gestione privatistica del capitale. In gergo comune “si riposizionava” e se, a mio avviso, il mondo del lavoro non alzava l’asticella del “dagli un’anima ”, sarebbe rimasto risucchiato nell’“Economia Politica” del Paese, lasciando mano libera ad un sistema economico che già si stava spostando verso un sistema non più industriale ma finanziario. Il lavoratore, ed il prodotto del lavoro, cessavano la propria funzione storico-evolutiva; e i “bisogni del lavoro” non erano più nemmeno “merce” ma diventavano prodotti finanziari e come tali vendibili e messi sul mercato degli interessi privati.
 
Vedi, quando parlo di anima non mi riferisco a qualcosa di astratto né voglio prendere in considerazione la parte “spirituale” che nel comune pensare attiene alla religione: no, mi riferisco a quell’ “anima umana” che è presente in tutti, che è generatrice del principio di vita che dà origine al pensiero, al sentimento, alla volontà, alla stessa coscienza morale o sociale, e nella quale risiedono “i bisogni”, che si differenzia per cultura, ambiente, tradizione, stato sociale, famiglia ecc., ma che, se non trova cittadinanza nel “quotidiano del lavoro”  attraverso il riconoscimento valoriale della propria “unicità e socialità”,  come tutte le cose non utilizzate si atrofizza, si spegne.
 
Guardando l’esperienza di Solidarnosc avevo ritrovato quell’anima che non aveva scisso in se stessa i  valori e le esigenze di giustizia da quelli della necessità del vivere e del mangiare e il tutto l’aveva fatto unificando i bisogni di un popolo senza sottostare più di tanto a “regole di mercato” né a “rivoluzioni ideologiche”.
 
Ancora una cosa prima di parlare o, meglio, scrivere dell’oggi. Voglio essere chiaro. Credo profondamente “nell’approccio imprenditoriale della vita” e quindi del lavoro in ogni accezione considerato, sia esso dipendente o meno, credo nella “proprietà privata” della vita e del capitale, credo nel “rispetto delle differenze”: ma tutto ciò non può essere ottenuto senza l’applicazione di regole sociali che unifichino “in uno” i valori generatori di umanità, libertà e ricerca di verità che pre-esistono in ogni persona e ad ogni latitudine, ed occorre farlo con delle regole collettive che inducono alla partecipazione ed al diritto di cittadinanza sociale di quei valori attraverso la corresponsabilità di esercizio. Di questo dovrebbe occuparsi la politica, sia essa partitica, sindacale, imprenditoriale, personale, familiare: ma ahimè…
 
Esiste e deve esistere libertà economica, finanziaria, culturale, ecc., ma esiste, o dovrebbe esistere, uno Stato,  nel senso ampio del termine, che attraverso la legislazione regoli tali libertà affinchè una di esse non raggiunga un livello di potenza tale da ridurre le altre in dipendenza e schiavitù.
 
Veniamo all’oggi. Per brevità mi soffermo solo su un aspetto tra quelli che attanagliano la nostra vita lavorativalasciando ad altre occasioni l’approfondimento su altri temi che pur meritano.
 
Ciò che le tecnologie informatiche hanno reso possibile e fruibile in questo ultimo decennio mai si era affacciato sul pianeta Terra (salvo pensare agli alieni,  ma lì io non ci arrivo).
 
  Provo, con il filo a piombo, a traguardare iniziando da un’angolazione.
 
Oggi esistono nel mondo dei supercalcolatori in grado di svolgere 22 milioni di miliardi di operazioni matematiche nel tempo di un secondo, e sono in mano a società private (una di queste l’hanno piazzata in un paese vicino al mio), riesci a capire?  Non è agevole, vero? Provo con un altro esempio. I cellulari di ultima generazione che sono nelle nostre mani  e nelle mani di tantissimi ragazzi, cittadini del mondo, hanno una capacità di memoria tale che potrebbe contenere “un milione di computer”  simili  a quello che la NASA utilizzò per inviare l’uomo sulla Luna. Sì, hai letto proprio bene, “un milione”.
 
Nelle nostre mani ed ancor più nelle mani private di pochi gruppi mondiali vi è un potenziale informativo tale per dimensione e velocità esecutiva, da rendere superfluo il pensare e l’apprendere. Tant’è che per i comuni mortali tutto lo scibile umano che serve sta in un cellulare: l’orologio, la rubrica, gli appuntamenti, le fotografie, i giochi, come del resto la geografia, la storia, i libri, la cultura, ed anche le relazioni personali. Tutto lì, in palmo di mano e immediato. Per i mortali un po’ meno comuni, ma che in comune hanno l’interesse del profitto, a loro non sembra vero di poter disporre di una quantità assoluta di informazioni (che noi stessi forniamo loro nel nostro agire quotidiano), e di utilizzarle a proprio beneficio.
 
“I grandi fondi finanziari e oscurisono i possessori sia di quelle informazioni sia di enormi quantità di denaro cartaceo (in passato la parità con l’oro non lo consentiva) facilmente trasferibile con un “clik” ed immediatamente esigibile, ed il tutto avviene in assoluta assenza di norme giuridiche che impediscano l’accumulo eccessivo, che pertanto diventa “l’unico  dogma”. Non ci sono più le sfide del mercato libero che in qualche misura regolava il bene, frutto del lavoro, ed il profitto,  frutto dell’impresa.
 
Questa abnorme quantità, concentrata in poche mani private, punta attraverso la speculazione finanziaria ad accumulare la valuta nei propri magazzini sottraendola di fatto al mercato, in modo da renderla dipendente. La distribuzione, o meglio la redistribuzione, di beni e servizi viene sottoposta alla loro finanziarizzazione, e come tale regolata.
 
Nella civiltà contadina che ha accompagnato per millenni l’evoluzione umana e sociale fino ad un centinaio di anni fa, un meccanismo simile veniva adottato da coloro che “possedevano le sementi”. Non erano quelli che lavoravano la terra, né talvolta gli stessi proprietari terrieri, no, erano coloro che fornivano qualità e quantità di sementi non superiori alle necessità di sopravvivenza (o di mercato) e stabilivano quali terreni utilizzare o meno, e se un proprietario non garbava loro o non rendeva il dovuto, semplicemente quei terreni restavano incolti e le popolazioni rischiavano la fame.
 
Come vedi, nel metodo non è cambiato molto da allora, se non su un aspetto specifico. Le famiglie e le proprietà contadine, anche se analfabete, avevano consapevolezza di un tale metodo e, nella storia, con lotte e sacrifici l’hanno superato. Oggi, il seme del mondo economico è la “carta moneta” ma fingiamo  di non saperlo.
 
Ora provo con il filo a piombo a traguardare da un'altra angolazione.
 
La Cina è la più grande potenza economica mondiale, ha superato gli Stati Uniti, è orgogliosa di se stessa e della propria millenaria cultura. Aprendosi parzialmente al mercato, è diventata il Paese dove i marchi del lusso si mettono in fila per poter entrare, detta la propria etica e visione valoriale, e chi sgarra si affretta a scusarsi. La Cina non gira più il mondo per elemosinare ma “compra”. Da vastissime aree in territorio africano, ad  aziende in territorio europeo ed americano; compra squadre di calcio, compra case e negozi, ecc.
 
Detiene il maggior numero dei miliardari del mondo. Compra, paga in contanti e impone se stessa al mondo. Non a caso Trump è piuttosto incazzato. Chi l’avrebbe detto, ai tempi della rivoluzione maoista... Rimangono al proprio interno parecchi problemi ma, come sempre ha fatto, se non trova un accomodamento li risolve da sé. E’ di questi giorni, apparsa sulla stampa di casa nostra, la polemica pretestuosa su “Huawei” che con i propri prodotti informatici mina la sicurezza del mondo intero, a detta di Trump, come se le aziende americane, o altre, non fossero mai state violate.
 
Il continente africano, apparentemente negli anni si è liberato dalla schiavitù e dall’ imperialismo occidentale e quindi dovrebbe evolvere verso orizzonti di civiltà e libertà ben superiori a quelli attuali. In realtà tutti i settori decisivi dell’economia di quei paesi sono ancora saldamente nelle mani di imprese straniere che di volta in volta, anche attraverso la guerra tribale, finanziano i “Ras di turno” come a loro conviene, utilizzando altresì forme di fondamentalismo religioso che negano una qualsiasi possibilità di cittadinanza a chi non appartiene a loro.
 
I gruppi estremisti, che cercano di risolvere tali controversie con le armi, trovano appoggi politici, militari ed economici,  e coloro che cercano soluzioni meno cruente vengono emarginati ed il più delle volte uccisi. La produzione di miseria serve come deterrente per tenere a bada coloro che la miseria e la povertà  in casa propria l’hanno in qualche modo superata. Gli Stati Europei, tra i quali l’Italia, l’Olanda, la Francia, il Belgio, gli Stati Uniti, il Regno Unito, i paesi del Golfo arabo, la stessa Cina e la Russia, ancora oggi giocano sulla produzione di profughi e schiavi.
 
Non ci si è dati da fare per promuovere negli anni un “ceto mediocon cultura adeguata e  professionisti e quadri competenti, capaci di far funzionare uno Stato. Hai voglia poi di parlare di migranti, pensando che il problema sia risolvibile senza intervenire sulle cause che lo producono.
 
Analogamente, anche se con modalità differenti, avviene nei paesi dell’America Latina. Anche lì, con un residuato imperialismo, non solo europeo, si sono assemblate culture cristiano-marxiste su un umanesimo che laddove prova ad evidenziare una certa autonoma gestione o visione sociale e politica, viene estromesso dal mercato mondiale, utilizzando le leve del debito inestinguibile, e talvolta della repressione. Recenti sono i casi dei migranti che incolonnati sulle strade del Salvador, dell’Ecuador, del Venezuela, del Messico e probabilmente di altri Stati “cercano speranza” in quelle Nazioni che in realtà sono le stesse che mantengono critica la loro condizione di vita in casa propria, e che mantengono nelle proprie mani le condizioni e le risorse economiche utili al loro sviluppo.
 
Voglio ora “traguardare” ancora da un’ ulteriore angolazione.
 
Stiamo assistendo ad un collante  finanziario-religioso-politico, che qua e là ogni tanto appare. Si assiste, nel mondo attuale, ad una disgregazione politica dell’umanità accampando appartenenze a fedi religiose differenti che in funzione a recrudescenze fondamentaliste, per ragioni di “sicurezza nazionale” mirano a controllare in modo capillare e scientifico tutta la società affinchè diventi impossibile l’infiltrazione di un qualsiasi “pensiero distorto” che abbia come effetto collaterale l’autonomia dei popoli e la reale indipendenza storica e culturale. Mi è agevole a tal proposito osservare come autoritarismi, seppur di diverso colore politico, trovino coagulo e si affermino nella guida delle nazioni, con l’intento  di limitare il più possibile la libertà ed i valori generativi dell’umanità.
 
Tali movimenti diventano di facile lettura se si analizzano le prese di posizioni critiche nei confronti di questo Papato. Critiche più o meno evidenti arrivano dal continente americano e da quello europeo strumentalizzando il dramma della pedofilia, sul quale, in realtà, questo pontefice  è uno dei più acerrimi nemici.  C’è in atto un “collante protestante” che associa Trump (Stati Uniti), con Bolsonaro (Brasile), Mey (Regno Unito), ed alcune nazioni europee, che evidenzia politiche di nazionalismo.
 
La Chiesa russa, con Putin, stranamente fa sponda con la parte più intransigente di Israele nel gioco geo-politico mondiale, additando a questo papato la debole difesa dei valori cristiani, laddove i cristiani vengono da altri  martirizzati brandendo ragioni religiose. Per non parlare dei paesi arabi o di quelli nei quali la dottrina mussulmana è legge di stato ed i cristiani, generalmente intesi, sono “gli infedeli”. Non ultime sono le critiche mosse al Vaticano per il recente presunto accordo con il governo cinese nel riconoscimento dei vescovi nominati dal Papa ma in qualche misura graditi a Pechino. E tutto ciò trova appoggio all’interno della Chiesa Cattolica da parte di alcuni vescovi e laici che non trovano di meglio che accusare il Papa di apostasia.
 
Tutti questi interventi, se letti separatamente, sembrano incomprensibili: ma se si guarda la radice ci si accorge che la pianta  trae origine da una comune visione del mondo e della tangibilità della persona umana, che deve essere piegata agli interessi di chi comanda, anche se declinati in forme e colori politici differenti. La vera difficoltà di questo papato è che  il Vangelo del perdono e degli ultimi, la contrarietà alla guerra, l’aperta sfida più volte lanciata sul traffico di armi e di uomini, la contrarietà alla pena di morte, la pervicace volontà di “costruire ponti e non muri”, il “Laudato si” sull’ambiente, il richiamo continuo alla povertà reale, che deriva già dalla scelta iniziale del nome Francesco, la messa all’indice del “dio denaro”, tutto ciò rappresenta un pericolo per tutti coloro che vogliono gestire l’umanità, controllando perfino le coscienze in modo da poter agire, con maggior tranquillità, per fare i propri “porci comodi”.
 
Questo papato, richiamando la pratica quotidiana dei valori cristiani e non solo la loro divulgazione accademica, è in aperto contrasto con chi non accetta il principio di inviolabilità e di intangibilità della vita e della libertà, sia essa individuale o collettiva.
 
L’ultima “occhiata”, non ultima per importanza, riguarda casa nostra. Il nostro “Bel Paese” che inserito in questo contesto europeo e mondiale si dibatte in se stesso senza grandi prospettive di riemergere con una visione di futuro meno fosca. I dati dei vari istituti di ricerca segnano le difficoltà oggettive: disoccupazione, povertà, precarietà, assenza di prospettive. Mi pare che la nostra classe imprenditoriale, più che “fare impresa” sia quasi completamente assorbita nel “grande gioco finanziario”, restano attive le medie e piccole imprese che su scala mondiale rappresentano ciò che era l’orto di casa nella civiltà contadina.
 
Peraltro alcuni marchi industriali proseguono nel proprio posizionamento mondiale e pertanto a tali regole devono adattarsi. Restano ancora attive aziende che con la ricerca restano in dialogo permanente e fanno innovazione, ed un tessuto sociale che non vuole rassegnarsi e che si esprime in varie forme di volontariato. E comunque non siamo un corpo separato dal resto del mondo e se nel mondo le regole applicate sono quelle che ho accennato, piaccia o non piaccia regolano anche noi.
 
Negli ultimi decenni non c’è stato uno sviluppo che ci contraddistingua, più che altro c’è stato un adattamento del “sistema Italia” a sistemi da altri controllati e nei quali ci siamo inseriti. E questo lo vedo purtroppo, oltre che nelle aziende, anche nella cultura in generale, senza la quale, hai voglia crescere…
 
Dal punto di vista politico, pur senza nascondere le difficoltà che comporta la gestione pubblica, vedo che gli orizzonti  di sviluppo della collettività si sono ripiegati in una prospettiva di autosufficienza che risponde più ad una logica di autoassoluzione  che non al coraggio” che occorre per vivere e per scegliere come vivere.
 
Abbiamo lider di maggioranza che “scimiottanoed è già tanto se non rovinano ciò che è già precario, e lider di opposizione che cercano di “sfangarla” per se stessi. E’ bastato che “la finanza che conta” facesse “uno starnuto di spred” che tutto il coraggio innovativo si trasformasse in “piscio”. A tal proposito ridicolo e per certi versi pericoloso è l’atteggiamento che si vuole assumere in ambito internazionale spostando l’asse politico collaborativo verso Russia e Cina. Si potranno anche favorire aziende italiane e ricevere investimenti sul nostro territorio, ma entrambi questi blocchi, quando comprano, impongono la propria logica, chi con le armi, chi con la finanza, anche in campo religioso, giusto per non dimenticare.
 
D’altronde tutti sono stati eletti non più per le loro intrinseche capacità o visioni politiche ma attraverso un’abile analisi e gestione dei desideri popolari effettuata con adeguati algoritmi applicati ai dati informatici in loro possesso e che a ragion veduta sembrano portare risultato. Un po’ dovunque nel mondo siamo passati dalla politica dei grandi ideali alla politica dei “selfi” e degli “spot” che per loro natura attraggono come le foglie di un albero ornamentale presso il quale, se ci rivolgiamo per trovare frutta buona che ci alimenta, restiamo a digiuno.
 
  Avviandomi alla conclusione cerco di sintetizzare ciò che a mio modo di vedere è avvenuto e sta avvenendo e che ha incidenza sulla collettività e sulle persone che a tale collettività appartengono. Va da sè che il culto dello sviluppo attuato prevalentemente nelle cosiddette “società avanzate” abbia portato tali società ad una crescita del benessere complessivamente inteso, maggiori beni, maggiori servizi, maggiore tutela sociale, ecc … complessivamente a una vita migliore, e non credo nemmeno che lo sviluppo del capitalismo o, per contro, di culture marxiste, sia tutto da buttare nelle fogne.
 
C’era del buono in entrambe le visioni che, con conflitti molto aspri, hanno comunque raggiunto livelli di miglioramento delle condizioni di vita, e finchè tali conflitti sono riusciti a ridistribuire il risultato della loro affermazione in beni o solidarietà sociale, pur con grandi tragedie e guerre, “si costruiva”. Perché, attraverso le dinamiche del conflitto tutti si era chiamati ad interrogarci ed a vivere in aderenza automatica ai grandi ideali che sostenevano tali azioni. Pur in termini sbagliati, si viveva in simbiosi con i valori, poi via via nel tempo il tutto è stato “cartolarizzato” .
 
Specificatamente, “carta” più o meno straccia si è fatto di tali valori, “carta” più o meno straccia si è fatta del sapere, “carta” più o meno straccia si è fatta dell’umanità, “carta” più o meno straccia si è fatta delle aziende e dell’imprenditoria, “carta” più o meno straccia si è fatto dell’oro.
 
Tutto è stato assoggettato a “carta, più o meno straccia, anche “l’uomo”.  E la “carta” si è fatta “bait” (esca) e bait sé fatto “bit” che è l’unità di misura del contenuto d’informazione adottato con  il sistema di numerazione binaria nei computer e nei cellulari (quella che grossolanamente io chiamo la “matematica cinese”, quella composta da una sequenza di uno e zero, diversamente disposti) ed il “bit” opportunamente accumulato e diagnosticato, ha prodotto il “Bit-coin” che di per sé non ha sostanza, rappresenta il “nulla” eppure in questo “nulla” chi ci ha messo qualche soldo, nel volgere di un paio d’anni si è trovato miliardario.
 
Caro Giuseppe,
 
in questo bailamme descrittivo che uccide la speranza umana nell’aver capacità d’uscita, in realtà una piccola speranza mi deriva dalla Fede, e cioè dal ripercorrere a ritroso quell’antico e permanente soffio che è la vita presente in ognuno di noi. In ogni persona. Dovunque e comunque essa sia, perché se “Lui” non ci ha ingannati, il legame profondo che esiste tra libertà, verità, vita, e che risiede in ogni “anima del pianeta” non puoi nè dominarla, nè ingannarla, nè ucciderla, vive già l’eternità e pulsa vita in continuazione.
 
Ecco, quando guardo razionalmente  le cose cerco di usare “il filo a piombo”, che segue un principio di gravità terrestre al quale tutti siamo assoggettati,  se guardo le persone non posso  fare a meno di “traguardare l’anima” che segue un principio di amore, ed anche a quello siamo assoggettati.  Ovviamente mettendo in campo tutti i limiti ed i peccati di cui dispongo.
 
Fai bene, fai bene il bene, e che Dio ci aiuti.  
 

Un abbraccio, caro amico.
  
                                                                                                                                          (Enrico Forti)
 
 
P.S. - Per darti sollievo ti allego il “Post” che ho pubblicato ieri sera sulla mia pagina “Facebook”. E’ in tema, ma sorrido al pensiero  che tu, un “latinista della lingua italiana”,  sia stato costretto a leggere “post” e “ace book”.…..Lo scritto, usalo a tuo piacere…     Ciao!
 
 
Talvolta
portando la mente
a spasso nei campi
alzi gli occhi al cielo
e…
ti accorgi che Dio esiste.
 
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Ambiente bene comune

SI FA COSI'

Prendiamo il “pezzo” di cronaca così come ci viene trasmesso. Ci pare civicamente utile e bello segnalarlo: un caso di resistenza umile ma incrollabile contro lo strapotere danaroso di chi in danaro vuole trasformare tutto, anche a costo di rovinare il bene comune.
 
Vi è nell’esempio datoci da Ovidio Marras, il personaggio protagonista del “pezzo”, un insegnamento fondativo di ogni etica civile: non è mai sufficiente lamentarsi di quanto mediocre o ingiusto sia il governo del nostro paese, della nostra regione, della nostra città, o di quanto cattivi siano “gli altri”: è necessario sempre e comunque che “noi”, proprio noi personalmente, nel nostro ruolo qualunque esso sia, ci comportiamo secondo etica e giustizia. L’ingiustizia degli altri non giustifica la nostra; anzi, non giustifica neppure la nostra semplice indifferenza al dovere di “fare qualcosa”. Ovidio Marras, nella sua semplicità di vecchio pastore sardo, è stato un autentico professore di vita per tanti di noi.
 
 
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"Lui (in foto) è Ovidio Marras. Gli dicevano: “ Guarda, Ovidio, che la tua terra te la paghiamo a peso d'oro. Costruiremo a Tuerredda degli hotel a 5 stelle, con lussuose suites per gente ricca, ne faremo una nuova Porto Cervo: dicci tu la cifra che vuoi per la tua terra, e noi te la compriamo”.
 
Ma Ovidio, pastore sardo, 85 anni di vita e di orgoglio, ha risposto che lui a Porto Cervo non è mai andato, e per la verità nemmeno sa dov'è, salvo che è in qualche parte della Sardegna. Ha aggiunto: “Guardate che io non vendo nulla: questa è la terra di mio padre e del padre di mio padre, e me la tengo, e voi qui intorno non avete diritto di costruire”.
 
Ovidio ha fatto causa, da solo, contro megagruppi immobiliari rappresentati da stuoli di avvocati. Lo prendevano in giro per questa sua resistenza, trattandolo come un vecchio scemo tignoso fuori dal tempo, che si era messo contro poteri troppo forti, contro chi voleva gettare su uno degli angoli più belli e incontaminati della Sardegna una colata di cemento di 910 mila metri quadri, più o meno come un palazzo di dieci piani.

Invece Ovidio ha vinto. Ha vinto, da solo, e definitivamente. Ha vinto in Cassazione. Non potranno costruire, e quanto di già costruito andrà buttato giù. La sua terra è salva, è la terra da dove suo padre ogni giorno partiva con le bestie per il pascolo, al sole, sotto l'orgoglioso e puro vento, e a sera tornava, per un pezzo di formaggio e un pane. Con Ovidio ha vinto una certa preziosa idea di dignità, addirittura più preziosa del denaro." 
 
 
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Organizzazione

LIDERSHIP: STARE A CAPO O ESSERE UN CAPO?

 
Ugo Righi è consulente di direzione aziendale, collaudato da una serie ormai lunga di esperienze in contesti complessi e di ampia dimensione: “ne ha viste tante”, potremmo dire, e conosce le sfaccettature più inattese delle dinamiche aziendali e dei rapporti che in esse quotidianamente si generano e si intrecciano. La concretezza dell’esperienza lo ha indotto a uno stile sintetico e asciutto, ma difficilmente controvertibile. Egli ci trasmette qui alcune interessanti osservazioni sul rapporto fra “capo burocratico” e “lider” in una organizzazione.
 
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La posizione di comando non coincide automaticamente con l’essere un capo: ci sono moltissimi soggetti che hanno un potere derivato dall’ufficio che occupano, ma non sono lider. Il punto è comunque che davvero i lider sono fondamentali per lo sviluppo dei sistemi socio-organizzativi.
 
I lider si riconoscono dagli effetti che ottengono e dai comportamenti che tengono, essi riescono a cogliere il centro delle cose, hanno visione d’assieme e capacita di mettere in relazione il tutto con la parte, e viceversa. Non solo, ma, strategicamente, agiscono tra le differenze evitando che queste diventino conflitti, e spesso riuscendo addirittura a trasformarle in opportunità.
 
Il loro potere è prima di tutto personale: è verso se stessi, in termini di autoregolazione e direzione, ed è riconosciuto e legittimato poi anche formalmente dall’esterno.
 
Va notato che in genere i sistemi, sia quelli micro sia quelli macro, sono tendenzialmente ipergestiti, ovvero pieni di manager, professional, tecnici,  ma sono anche ipoguidati: manca cioè il senso comune, l’adesione a uno scopo, il piacere e la voglia motivata di sorridere.
 
La dimensione oggettiva dei sistemi dovrebbe essere variabile dipendente da quella soggettiva: invece avviene il contrario; senonchè è impossibile produrre valore quando l’armatura soffoca l’anima.
 
Solo il lider riesce in realtà a intrecciare fra loro le situazioni complesse, generando valore come condizione per ottenere sviluppo. Ci sono (per esempio nella politica) soggetti certamente intelligenti ma, da questo punto di vista, stupidi, perché il loro comportamento, anziché diminuire il conflitto, lo aumenta e lo genera addirittura, e quindi distrugge il principale capitale umano, che è dato dalla capacità di stare insieme dialogando come esseri umani che non diventano nemici perché hanno opinioni diverse.
 
Il costo del mantenimento del nemico è pazzesco, e il nemico ha come principale scopo non quello di ottenere un risultato concreto, ma quello di far fuori il nemico.
 
Il problema è che in genere il potere non è in mano a dei lider (soprattutto in politica) ma a dei semplici capi: semplificando (ma mi sembra proprio che sia così) chi ha molto potere ha bassa competenza connettiva e lidership, e chi ne ha poco è un lider ma senza investitura di potere formale. Sembra quasi che per ottenere il potere occorra avere bassa competenza sociale.
 
Un lider non è tale perché convince i suoi adepti, lo è se riesce a dialogare anche (o soprattutto) con chi vuol essere nemico, evitando di entrare in un gioco che porta alla sconfitta di entrambi. La paradossalità è che negli scenari dell’odio, anche se le situazioni sono oggettivamente collaborative, la relazione soggettivamente conflittuale determina che lo scopo principale è comunque far fuori l’altro (il nemico) o almeno denigrarlo.
 
Quali sono, quindi, i riferimenti per una lidership di valore?

1. Il lider deve promuovere e consentire la diffusione di un sentimento di parità tra le persone creando senso comune e aumentando la condivisione culturale. Il lider deve aumentare i livelli di credibilità e fiducia tra i membri di un gruppo, in modo che essi possano mettere in comune rapporti professionali e affettivi e li utilizzino per un aumento della comunanza dei rispettivi spazi vitali. Il lider aiuta a far apprendere, a far estendere nel tempo l’apprendimento, e a storicizzare esperienze, percezioni, aspettative e speranze, realizzando la parità e credibilità reciproca senza perdere la identità individuale. Aiuta a gestire ergonomicamente la realtà, progettando e realizzando le forme e gli stili di comando, insieme con coloro che le “subiscono”. Aiuta in sostanza a concepire la lidership (e quindi il potere) come relazione, e anche a vedere le relazioni come conflitti: nel senso che l’incontro tra due persone o due o più situazioni è l’incontro tra differenze, e, perché tale, è un incontro conflittuale: ma la fisiologia del conflitto è il dialogo e l’incontro, la patologia è l’invenzione del nemico. Il lider deve saper, soprattutto, mobilitare altre intelligenze, altri comportamenti, collegare “sinapsi”, essere il centro e il raccordo, dinamicamente.
 
2. Il suo comportamento deve essere una risultante equilibrata di dimensioni che comprendono aspetti tangibili e intangibili: intuito accuratamente preparato, acume teorico risultante dal possesso di basi cognitive, intelligenza sociale, capacità di rischiare e prudenza decisionale, senso della storia e capacità di dare significato dinamico agli avvenimenti, semplificando ma non banalizzando.

Il lider vero percorre il viaggio con altri che lo seguono e realizza la storia in quell’ambiente con quelle persone, facendo cose insieme per uno scopo comune. Se non ottiene questo, il suo potere è solo arroganza dannosa.
 
                                                                                                          (Ugo Righi)
 
 
 

Formazione

2019: SI COMINCIA CON IL SINDACALISMO

Presentando, a suo tempo, il sito “studisociali.org”, si diceva fra l’altro che “l’impegno formativo è parte integrante della ispirazione originaria di Studisociali. Le sue iniziative vengono proposte sia in forma di corsi sia in forma di singoli incontri, di gruppo o individuali…”.
 
E si aggiungeva che “quella di Studisociali è una formazione concepita sempre in senso integrale, vale a dire come formazione della personalità compiuta”, tanto che i temi trattati riguardino competenze tecniche quanto che attengano a mondi valoriali: si parte comunque dalla “formazione della coscienza” e si prosegue nella direzione specifica prescelta, ma sempre nell’alveo della grande avventura umana che rende la vita della singola persona e della comunità migliore in senso totale qualunque sia la materia particolare che si approfondisce.
 
Ebbene, fin dal primo corso del 2019 verrà rispettato e valorizzato tale approccio. Esso affronterà la grande tematica del sindacalismo in Italia e nel mondo. Si ripercorrerà la storia del movimento sindacale in Italia ma anche in Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Germania, Paesi Nordici, e in altre esperienze significative del mondo. Le sue vicende, i suoi uomini, le tecniche, i metodi organizzativi, gli errori e i successi, l’evoluzione e i pericoli, i collegamenti internazionali.
 
Ma perché vale la pena occuparsene? Perché si tratta, sostanzialmente, della dimensione fondativa del lavoro nella vita umana: il lavoro è dignità biblica” dell’uomo, fondamento insostituibile della piena realizzazione individuale e sociale della persona in qualunque tipo di società.
 
Occorre conoscere la storia del lavoro per conoscere la storia umana, occorre conoscere la storia del movimento sindacale (in senso lato) per conoscere la storia del lavoro.
 
Libri e università raccontano diffusamente, fra l’altro, che il movimento sindacale ebbe origine in Inghilterra, intorno alla fine del 1.600, con la nascita del macchinismo e delle prime manifatture. E’ una visione vera ma solo in parte, è imperfetta, scolastica, semplificata, addirittura impropria. Racconteremo invece di come una idea di autotutela del lavoro, anche collettiva, pressoché una idea sindacale, è esistita, ad esempio, anche nell’antica Roma. Ed è importante raccontarlo perché… guai a chiudere la storia del sindacalismo nella più recente fase della storia economica e sociale, quella dell’economia industriale: come troppo spesso e dannosamente si fa. A suo modo, diversamente in ogni epoca, il sindacalismo è di sempre.
 
Insomma: oggi conosciamo benissimo, e dobbiamo conoscere, le impostazioni universitarie ed i libri in circolazione sulla materia, ma dobbiamo saper andare oltre. Andare verso la “storia totale” dell’uomo, anche nel campo del lavoro. Perché è l’unica storia che abbia veramente senso compiuto, per l’uomo, per la sua civiltà e per le sue prospettive. L’uomo è infatti persona integrale, non insieme di spezzoni scoordinati o casuali o settoriali nella vicenda esistenziale dell’individuo.
 
Ed è storia che va conosciuta, come accennavamo, a livello mondiale, non solo italiano: perché il mondo è stato in passato, ed è sempre più, integrato quanto ai problemi essenziali da affrontare. In fondo (e ancora una volta si dimentica troppo spesso, o si sottovaluta) una “globalizzazione” operava anche nel mondo greco-romano.
 

A livello mondiale, dunque: anche se l’Italia mantiene un posto privilegiato nei nostri approfondimenti, oltre che nel nostro cuore e nella nostra vita concreta: del resto l’Italia resta oggettivamente al centro della civiltà mondiale che cammina, con i suoi valori ed i suoi difetti.
 
Ma, attenzione: il sindacalismo non è semplicemente “storia”: è anche vicenda attuale, movimento in atto, che esige comprensione e visione approfondite, e, nella misura del possibile, anche incontri personali con le realtà concrete e con i protagonisti nei quali si incarna. Perché anche il mondo del sindacalismo è, in fondo, un mondo e una storia di persone concrete, diverse e complesse. Ogni giorno.
 
Come opera dunque il sindacalismo italiano di oggi? E quello estero? Quali ne sono i punti di forza e i punti di debolezza? Quali le prospettive possibili? Qual è il senso profondo della esperienza sindacale ai fini della crescita del bene comune nella società attuale? Vale la pena dunque fare i sindacalisti? Una vocazione profonda per una missione ancora incompiuta, incompiuta da sempre, ma da sempre fondamentale per la civiltà umana.
 
 
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Antologia

Per una riforma del sistema bancario europeo: la proposta sempre valida di Luciano Gallino

Riproduciamo un interessante spunto che fu già pubblicato da Studisociali, nella sua versione pre-sito, nel 2016, sulla interessante e lucida iniziativa di petizione allora rivolta al parlamento europeo, promossa proprio da Luciano Gallino e da alcuni suoi amici per la riforma, tuttora più che mai indispensabile, del sistema bancario e delle politiche finanziarie degli Stati.
 
Luciano Gallino, uno dei più grandi sociologi italiani del dopoguerra, è venuto a mancare da una manciata di mesi. Con lui la sociologia mondiale e quella italiana hanno perso una delle anime più attente alle dinamiche profonde del nostro tempo e, soprattutto, uno degli interpreti più profondi di Adriano Olivetti, con il quale lavorò a diretto contatto.
 
Pochi mesi prima di morire, Gallino si era fatto promotore, insieme con Eio Veltri e Antonio Caputo, di una petizione al parlamento europeo per chiedere un cambiamento radicale del sistema finanziario vigente nei paesi dell’Unione. 
 
La petizione ripete la posizione da lui sempre espressa sulla materia. Del resto, a ben pensare è quella che corrisponde, da sempre, anche al buon senso elementare del cittadino che risparmia qualcosa dei suoi guadagni e desidera affidarli a una banca perchè glieli custodisca in sicurezza, servendosene nel frattempo per finanziare investimenti in economia reale che facciano crescere la ricchezza di tutta la comunità. Eliminando così la speculazione impropria. Non occorre essere economisti, per capire questa logica elementare ed eticamente corretta. Ma per attuarla occorre non essere né dipendenti né servi di speculatori: banche degeneri, oscure finanziarie, fondi poco trasparenti, o altro di similmente speculativo.
 
Riproduciamo il testo della petizione dichiarandone tuttora la piena validità e condivisione da parte nostra. Le cose, in questi mesi, non sono affatto cambiate, quanto a politica finanziaria in Europa, in Italia e nel mondo: e siamo anzi ancora più preoccupati di allora, in quanto la situazione bancaria del nostro paese è parsa ulteriormente indebolirsi, la trasparenza delle intenzioni di governo è parsa ulteriormente mascherarsi, le minacce di uno scarico di tale situazione sui risparmi degli italiani è parsa farsi nuovamente ravvicinata secondo più di un osservatore. La riflessione critica di Gallino e di quanti l’hanno ripresa e sviluppata, o almeno diffusa, comincia comunque a scuotere molte coscienze e anche per questo ci sembra utile riproporla.

 
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Tra le cause della crisi economica che attanaglia l’Europa rientrano i difetti strutturali del sistema finanziario della Ue, evidenti soprattutto nei grandi gruppi bancari.
   
Lo sviluppo anomalo del sistema finanziario ha provocato gravi danni all’economia produttiva.
 
Da un lato i crediti che le banche concedono vengono utilizzati soprattutto per attività speculative, anziché per investimenti in capitale fisso, infrastrutture, ricerca, sviluppo di nuovi settori d’attività; dall’altro, la finanziarizzazione delle imprese industriali e dei servizi ha distorto i loro criteri di gestione e le ha indotte a spingere sempre più in basso le condizioni di lavoro e i salari.
   
Una riforma del sistema finanziario è pertanto necessaria quanto urgente.
 
Senza di essa una crisi ancora più grave di quella in corso ormai da otto anni potrebbe abbattersi sulla Ue.
   
Sappiamo che progetti di riforma del sistema finanziario sono in discussione presso la Commissione e alcuni parlamenti di paesi europei. Si tratta però di progetti lontani da ciò che sarebbe necessario per riportare la finanza al suo essenziale ruolo di servizio nei confronti dell’economia produttiva.
 
Ed è sin troppo evidente come essi siano stati redatti in accordo con le grandi banche e le loro lobbies.
   
I difetti strutturali del sistema finanziario Ue si possono così riassumere, insieme con alcune indicazioni su possibili linee di riforma:
   
            1) Nella Ue vi sono numerosi gruppi bancari che non solo sono troppo grandi per essere lasciati fallire, ma sono diventati talmente grandi da rendere impossibile salvarli nel caso fossero a rischio fallimento. Il loro bilancio in termini di attivi si avvicina e in vari casi supera il pil del paese in cui hanno sede. Appare pertanto indispensabile scomporli in entità di minori dimensioni. Varie strade sono praticabili, dalla separazione tra banche di deposito e banche di investimento, all’apposizione di un limite al volume di attivi che un istituto può detenere.
  
            2) I maggiori gruppi bancari sono troppo complessi sul piano internazionale per poter essere assoggettati a una efficace regolazione. Ciascuno è formato da migliaia di società sussidiarie giuridicamente indipendenti distribuite in tutto il mondo. Dopo il fallimento della Lehman Brothers nel settembre 2008 ci sono voluti anni di lavoro da parte di migliaia di analisti per capire quali e quanti fossero, e dove stavano, gli attivi e i passivi delle 2.500 società che formavano il gruppo. Il numero delle sussidiarie di ciascun gruppo dovrebbe pertanto essere drasticamente ridotto.
 
          3) Le grandi banche Ue intrattengono stretti rapporti con un gigantesco sistema bancario e finanziario ombra – formato da enti che non sono banche ma operano come banche - il quale secondo stime del Financial Stability Board detiene attivi dell’ordine di 23 trilioni di euro, una somma pressoché pari al totale degli attivi di tutte le banche europee. Pure le dimensioni del sistema bancario ombra dovrebbero essere fortemente ridotte, e quanto ne rimane dovrebbe venir assoggettato a una regolazione analoga a quella delle banche.
           
          4) Le banche europee hanno emesso col tempo titoli derivati per centinaia di trilioni di euro. Oltre il 90 per cento di essi sono “nudi”, ossia non corrispondono ad alcuno scambio reale di merci o servizi.
Giustamente sono stati definiti da molti esperti delle pure scommesse. Poiché, a parte il loro valore nominale, essi hanno un prezzo di mercato, la loro creazione è equivalsa a immettere nell’economia immense quantità di denaro fittizio, che ha contribuito a creare e fare esplodere la bolla immobiliare e finanziaria del 2008, e poi l’attuale bolla dei valori azionari. Pertanto l’emissione di derivati “nudi” dovrebbe essere vietata.
   

            Tutto ciò considerato, i cittadini europei firmatari della presente petizione chiedono al Parlamento Europeo, unico ente elettivo dell’Unione in cui essi si riconoscono, di farsi carico di una proposta di legge che affronti finalmente le distorsioni del sistema finanziario della Ue sopra richiamate.
 
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Servizi Pubblici

"BIGLIETTO, PREGO...": E TI SENTIVI SERVITO E PROTETTO

Mi dicono che l’11 novembre saremo chiamati a un referendum consultivo per decidere, come cittadini di Roma, se la gestione Atac, dopo la disastrosa prova di questi anni, vada messa a gara fra privati, oppure mantenuta in concessione ad azienda controllata dal comune, oppure passata a gestione diretta del comune stesso… Così mi pare di aver capito, genericamente. Non so bene, esattamente, di che si tratti: cercherò di informarmi meglio, sia per coscienza civica sia perché dell’Atac mi servo costantemente, viaggio con i suoi mezzi, ho la mia tessera annuale… E sono da molto tempo, e crescentemente, insoddisfatto e  sconfortato. Per il vero non mi pare che questo modo semi-silente di organizzare un referendum, per quanto solo consultivo, sia il modo migliore per affrontare i problemi della pubblica amministrazione in una città come Roma: ma non mi sottrarrò al mio diritto e dovere di votare. Intanto mi viene da ricordare qualcosa…
 
 
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Chi di voi si ricorda? Tanti anni fa, a Roma, i mezzi pubblici di trasporto non portavano sulle loro fiancate la pubblicità. Erano riconoscibilissimi anche per questo: il colore era verde, omogeneo, pulito; erano i mezzi di trasporto di tutti i cittadini. Si pagavano pochissime lire (ricordo benissimo il biglietto a cinquanta lire ma qualche amico più anziano di me lo ricorda anche a 25), e a bordo c’era, insieme all’autista, il bigliettaio. Staccava i biglietti e impediva l’evasione (dal pagamento del biglietto, non dall’autobus), controllava il buon comportamento e la tenuta in pulizia delle carrozze, dava informazioni, dava all’occorrenza anche qualche nozione di buona educazione agli utenti, proteggeva i passeggeri più deboli, fungeva da spalla per lo stesso autista, cosa preziosa specialmente nei turni di notte…
 
Gli incassi non andavano benissimo nel senso che mantenere con il solo provento dei biglietti il costo della macchina in servizio, più le due persone addette, più la struttura organizzativa di supporto (pensiline, pulizia, manutenzione dei mezzi…), effettivamente richiedeva una oculatissima gestione ed in più l’intervento di sostegno del bilancio comunale. Del resto, era appunto un servizio comunale, uno dei più importanti servizi comunali, per una città grande come Roma. Ma… che meraviglia di servizio, che splendore di sicurezza e che piacere viaggiare per Roma in quel modo!... E, relativamente ai tempi, gli stipendi dei lavoratori Atac non erano poi così bassi, anzi…
 
Poi, un giorno, a qualcuno venne l’idea geniale: perché non arrotondare le entrate dell’Atac consentendo un po’ di pubblicità, sulle fiancate esterne e all’interno degli autobus? Pubblicità decorosa, si capisce, ben educata, pulita… Come si deve su mezzi pubblici. Detto, fatto. E così venne l’arrotondamento delle entrate. Andò benissimo.
 
Dietro questa idea corretta, semplice ma pure a suo modo geniale, vennero pian piano altre idee, e nel giro di pochi anni venne l’idea genialissima: una di quelle idee che già sciamavano lungo l’Italia e che dicevano di una nuova modernità, questa volta non sociale ma di mercato (questa fu la parola magica, che veniva usata quando si parlava di economia pubblica in contrapposto alla economia privata, per la quale ormai il vocabolario giusto preferiva la parola businessl’imbastardimento della cultura sociale andava di pari passo con il crescere della terminologia e dei modelli economicistici nordamericani, e con la diffusione della lingua inglese che li portava). L’idea genialissima era… l’eliminazione fisica del bigliettaio: ma sì… roba da anni Cinquanta, il bigliettaio: roba da Italietta sentimentale. Dimezzamento dei posti di lavoro? Sì: ma… anche dimezzamento dei costi. E’ così che si fa, per far andare bene le cose. Business, diamine, benedetto business! Anzi, bisness, come lo chiamano loro, che da intelligenti quali sono scrivono diverso da come leggono e leggono diverso da come scrivono. Pare necessario che si sia brutti ed illogici, per andar di moda e, dicono loro, per far andare bene le cose (?!).
 
Per far andare bene le cose… Ma le cose di chi, scusate? Non certo della gente. Caso mai, le cose di chi già cominciava a pensare in termini di gestione amministrativa aùm aùm, fra politici che principiavano a dimenticare i padri che avevano lavorato con onestà per mettere in piedi i servizi sociali di una civiltà avanzata e solidale, senza rubare e senza straguadagnare. Politici nuovi in sostanziale connivenza di interessi con burocrati e tecnocrati di pari livello, nuovi e vecchi, e vertici analoghi di lobbies (centrali oscure di oscuri d’affari, e non, come a volte si dice traducendone il nome, corporazioni: queste furono a lungo entità ben più nobili ed aperte). E imprenditori sedicenti tali, dalla losca identità professionale, ma… attivi nella ricerca di “opportunità di bisness”.
 
Del resto, non soltanto la pubblica opinione ma neanche il sindacato dei lavoratori era ormai culturalmente in grado di contrastare una simile deriva di superficializzazione delle cose, né lo era quella che veniva ancora chiamata la “sinistra” politica in generale, preoccupata di “sdoganarsi” definitivamente davanti alla opinione pubblica più moderata e anche internazionale.
 
La qualità del servizio di trasporto pubblico, naturalmente, si sconquassò rapidamente e senza freni: e oggi “è quella che è”, come si dice. Il servizio è costantemente peggiorato, fino a oggi, e i prezzi dei biglietti sono costantemente saliti. Fino alla idea particolarmente “produttiva” del “biglietto a orario”. Dato che i mezzi non hanno orario garantito di passaggio, di garantito resta soltanto… l’entrata del biglietto. E vi pare che i conti di bilancio dell’azienda siano migliorati? Neanche per sogno. Perché… nel frattempo il direttore generale dell’Atac, mi dicono, ha come suo parametro stipendiale il doppio dello stipendio del presidente degli Stati Uniti d’America, più o meno. No, non del suo collega direttore generale della metropolitana di New York: proprio del Presidente degli Stati Uniti d’America. Per un lavoro così micidiale come quello che fa, mi augurerei di vederlo tutti i giorni sugli autobus, quanto meno, a controllare, ad assicurare il buon servizio, a prendere nota, a incoraggiare, e poi via a studiare, a progettare, a riunire il personale per migliorare ancora… A guadagnarsi il pane, insomma, sia pure un pane da presidente degli Stati Uniti d’America e oltre. Nessuno di noi sa, neanche per fotografia, che faccia abbia questo direttore generale Atac, o presidente che sia. Ciascuno di noi sa solo, come lo so io che ogni giorno mi muovo grazie ai mezzi Atac, che questi mezzi sono sempre più sporchi, sempre meno affidabili negli orari, sempre più pericolosi negli autisti palesemente non solo non formati ma neppure addestrati: l’umanità che trasportano, compresi anziani, bambini, malati, traballa, si sorregge come può, sobbalza, a volte cade… Dove sarà questo direttore generale, o presidente, che dovrebbe conoscere, controllare di persona, provvedere, vigilare, provare su di sé come funziona il suo prodotto…
 
Un po’ come il vecchio storico direttore del personale di Tirrenia Navigazione, del resto, quando il paese scoprì la fatiscenza ormai immascherabile della grande compagnia nazionale di navigazione che consentiva a noi sardi di essere collegati con l’Italia a prezzi ragionevoli (oggi di ragionevole, anche in Tirrenia, trovo a stento la scaletta o il ponte di accesso a bordo nave: e a volte neanche quella; un altro miracolo delle “privatizzazioni” da bisness).
 
Il biglietto dell’Atac costa carissimo, ormai, e rende pochissimo. Eppure all’Atac non basta ancora: come accennavo, i suoi dirigenti hanno inventato, importandolo da qualche luogo estero, anche il meccanismo del “biglietto orario”: il quale presuppone che tu possa viaggiare, al costo del biglietto, per un tot di tempo. E andrebbe bene, se i tempi di attesa dei mezzi,  e ancor più i tempi di coincidenza fra un mezzo e l’altro, non valessero da soli metà, spesso due terzi, a volte tre quarti, del tempo di validità assegnato al biglietto: come dire, paghi un’ora di trasporto ma ne passi in autobus meno di metà, e se l’autobus non passa so’ cavoli tua, per esprimerci con i romani. Perché l’autobus a volte non transita, o meglio non si sa se e quando transiterà. Se poi il biglietto ti servisse soltanto per i cinque minuti che ti occorrono da casa tua al vicino ospedale, affari tuoi: il prezzo è esattamente come se tu viaggiassi per un’ora e mezza facendo il giro della città. Più semplice di così…
 
Questa mattina, in compenso, Atac ha inviato a casa mia, per posta, un elegantissimo libretto cellophanato, dal titolo Atac Vantaggi. Commenta la stessa copertina, alla lettera: Fila via su Atac.roma.it. Da oggi puoi richiedere e ricaricare online il tuo abbonamento annuale o mensile su card elettronica. Fai subito un salto sul sito Atac e scopri quanto è facile, comodo e veloce. Chissà se i compagnoni dell’Atac si rendono conto dell’ironia di quell’ultimo facile, comodo e veloce. Caratteristiche quotidiane dei loro autobus, come sanno i romani!
 
Piuttosto stanco e indignato, apro il libretto per la curiosità di vedere fino a che punto arrivi l’impudenza: ma non arriva ad alcun punto. Tutto c’è, nel libretto, tranne ciò che riguarda il servizio Atac ai cittadini, che è l’unica cosa per la quale i cittadini vogliono essere disturbati dall’Atac. L’Atac invece ti parla,  con le pagine fitte fitte fitte e sceme sceme sceme di questo libretto, di tempo libero e shopping (in inglese, per carità, si sa mai gli utenti subodorassero l’imbroglio), di cultura (persino) e musei, di teatro e musica, di assicurazioni e carte di credito. E nelle ben sessantadue pagine fitte fitte fitte e sceme sceme sceme si susseguono Vitaldent Unicredit Acquacottorella Romacalcio Rainbow Corsiditedesco Casina di Raffaello Salaumberto e mille e mille altre cialtronerie (che tali non sarebbero se stessero al loro naturale ed onesto posto; ma stanno solo ad aiutare Atac a fregarci tutti, facendoci dimenticare disservizio e stracosto dei biglietti, che è l’unica cosa che ci importa).
 
Ma no… ho detto che tutte queste cose sono “fitte fitte fitte e sceme sceme sceme”: non è vero; non sono affatto sceme per quei bravuomini (e brave donne: purtroppo è proprio una condizione di “pari opportunità”) che dentro la festaiola cuccagna hanno fatto fino a oggi affari d’oro: lauti stipendi, poco lavoro, nessuna responsabilità. Più bravi di così… Alzo gli occhi al cielo (o, meglio, al tetto dell’autobus, perché è da lì che mentalmente vi penso e vi parlo, in attesa di scrivervi, e gli occhi mi sbattono sulla pubblicità appesa a nastrini che ti arrivano sulla fronte, o incassata nelle commessure dei finestroni, e vedo una frase ambigua e lubrica che vorrebbe fare pubblicità a un profumo: già, l’ingresso dei soldi da fonte pubblicitaria non serve ad aiutare il dubitabile bilancio Atac ma a ricordare ai superstiti del buonsenso che a tutto sono interessati i dirigenti incravattati dell’Atac e del Comune, fuorchè al problema educativo che la pubblicità può porre per i nostri ragazzi, persino nei mezzi del trasporto pubblico. Criptopornografia, ma… ciò che conta sono i soldi, infine. Continuare così?...
 
Dicono che il giorno 11 novembre saremo appunto chiamati a referendum consultivo per stabilire se la gestione Atac dovrà essere messa a gara fra privati o restare pubblica. A me pare un’ulteriore cialtroneria a danno di tutti noi: non è infatti questione di gestione privata o pubblica, ma di regole, di cultura e di moralità, comprese le funzioni sacrosante e trascuratissime di controllo. Con responsabilizzazione di tutti, compresi i cittadini utenti.
 
                                                                                                                             (Giuseppe Ecca)
 
MM
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Società

MIO ZIO ATTILIO E UNA GRAN BELLA AVVENTURA

Chissà perché il mio grande amico Silas non vuole saperne di firmare i suoi pezzi con il vero nome ma preferisce questo ininterpretabile Silas: tanto più interessante, il quesito, per il fatto che Silas ha davvero una penna raffinata e vivace, immaginosa ed attenta… doti che sarebbe bello sentirsi onestamente riconoscere dai lettori anche quando ci si incontra per strada. Ma non posso fare violenza alla sua precisa volontà: la firma sarà, ancora una volta, questo antipatico “Silas”. Ma il pezzo resta di un acuto ed elegante umorismo dietro cui si sviluppa una osservazione solo apparentemente bonaria su quei “mali quotidiani” che la città più bella del mondo, la nostra Roma, di cui sia Silas sia io siamo cittadini di adozione e appassionati tifosi, pare non riuscire a scrollarsi di dosso nonostante la loro così invasiva evidenza e nonostante il sostegno di quell’entusiastica folla che appena qualche anno fa ha gridato “Questa volta ci avemo la sindaca donna e vedrete come tutto migliorerà: noi donne pe’ Roma, finalmente… ve famo vede…”.
 
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L’altro giorno ho deciso di andare a trovare mio zio Attilio.
Lo zio è sempre stato considerato il saggio della famiglia, sebbene in alcuni momenti in passato si sia comportato quasi come uno scapestrato. Non si è mai sposato ma ha sempre avuto molte donne e, da quello che mi raccontavano i miei genitori, ha sparso il suo seme per il mondo contribuendo così al problema del sovraffollamento: infatti ha girato il mondo – non ho mai capito se per lavoro o per diletto – e ancora oggi continua a viaggiare, anche se io sospetto che lo faccia per andare a trovare qualche sua vecchia fiamma o il frutto delle sue passioni; in fin dei conti, ancora oggi che ha raggiunto una certa età, con il suo aspetto da gran signore, alto con capelli folti, barba e baffi ormai completamente bianchi, continua ad esercitare il suo fascino e ad essere coccolato da belle signore.
Ma sto divagando… Forse un giorno, se ne avrò tempo e possibilità, racconterò meglio di questo mio singolare parente. Stavo dicendo che per me visitare lo zio significa attraversare esattamente tutta la città, abitando egli nella parte opposta a quella dove risiedo io. E per una volta, ho pensato, me la prendo comoda, cercherò di utilizzare i mezzi pubblici e di godermi il più possibile il “viaggio”… perché di vero e proprio viaggio si è trattato.
Per arrivare alla prima fermata utile della metropolitana ho dovuto usare l’auto (nel mio quartiere l’unico autobus passa – se passa – ogni mezz’ora nelle ore di punta) ed ho percorso – quindi – gran parte di quella lunga strada che collega Roma con il suo quartiere sul mare, Ostia Lido, passando dall’Eur. Ora, dovete sapere che sin da quando ero bambino e percorrevo questa strada con mia madre sulla sua mitica Seicento, si parlava molto di un sistema automatico per sincronizzare i semafori – che sono numerosi, visti i tantissimi incroci – in modo da trovare sempre via libera, una volta trovato il primo semaforo verde, ed evitare le continue fermate con il rosso. L’avevano chiamata “Onda Verde”, questa ingegnosa soluzione e sembrava un toccasana per risolvere almeno in parte il problema del traffico. Sono passati cinquant’anni e, come parecchie cose nel nostro Paese, non se n’è fatto più niente, di “Onda Verde” è rimasto solo uno sbiadito ricordo ed il titolo di una trasmissione radio che si occupa appunto di traffico. E quando si percorre questa benedetta strada, ovviamente e chissà perché, si incrociano sempre tutti i semafori rossi!
Diciamoci la verità: è una strada molto bella, specie nel tratto che dall’Eur corre verso il mare, affiancata da pini ormai quasi secolari (ogni tanto ne cade uno, per vecchiaia o malattia o scarsa cura – ancora non si è capito bene – e qualche motociclista ci lascia le penne); ora, poiché le radici di questi alberi hanno la strana fissazione di cercare la superficie come se volessero emergere a cercare l’aria e il sole, sta di fatto che l’asfalto si è rigonfiato e spaccato in moltissimi punti, rendendo la via più simile ad un percorso di guerra che ad una strada di scorrimento e la nostra amministrazione comunale, notoriamente a corto di denaro, ha scelto – per evitare ricorsi e contestazioni in caso di incidenti – di imporre un limite di velocità, 50 km orari, e nel tratto più urbano 30 km, in attesa di interventi “più definitivi”. Tant’è…
Comunque, imboccata con la mia potente auto (per modo di dire) la ormai ben descritta strada, al primo incrocio (con semaforo ovviamente rosso) sono stato circondato da venditori di giornali e riviste di tutti i tipi; al secondo semaforo rosso ho respinto con garbo i lavavetri e i lava fanali anteriori; al terzo, un venditore di chitarrine ha tentato di appiopparmene una e mi ha guardato con evidente disprezzo quando ho fatto capire che non ero interessato alla musica; al quarto, mi sono rifiutato di comprare un mazzo di rose rosse oppure un panno di pelle artificiale per pulire i vetri; al quinto, ho trovato una squadra di barboni che, con molta dignità, chiedevano qualche soldo; al sesto semaforo, quello in genere più congestionato, sono improvvisamente comparsi un ragazzo e una ragazza che hanno eseguito in mezzo all’incrocio due minuti di esercizi di equilibrio con palle e birilli: non vi dico l’entusiasmo degli spettatori per questo spettacolo di alta acrobazia circense veramente bello, ma soprattutto – ho il forte sospetto - perché eseguito da una bella ragazza che indossava con disinvoltura una calzamaglia trasparente e appiccicata addosso come una seconda pelle.
Bene, giunto finalmente alla fermata della metropolitana, dopo aver trovato – dopo mezz’ora di ricerche -  un parcheggio “impossibile” a meno di non ricorrere a strani personaggi più con l’aspetto di pugili che di posteggiatori (abusivi), sono riuscito al terzo tentativo ad entrare in uno dei vagoni della metro, vagoni così affollati di gente che per tutto il viaggio non c’era bisogno di “reggersi agli appositi sostegni”, ci si reggeva in piedi l’un contro l’altro, tra ascelle evidentemente refrattarie all’acqua e sapone, colpi di tosse  e starnuti con annessi spruzzi. Nonostante l’affollamento, il nostro viaggio è stato allietato da suonatori di ogni tipo: fisarmonica, chitarra con accompagnamento di altoparlante a rotelle, strani strumenti tipo xylofono ma di evidente fabbricazione artigianale, mentre il programma spaziava dalla musica rock a quella più romantica con evidente preferenza per quella melodica. Ad una fermata è salita una zingara (non so se ancora si può usare questo termine o si rischia di essere tacciati di razzismo, omofobia o altre definizioni oggi usate dai benpensanti): i frequentatori di questa linea la conoscono bene, sono più di trent’anni che chiede – con le stesse parole – qualcosa per comprare un poco di latte per il suo figlio appena nato… deve essere un miracolo di fecondità, vista l’età ormai più che avanzata.
Bene o male, dopo più di mezz’ora di tragitto, sono riuscito finalmente a raggiungere l’agognata meta.   
“Caro zio – ho detto al mio saggio parente dopo i convenevoli d’uso – ora ti racconto il mio viaggio per venirti a trovare”… ed ho narrato le avventure capitate.
“Vedi, caro nipote – ha fatto mio zio – sei stato molto fortunato e non te ne rendi conto. Ti lamenti di buche e di limiti di velocità assurdi ma non capisci che non è cattiva intenzione o incuria quella dei nostri amministratori, anzi è una grande furbizia: evitare i dossi e le cunette costringe i guidatori e soprattutto i motociclisti ad una continua attenzione e a moderare la velocità, diventa una sorta di gara, ed è un po’ come quel gioco, ti ricordi?, che quando eri bambino ti portai da un mio viaggio ad Hong Kong: bisognava guidare una pallina di legno in una sorta di percorso obbligato evitando che cadesse in una delle numerose buche (e tu non ci riuscivi mai)… E i limiti di velocità sono una soluzione obbligata, non tanto per il limite in se stesso – che per una strada di grande scorrimento è evidentemente assurdo - ma per il fatto che si impone una velocità talmente minima nella speranza che il sicuro superamento rientri in un limite accettabile: vedi, noi italiani siamo per natura  insofferenti alle limitazioni e allora bisogna imporre divieti molto pesanti perché siano rispettati almeno in minima parte: hai mai fatto caso che in Italia sui cartelli che impongono una proibizione c’è sempre scritto “Severamente proibito” o “Divieto assoluto” quando basterebbe semplicemente la parola “Proibito” o “Divieto”, come se senza l’aggiunta rafforzativa si fosse ugualmente autorizzati ad ignorare tale proibizione? Sì, nessuno rispetterebbe mai un divieto semplice, cose che accadono solo nel nostro Paese. E tutti quei personaggi che bivaccano a questi benedetti incroci? Ringraziamo il cielo… si, mi ricordo anch’io della famosa idea dell’Onda Verde ma evidentemente i nostri amministratori che si sono succeduti negli anni sono stati lungimiranti: pensa cosa sarebbe successo se non vi fossero state tutte queste soste ai semafori rossi, cosa sarebbe stato di questi pseudo venditori, come avrebbero fatto a sostentarsi? E pensa anche al servizio che ci viene reso: noi italiani stiamo diventando sempre più pigri, per comprare il giornale ci saremmo dovuti fermare in edicola, magari sostando in terza fila e bloccando il traffico, pensa che caos; e avremmo dovuto passare magari una mezz’oretta della nostra beneamata domenica a pulire il parabrezza, cosa che un lavavetri extracomunitario riesce a fare benissimo in una trentina di secondi. Non mi meraviglierei se in un prossimo futuro una squadra bene organizzata riuscisse a lavare completamente una macchina in quei due minuti di sosta al semaforo. Già adesso ho sentito dire che per ovviare al problema degli spiccioli (spiccioli per modo di dire perché non dimentichiamoci che l’euro che oggi sborsiamo con tanta facilità equivale a ben duemila lire di una volta) qualche “venditore” sta pensando di dotarsi di apparecchio bancomat: vedi, nipote, la necessità aguzza l’ingegno… Mi incuriosisce, invece, l’esibizione dei due giocolieri, ma non più di tanto: in fin dei conti tutti noi siamo stati bambini e allora lo spettacolo del circo era una cosa che ci entusiasmava. Bene, in noi è sempre rimasto un po’ dell’animo di quel bambino, anche adesso che siamo adulti, e vedere certi spettacoli ci allieta la giornata, soprattutto se sono eseguiti da una bella fanciulla”.
“Ma zio – ho fatto io – cosa pensano di noi gli stranieri che vengono nel nostro Paese? Non è una pubblicità negativa, anche per il turismo?”
“Caro nipote – ha risposto lui – ancora non hai compreso certe cose… il turista è ammirato da quello che vede nel nostro Paese,  non viene qui soltanto per le bellezze naturalistiche o architettoniche ma anche e soprattutto perché l’Italia è come un grande parco giuochi, dove incontri uno spettacolo ad ogni angolo di strada: giocolieri, lavavetri, barboni, venditori di qualsiasi genere e dove – soprattutto – non ci sono proibizioni o divieti, se non puramente formali. In Italia si può far tutto quello che all’estero si sognerebbero soltanto: tuffarsi nelle fontane, incidere monumenti, gettare immondizia nelle strade, attraversare fuori delle strisce, salire gratuitamente su bus e tram… è tutto un grande giuoco ed è tutto gratis, chi vuoi che controlli, salvo qualche rarissimo caso in cui uno sfortunatissimo giocatore viene colto sul fatto da qualche “vigile” troppo zelante. Ma anche in questo caso, cosa vuoi che succeda, basta ascoltare la ramanzina di turno, non pagare l’eventuale contravvenzione e tornare tranquilli e beati al proprio paese, contenti di aver vissuto uno spettacolo indimenticabile. Quando mai fuori d’Italia potresti godere di questa libertà? Prova a non pagare il biglietto del bus o della metro in qualsiasi paese estero, o a buttare qualcosa per terra e vedrai che la vacanza sarà indimenticabile, sì, ma in un altro senso. Detto tutto ciò, pensa a quanto siamo fortunati noi, che lo spettacolo lo viviamo tutti i giorni in casa nostra, senza spendere un soldo… E in metropolitana la musica, la calca, gli odori rendono ancora più folkloristica la situazione: gli stessi giapponesi – che per cultura ed educazione hanno un innato senso di rispetto per il prossimo e si coprono naso e bocca quando sono raffreddati non per  proteggersi ma per non contagiare gli altri, gli stessi giapponesi – dicevo – sono stupefatti ma felici quando qualcuno in Italia gli starnutisce addosso: quando mai al loro paese potrebbe succedere qualcosa del genere, non gli capiterà mai più e potranno raccontare a parenti e amici quel senso di libertà che solo in Italia si può provare. Tutto questo da noi è normale, anche se qualche volta un benpensante o una persona troppo contegnosa può manifestare un senso di fastidio, mentre ad uno straniero riesce a dare ancora un piccolo brivido.
Vedi dunque, possiamo stare tranquilli, noi italiani, in fin dei conti è tutto un enorme giuoco e dovremmo essere proprio fieri di esserne gli attori principali. Ma adesso ti devo lasciare, nipote adorato, ho una cara amica che mi aspetta e tu sai che  - soprattutto alla mia età – non è bene fare aspettare una signora. E soprattutto devo attraversare tutta la città perché questa gentile signora abita proprio – guarda caso – dalle parti tue”.
“Bene zio – ho fatto io – allora possiamo fare il tragitto insieme e poi ti darò un passaggio con la mia auto…”
“No, caro nipote, ti ringrazio ma io ho già goduto abbastanza degli spettacoli che mi hai raccontato e non credo che alla mia età sarei in grado di sopportarli ancora. Certo, lo spettacolo della bella equilibrista in calzamaglia mi attirerebbe ma devo arrivare in buone condizioni all’appuntamento e preferisco chiamare il mio solito buon taxi. Vai pure, nipote, goditi di nuovo questa meravigliosa avventura e se dovessi incontrare al semaforo rosso il venditore di chitarrine, acquistane una, da piccolo eri tanto bravo e desideroso di imparare a suonare!”
                                                                                                                                    
(Silas)
 
 

Politica economica

UN "COMITATO PER LA STRATEGIA"?

Ma il Cnel no, decisamente no: una struttura costosa e pesante, ormai da anni del tutto inutile, che ha esaurito il suo compito rispetto a quando il parlamento ed il governo avevano utilità e forse anche bisogno, nell’immediato dopoguerra, di un’alta consulenza istituzionale per la loro legislazione economica e sociale. Il Cnel è oggi uno dei costi che vanno assolutamente  aboliti, e le cui risorse vanno restituite alla collettività produttiva attraverso lo Stato.

E neppure un altro ente costoso, di quelli composti di tronfi soloni universitari chiamati, a suon di pesanti gettoni di presenza, a pronunciarsi ampollosamente e quasi sempre inutilmente su cose che il governo può e deve sapere da sé, con la semplice istituzionale consulenza dei suoi propri tecnici, pagati dalla collettività apposta per questo. E, tutt’al più, con l’aggiunta di qualche specifico esperto di volta in volta inerente alla materia trattata.

Insomma, professor Fadda, niente ulteriori costi per ulteriori strutture, in uno Stato già affogato da strutture e costi elefantiaci, improduttivi e non raramente corrotti.

Però la esigenza da lei posta è vera, profonda, e importantissima: bisogna restituire respiro lungo alla politica economica dello Stato ed alle sue strategie di sviluppo. Non ne possiamo più di bellocci senza cultura profonda che appaiono in tv con linguaggio fluente ma vuoto di contenuti, a pontificare sugli ultimi provvedimenti congiunturali od a pioggia che hanno deciso di largire a questa o quella corporazione del paese.  Ministri e politici che sono purtroppo, allo stato attuale e da molti anni, di profilo preoccupantemente basso, nel nostro paese, a prescindere dalle loro appartenenze politiche, e devono reimparare proprio a pensare lungo, oltre che a pensare bene. Ci vuole dunque uno strumento che li aiuti.

E chiedo, ad esempio: perché non reintrodurre intanto quegli antichi “comitati interministeriali per la programmazione” che così proficuamente funzionavano un tempo, durante la prima repubblica, e facevano  semplicemente ma efficacemente incontrare ministri e rispettivi esperti sui  problemi o programmi o progetti di comune o contiguo interesse, proprio per consentire al governo di “programmare” con lungo ed organico respiro? La loro abolizione, con la quasi contemporanea creazione di mostriciattoli costosi ed inutili come le ambigue “authorities”, aggiuntesi al già esistente e parassitario Cnel, è una delle astruserie inventate dalla superficialità della “nuova” politica.
 
Oppure… ci restituiscano quei lenti ma espertissimi direttori generali di lungo corso che costituivano spesso la luce e la continuità delle gestioni ministeriali, e aiutavano i ministri a ragionare, appunto, in termini di decenni e non di semestri. E pongano termine allo spettacolo dei ragazzotti masterizzati e delle bellocce rifatte, che il sistema dello “spoilsystem” piazza ormai anche nei ruoli ministeriali più delicati senza che sappiano neppure parlare in italiano e dirigere la loro lavastoviglie domestica. E ne vediamo e paghiamo gli amari risultati.
Insomma, siamo del tutto d’accordo sul fatto che ci sia necessità di restituire respiro lungo all’azione dei governi: ma va fatto alleggerendo e collegando le attuali strutture, non creandone di nuove. (Giuseppe Ecca).
 

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Se si osservano le varie aree di intervento della politica economica degli ultimi anni (e non solo), se si considerano le diverse articolazioni delle politiche pubbliche, se si considerano le destinazioni cui è stata indirizzata la spesa pubblica, non si può non avere l’impressione che  tutto questo riveli un disordinato brancolare nel buio. Non prendiamo in considerazione per il momento quella parte di scelte di politica economica e di spesa pubblica ascrivibile a tutela di interessi privati se non addirittura a collusioni col mondo degli affari o del malaffare. Sebbene non possiamo escludere che per molti protagonisti della vita politica questa rappresenti soltanto uno strumento per inserirsi a proprio vantaggio nel mondo degli affari, non è di ciò che ora vogliamo parlare.

A costo di apparire ingenui assumiamo quindi l’ipotesi che le scelte e le misure predisposte non siano influenzate da elementi di quel genere, ma siano formulate con l’obiettivo di rispondere alle esigenze di un sano governo dei processi economici e sociali per massimizzare il benessere collettivo. Ma esaminando sotto questa luce i provvedimenti adottati si notano due cose. In primo luogo una mancanza di integrazione e anche di semplice coordinamento tra gli interventi adottati nei diversi settori. Gli interventi in materia di politiche del lavoro non sono integrati con gli interventi in materia di politica industriale, gli interventi in materia di politica industriale non sono integrati con le linee della politica di sviluppo; quest’ultima non appare come punto focale di tutte  le politiche, incluse quindi le politiche fiscali, le politiche della ricerca, le politiche ambientali, le politiche energetiche, le quali tutte a loro volta non appaiono coordinate fra loro. E così si potrebbe continuare. In secondo luogo, si nota che anche all’interno di uno stesso ambito le misure adottate non sono organicamente concepite come parti di un disegno coerente finalizzato al raggiungimento di obiettivi chiaramente definiti. Se questi due aspetti rappresentano due vizi strutturali rilevabili nella azione continua degli organi di governo nazionale e locale, si raggiungono poi punte di manifesta assurdità quando si vedono infilare, in provvedimenti legislativi formalmente intestati ad un obiettivo specifico, emendamenti di natura completamente estranea a questo, contenenti misure e impegni di spesa che dovrebbero essere invece formulati e valutati nell’ambito del quadro programmatico cui per loro natura appartengono.

Comunemente la causa di questa situazione viene attribuita ad un difetto di “governance”: secondo questa opinione l’architettura istituzionale e la configurazione dei processi decisionali sarebbero tali da impedire quel coordinamento e quella armonizzazione degli interventi di politica economica necessari per garantire efficacia ed efficienza all’azione delle politiche pubbliche. In effetti, accade spesso che una amministrazione o un assessorato predisponga misure e piani di azione non soltanto senza alcun  coordinamento ma addirittura ignorando l’azione degli assessorati o delle amministrazioni vicine. Questo è sicuramente vero, e un profondo aggiustamento dei processi decisionali che impedisca questa pratica sarebbe necessario. Tuttavia esiste un’altra ragione  più profonda all’origine di tale situazione, una ragione che non verrebbe meno neanche se i meccanismi decisionali venissero migliorati. Questa ragione consiste nell’assenza di un quadro strategico di riferimento di lungo periodo.

Ormai le trasformazioni strutturali dei processi economici e geopolitici sono talmente rapide e talmente profonde che un sistema economico rischia di trovarsi al collasso se le azioni di governo, anziché basarsi su scelte strategiche fondate su una attenta e corretta individuazione delle linee evolutive in atto, vengono episodicamente decise senza un orientamento strategico,senza una visione sistemica. Se si continua a procedere con misure di corto respiro, volte a tamponare con interventi disorganici di breve periodo questa o quella singola emergenza senza aggredire, anzi senza nemmeno individuare, le cause di fondo,  il rischio di un irreversibile sfacelo economico e sociale è troppo alto.
Occorre esaminare a fondo i termini della sfida che le profonde trasformazioni dello scenario economico globale pongono alla nostra economia ed alla nostra società. E’ assurdo pensare che i problemi dell’approvvigionamento energetico, i problemi dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, i problemi della diseguaglianza nella distribuzione del reddito, i problemi della divisione internazionale del lavoro, della struttura produttiva e della produttività, i problemi delle migrazioni, i problemi del sistema educativo, i problemi dello stato sociale, i problemi di natura ambientale e climatica, i problemi della stabilità finanziaria, i problemi della globalizzazione, i problemi dell’Unione Europea, in altre parole i problemi fondamentali che mettono oggi sotto scacco la nostra società, possano essere affrontati senza un orientamento strategico fondato su una comprensione delle trasformazioni economiche e geo-politiche in atto. Tutto questo deve essere oggetto di approfondita analisi con l’obiettivo di definire una strategia organica in cui tutto il sistema si inquadri ed alla quale le scelte di governo possano ispirarsi e coerentemente collegarsi.

Ma di ciò non è traccia nel nostro paese. Il governo (uso il termine in senso lato per indicare l’insieme dei soggetti che a tutti i livelli sono responsabili delle politiche pubbliche) procede come un’armata “brancaleone”; un incentivo di qua, un sussidio di là; un’opera stradale di qua, un raccordo ferroviario di là; un taglio di tasse di qua, una nuova tassa di là, e così via.

E’ mai possibile che non si trovi un momento e una sede istituzionale in cui esperti, studiosi  e operatori si raccolgano non per fare chiacchiere ma per mettere a fuoco (senza l’affanno e i condizionamenti delle scadenze immediate)  i nuovi i termini di questi problemi fondamentali e per delineare le appropriate linee strategiche per affrontarli? A questo scopo sarebbe necessario che un qualche soggetto (e non potrebbe essere certo il governo, che correrebbe il rischio di intervenire con logiche poco appropriate) convocasse una sorta di “Stati Generali” per fare “il punto nave” e stabilire la rotta migliore e le priorità da affrontare perché il sistema Italia possa navigare senza il rischio di affondare in questa fase di tumultuose trasformazioni.  E’ un appello quasi disperato che ci viene da fare perché un soggetto, o una coalizione di soggetti, prenda l’iniziativa e si faccia carico di questo compito di grande responsabilità.  Potrebbe  essere il Cnel (che non essendo stato abolito dovrebbe avere l’obbligo di dimostrarsi utile); potrebbero essere (azzardiamo) i Centri Studi di riferimento delle organizzazioni sindacali; potrebbero essere altri, ma qualcosa deve nascere.

Tuttavia, questo, che pure costituisce un primo passo necessario, non sarebbe sufficiente. C’è bisogno di qualcosa di più strutturale e di carattere permanente, che superi i limiti di una riflessione circoscritta ad un solo istante del tempo. C’è bisogno di verifiche e di  aggiornamenti continui della strategia di fronte al continuo evolvere degli scenari economici e sociali. Ci sarebbe bisogno di una sorta di Comitato permanente per la strategia”, del tipo dell’organismo costituito in Francia. Lì il  “Commissariat général à la stratégie et à la prospective (CGSP) ”, costituito nel 2013, ha il compito di elaborare per il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Parlamento un rapporto annuale sui grandi orientamenti per l’avvenire della nazione, sugli obiettivi di medio e lungo termine dello sviluppo economico e sociale e sulle riforme necessarie. Esso è formato da studiosi (non da esponenti  “istituzionali”, come invece sarebbe successo in Italia) e a sua volta coordina una rete di commissioni specialistiche per approfondire specifiche aree problematiche. I suoi rapporti forniscono le linee guida per tutte politiche pubbliche. Forse questa esperienza è degna di considerazione, se si vuole abbandonare il consueto procedere episodico e frammentato che, oltre ad essere inadeguato rispetto alle grandi sfide, si rivela molto spesso fonte di sprechi di spesa pubblica e di interventi sbagliati.
                                                                
                                                                                                                                      (Sebastiano Fadda, per Isril)
 
 

Impresa e società

ANDREA AVEVA CAPITO TUTTO: ED E' NEL PANTHEON DEI GRANDI DEL LAVORO

Direte che è una fissa, la nostra, per la impresa partecipativa. Sì, lo è. Perché più studiamo e osserviamo, più le vicende dell’economia, della politica, della società, e della vita umana in generale, ce lo confermano. Ci vuole Olivetti. Non è il profitto che fa sviluppo, ma la cooperazione, la condivisione attiva, la corresponsabilità, la cointeressenza. Sul fondamento di un chiaro primato valoriale: la persona e la comunità. Con diritti e doveri, contemporaneamente e per tutti.

E non è vero che, in una fase storica di grande debolezza da tale punto di vista, per via della dominanza oscura e strafottente di una concezione finanziarista e speculativa dell’economia e non solo di essa, non vi siano esempi robusti che vanno controcorrente. Chi ci conosce ci sente nominare spesso Loccioni, ma è solo un esempio fra quelli più noti: in realtà crediamo di poter dire, per esperienza, che in Italia abbiamo decine e decine di casi simili, sottratti ai riflettori della stampa e della politica prevalenti, ma non per questo sono casi deboli o rassegnati: abbiamo anzi l’impressione, come Studisociali accennava di recente, che la piccola fiamma partecipativa, ben lungi dallo spegnersi,  stia cercando la sua strada per riprendere a divampare in fuoco benefico, e tornare a riscaldare la speranza della società in una economia a misura di persona e di comunità. In una autentica “econoimia”. Intanto… riportiamo la piccola notizia così come, con estrema semplicità, la stampa ce l’ha consegnata, qualche mese fa. E’ un altro caso esemplare. (Egius).
 
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Si tratta della bella e recentissima storia di Andrea Comand, piccolo imprenditore di trentanove anni, in quel di  Mortegliano, territorio di Udine. Un bravo piccolo imprenditore “fattosi da sé”, con la esperienza del lavoro dipendente alle spalle, con una bella famiglia, e con un bel cuore. Un tumore lo ha mortalmente aggredito però nel cuore degli anni e nel pieno della sua attività lavorativa, nel pieno della crescita della sua impresa: così Andrea è morto, pochi mesi orsono, lasciando, oltre che uno splendido ricordo di sé come persona, una sorpresa testamentaria che è scuola di vita e incoraggiamento morale per tutti.

La sua impresa era un’officina meccanica con 5 dipendenti, da lui creata nel 2011 dopo aver maturato altre esperienze di lavoro. Ebbene, nel suo testamento Andrea, consapevole di quanto gli stava accadendo, ha disposto che alla sua morte l’impresa passasse ai suoi dipendenti, alle persone cioè che con lui avevano “fatto” l’impresa stessa lavorando ogni giorno in piena condivisione di tutto: fatiche, risultati, difficoltà, soddisfazioni.

Per quanto stretto fosse il rapporto di lavoro, di amicizia, di solidarietà fra il giovane imprenditore e i suoi colleghi di lavoro, questi ultimi non si aspettavano un gesto così totale di coerenza anche al termine della vita: e hanno voluto rendere pubblico il loro sentimento con una lettera aperta. “Ci ha spiazzati – scrivono in essa Dorina Bulfoni, Andrea Benvenuto, Andrea Cuzzolin, Giuliano Fabro e Simone Zanin – con i suoi gesti istintivi, diretti, concreti, impegnativi ma fatti con il cuore. Ci ha insegnato a camminare da soli perché non era una persona gelosa del suo sapere ma orgogliosa di far crescere le persone che aveva scelto alle sue dipendenze. Siamo stati sempre coinvolti, partecipi, spronati al fine di raggiungere gli obiettivi aziendali: sempre tutti insieme, come insieme abbiamo affrontato il suo periodo di malattia”.

“Il nostro motto – aggiungono questi colleghi di lavoro e di vita – è stato sempre: Non lasciamolo solo ma stiamogli accanto come una famiglia. Lo abbiamo fatto, lo faremo restando una famiglia unita e facendo vivere il sogno di Andrea: per ringraziarlo di ciò che ci ha dato ma soprattutto per fargli ‘vedere’ che grande maestro è stato donandoci le sue quote insieme alla sua fiducia”.

Altri casi, meno rari di quel che si possa pensare, costellano questo ulteriore esempio luminoso che va ad arricchire il pantheon dei grandi del lavoro umano. Esso va assunto come scuola morale ma anche politica, imprenditoriale ed economica, perché l’unica impresa che ha effettiva sicurezza sostanziale di essere duratura e di generare sviluppo nella società in cui opera è proprio l’impresa totalmente e trasparentemente condivisa fra quanti vi operano. Non è visione semplicisticamente idilliaca, questa: tanto è vero che in essa anche la disciplina diventa più stringente, e vi hanno vita meno facile, anzi pressochè impossibile, i furbetti del cartellino, gli abbonati alle malattie del fine settimana, i parassiti che non vogliono continuare a imparare cose nuove…

E i posti di lavoro tendono a crescere.
 

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MM

Economia e società

"LA FABBRICA PER L'UOMO, NON L'UOMO PER LA FABBRICA

Le parole del titolo, virgolettate, sono di Adriano Olivetti. E forse… finalmente, ci siamo: una fiammella sembra, lenta lenta, principiare a riaccendersi sul pensiero e sull’esempio del grande imprenditore italiano. Si chiama centralità del lavoro nell’azienda, centralità della persona nell’economia.
 
Che le forze del male, e più superficialmente quelle brute del materialismo, tornino, nel corso della storia, a dare, con frequente successo, i loro assalti alla città dei diritti umani ed alla sua dimensione solidale e spirituale, non fa alcuna meraviglia: è il tessuto della storia umana, appunto.
 
Fa meraviglia, e non può non farla, che a lasciarsi irretire periodicamente nelle maglie paralizzatrici dell’assalto siano forze sociali nate esplicitamente per contrastarlo e far prevalere più duraturamente il bene. E’ come se la stessa lotta che esse conducono le infiacchisse periodicamente fino ad addormentarle ed a farle diventare acquiescenti in un letargo che, appena, sa gioire per qualche caramellina di consolazione che il moloch del potere imperante largisce loro in termini di piccole conquiste su grandi sconfitte. Prima di trovare la via dell’atteso risveglio.
 
Nell’attuale fase di letargo sono finiti, da alcuni decenni, anche in Italia, il migliore sindacalismo, diverse organizzazioni politiche che in passato ispiravano una concezione dell’economia e del lavoro densa di umanesimo, e altre organizzazioni di grandissima qualità sociale originaria: basterebbe pensare alle Acli.
 
Anche i letarghi tendono comunque, come accennavamo, ad avere periodicamente il loro termine e ad imporre la necessità di un qualche risveglio.
 
Così, veniamo assistendo in questi ultimi mesi a una lenta ripresa di attenzione sia attorno ad aziende che riaccentuano il primato della persona nel loro modo di fare economia e impresa, sia attorno a qualche piccola componente del movimento sindacale che riprende a sua volta graduale coscienza dell’unica ragione che motiva la sua stessa esistenza, cioè il cammino e la lotta concreti e ininterrotti verso una società del lavoro che sia più stabilmente ed esplicitamente a misura di persona e di comunità.  
 
Un esempio non rumoroso ma concreto di questi giorni ci è parso particolarmente significativo per il contesto nel quale si è generato: è uscito un efficace ed intenso comunicato della Federazione Cisl dei Lavoratori Elettrici, la Flaei, che esplicitamente reimposta una logica e un linguaggio che diremmo di stampo olivettiani, proprio in questa ottica: ed è un comunicato che fa seguito a qualche altro recente piccolo documento analogo della stessa organizzazione. Per lunghi anni, e in piccola parte tuttora, non siamo stati assenti dalla bella storia di questa antica federazione della Cisl tradizionalmente coerente sotto il profilo valoriale: ora, la coraggiosa e quasi imprevedibile ripresa di autorevole chiarezza di pensiero e di posizione strategica espressa dal comunicato in questione, frammezzo al torpore generale del sindacalismo attuale, è appunto un concreto segnale di speranza da cui è fondato attendersi sviluppi interessanti.  
 
Nel caso specifico, si prepara forse, potenzialmente, a esplodere, o a implodere, il caso Enel, una delle aziende-colosso della nostra economia e della nostra migliore immagine nel mondo, che, a nostro avviso, va ricondotta a essere, puramente, semplicemente e sanamente, pubblica, come era in passato: deve cioè del tutto cessare la stolida idea che essa debba “vendere energia sul mercato” e deve tornare decisamente la missione per la quale l’azienda nacque, cioè “erogare il servizio elettrico ai cittadini italiani ed alle loro imprese in logica sociale e di efficienza, e la sua prestigiosa competenza a chiunque nel mondo ne abbia bisogno”. Perché questo fu appunto l’Enel, creato con i soldi della collettività italiana e oggi criminosamente ridotto a grumo di scaltre operazioni privatistiche a sfondo finanziario. E non si tratta che di uno dei tanti, troppi casi simili. 
 
Ben significativo, e non casuale, è che il testo del comunicato Flaei  inglobi alla sua conclusione  le inequivoche parole del grande Olivetti in materia di economia e impresa, che tornano in auge. Apparentemente il breve comunicato non è “rivoluzionario”, ma il contesto nel quale esso si riallaccia a una tradizione sindacale ben nota nel settore fa fondatamente sperare che, appunto, il lucignolo fumigante riprenda a sviluppare l’atteso vigore.
 

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COMUNICATO
(del 13 settembre 2018):
I LAVORATORI ELETTRICI SONO IN SCIOPERO
 
 
I lavoratori elettrici sono in sciopero.
 
Intendono richiamare l’attenzione della pubblica opinione e della politica intorno alle perniciose scelte dell’Enel.
 

Puntano a fermare l’ultimo taglieggiamento che esso si accinge a perpetrare.
 
La cultura della Flaei non è “scioperaiola” e - come ogni italiano sa - i lavoratori del settore, in tutta la storia repubblicana, non hanno mai creato un solo disagio o un’interruzione del servizio a danno dell’utenza per difendere i loro interessi.
 
Ora però si è superata la misura decidendo che, pezzo dopo pezzo, la struttura aziendale debba essere smantellata per esternalizzare quasi tutte le attività e far morire, per consunzione, ogni dimensione industriale e gestionale dell’impresa, nonostante sia patrimonio dello Stato e di milioni di italiani.
 
Crediamo che lo Stato, nel “concedere” all’Enel la rete elettrica, abbia imposto obblighi e richiesto garanzie nei confronti dei cittadini.
 

D’altra parte essere monopolisti di un servizio tanto importante come quello elettrico comporta dei doveri non solo nel presente, ma anche per le prospettive del paese, così come implica servire al meglio i cittadini nei territori dove capillarmente si distribuisce l’energia.
 
Non possiamo credere che il mandato conferito ai vertici aziendali, all’atto della loro nomina, si limiti alla creazione di valore finanziario, né si può accettare che un’infrastruttura strategica e decisiva per lo sviluppo e la vita de cittadini diventi libero terreno di speculazione finanziaria.
 

I segnali di cedimento diffuso degli impianti in più di un evento atmosferico degli ultimi anni, ci dicono che qualcosa non va, che non basta far girare le carte e i numeri per dimostrare sicurezza.
 
L’Enel è un’Azienda efficiente. E’ soggetta al controllo dell’autorità pubblica di settore, oltre che al controllo della corte dei conti e dei ministeri competenti. In questi anni tutti hanno assistito peraltro alla continua compressione dei costi di gestione, perseguita con riduzioni forsennate di forza lavoro interna. Tutti hanno preso visione dei bilanci e delle scelte di sviluppo. Ma poiché i processi di liberalizzazione hanno riguardato anche le altre aziende del settore e quelle di altre nazioni continentali, inevitabile diventa la comparazione con i comportamenti e i risultati raggiunti, in particolare, dai concessionari degli altri paesi europei.
 
D’altra parte sulla rete non esistono concorrenti, non esiste mercato. Esiste l’obbligo di economizzare non più di quanto si richieda in termini di compatibilità con le esigenze di qualità del servizio.
 
Ma se i risultati societari dell’ex ente di Stato evidenziano clamorosamente che dal lato finanziario tutti gli indicatori pongono al primo posto il Gruppo Enel, qual è lo scopo di questa rincorsa al disfacimento? Perché si continua a smantellare un’azienda che ha raggiunto i risultati i più alti su scala mondiale? Lo chiede il governo? Lo chiedono gli azionisti? Lo chiede l’autorità di settore?
 
Noi siamo convinti che lo voglia il management, perché ha scambiato l’impresa per una palestra
dove esercitare e misurare i successi personali dei responsabili di turno.
Sulla pelle del paese e dei lavoratori.
 
Proveremo a dimostrarlo col prossimo comunicato.
 
                                                                                                              
                                                                                                               (La Segreteria Nazionale FLAEI)
 
 
La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti.
Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia.
Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”

(Adriano Olivetti)

Medicina e società

PREGIUDIZI MEDICI: ESISTONO (E GUAI A NON TENERNE CONTO)

Guardate in faccia il vostro medico di fiducia, guardatelo con rispetto, ascoltatelo con attenzione, cercate di apprendere da lui tutto quello che può insegnarvi con la sua esperienza e con la sua scienza, consideratelo il più prezioso consulente della vostra vita in materia di salute, ma nello stesso tempo aiutatelo attivamente a svolgere bene il suo servizio su di voi, cercando, con rispetto, di scrutare anche se è un medico che continua a studiare, se ha nei vostri confronti l’attenzione confidente ma pure sempre nuova che un medico scrupoloso deve avere, e cercate, nei limiti della buona educazione e del tempo disponibile a entrambi, di parlarci, proprio di “chiacchierarci”, di dire confidenzialmente anche la vostra impressione od opinione sulle cose che riguardano la vostra salute. Insomma, trattatelo per quello che è: un professionista che in materia di salute ne sa più di voi, dal quale avete cose importanti da imparare e di cui tenere stretto conto, e al quale, nello stesso tempo, è utile che voi diciate le vostre idee, impressioni, stati d’animo, timori, etc.: perché, in fin dei conti, il medico è innanzitutto un uomo che nel suo delicatissimo lavoro viene aiutato proprio dall’avere un corretto, trasparente, rispettoso rapporto interattivo con i suoi “pazienti”.
 
L’aura timorosa e sacrale che tradizionalmente circonda la figura del medico è spiegabile, naturalmente, con i fattori sociali legati allo status elevato che la categoria medica riveste da sempre, con i fattori psicologici di istintivo condizionamento nei confronti di chi ha in mano la nostra salute quando siamo in condizioni di debolezza, addirittura con i fattori antropologici legati più tipicamente ai ruoli di massima delicatezza riservati a pochissimi nel contesto della comunità, e così via. Ma è un’aura che va superata a favore di un rapporto, oltre che rispettoso, anche, appunto,  positivamente interattivo. Perché è con il vostro aiuto che il vostro medico potrà curarvi al meglio, non da solo. Il vostro aiuto è per lui prezioso per tanti aspetti, uno dei quali è la vigilanza che anch’egli deve costantemente avere nei confronti del rischio di restare, alla lunga, intrappolato, o almeno condizionato, in “pre-giudizi” che, in questa professione come nelle altre, sono inconsapevolmente sempre in agguato. Proprio di tale rischio ci parla in questo articolo Massimo Palleschi, uno dei più autorevoli geriatri italiani. (Giuseppe Ecca).
 
 
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Il termine “pregiudizio” non implica di per sé un significato negativo.
 
Infatti la parola si riferisce semplicemente, di per sé, alla conoscenza di un evento, di una persona, di un tema, che non si è avuto la possibilità di approfondire. Da questo punto di vista il pregiudizio può essere paragonato a qualsiasi parziale conoscenza precedente un giudizio più documentato.
 
Nel linguaggio corrente però il termine acquisisce un significato negativo, riferendosi ad una conoscenza non solo scarsamente attendibile, ma influenzata, e a volte determinata, da elementi estranei all’essenza del problema sul quale si cerca di dare un giudizio.
 
Si comprende molto bene perché l’espressione abbia acquisito una valenza negativa: molte persone, di fronte ad una semplice impressione o, se vogliamo, ad un giudizio provvisorio, anziché approfondire l’argomento od ascoltare il parere di altre persone con specifiche competenze in quel settore, rimangono ancorate a quel primitivo loro orientamento, correndo il forte rischio di parlare o pensare per tesi preconfezionate che, proprio per non essere razionali, tendono a resistere ad ogni argomentazione di significato contrario.
 
La presenza di pregiudizi è frequente nelle persone fortemente emotive, portate a pensare ed a prendere decisioni in maniera repentina, istintiva, senza l’avallo di un pacato, obiettivo ragionamento. Persino in ambito scientifico, non raramente, si procede per pregiudizi (ma in questi casi si può parlare di scienza?).
 
Recentemente, avendo già riflettuto sul problema dei pregiudizi in medicina (vedi ad esempio la diffusione di alcune medicine alternative prive di base razionale, scientifica), sono stato colpito da uno studio riguardante George Washington, il primo presidente degli Usa e personaggio chiave nella costituzione degli Stati Uniti.
 
Washington fu assassinato (non volontariamente) dai medici dell’epoca a causa – io ritengo senza ombra di dubbio – di un pregiudizio. Il presidente aveva da poco terminato il secondo mandato ed era in condizioni di salute più che soddisfacenti, tanto da andare ad una battuta di caccia. Il presidente morì il 14 dicembre 1799 dopo una malattia acuta durata meno di un giorno: esattamente 21 ore.
 
Che cosa successe in quel poco tempo, e quali errori madornali si verificarono, che possano avere un qualche legame, anche indiretto, con il tema di cui sto parlando? Secondo il mio parere George Washington fu ucciso da un pregiudizio analogo a quelli compiuti nei più diversi ambiti della scienza (vedi la storia di Galileo!) e che presumibilmente sono responsabili della pervicace continuazione di pratiche terapeutiche inutili o dannose in virtù appunto di un pregiudizio, cioè di un giudizio preconfezionato.
 
George Washington, tornando da una battuta di caccia, andò incontro ad una sindrome febbrile che in poche ore lo portò ad un grave peggioramento delle sue condizioni. Vennero consultati due medici che prescrissero un salasso, rimedio tenuto in gran considerazione dai medici dell’epoca. Non migliorando le condizioni dell’illustre paziente, furono eseguiti a breve scadenza altri due salassi, ciascuno di 250cc. In sostanza vennero prelevati al malato, in pochissimo tempo, 750 cc di sangue, poco meno di un litro.
 
Quando l’ex presidente era quasi agonizzante fu chiamato un terzo e molto stimato medico, che prospettò ai due colleghi l’opportunità di sottoporre il malato ad un intervento di tracheotomia, essendosi presentate forti difficoltà respiratorie. Fece presente però che la procedura era pericolosa e che il malato sarebbe potuto morire. Il consenso venne ritirato ed allora si arrivò a proporre, e ad effettuare, un quarto salasso, questa volta di un litro: complessivamente, in poche ore, vennero sottratti 1750 cc di sangue al povero Washington, che ovviamente morì di lì a poco.
 

Perché ho raccontato la storia del presidente americano? Sono convinto che l’assurdità del comportamento di quei medici non si spiega semplicemente con l’inadeguatezza delle conoscenze dell’epoca. Allora venivano concepite anche idee molto intelligenti, era stata già scoperta da due secoli la circolazione del sangue e si sapeva perfettamente che con un notevole dissanguamento si moriva. Il buon senso avrebbe consentito già allora di non fare uno sbaglio del genere.
 
In realtà quell’errore fu possibile solo per l’esistenza di un pregiudizio, quello di considerare il salasso il rimedio principale di quasi tutte le malattie gravi: quasi un dogma. Si trattava di un giudizio che, come tutti i “pre” giudizi, era in grado di resistere ad ogni eventuale argomentazione o dubbio, molto poco modificabile con i mezzi della ragione.
 
Non sappiamo come sarebbe stata la vita di Washington senza il pregiudizio dei medici curanti; con il senno di poi si ipotizzò che il presidente fosse affetto da un ascesso a livello della glottide, che probabilmente lo avrebbe condotto a morte in ogni caso. Ma comunque era meglio evitare una morte sicura da dissanguamento.
 
Quale può essere l’insegnamento di questo caso, e quali possono essere le analogie (anche se lontane e indirette) con avvenimenti del mondo medico attuale? Un esempio eclatante, come già ho accennato, è dato dall’impiego sempre più tumultuoso delle medicine alternative. La medicina attuale non può ancora essere considerata una scienza esatta, paragonabile alla matematica, alla fisica, alla chimica, però ci va sempre più assomigliando, adottando metodologie che si basano essenzialmente sulla riproducibilità e quantificazione dei fenomeni. Tutto questo non si verifica, almeno allo stato attuale, con le medicine alternative.
 
Inoltre è da tener presente che la terapia attuale delle più diverse malattie è fondata su quella che viene definita “medicina basata sull’evidenza” (evidence based medicine). Cioè: in ambito terapeutico non ci si può più basare su impressioni e giudizi personali, ma solo sui risultati delle grandi prove (trial) internazionali, controllate e validate statisticamente.
 
Nulla di tutto questo è presente nelle medicine alternative. Ma allora come è possibile che queste ultime, pur essendo senza alcuna base razionale, riscuotano tanti consensi? E’ difficile dare una risposta univoca e convincente. Alcuni ritengono che il grande progresso tecnologico della medicina abbia provocato una sorta di spersonalizzazione della stessa favorendo una grande attrazione reattiva verso quelle metodologie (vedi appunto le medicine alternative) fondate essenzialmente sulle qualità del terapeuta.
 
Un’esasperazione di tale approccio può portare verso il ricorso a pratiche di tipo magico o quasi magico. Non è un caso che il passaggio da medicine alternative a pratiche esoteriche non fosse del tutto eccezionale in passato, anche se queste ultime erano generalmente appannaggio di classi sociali e culturali più modeste. A proposito di maghi, avete notato che negli ultimi anni il fenomeno è stato finalmente fortemente ridimensionato? Credo che ciò si sia verificato non tanto per una maturazione culturale del cittadino medio, quanto per una più efficace opera della magistratura che ha contenuto il fenomeno ricorrendo più spesso all’incriminazione per esercizio abusivo della professione medica.
 

Ritornando più specificamente alla questione dei pregiudizi, vorrei avviarmi alla conclusione di queste riflessioni con un accenno sulla vecchiaia, anche per le implicazioni pratiche sulle possibilità di raggiungere o meno un buon invecchiamento. Ricordo che nel 1969 è stato coniato da Robert Butler, primo direttore del National Institute on Ageing, il termine ageismo, per indicare un sistematico processo di discriminazione contro i cittadini più vecchi.
 
Ma per meglio comprendere come i pregiudizi possano comportare una concezione, e soprattutto un vivere la vecchiaia, in maniera del tutto distorta, è forse più utile ricordare un esperimento del grande fisiologo prof. Braun-Sequard, allora 72enne.
 
Il 10 giugno del 1889 il professore comunicò alla Società di Biologia di Parigi che, trovandosi in condizioni fisiche molto precarie, aveva compiuto un esperimento su se stesso. Spintovi dalla convinzione che la debolezza degli uomini vecchi fosse la conseguenza del declino funzionale dei loro testicoli, si era praticate 10 iniezioni sottocutanee di un estratto acquoso di testicoli, prima di un cane e poi di alcune cavie giovani, riacquistando così, nel giro di soli 15 giorni, quelle forze, quel benessere e quelle capacità lavorative che aveva un quarto di secolo prima!
 
Con il suo entusiasmante, anche se ingenuo, esperimento su se stesso, il professor Braun Sequard acquisì il merito (come fece notare fra gli altri il professor Vito Patrono) di aver fornito la prima solenne dimostrazione di quanta parte della senescenza invalidante possa essere psicogenica, di quanta parte cioè del sentirsi vecchi, del comportarsi da vecchi, e forse anche dell’”essere” vecchi, possa costituire la somatizzazione di erronei atteggiamenti psichici nei confronti della senescenza.
 
A margine di questo episodio possiamo notare che la terapia con testosterone non provoca in alcun modo quegli effetti meravigliosi descritti dal professor Brown Sequard (minore stancabilità, maggiore capacità di concentrazione, incremento dell’attività lavorativa, miglioramento dell’umore, “ringiovanimento” sessuale, etc.) e che presumibilmente l’idea di poter contare su un aiuto da parte di essa (il farmaco iniettato ha favorito la possibilità di esprimere potenzialità che il professore riteneva di aver perduto a causa del processo di invecchiamento) non è fondata.
 
Ecco, da qui potrebbe partire la vera discussione sui pregiudizi riguardanti la vecchiaia. La senescenza comporta ovviamente modificazioni multiple, ma molto spesso vengono attribuite ad essa cambiamenti radicali che invece non sono specifici di quella fase dell’esistenza. Un esempio tipico è rappresentato dalla sessualità dell’anziano (o anziana). Per molto tempo le modificazioni sessuali dell’età avanzata sono state paragonate ad una sorta di castrazione fisiologica. Questa concezione è profondamente sbagliata e non corrisponde assolutamente alla realtà. Ma anche qui sono preziosi i contributi di riflessione di tutti, da punti di vista di discipline ed esperienze diverse.
                                                               
                                                                                                                                               (Massimo Palleschi)
 

Cristiani e politica

IL SEME, IL LIEVITO E IL PICCOLO GREGGE

Il 5 dicembre 1998, venti ani fa, il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, offrì alla sua diocesi ed all’Italia uno dei suoi lucidi e profondi messaggi culturali e spirituali, e, derivatamente, anche politici. Era forse il vescovo più autorevole e ascoltato della Chiesa italiana, e certamente punto di riferimento stabile del collegio cardinalizio. Fra le sue esperienze culturali era stata la guida della prestigiosissima università Gregoriana, fra quelle pastorali la responsabilità della non meno prestigiosa diocesi ambrosiana: era comunque uomo con il quale si respirava orizzonte universale ed altissimo a prescindere dal ruolo. Così, i suoi messaggi pastorali restavano impressi di una particolare carica di richiamo all’impegno dei cristiani in tutti i campi della “città dell’uomo”, per dirla con una espressione cara a quel Sant’Agostino di cui il cardinale era attentissimo interprete.
 
Pubblichiamo qui, appunto, un suo discorso del dicembre 1998, particolarmente dedicato al tema dell’impegno dei cattolici italiani nella dimensione politica. Quando il cardinale teneva questo discorso, la storica Democrazia Cristiana aveva cessato di operare da sei anni e i cattolici erano già in ampia diaspora politica non priva di incertezze, che tuttora durano. E tuttora illuminante appare quella pacata e lucida riflessione sulla spiritualità del “piccolo seme” applicato alla realtà politica. Avvertiamo che si tratta di riflessione altamente intellettuale e rigorosamente consequenziale nel suo svolgersi: perciò indubbiamente impegnativa come lettura, al pari della tonalità sempre seguita dal cardinale, che mai si concedeva a retoriche facili, né laiche né clericali. Non ci si faccia rimprovero di questo riproporre un testo ben impegnativo: Studisociali non è pensato per diffondere cronaca ma piuttosto per suscitare riflessione ed impegno. (Giuseppe Ecca).
 
 
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S. Ambrogio cita più volte nelle sue opere le due parabole di Luca,
sul grano di senapa e sul lievito.

Le tratta più ampiamente nel commento al terzo vangelo e le richiama
sia nelle Lettere come nel trattato sulla Penitenza.
Ricorda le diverse interpretazioni che se ne danno
ed espone una interpretazione cristologica
("Anche il Signore è un chicco di senapa... Semina anche tu Cristo nel suo orto";
Cristo è il lievito "perché fa aumentare la virtù che accoglie in sé")
 e una ecclesiologica (la Chiesa è la donna che
"nasconde il Signore Gesù nei più intimi recessi della nostra anima,
finché l'aspetto della sapienza celeste non si diffonda
nell'intimo santuario del nostro essere".
 
Come si vede, l’interesse di Ambrogio rimane in un ambito strettamente religioso e interiore.
Non sviluppa il significato che le parabole possono avere per il rapporto chiesa - mondo,
anche se vi fa un accenno nel commento a Luca dicendo:
"Nemmeno ho dubbi sull'interpretazione che certuni fanno di questa
immagine, applicandola a questo mondo, finché esso sia tutto fermentato nella Legge,
nei profeti, nel Vangelo, e così ogni lingua riconosca il Signore".
 
Non ritengo comunque contrario al pensiero di Ambrogio un allargamento del significato
delle metafore del piccolo seme e del lievito
al rapporto tra la Chiesa e la città, la Chiesa e la società.
Ambrogio infatti incarnava in sé e nella sua vicenda tale rapporto.
 
Nel tempo in cui fu chiamato alla cattedra episcopale,
la Chiesa di Milano non era certo maggioritaria nella metropoli,
e per di più era in sé divisa.
Lo stile della società era ben lontano dall'essere impregnato di cultura cristiana;
tuttavia Milano era una città percorsa da un bisogno di valori e di significati,
segnata dalla necessità di concordia tra i cittadini
e spinta da un'ansia di ripresa.
 
Queste aspirazioni dovettero essere non ultima causa del fatto
che un alto funzionario imperiale non ancora battezzato,
ma integerrimo, austero e sensibile, potesse assurgere alla cattedra episcopale.
Agli occhi del popolo lo accreditavano non soltanto virtù civiche,
bensì pure una certa carica di spiritualità, già leggibile nella sua storia e nei suoi atti di governo.
 
In ogni caso, la vicenda della sua acclamazione a vescovo dice
quanto fosse grande il bisogno di trovare un radicamento fondativo alle virtù civili
e una rassicurazione etica di tipo religioso nel degrado dei costumi sociali,
che si manifestava in particolare negli accumuli di ricchezze e nell'usura.
 
Ambrogio poteva quindi sentirsi nella città come un pezzetto di lievito
chiamato a far fermentare una massa
o come un piccolo seme da cui avrebbe dovuto germogliare
un albero capace di costituire
un punto di riferimento e di appoggio
per tanti bisogni civili e morali.

 
Fu proprio la coscienza della sua pochezza di fronte al grande compito
che lo spinse, secondo la leggenda, a fuggire errando per le campagne attorno a Milano,
per non addossarsi un peso che avvertiva superiore alle sue forze.
Immagino che in quel vagare notturno il Signore gli ispirasse
qualche parola simile a quella riportata dal vangelo secondo Luca (12,31):
"Non temere, piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre vostro di darvi il suo regno".
 
E' infatti alla piccolezza e inadeguatezza che viene offerta la grazia:
piccolissimo è il granello di senapa gettato nella terra,
poca cosa è il pugno di lievito nascosto nella pasta,
insignificante è il piccolo gregge di fronte alle mandrie sterminate.
Eppure anche la pochezza umana e l'apparente insignificanza storica,
lette alla luce della fede, possono diventare albero frondoso,
far fermentare una massa, rallegrare un pascolo.
 
Ispirandomi dunque alla figura di Ambrogio
nell'esitare di fronte a un compito più grande di lui,
nel sentirsi piccolo granello senza peso,
grumo di lievito senza colore,
pastore di un piccolo gregge,
vorrei trattare in questo discorso del rapporto tra una Chiesa cosciente della sua inadeguatezza 
e la società civile nel suo insieme.
Cercherò di rispondere a tre domande:
 
1. La Chiesa nella nostra società è oggi veramente "piccolo gregge", minuscolo seme?
 
2. Come la Chiesa deve vivere questa sua condizione di seme e di lievito?
 
3. Quali conseguenze ne derivano per il rapporto tra la Chiesa e la città e specificamente per l'impegno dei cristiani nella vita politica?
 
I. LA CHIESA E' OGGI PICCOLO GREGGE?
 
Vi sono motivi per rispondere senz'altro di no a questa domanda.
Nella nostra società è ancora alto il numero di coloro che chiedono il battesimo,
che si sposano in chiesa,
che vogliono i funerali religiosi.
Gli edifici adibiti al culto sono ben visibili e non pochi sono splendidi e prestigiosi.
Si può perciò parlare di una maggioranza cristiana e cattolica nella città.
Non dobbiamo tuttavia fermarci alle apparenze.
 
Secondo le statistiche il numero di coloro che
frequentano regolarmente la messa alla domenica è ridotto.
L'influenza pubblica dei pronunciamenti della Chiesa è scarsa,
soprattutto sul terreno morale.
Pochissimi sono i cristiani che, nelle parrocchie e nei gruppi,
si impegnano veramente a testimoniare il vangelo e a costruire la comunità.
 
Qualche anno fa parlavo di cristiani della linfa,
del tronco, della corteccia
e infine di coloro che come muschio
stanno attaccati solo esteriormente all'albero.
Ebbene, i cristiani della linfa, quelli cioè visibilmente coinvolti e partecipi
(sempre lasciando al Signore il giudizio sull'intimo dei cuori),
sono una percentuale bassa.
 
E non pochi sono oggi coloro che non cercano nel cristianesimo ma altrove
una risposta alle loro domande di senso.
Non ritengo opportuno insistere con le analisi statistiche, anche perché
queste cose non si lasciano
misurare con criteri puramente quantitativi.

Definirei in ogni caso la nostra situazione di Chiesa
Come quella di una minoranza impegnata e motivata
che porta il peso di una maggioranza che compie talvolta qualche gesto religioso
per abitudine e non per convinzione profonda e personale.
 
Se leggiamo questa situazione non tanto per le sue conseguenze nella vita interna della Chiesa,
ma per il ruolo della Chiesa nella città,
davvero possiamo dire che la Chiesa è oggi, per non pochi aspetti,
quello che Gesù chiamerebbe un piccolo gregge,

un minuscolo seme, un pugno di lievito.
E tale in realtà viene pure considerata dall'opinione pubblica.
 
Si attua così la condizione di una certa marginalità.
La Chiesa interessa poco ai mass media per ciò che è veramente la sostanza della sua vita;
interessa piuttosto per aspetti periferici, folcloristici,
o per il gusto di fantasticare su oscure dietrologie
e di presentare semplici dialettiche come penosi conflitti interni.
 
II. COME LA CHIESA DEVE VIVERE QUESTA SUA CONDIZIONE?
 
Rispetto a questo stato di cose sono possibili due reazioni opposte:
quella dell'amarezza e del lamento
e quella della lettura provvidenziale dei segni dei tempi.
 
1. La prima reazione è propria di quei cristiani che vivono con ansietà
la sensazione di essere circondati da forze ostili.

Il messaggio cristiano - lamentano - non viene magari direttamente avversato,
però a condizione che non fuoriesca nella città e non tenda a diventare costume civile;
e sottolineano come ogni manifestazione pubblica del messaggio evangelico
sia facilmente tacciata o di ingerenza o di spirito antimoderno.
Ritengono inoltre che il peso civile dei cristiani sia sottodimensionato
rispetto al merito e alla storia.
 
Da qui, talora, un linguaggio un po' incattivito e contrappositivo, "tertullianeo"
(un linguaggio di cui non ha bisogno il clima già sovreccitato della contesa politica)
o, al contrario, una depressione che dà luogo a un diffuso piagnisteo sterile,
come se il cristiano non sapesse che il messaggio evangelico sarà sempre eccedente
rispetto alle capacità dell'uomo - anche del credente - di accoglierlo nel suo cuore e nella sua città. Quindi che la legge della città sarà sempre inferiore alle attese cristiane.
 
2. A questo atteggiamento diffuso si contrappone la reazione propria di chi,
come Ambrogio al suo tempo,
legge il presente alla luce della fede.
Ambrogio, posto in una situazione di minoranza religiosa e culturale,
di fronte a un paganesimo culturalmente ancora forte
e di fronte a un arianesimo combattivo e appoggiato dal potere politico,
invita alla sobrietà composta della tolleranza,
raccomanda il "silenzio operoso",
quasi un "silenzio indaffarato" (negotiosum silentium),

richiama l'atteggiamento di Giuseppe in Egitto che tacque
"per essere difeso più dall'innocenza che dalla lingua" (Exh. virg., 88),
quello di Susanna a Babilonia, la quale in pericolo di morte,
"operò di più tacendo che se avesse parlato"
(quae plus egit tacendo quam si esset locuta: De off., I,9).
 
Una dose di non accettazione da parte della società è infatti ineludibile perché
costitutiva del cristianesimo e sempre anche un po' meritata dai cristiani.
Non per niente Giovanni Paolo II ha ripetuto
nella Bolla di indizione del Grande Giubileo "Incarnationis mysterium",
l'invito alla "purificazione della memoria",
chiedendo "a tutti un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere
le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di Cristiani" (n. 11).
 
Una situazione di una qualche marginalità sociale
e di non accettazione si può vincere non col lamento
che diventa egocentrico e infantile bisogno di rassicurazione esterna,
bensì con la sobrietà e la pazienza di chi vede in ogni tempo all'opera
le forze che mirano al bene dell'uomo
e insieme quelle che invece lo contrastano;
e confida nel Signore della storia.
Del resto non è in qualche modo la Chiesa destinata a
essere normalmente, nel suo cammino verso il Regno, in una condizione di minorità,
chiamata ad andare sempre oltre il presente,
a crescere non solo nel cuore degli uomini,
ma pure nella intelligenza di sé e del suo mistero,
e nell'apertura alla novità di un Dio sempre più grande
("Deus semper maior")?
 
Occorre perciò chinarsi con paziente magnanimità sulla nostra società
accettando l'umile missione di granello di senapa e di lievito
e la poca rilevanza del piccolo gregge.
Ciò non significa che non lottiamo con tutte le forze
in favore della libertà della persona e per il bene comune della città e della nazione,
poiché crediamo nella forza irresistibile del seme e dell'efficacia del lievito
e siamo consapevoli di avere cose essenziali
da dire e da offrire per l'intera società.
 
Porto due esempi di questo secondo atteggiamento,
uno sul terreno morale e uno sul terreno civile.
 
- Sul terreno morale è indubbio che l'enfasi sulla soggettività e sull'individuo
stia non semplicemente togliendo adesioni al messaggio, soprattutto etico, della Chiesa,
ma anche destrutturando la nostra società civile
rompendo il costitutivo senso relazionale dell'uomo a favore di una libertà individuale
sempre più fine a se stessa,
e portando così a galla i drammi dell'uomo rimasto solo con i suoi desideri.
 
Eventi attuali di cronaca confermano purtroppo tale stato di cose.
Forse da tale sensazione di solitudine nasce l'omaggio,
non solo strumentale,
che tante forze politiche di tutto il mondo esprimono al Papa e alla Chiesa,

da versanti ideologici diversi, considerando questa istituzione come capace,
nonostante le sue imperfezioni, di rigenerarsi,
di riconoscere le debolezze emergenti dell'uomo
e di chinarsi su di esse senza fini di potere.
 
Vedendola depositaria di una comprensione paziente dell'umano
molti intuiscono che nella Chiesa tutte le forze della città possono riconoscersi,
magari a prezzo di qualche selezione tra i valori che sostiene.
Infatti c'è chi ravvisa in essa il grembo che ha
custodito i valori dell'uomo singolo,
il quale, diventato centro decisionale autonomo, rimane pur bisognoso
di un grembo e di un riferimento;
e c'è chi la predilige perché custode dell'attenzione all'uomo relazionato,
che nella città ha bisogno di crescere per via di relazioni amicali
e di sostegni societari in grado di promuoverlo.
 
- Se dunque è grande l'opera che il piccolo pezzo di lievito è chiamato a compiere
sul terreno morale a favore della società,
significative sono pure le sue ricadute civili e politiche.
 
Faccio un esempio sul terreno della cultura e della scuola.
Ai cristiani sta molto a cuore il sistema educativo di una nazione
e tutto l'immenso campo dell'istruzione pubblica, statale e non statale.
La scuola costituisce infatti una risorsa primaria della nazione
e la sua qualità è specchio della maturità del paese.
Proprio per questo la Chiesa riconosce e proclama anche nel campo educativo
quel primato della libertà e della coscienza
che si esprime con la libertà scolastica e l'autonomia,
in una effettiva gestione paritaria del sistema scolastico integrato,
in un reale pluralismo di curricoli formativi
(aperti pure alle conoscenze religiose),
coinvolgendo la responsabilità delle famiglie.
 
Noi intendiamo difendere e promuovere una libertà per tutti
e un sistema veramente democratico per la formazione seria e vigorosa
della coscienza civile e sociale di una nazione;
a tale scopo siamo pronti ad affrontare volentieri qualche impopolarità
e qualche contraddizione.
E ci sentiamo anche in continuità con la
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo
che recita, all'articolo 26,3:
"I genitori hanno diritto di priorità nella scelta dell'istruzione da impartire ai propri figli".
 
III. QUALI CONSEGUENZE DERIVANO DALLA CONDIZIONE DI MINORANZA
PER IL RAPPORTO TRA LA CHIESA E LA CITTÀ
E IN PARTICOLARE PER L'IMPEGNO DEI CRISTIANI
NEL TERRENO DELLA POLITICA?
 
Dalla condizione di una certa marginalità della Chiesa rispetto all'insieme dei fatti economici, sociali e culturali che configurano la città,
derivano schematicamente due posizioni:
il voler essere a ogni costo di nuovo una forza rilevante della società;
oppure il riconoscere con serenità che il proprio compito di piccolo gregge,
in apparenza più modesto, è di fatto molto più esigente e necessario per il bene di tutti:

essere lievito nella società, piccolo seme di nuovi germogli.
Dice giustamente s. Ambrogio a proposito di granelli di senape:
"I suoi chicchi sono, in realtà, cosa semplice e di poco valore: ma se si comincia a
sminuzzarli, mandano fuori tutta la loro energia" (Commento a Luca, VII, 178).
 
- Il voler essere a ogni costo, pur nelle circostanze attuali,
una forza rilevante nel quadro politico della società,
operante sullo stesso piano delle altre forze
e in concomitanza e concorrenza con loro,
ha una sua tradizione antica di secoli,
che ha contribuito a forgiare la società europea,
con i suoi valori e le sue conquiste.
E' anche attraverso questi modi di presenza, giustificati
dalle condizioni e necessità di altre epoche,
che un certo patrimonio di valori cristiani è diventato dote civile della società.
 
Da qui potrebbe nascere oggi nei nostalgici un moto di risentita gelosia,
come un sentirsi espropriati di quello che si ritiene un proprio peculiare tesoro storico
analogamente alla parola del discepolo che diceva a Gesù:
"Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato,
perché non era dei nostri" (Mc 9,38).
E' questa la posizione di chi si sofferma a guardare il passato.
 
- Il riconoscere invece con serenità di essere piccolo gregge,
di essere seme e lievito nella città, implica un ethos preciso.
Un ethos di umiltà,
di mitezza, di misericordia, di perdono,
di riconoscimento delle proprie colpe anzitutto all'interno della Chiesa;

è l'ethos del Grande Giubileo indetto dal Papa per l'anno duemila.
Una Chiesa che è conscia della sua "minorità" ha più vivo il senso della testimonianza,
coglie meglio le differenze in sé e attorno a sé,
è più aperta al dialogo ecumenico e interreligioso,
vive con più scioltezza la sinodalità e la collaborazione tra le Chiese locali,
instaura un rapporto più autentico con la Chiesa universale
in stretta comunione con il Vescovo di Roma.
 
Questo ethos interno
ha anche un influsso sul modo con cui la Chiesa si rende presente
nel quadro sociale e politico di una nazione
e sul modo con cui i singoli cristiani operano,
a nome proprio e con propria responsabilità, nel campo politico?
Certamente sì e vorrei richiamarne qui alcune conseguenze.
 
Esso:
 
1) esclude una riduzione dell'impegno dei cristiani nel campo sociale e caritativo;
 
2) induce a un "pensare politicamente" che sia veramente tale,
rifuggendo dalle soluzioni puramente settoriali;
 
3) contribuisce a creare un tessuto comune di valori;
 
4) promuove le regole del consenso dei cittadini.
 
Il percorso di un cristiano cresciuto in una chiesa "piccolo gregge",
che ha colto la sua missione di essere seme e lievito,
è dunque complesso ed esigente.
 
1. Una corretta presenza dei cristiani nella società non limita il loro impegno
al solo campo sociale e caritativo.
Infatti una conseguenza del primo atteggiamento sopra indicato
- il voler continuare a essere una forza determinante nel quadro sociale e politico –
porta con sé una voglia di autosufficienza,
che si esprime facilmente nella concentrazione su certe forme di servizio e di presenza
che hanno attinenza con la solidarietà sociale.
Si tratta pur sempre di un impegno alto per la costruzione della città:
lì si custodisce uno stile etico peculiare, con regole più comunionali che politiche,
cioè più valoriali che conflittuali, più gratificanti che partecipate.
Da tempo i cristiani hanno fatto le loro prove di cittadinanza
e si sono accreditati come cittadini degni di considerazione,
attenti custodi della gratuità e difensori dell'emarginato e del povero.
 
E' chiaro però che tale modo di presenza e di servizio non è sufficiente.
Ci si chiede quale debba essere l'atteggiamento verso la comunità politica nel suo insieme,
e quale stile assume l'impegno di chi è chiamato a costruire la casa di tutti con tutti.
Se rimanessero chiusi nell'ambito del sociale e della carità
si potrebbe pensare che i cattolici sono cittadini dimidiati.
L'ambito della politica aspira infatti a influire sull'ethos della città di tutti,
mediante una generalità di interessi e di programmi,
con la creazione di condizioni che promuovano la partecipazione di ciascuno al progresso
sociale, civile, morale e spirituale.
 
2. E' necessario dunque che chi è nutrito dagli atteggiamenti di fondo sopra indicati
si impegni a un pensare politicamente in grande,
rifuggendo da soluzioni solamente settoriali.
Di conseguenza la sua collocazione dentro questa o quella forza politica
non avverrà per via di singoli problemi o di gruppi monotematici,
bensì per un disegno di società più compiuto:
questa è l'assunzione piena di responsabilità politiche.
 
3. Forse c'è chi pensa che si dovrebbe tenere il fedele
compatto dentro la comunità ecclesiale o dentro il gruppo sociale
per poi convogliarlo in campi diversi scelti di volta in volta
secondo i problemi che si dibattono.
 
4. Ma allora il rischio è che diventi massa di manovra,
inquilino sempre più inaffidabile delle forze politiche
e, alla fine, sempre più emarginato.
Magari potrebbe far passare qualche richiesta valoriale;
ciò però avverrebbe solo per bruta forza contrattuale,
non come esito di una educazione maturante
e di un convincimento del costume di tutti.
 
Se quindi i credenti si appagassero di essere lodati da tutte le forze politiche
solo per impegni parziali,
potrebbe verificarsi una frattura indebita dell'impegno politico,
che riserverebbe spazi settoriali al cristiano,
precludendogli la visione più globale di costruzione dell'uomo e della società,
che sarebbe appannaggio di altri costruttori, più globali.
Solo una propria acquiescenza - non certo la Chiesa -
potrà costringere ora il cristiano a un volontario non expedit.

 
3. Il cristiano oggi nella città deve interpretare un alto compito storico:
creare quel tessuto comune di valori
su cui possa legittimamente trascorrere la trama di differenze non più devastanti.
E ciò sia in zone proprie di riflessione
e di traduzione antropologica dei valori di fede
sia facendo sbocciare tali valori dentro i luoghi delle diverse appartenenze,
dimostrando che ci si può occupare a pieno titolo, da cattolici, dei problemi di tutti,
non solo con una attenzione confessionale.
Un simile atteggiamento porta pure a sostenere e a promuovere quel
"patto di convivenza" su cui si basa la comune cittadinanza.
 
La semplificazione della vita politica, infatti,
è affidata soprattutto alla diffusione sempre più ampia
di una piattaforma condivisa di valori e di convergenze,
non soltanto all'ingegneria elettorale e alla riduzione del quadro partitico.
Finché non si creeranno nei partiti
dialettiche che già al loro interno sappiano far interagire le diversità culturali,
è illusorio pensare a una politica più stabile e più mite:
i partiti devono essere palestre di dialogo interculturale
prima di diventare soggetti di contrattazione politica.

 
Se assumeremo un po' di questo compito ci accorgeremo forse
che siamo meno soli di quanto temiamo:
come avvenne al profeta Elia che, angosciato di essere rimasto solo
e deciso a ritrarsi per disperazione,
trovò inaspettatamente una moltitudine di persone
risparmiate dal Signore in Israele perché non avevano piegato le ginocchia
di fronte ai falsi idoli (cfr 1Re 19,18).
 
4. Un simile atteggiamento promuove anche le condizioni
per la crescita del consenso dei cittadini.
La ricerca del bene per la città di tutti ha regole proprie,
attraverso le quali non si può non passare.
Altrimenti tale ricerca perde, agli occhi della città, la sua trasparenza:
sono le regole del consenso dei cittadini stabilite dalle modalità democratiche
e quelle della costruzione del consenso.
 
Esse non sono pure tecniche o pure metodologie,
ma sostanza stessa dell'atto libero di decisione;
passano per il convincimento e la pazienza, per la stessa graduazione dei valori,
perfino per il duro sacrificio di alcuni di essi.
Sembra invece che, nell'accettare le leggi del consenso, il cristiano si senta in colpa,
come se affidasse al consenso democratico la legittimazione etica dei propri valori.
Non si tratta di affidare al criterio della maggioranza la verifica della verità di un valore,
bensì di assumersi autonomamente una responsabilità
nei confronti della crescita del costume civile di tutti,

che è il compito vero dell'etica politica.
Tale compito perciò sta a cuore alla Chiesa nel suo operare
come seme e lievito all'interno della società.
 
Il percorso del cristiano verso la sua testimonianza politica
è quindi oggi complesso, e tuttavia possibile.
Si potrebbe leggerlo - in compagnia di Ambrogio - nella storia di Giuseppe in Egitto,
modello di corretto rapporto con le persone, con le cose, con la politica.
Uomo religioso disperso dentro il mondo idolatrico e totalitario dell'Egitto;
schiavo ma più libero di colui che è libero,
perché "teme di perdere tutte le cose che ha accumulato
colui che le ha accumulate per non servirsene"
(De Jos., 21), capace prima di tutto di "governare se stesso" (De Jos., 22),
cioè di giudizio autonomo sui propri valori,
"non faceva udire la sua voce eppure parlava la sua innocenza" (De Jos., 26).
 
"Giuseppe - dice Ambrogio - avrebbe potuto donare tutte le ricchezze dell'Egitto
e distribuire i tesori del re.
Eppure non volle apparire prodigo dell'altrui
ma preferì vendere il grano agli affamati piuttosto che donarlo,
perché, se l'avesse donato a pochi, sarebbe mancato ai più.
Preferì quella liberalità per averne con tutti.
Spalancò i granai perché tutti acquistassero una razione di frumento per evitare che,
ricevendolo gratuitamente, abbandonassero la coltivazione dei campi.

Infatti chi approfitta dell'altrui, trascura il proprio...
Stabilì una tassa da versare allo stato perché tutti potessero avere
con maggior sicurezza quello che a loro serviva...
Fu un uomo grande davvero, perché non cercò la gloria mondana di una generosità superflua,
ma procurò un duraturo vantaggio con la sua previdenza.
Fece in modo che i popoli traessero giovamento dalle tasse che pagavano
e nel tempo della necessità non avessero bisogno degli aiuti esterni"
(De off., II, 79-81).
 
E' un quadro politico ed economico di grande interesse.
Ma l'accreditamento dell'uomo religioso Giuseppe agli occhi del re
e il suo merito presso il popolo
dipesero, dice s. Ambrogio, anche dal suo essere "sapiente nell'interpretazione" (De off., I, 112):
"anzitutto, interpretando con grande acutezza il sogno del re,
seppe indicare la verità" (De off., II, 82).
Il carattere della lettura dei segni dei tempi è quello grazie al quale forse
i cristiani di ogni tempo si accreditano politicamente,
sapendo interpretare il sogno del Faraone, cioè sapendo dar senso al sogno della città di tutti.
 

Questa esigenza di ancorare a un riferimento metapolitico le esigenze della città
pare avvertirsi anche oggi quando la Chiesa,
pur minoritaria nella città ancor più che al tempo di Ambrogio,
è fatta oggetto di attenzione e di attese da parte di tutti,
nel momento stesso in cui la secolarizzazione celebra
al massimo grado l’emancipazione del civile e del costume dal riferimento religioso.
 
Sicché si ha una paradossale situazione:
da una parte l’assedio a una Chiesa perché non esca dal suo perimetro
a dettar ordini a una società maggiorenne,
dall’altra il tentativo di diverse parti della società civile e politica
di accreditarsi come paladine delle istanze dei cattolici.
 
Sciogliere la contraddizione attribuendola solo a un cinico gioco di strumentalizzazione
è far torto sia alla eticità della società civile, sia alla Chiesa stessa,
la quale verrebbe così a sottostimare le ragioni della sua influenza.
D’altra parte, se tale ossequio e tale desiderio di rappresentanza
fossero soltanto interessati e strumentali,
sarebbero sproporzionati alla sempre più scarsa capacità di mobilitazione
che la Chiesa possiede in sede politica
(e purtroppo, spesso, etica).
Infatti tutto concorrerebbe a far pensare che,
 stante l’avanzato processo di secolarizzazione
e lo scollamento dell’ethos comune dalla religiosità,
un movimento politico avrebbe forse più vantaggio
a proclamare il suo distacco dalla Chiesa
che non a ostentare una vicinanza ad essa o una sua rappresentanza.
 
 

Naturalmente questa appropriazione di valori di origine ebraico - cristiana
da parte della cultura moderna non è stata senza problemi.
Succede che quando i valori insediati dalla religione nell’ethos di un popolo
diventano diritti civili, riconosciuti cioè da una società politica
e trasformati magari in leggi di una città,
essi sono già passati attraverso il filtro delle esperienze storiche di un popolo
e ne hanno assunto il colore e le tare inevitabili.
Da qui può nascere un sospetto della Chiesa nei confronti di certe conquiste civili,
perché esse saranno sempre inferiori alla esigente visione antropologica cristiana.

 
D’altra parte, la Chiesa è abituata di più a rapportare i valori-diritti all’essenza dell’uomo
e a custodirli per via profetica;
spesso perciò non prende atto del percorso storico con cui faticosamente,
 quasi sempre parzialmente e in maniera un po’ sbilanciata,
la società li scopre e li riscopre.
Così, ad esempio, non è stato facile per la Chiesa riconoscere i lati positivi
e le conquiste dell’illuminismo e tanto meno della rivoluzione francese,
mentre oggi essa accoglie con gratitudine
la dichiarazione dei diritti umani dell’ONU (10 dicembre 1948)
e stimola ad altre analoghe dichiarazioni
per i diversi soggetti della famiglia umana (la famiglia, i bambini, gli anziani ecc.).
 
Essendo le identificazioni con la Chiesa sempre parziali e selezionate,
suona strana la pretesa di rappresentare i cattolici da parte di forze politiche
che scelgono dentro il messaggio cristiano solo ciò che è utile alle proprie visioni
e lo integrano in orizzonti eterogenei di tinte non sempre compatibili.

Per questo si ingenera una certa ambiguità.
E’ vero perciò che talvolta quegli atteggiamenti
potrebbero significare un mancato riconoscimento di cittadinanza dei cattolici nella città,
quasi un tentativo di renderli corpi estranei nel momento in cui se ne assumono i valori.
 
Ma il tentativo di varie forze politiche di accreditarsi come rispettose del cristianesimo
potrebbe anche sottintendere una, magari ancora inespressa,
volontà di superamento della logica, che si sta imponendo, dell’amico-nemico.
La logica della conflittualità perenne, che avanza ai nostri giorni,
rischia di risolvere il rapporto interumano
nel rapporto esclusivo con un amico o con un nemico.

 
Solo in momenti di grave impossibilità di comunicazione dei propri valori
il cristiano può ridursi al semplice ambito del sociale.
 
                                                                       (Carlo Maria Martini)
 
 
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MM

Informatica

LA "INDUZIONE" NEL PENSIERO DIGITALE

Il mondo della Rete ci sommerge? Ci manipola? Ci minaccia? Ci inganna? Induce in noi bisogni e orientamenti subconsci? Insomma, è un fatto di libertà accresciuta e di opportunità moltiplicate, o anche una subdola regressione di dipendenza da un “grande fratello” che ha tentacoli ormai quasi imprendibili per noi?
 
Non è semplice parlarne, nel senso che si tratta di realtà complessa, che contiene e cumula dentro di sé opportunità e minacce, servizi e inganni, relazioni e insidie. Come gran parte delle cose della vita che ci circonda, del resto. “Che mondo sarebbe senza l’energia elettrica? Immagina gli ospedali, le fabbriche, le città… senza energia elettrica. Sarebbe un mondo più povero. Certo, con l’energia elettrica ti ci puoi però anche giocare la vita, se non la usi bene: puoi morire fulminato da un maneggio malaccorto di fili elettrici…Dipende, insomma, dall’uso che ne fai: le cose usate a fin di bene fanno del bene, le stesse cose usate a fin di male fanno del male”, mi spiegavano i miei maestri.
 
Deve essere così anche per il mondo pervasivo e avvolgente della Rete. Occorre accostarlo correttamente, apprendere a dominarlo e a non lasciarsene dominare, usarlo a fin di bene e non a fin di male. Ma, per educarsi a tale orientamento positivo, bisogna conoscere con la mente, orientarsi con la volontà, scegliere con libertà responsabile. Nella realtà la Rete trova moltissimi di noi impreparati ad affrontarla con maturità, ed anche le generazioni nuove, che, come suol dirsi, “nascono digitali”, cioè apprendono prestissimo a maneggiare con grande facilità i paesaggi di questo universo, non è affatto detto che lo dominino: anzi, abbiamo davanti a noi moltissimi casi che dimostrano il contrario, cioè un rischio di dipendenza morbosa e malata dalla Rete, una distorsione di uso della Rete a fin di male, consapevole o meno che sia.
 
E allora iniziamo a parlarne proprio con la consapevolezza di un cammino che vuol partire dalla conoscenza corretta e arrivare  a una saggezza d’uso positiva. Giovanni Tomei, che apre con noi questa rubrica, è uno che ne capisce. È ingegnere informatico, intanto, e nel mondo della Rete ci vive quotidianamente a livello professionale. Ma è, non meno, persona che per principio non prescinde dall’applicare all’utilizzo della Rete lo stesso criterio etico di responsabilità che presiede alle altre scelte responsabili di vita. Garante di questo suo approccio è una precisazione che volentieri esce dalla sua bocca quando parliamo con lui di questi problemi: “Sono cresciuto alla scuola di Olivetti, quando era proprio la grande Olivetti del grande Adriano, che certo non concepiva efficienza tecnica senza responsabilità etica”.
 
Cominciamo, metodologicamente, con il “tagliare l’elefante a fette”, come si dice: cioè con il capire bene il significato di termini e concetti fondamentali per accostarsi alla Rete. Il primo di essi, propostoci da Tomei, è “induzione”. Non possiamo giurare che ogni frase dell’autore sia per tutti noi perspicua, perché alcuni fra noi, come chi scrive questo breve corsivo di presentazione, sono ancora, in materia informatica, come un “pulcino impigliato nella stoppa”, cioè alle prime armi della conoscenza: ma… cominciamo. (Giuseppe Ecca).
 
 
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In-ducere, indurre, significa “portar dentro”, “attirare a sé”, attraverso forme di persuasione e di azioni indirette, capaci di promuovere scelte che siano ritenute confacenti ad agire in tal senso sul piano individuale.
 
Gli utenti digitali che navigano in rete sono all'incirca 2 miliardi nel mondo, e lo fanno utilizzando il paradigma di funzionamento digitale, unico e uguale dappertutto, di Internet, attraverso le autostrade digitali delle reti fisiche che avvolgono ogni luogo del nostro pianeta, annullando tempo e spazio alla velocità della luce. Il risultato è che in qualche millisecondo ogni dato ricercato da un punto qualsiasi del globo viene evidenziato a video ovunque esso risieda in forma digitale da qualche parte della Terra.
 
Questa frase, appena scritta qui sopra, è stata aperta con “utenti digitali”. Occorre riflettere che si è utenti di “qualcosa”. Sul piano “digitale”, significa che da qualche parte il “pensiero digitale” di qualcuno ha costruito quel che si “cerca”.
 
Pertanto, il “pensiero digitale” conduce a dividere il campo degli esseri umani sempre in due parti, come avviene nella realtà: chi pensa e propone soluzioni digitali, e chi trova quel che vuole tra le cose digitali proposte da chi “pensa digitale”. Un esempio: chi pensa digitale ha costruito WhatsApp e lo ha reso disponibile a tutti noi, per scelta consapevole, sui rispettivi telefoni cellulari della generazione tecnologica degli smart-phones (telefoni intelligenti).
 
La differenza con la realtà usuale è… l'indifferenza al luogo e al tempo per compiere un'azione cospicua, considerando la velocità della luce con cui si scambiano azioni determinate tra sorgente e destinatario, nella certezza che entrambi concludano l'azione resa disponibile dagli strumenti messi a punto da un pensatore digitale.
 
La particolarità, che riporta al “pensiero digitale”, pone in evidenza come le relazioni aperte da una comunicazione digitale includano sempre due categorie di esseri umani: chi propone e chi usa quel che viene proposto. Questo, però, sul piano digitale, qualifica chi propone come colui che induce e l’altro come colui che è indotto a utilizzare lo “strumento” che l'induttore ha reso disponibile in “Rete”. E l'utilizzo non è altro che l'apertura di una comunicazione tra due o più “utenti”, ad un livello indotto da colui che ha proposto lo “strumento”, per far accadere un effetto legato a comportamenti pre-determinati, utili all'obbiettivo del proponente.
 
Si noti che il creatore dello strumento digitale è colui che detiene la conoscenza di quanto avviene nella comunicazione, attraverso cui sviluppa analisi utili a migliorare lo strumento per i fini che ha posto alla base della sua creazione digitale.
 
Se si riflette sul funzionamento di WhatsApp, si ritrovano questi elementi, costituenti una forma sociale di comunicazione e, tra l'altro, ampiamente studiati in questo ultimo decennio anche sul piano delle neuroscienze cognitive, fino ad entrare nella ricerca della neuro-etica e della neuro-economia, assumendo elementi psicologici essenziali dalla Teoria dei Giochi e dai suoi dilemmi.
 
Considerando l'interesse a riflettere su possibili azioni digitali utili al gruppo sociale con cui si è in relazione, forse si comprenderà meglio perché si propone l'utilità del pensiero digitale tra noi, per tentare di dimostrare la produttività di uno “strumento” digitale dedicato ai nostri obiettivi, strumento che, per la peculiarità cui è destinato, non può che essere progettato e realizzato con software proprietario.
 
Basterebbe riflettere sulla dimensione politica, sociale ed economica proposta sul motto “cittadinanza digitale”, dalla piattaforma “Rousseau” della Casaleggio & Associati, per l'evidente contenuto politico che, richiamando i temi dell'induzione, tende a portare acqua al mulino del M5S.
 
Da notare che non conta “chi”, considerando che, anche con le migliori intenzioni possibili, il “chi” tende a dividere il campo in cui si svolge una partita, mentre è molto più utile il “come”, con quali regole sia possibile indurre il gioco, senza dividere i “tifosi”, nel nostro caso gli “utenti” di una creazione digitale.
 
Per approfondire, propongo una analisi sintetica attraverso il portale web che tratta di una “induzione digitale” particolare. Si tratta di un insieme di servizi di crowdfunding (raccolta di fondi) che inducono il “dono”: https://www.helpfreely.org/it/.
 
Chi ha realizzato questo portale per renderlo usufruibile sulla “Rete” ai circa 2 miliardi potenziali di utenti digitali che navigano su Internet, ha cominciato col riflettere che, per indurre comportamenti predeterminati, era necessario operare una prima scelta: proporlo sul web in molte lingue. Infatti, se si analizza il nome del “Dominio” nella barra iniziale che, finendo con “/it”, indica che dopo il nome a Dominio originale: “helpfreely.org”, ogni “/tld-sigla di un paese”, nel nostro caso “/it”, a indicare “Italia”, permetterà la visione del portale agli “utenti” potenziali nella lingua del luogo.
 
Procedendo, appare intuitiva la relazione aperta tra gli utenti del portale provando a spiegare il significato effettivo di “Tu compri, Noi doniamo!”. Alla lettera, significa che “Noi” è il proprietario del portale web, il quale induce tre categorie di soggetti “utenti” dello strumento a interagire attraverso il portale su due piani essenziali, ma con significati diversi, al fine di essere ciascuno un “Noi”, indotto ad agire sulla percezione dei “vantaggi” che ciascuno ricava dalla partecipazione, iscrivendosi al portale per potere essere utente dei servizi disponibili:
 
1. Iscrizione al portale di una Organizzazione “No Profit”;
2. Iscrizione al portale di un “utente digitale”, in qualità di “cittadino consumatore”;
3. Iscrizione al portale di un “utente digitale”, in qualità di “Negoziante” che accetta di
partecipare al “dono”, riconoscendo una quota di “moneta corrente” per gli acquisti
effettuati nel suo negozio da parte di un “cittadino consumatore” che intenda favorire una
specifica organizzazione “no profit” iscritta.
 
I processi induttivi promossi dai servizi che accompagnano l'iscrizione al portale:
 
1. L'Organizzazione No Profit, partecipa volentieri perché ha tutta per sé una vetrina sul
mondo digitale che promuove in generale il suo scopo, oltre che per godere di un
meccanismo di comunicazione, come raccolta fondi indotta dal sistema costruito dal
“pensiero digitale” che identifichiamo in “Noi”, verso i potenziali utenti digitali del
“sistema” presente sulla “Rete”, per di più con il vantaggio di indurre la medesima
fattispecie del “dono” oltre i confini nazionali e nella lingua del luogo.
 
2. L'utente digitale, come cittadino consumatore, è attratto dal portale perché ritrova un modo corrispondente a una sua necessità emotiva, che promuove e spinge a donare
all'organizzazione no profit da lui indicata, ma senza che questo comporti alcun impegno
personale, se non mettere a frutto la sua qualità di “consumatore”, al fine di acquistare beni e servizi nei “Negozi” indicati nel portale, al fine di predeterminare la quantità di dono che sarà erogata alla organizzazione no profit da lui indicata.
 
3. Il “Negozio”, partecipa volentieri al portale, percependone il valore marketing di
promozione del suo marchio e dei suoi prodotti-servizi, cui si aggiunge
l'effetto emotivo della partecipazione solidaristica a procurare fondi alle organizzazioni no
profit, predeterminati dai consumatori, sulla quota corrispondente al “dono”, funzione
dell'importo dell'acquisto effettuato, contribuendo al posizionamento competitivo sul
mercato di quel “Negozio”.
 
4. “Noi”, il riflessivo digitale che ha pensato tutto questo, non ha fatto altro che indurre la
convergenza di comportamenti, in modo che ciascuno fosse consapevole di assolvere ad una funzione determinata, ma sulla circostanza di essere stato indotto a quel comportamento per i “vantaggi” ricavabili.
 
Un insieme intelligente, smart, basato sul valore cognitivo ed emotivo costruito da una persona, o un gruppo, che ha messo a punto lo “strumento” pubblicandolo sulla “Rete”, sotto il nome di “help freely”, un modo di promuovere un aiuto libero e facile”, alla portata di tutti, per aiutare, oltre la propria condizione sociale, economica e giuridica, interpretabile nel motto “Tu compri, Noi doniamo!”.
 
E i vantaggi indotti dal pensiero digitale non sono tutti qui, se si riflette che le basi di dati, sulle proiezioni attese per Paese, agendo sul “Terzo settore” e sull'economia reale, che parla di relazioni di scambio tra “consumatori” e “operatori commerciali”, porta conoscenza puntuale, anche sul piano della localizzazione degli utenti nei territori in cui risiedono, che promuove ulteriori vantaggi per ulteriori pensieri digitali e su molteplici piani.
 
Un modo per affrontare i temi della comunicazione digitale dal lato del “Noi”, sul piano dell'induzione verso azioni predeterminate di soggetti terzi, utili a scambiare sulla rete comunicazioni e vantaggi promossi da un gruppo di persone in grado di avere “pensieri digitali”, per costruire strade comuni e per obiettivi che sarebbe opportuno scaturiscano da riflessioni dialogiche tra chi ne dovesse percepire l’utilità.
 
                                                 (Giovanni Tomei)
 

Impresa e lavoro

FARE IMPRESA A BRUXELLES: UNA PICCOLA OCCASIONE CONCRETA

Studisociali.org non è pensato tanto per scambiare informazioni quanto per sviluppare riflessione e costruire pensiero. Tuttavia esso è anche, nello spirito compiuto che lo anima, strumento di servizio concreto per quanto possa essere utile e buono in termini di cittadinanza attiva e responsabile, di solidarietà, di bene comune.

In questo senso, siamo qui a fare eco a una inattesa e simpatica segnalazione dell’amico Raffaele Orgiana, attivissimo operatore sardo in Germania presso la comunità dei corregionali, in contatto stretto con le nostre autorità consolari di Monaco di Baviera e ben collegato anche con le comunità sarde e italiane di altri paesi.

Egli ci trasmette l’annuncio del signor Massimo Tronci, piccolo imprenditore sardo che opera a Bruxelles nel settore della ristorazione, il quale cerca un socio, non necessariamente sardo ma necessariamente appassionato di impresa e di alimentazione con prodotti sardi, per la sua pizzeria a Bruxelles e per qualche relativo progetto di sviluppo (diversamentepizza758@gmail.com).

Scrive Massimo Tronci:


“Intendo rilanciare la mia pizzeria qui in Bruxelles, nel cuore della città, a due passi dalla sede del Parlamento Europeo. Sono originario di Assemini dove mio padre ha sempre coltivato il grano, e la pizzeria l'ho aperta qui nella capitale belga proprio per utilizzare la farina di quel grano e altri ingredienti sardi, quali pomodori, formaggi, e altro. Ho elaborato un'ottima ricetta, che rende la mia pizza digeribilissima e per questo molto apprezzata. La produco sia tonda sia al taglio.


Cerco un imprenditore che venga a Bruxelles per assaggiarla  e studiare con me le due possibilità sulle quali vorrei puntare, insieme con lui: sviluppare la consegna a domicilio, per la quale c'è un'area con circa 180.000 persone come mercato, nei quartieri centrali e benestanti di Bruxelles, e in aggiunta dare impulso a una piccola sala con 15-20 posti a sedere, per il cui studio ci sono già due architetti (uno dei quali sardo) pronti a mettersi all'opera.


Non nascondo che si potrebbe puntare anche all'apertura di altri punti-vendita: ma è fondamentale creare una squadra con persone senza grilli per la testa, lavoratrice e seria. Io mi occupo direttamente della ricetta e dell'impasto. Non sono nato vero pizzaiolo, sono piuttosto un agricoltore che ha studiato la ricetta utilizzando prodotti agricoli di prima qualità e di famiglia, i quali mi permettono di ottenere una pizza di ottima qualità e digeribilità  e contemporaneamente di tenere un contatto diretto e attivo con gli agricoltori sardi. Il locale, qui a Bruxelles, è piccolo, 65 metriquadrati, ma è posizionato a 1 km dalla Commissione Europea, nel cuore della città, dunque con forti potenzialità. Ritengo si possa fare un ricavo giornaliero di non meno di 1000€, ma occorre una buona organizzazione.


Aspetto con fiducia la visita di qualcuno interessato a collaborare con me, perché si renda conto del prodotto e poi decida come voler partecipare. Insieme possiamo sviluppare una esperienza forte. Fornisco qui i miei riferimenti diretti per il contatto:
a. il mio CV su https://www.linkedin.com/in/massimo-tronci-8652313a/;
b. il mio indirizzo: Diversamentepizza, Chaussée de Wavre, 758, 1040 Bruxelles;
https://www.google.com/maps/place/Diversamente+Pizza/@50.829677,4.3894576,17z/data=!3m1!4b1!4m5!3m4!1s0x47c3c4b99527288b:0x156bee6ff0fed0!8m2!3d50.829677!4d4.3916463.
Tel.: +32 (0) 2 217 11 07;
GSM: +32 48 99 31 997;
     +32 46 57 82 922”.
 
Formuliamo i nostri migliori auguri a Massimo Tronci per la sua impresa, ed a Raffaele Orgiana per il suo operato con le nostre comunità sarde. Ci permettiamo appena di osservare prudenzialmente che la superficie di 65 metriquadrati come punto-base per l’impianto dell’azienda è di per sé piuttosto ridotta, ma un buon progetto di sviluppo può consentire di superare questo limite: ai curiosi e coraggiosi che avessero interesse, l’invito ad approfondire l’opportunità.

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Economia

NEOLIBERALI: ANZI, NEOLIBERISTI. MA IL RISULTATO E' PESSIMO

Strana davvero, almeno apparentemente, l’economia di questi ultimi decenni, in Italia e nel mondo: più i suoi presupposti e i suoi dogmi falliscono alla prova dei fatti e dei risultati,in termini di bene comune, più i suoi comportamenti vengono confermati e imposti come linea strategica e politica dagli Stati e dagli organismi internazionali, a Whashington come a Londra, a Bruxelles ed a Francoforte, e nella stessa Italia: da parte della politica prevalente e dei poteri dominanti, nonostante i meccanismi del controllo democratico.  
 
Si tratta di quel fenomeno che va sotto il nome generico di “neoliberismo”.  Viviamo appunto una epoca di neoliberismo trionfante, strafottente e paradossalmente quasi impossibile a mettersi in discussione, sembrerebbe, nonostante, appunto, la evidente negatività dei suoi risultati in termini di bene comune: se appena si parla di ipotesi di interventi correttivi degli Stati per rendere meno mostruosi gli effetti di una siffatta economia, per diminuire disoccupazione e fallimenti aziendali, per restituire al risparmio valore affidabile al posto della volatilità da gioco d’azzardo cui assistiamo, per togliere precarietà alla distribuzione del lavoro e accrescere equità a quella del reddito, si viene, di fatto e in silenzio, messi ai margini delle cattedre universitarie, delle commissioni scientifiche e politiche che si occupano di economia, della grande stampa che fa opinione; si viene collocati tra i “fuori del coro”, insomma, considerati estranei alle “vere” competenze economiche, e a volte isolati come “anticaglie da interventismo superato”, residui di impostazioni “democristiane”, di illusioni socialistiche, di buonismo liberalsociale, e simili.
 
Eppure, da qualche anno, il replicarsi dei fallimenti e delle smentite drammaticamente concrete circa la fondatezza di tanta sicumera politica e cattedratica, moltiplicatisi soprattutto nella crisi 2008-2018, un inizio di riflessione critica sembra averlo avviato, sia pure ancora in tono piuttosto timido, e ospitato più che altro in fogli di seconda pagina e in limitati fortilizi dove il buonsenso non sia stato bandito.
 
Studiosi come Stiglitz, con il suo premio Nobel, altri in diversi paesi, ed in Italia un gruppo per il vero sempre meno silenzioso, di cui fanno parte Zamagni, Becchetti, Fadda, il mai remissivo e sempre combattivo Nino Galloni, e ulteriori, stanno cercando, pur con sensibilità personali diversificate, di sviluppare qualcosa di più che una sommessa e minoritaria posizione critica nei confronti di tanta barbarica pompa di menzognero neoliberismo economico passato per liberalismo. Ebbene, va sostenuta  fortemente, questa crescente voce critica, perché importa e urge accelerare i tempi di un sano riallineamento fra economia e bene comune.
 
Il cammino sarà peraltro ancora piuttosto lungo, probabilmente, perché tanto la grande finanza speculativa internazionale quanto i suoi piccoli e interessati servitori nazionali in livrea, anche italiani, hanno in realtà immensa forza condizionatrice, dotata di amplissimi mezzi e di convenienza indubitabile a difendere imperterriti la fallimentare situazione: gli affari, soprattutto se cinici e sporchi, si fanno senza le pastoie di preoccupazioni sociali che non si limitino alla dimensione della filantropia. Chi guadagna, da questa economia insensata a dominanza finanziaria, sono infatti soltanto loro, è l’attività speculativa di ogni genere, ben raramente l’economia reale.   
 
Ma da dove è nata, e dove si alimenta tuttora, l’ubriacatura insensata di neoliberismo che da decenni viene imposta come giusta e logica?
 
Una delle voci più autorevoli, anche moralmente oltre che tecnicamente, fra quelle che non hanno mai mancato di rilevare il vicolo cieco di iniquità sociale in cui il mondo sviluppato si è cacciato, e la necessità di una correzione di rotta e di un ampio recupero di  cultura economica indirizzata al bene comune, è stata quella di Luciano Gallino, il sociologo scomparso appena una manciata di mesi fa, interprete e testimone, fra l’altro, della grande esperienza olivettiana. Anzi, secondo Gianni Liazza, il più autorevole fra gli interpreti di tale esperienza.
 
Pubblichiamo una delle sue ultime riflessioni, dedicata proprio a spiegare il fenomeno di questo abnorme predominio esercitato negli ultimi decenni dall’apparentemente liberale ideologia del neoliberismo. Il misterioso mondo della Mont Pélerin Society, in particolare, cioè una delle fonti strategiche di tale rovinoso pensiero economico, ci viene spiegato da Gallino con le parole che seguono, in un articolo originariamente pubblicato su “La Repubblica” del  27 luglio 2015.
 
 
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Quando apro le finestre al mattino, di questi giorni, lo sguardo mi cade inevitabilmente sul Mont Pélerin, al di là del lago.
È una montagnola svizzera a
pochi chilometri da Montreux, nota sin dagli anni Venti per i buoni alberghi e il
clima mite. È anche il luogo da cui ha avuto inizio, con la fondazione della Mont
Pélerin Society (Mps) nel 1947, la lunga marcia che ha portato il neoliberalismo a
conquistare un’egemonia totalitaria sull’economia e la politica dell’intera Europa.
Con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancor oggi esperienza. Gramsci
avrebbe trovato di grande interesse la strategia adottata dalla Mps per conquistare
l’egemonia, intesa nel suo pensiero come un potere esercitato con il consenso di
coloro che vi sono sottoposti. Anziché costituire l’ennesima fondazione o un think
tank, un luogo di cervelli, specializzato nel promuovere questo o quel ramo dell’economia,
Mps scelse di costruire su larga scala un “intellettuale collettivo”.
 
Quando Friedrich von Hayek nel 1947 chiamò a raccolta un piccolo gruppo di economisti e altri intellettuali
(tra cui Maurice Allais, Walter Eucken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper) per fondare la Mps,
i convenuti erano soltanto 38, per la maggior parte europei. Alla fine degli anni ‘90 erano diventati più di mille,
sparsi in tutto il mondo, sebbene la maggioranza continuasse a provenire dall’Europa.
 
Radicato per lo più nell’accademia, questo intellettuale collettivo non redasse
ambiziosi manifesti programmatici (gli “intenti” formulati nel ’47 al momento
della fondazione sono una paginetta piuttosto banale, che si può leggere anche
oggi identica sul sito della Mps), o grandi progetti di riforme istituzionali.
Produsse invece migliaia di saggi e di libri, non pochi di notevole livello, che
ruotano tutti intorno ai temi che per i soci della Mps erano e sono l’essenza del
neoliberalismo: la liberalizzazione dei movimenti di capitale;
la superiorità fuor di discussione del libero mercato;
la categorica riduzione del ruolo dello Stato
a costruttore e guardiano delle condizioni
che permettono la massima diffusione
dell’uno e dell’altro.
 
Grazie a questo immenso e capillare lavoro, verso il 1980 le dottrine
economiche e politiche neoliberali avevano occupato tutti gli spazi essenziali
nelle università e nei governi.
Non è stata ovviamente soltanto la Mps a spendersi a tal fine,
ma il suo ruolo è stato soverchiante. Non esagerava uno storico del pensiero neo-liberale (Dieter Plehwe)
quando definì la Mps, anni fa, «uno dei più potenti corpi di conoscenza della nostra epoca».
 
Peraltro i soci non si sono limitati a pubblicare articoli e libri. Molti di loro
sono giunti a occupare posizioni centrali nell’apparato governativo dei maggiori
paesi. Ai tempi della presidenza Reagan ( 1981-88), su una ottantina di consiglieri economici del presidente
più di un quarto erano della Mps. Le liberalizzazioni finanziarie decise dal governo Thatcher
nella prima metà degli anni ‘80, che hanno cambiato il volto dell’economia britannica,
furono elaborate in gran parte dall’Institute of Economic Affairs, una filiazione della Mps fondata
e diretta da due soci, Antony Fisher e Ralph Harris.
I vertici dell’industria francese e tedesca sono sempre stati numerosi nelle fila della Mps,
intrattenendo stretti rapporti con i soci provenienti dal mondo politico.
 
Di rilievo è stata la partecipazione italiana alla Mps. Tra i suoi primi soci vi è
stato Luigi Einaudi. Due italiani sono stati presidenti: Bruno Leoni (1967-68) e
Antonio Martino (1988-1990) che figura tuttora fra i soci, accanto a (salvo errore),
Domenico da Empoli, Alberto Mingardi, Angelo Maria Petroni, Sergio Ricossa.
Due caratteristiche segnano fortemente l’egemonia della Mps sulla cultura e la
prassi economico- politica degli Stati europei a partire dagli anni ’80. La prima è
la dismisura della vittoria su ogni altra corrente di pensiero — specie in economia.
Il keynesismo, fin dalle origini l’arcinemico dalla Mps, è stato ridotto
all’insignificanza, e con esso quello di Schumpeter, di Graziani, di Minsky.
Sopravvivono qui e là in qualche dipartimento universitario, ma nella politica
economica della UE contano zero. A forza di liberalizzazioni ispirate dalla cultura
Mps, il sistema finanziario domina la politica non meno dell’economia — come ha
dimostrato per l’ennesima volta il caso greco. I sistemi pubblici di protezione
sociale sono in corso di avanzata demolizione: non servono, anzi sono nocivi,
poiché ciascun individuo, secondo la cultura neoliberale, è responsabile del suo destino.
La scuola e l’università sono state riformate, a partire dalla Germania per finire con l’Italia,
in modo da funzionare come aziende. Wilhelm von Humboldt si starà rivoltando nella tomba.
 
La seconda caratteristica della cultura economica neoliberale formato Mps è
la sua inverosimile resistenza alle pesanti confutazioni che la realtà le infligge da almeno 15 anni.
I primi anni 2000 hanno visto il crollo delle imprese dot.com,
glorificate dagli economisti neolib, che in nove casi su dieci erano trovatine su cui
le borse, in nome dell’ipotesi che i mercati sono sempre efficienti, scommettevano
miliardi di dollari. I secondi anni 2000 hanno invece assistito al quasi crollo
dell’economia mondiale, minata dalla finanza basata deliberatamente su milioni di
mutui ipotecari che le famiglie non avevano i mezzi per ripagare.
 
Dopo il 2010, gli economisti neoliberali e i politici da loro indottrinati hanno
imposto alle popolazioni della UE le politiche di austerità, rivelatesi un fallimento
totale a giudizio dei loro stessi promotori. In sintesi, gli economisti formato Mps
hanno predisposto i dispositivi che hanno prodotto la grande crisi;
non l’hanno vista arrivare; non hanno saputo spiegarla, e hanno proposto rimedi
che hanno peggiorato la situazione.
Ad onta di tutto ciò,
continuano a occupare il ponte di comando delle politiche economiche della UE.
 
Se uno potesse chiedere a Gramsci come mai le sinistre europee comunque
denominate, a cominciare da quelle italiane, sono state travolte senza opporre
resistenza dall’offensiva egemonica del neoliberismo partita nel 1947 dal Mont
Pélerin, forse risponderebbe «perché non li avete saputi imitare ». Al fiume di
pubblicazioni volte ad affermare l’idea dei mercati efficienti non avete saputo
opporre niente di simile per dimostrare con solidi argomenti che i modelli con cui
si vorrebbe comprovare tale idea si fondano su presupposti del tutto inconsistenti.
 
Inoltre, proseguirebbe Gramsci, dove sono i vostri articoli e libri che
rivolgendosi sia agli esperti che ai politici e al largo pubblico si cimentano a
provare ogni giorno, con solidi argomenti, la superiorità tecnica, economica,
civile, morale della sanità pubblica su quella privata; delle pensioni pubbliche su
quelle private, a fronte degli attacchi quotidiani alle prime dei media e dei politici,
basati in genere su dati scorretti; dello Stato sulle imprese private per produrre
innovazione e sviluppo, oggi come in tutta la seconda metà del Novecento;
dell’importanza economica e politica dei beni comuni sull’assurdità della
privatizzazioni?
 
Poiché la natura ha orrore del vuoto, il vuoto culturale, politico, morale delle
sinistre è stato via via riempito dalle successive leve di lettori, elettori, docenti,
funzionari di partito e delle istituzioni europee, istruite dall’intellettuale collettivo
sortito dalla Mps. Il consenso bisogna costruirlo, e la MPS ha dimostrato di
saperlo fare. Le sinistre non ci hanno nemmeno provato.
 
                                                                                                          (Luciano Gallino)
isti

Sindacalismo

UNA CONTRATTAZIONE DI GALLEGGIAMENTO?

 
“Contrattare, contrattare, contrattare”, ha insistito, anche in un comunicato recente, con entusiasmo comprensibile, un mio amico sindacalista, responsabile di una importante federazione nazionale di categoria.
 
Comprensibile, il suo entusiasmo, perché la filosofia della contrattazione collettiva è, in effetti, il tessuto solido di fondo delle relazioni sindacali positive e dei loro risultati di crescita, in un paese libero e democratico, pluralista e con ampia e sviluppata economia di mercato: come è appunto l’Italia. Se poi il sindacalista è di scuola Cisl, come nel nostro caso, la sensibilità contrattualista è anche, in particolare, il valore metodologico portante dell’azione sindacale.
 
Senonché, in un numero crescente di casi degli anni recenti, appare anche legittimo e doveroso chiedersi: “Sì, ma… contrattare che cosa? Contrattare con quale strategia di fondo? E con quali verifiche di lungo periodo? ”. E’ ricorrente infatti la impressione che il sindacalismo italiano sia venuto attestandosi in questi ultimi anni su una linea di contrattazione che, mentre sottolinea e difende il metodo, finisce spesso per impoverirlo di fatto in una sostanza di contenuti che per i lavoratori si riducono a miglioramenti salariali – a volte anche significativi se considerati insieme con gli elementi di salario in natura, o indiretto, o di benessere (di welfare aziendale, come dicono gli analfabeti) – e aggiustamenti degli inquadramenti, che lasciano però ben salda la briglia del cavallo aziendale in mano dell’imprenditore, al quale, in fondo, conviene essere anche generoso, spesso, sul piano salariale, purchè non si intacchi la struttura sostanziale del rapporto di lavoro e la sua subordinazione strutturale alla dominanza di un profitto d’impresa concepito in chiave quasi esclusivamente finanziaria.  
 
Tant’è che si assiste altrettanto spesso, anche, al malinconico rituale della contrattazione sui “premi di risultato per l’anno concluso, su cassa dell’anno corrente”. Sono i cosiddetti “premi di produzione”, o “di risultato”. I lavoratori in genere gradiscono, naturalmente, ma non si rendono pienamente conto – né sembra rendersene pienamente conto il sindacato – che nel corso dell’anno han dovuto il più delle volte ingoiare tagli dei posti di lavoro o ristrutturazioni quasi unilaterali, che impoveriscono il patrimonio immateriale dell’azienda: ad esempio, l’efficienza dei servizi resi ai clienti nei casi di aziende in oligopolio.  
 
Il che non significa che la contrattazione di questi anni sia negativa o priva di risultati: significa, semplicemente ma significativamente, che essa rischia, alla lunga, di assestarsi in una situazione strategica di galleggiamento da sopravvivenza piuttosto che di avanzamento graduale verso gli obiettivi di cointeressenza e corresponsabilità piena dei lavoratori nell’impresa.
 
Il riscontro di questa lunga partita è quel capitalismo finanziario ulteriormente forte, e quel peso del fattore lavoro ulteriormente debole, che constatiamo: cioè, nessun passo sostanziale in avanti in quella semplice civiltà del lavoro che esige appunto la trasparente condivisione dei profitti, delle perdite e delle decisioni. 
 
Bene ha fatto, in questo senso, Giuseppe Bianchi – attraverso il suo sempre autorevole Istituto per le Relazioni Industriali – a ospitare la recente riflessione lucida di Giovanni Graziani, il quale analizza a fondo una delle realtà portanti della contrattazione sindacale europea che non arretra, cioè quella tedesca, per ricavarne qualche suggerimento utile. Orientato alla Mitbestimmung, cioè alla cogestione, il modello tedesco ha saputo mantenere molto forte la barra della sua cultura e della politica sindacale su una negoziazione che non si è lasciata addomesticare: si tratta di essere sostanzialmente corresponsabili delle dinamiche e del destino aziendale – e questo valore è da sempre anche nella cultura del sindacalismo democratico italiano – ma non rinunciatari rispetto all’obiettivo più strutturale del sindacalismo, cioè la piena partecipazione dei lavoratori nell’impresa. La quale non è affatto questione di premi di  risultato né di riduzione dei tagli occupazionali. Giovanni Graziani prende ottimo spunto, in particolare, dall’autorevolissimo ultimo rinnovo contrattuale del settore metalmeccanico tedesco per proporre ai lavoratori ed ai sindacalisti italiani una lettura corretta del “modello tedesco”, a volte mal compreso o addirittura inconsapevolmente travisato, ai fini di una riflessione profonda e strutturale sulla ri-evoluzione auspicabile delle relazioni sindacali in Italia, che hanno alle spalle una tradizione ricca anche di periodi di grande forza ed efficacia.(Giuseppe Ecca).  
 
 
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I tedeschi ci fanno paura? La domanda può sembrare mal posta se riferita al presente, visto che l'esempio tedesco è indicato un po' da tutti come la strada da seguire in materia di lavoro e di relazioni industriali. Solo che l'esempio è indicato da parti diverse, e per sostenere che bisogna andare in direzioni opposte.
Capita così che l'esempio tedesco venga indicato sia da chi chiede salari più alti come da chi insiste per la moderazione salariale, da chi rivendica "le riforme" e la "flessibilità" del mercato del lavoro come da chi le teme o le rifiuta, da chi insiste sui temi della collaborazione e della partecipazione e da chi invece rilancia il tema del conflitto. Il che è sufficiente a far sospettare che nei nostro discorsi sulla Germania ci sia qualche difficoltà di traduzione, per cui ognuno parla di una "sua" Germania, di un'immagine che si è fatto per confermare delle proprie idee. E l'effetto è di fare dell'esempio tedesco nei discorsi italiani qualcosa di molto simile alla proverbiale notte in cui tutti i gatti sono egualmente bigi.
L'ultimo contratto dei metalmeccanici tedeschi però non si presta a equivoci: perché è chiaramente un contratto di aumento delle retribuzioni, e che contemporaneamente permette al lavoratore che lo desideri di accedere ad una significativa riduzione d'orario. Più salario per tutti, e (eventualmente) meno orario per qualcuno, con conseguenze inevitabili di aumento del costo del lavoro per unità di prodotto. Un contratto costoso per le imprese e vantaggioso per i lavoratori, che i sindacati hanno ottenuto con la minaccia dello sciopero ad oltranza e che le imprese hanno cercato di contrastare in tutti i modi, comprese le minacce di ricorso in Tribunale per chiedere risarcimento dei danni, salvo arrivare alla conclusione (visto che l'impresa capitalista è calcolo razionale a scopo di profitto) che uno sciopero in un momento in cui gli ordinativi sono tanti e le casse di resistenza dei sindacati sono piene, avrebbe avuto costi maggiori della firma di questo contratto, pur così oneroso.
Solo che a questo punto i tedeschi cominciano a fare un po' di paura all'Italia sindacale. Non a tutti, ma a quanti in Italia predicano da anni, e continuano a predicare in questi giorni, la moderazione salariale come paradigma senza alternativa sia quando le cose vanno male, perché allora non si possono caricare le imprese di costi non sopportabili, sia quando le cose vanno bene, perché il fatto che vanno bene è visto come la prova che la moderazione salariale funziona. Col risultato di rinviare il giorno in cui i lavoratori vedranno rafforzati i loro redditi al giorno di san nessuno.
Questa moderazione salariale in Italia è strutturale, a differenza che altrove, perché viene realizzata attraverso contratti nazionali pluriennali vincolati al rispetto di criteri decisi a livello interconfederale e rinnovati in base all'andamento reale o previsto dell'inflazione (in anni in cui l'inflazione tende a zero!) e rinviando gli aumenti legati alla produttività ad un livello aziendale dove sia le Rsu che le organizzazioni sindacali locali non hanno mostrato grande capacità di ottenere aumenti significativi (molti accordi aziendali si fanno in presenza di situazioni di crisi, quindi per definizione sono concessivi e non acquisitivi).
A quanti sta bene questo modello, e che approfittando del grigiore notturno sostengono falsamente che "anche in Germania si fa così", l'accordo conquistato dall'Ig Metall fa paura perché esprime invece una concezione forte del ruolo salariale del contratto di categoria che va in senso opposto al cammino percorso da noi, sia come tutela del lavoro, sia come incentivo al miglioramento della produttività (perché se il lavoro ti costa, cerchi di farlo rendere al massimo). E perché smentisce l'idea di una presunta tendenza su scala mondiale al decentramento spinto e incontrollato della contrattazione che, abbinato alla complessiva moderazione delle politiche salariali, sarebbe la chiave di ogni esperienza di successo e quindi anche della Germania (ma non è vero), condannando invece all'insuccesso tendenze opposte o anche solo non conformi al paradigma della moderazione salariale.
Qui però c'è un equivoco: leggere la politica contrattuale tedesca come una forma di decentramento spinto non corrisponde all'immagine di decentramento "organizzato" o "controllato" di cui ci parlano, invece, i tedeschi. La (prudente) flessibilizzazione del sistema tedesco di contrattazione non ha infatti mai preso le caratteristiche di una rinuncia alla funzione ordinante esercitata dal contratto di categoria attraverso la fissazione delle retribuzioni. E il coinvolgimento dei consigli d'azienda nella politica contrattuale non ha mai preso la forma di una rinuncia a quel primato dell'autonomia contrattuale collettiva che, per legge e per costume, compete alle organizzazioni sindacali e non agli organismi aziendali elettivi. Infatti, la regola tedesca è, e rimane, il salario fissato nel contratto di categoria, mentre le concessioni a livello aziendale sono un'eccezione, temporaneamente ammessa, soprattutto in funzione difensiva in situazioni di crisi. Il che rappresenta un sistema molto meno decentrato di quello che c'è da noi.
Si può fare a questo proposito l'osservazione che Peter Bofinger, uno dei "cinque saggi" consulenti del governo tedesco, ha fatto a proposito delle leggi Hartz di riforma del mercato del lavoro di Schröder: se fosse la limitazione nel tempo del sostegno finanziario ai disoccupati di lunga durata la ragione della crescita dell'occupazione tedesca, allora Italia e Grecia dovrebbe essere ancora più avanti sulla strada della piena occupazione; e se fosse la flessibilizzazione della tutela per il licenziamento senza giusta causa a favorire le assunzioni, non si capisce perché paesi che hanno tutele inferiori alla Germania non hanno gli stessi risultati.
Ed è così anche per la contrattazione: se in Italia dal 1993 abbiamo un sistema che prevede un livello aziendale di contrattazione competente a regolare le retribuzioni nell'ottica della crescita della produttività, ma poi la produttività tedesca in questi anni si è rafforzata mentre invece in Italia sono fermi la produttività e le retribuzioni, allora il decentramento di per sé non basta (e gli incentivi pubblici alle imprese per migliorare la produttività rischiano di creare dipendenza invece di risolvere il problema).
Solo che a questo sistema di moderazione salariale strutturale ci siamo abituati fino a considerarla come un destino ineluttabile, fino a non riconoscere l'esistenza di alternative. I sindacalisti di oggi rappresentano una generazione di contrattualisti più abituati ad applicare formule aritmetiche che a fare rivendicazioni di politica salariale, a strizzare il limone di un'inflazione che non c'è per rinnovare i contratti di categoria con i quali si finisce per consumare anche lo spazio che dovrebbe restare ai contratti aziendali; le confederazioni, comprese quelle datoriali, lavorano a costruire "modelli" con i quali imporre le regole uguali a realtà con andamenti economici e produttivi anche molto diversi, per difendere un ruolo che gli viene dalla tradizione più che dalle esigenze del presente; le rappresentanze sindacali unitarie elette nelle aziende non hanno lo spazio, la formazione, la capacità e gli strumenti per essere interlocutori autorevoli delle direzioni aziendali e per fare dentro ai sindacati quel che hanno fatto i rappresentanti dell'Ig Metall, cioè farsi portatori della domanda di flessibilità nell'orario che ha permesso di rivendicare e ottenere le 28 ore su richiesta di chi ne ha bisogno oltre al forte aumento salariale.
E questo non perché i tedeschi siano "più bravi", ma perché una quindicina di anni fa, dopo la crisi nazionale per i costi della riunificazione e prima della crisi mondiale, l'Ig Metall ha capito la necessità di tenere assieme politiche organizzative, politiche contrattuali e presenza nelle aziende attraverso i consigli (Organisationspolitik, Tarifpolitik und Betriebspolitik) nell'ottica del rafforzamento dell'organizzazione come chiave per rafforzare le politiche contrattuali ed impedirne l'erosione a livello aziendale. È il rafforzamento organizzativo, non il "modello contrattuale" e le sue (inutili?) riforme periodiche, o i (giusti) discorsi sul "sindacato 4.0" a permettere di fare una buona contrattazione, per gli interessi rappresentati e per il sistema paese.
Ecco perché i tedeschi ci fanno un po' paura: perché il loro esempio mette in dubbio che il modo burocratico di fare sindacato e contrattazione, l'applicazione di direttive e "modelli", o strumenti di calcolo tarati sulla moderazione nel quale è cresciuta un'intera generazione di sindacalisti sia il modo unico e senza alternative di fare politiche contrattuali. E perché dice ai sindacati che se vogliono avere il consenso e le adesioni dei lavoratori devono fare la fatica di riconvertirsi in organizzazioni capaci di rispondere alle esigenze dei rappresentati, con politiche salariali e contrattuali che non possono essere predeterminate in "modelli" concertati al centro che servono solo a perpetuare una moderazione salariale vista come destino ineluttabile.
Per fare buoni contratti bisogna far prima una buona organizzazione. E per farla, bisogna tornare a saper interrogare la propria base di riferimento e saper capire le domande che ne vengono per dare le risposte necessarie. Alla fine, i risultati potrebbero essere quelli che da anni cerchiamo di raggiungere facendo altre strade.
 
                                                                                         (Giovanni Graziani)
 
 

Cattolici e politica

NON E' UNA BELLA PAGINA: PUNTIAMO DECISAMENTE ALLA SUCCESSIVA

Il sedici giugno 2018, cioè appena poco più di un mese fa, un piccolo manipolo di “democristiani del tesseramento 1992-93”, l’ultimo tesseramento riconosciuto valido dalla magistratura ai fini della possibile ripresa di attività del partito che fu di De Gasperi e Moro, si è riunito in un hotel di Roma per proseguire nell’estremo tentativo di porre fine alle interminabili controversie interne che per ventisei anni sono state autentico cappio al collo per la speranza di ripresa della presenza organizzata dei cattolici nello scenario politico italiano, attorno al simbolo e alla eredità politica dello Scudocrociato.
 
Piccolo manipolo, abbiamo detto: il giudice ha riconosciuto valido, e titolato a decidere, un elenco di circa 1.700 soci tesserati nell’ultimo anno di vita “ufficiale” del partito, cioè appunto il 1992-‘93. Se si pensa che la Dc, a quei tempi, viaggiava con oltre un milioni di iscritti, si ha la chiara idea della quasi risibile scialuppa di salvataggio che si sta cercando (finora inutilmente) di attivare per riportare a galla il grande transatlantico che molti effettivamente, nel paese, rimpiangono.
 
Il fatto è che ci vogliono, per questa impresa, insieme, forza di carattere, capacità decisionale, senso organizzativo, autodisciplina, moralità personale e profondità di vedute. Soprattutto, crediamo, le tre ultime caratteristiche. Che finora non ci sono state. O, meglio, non ci sono state tutte a livello sufficiente.
 
Nella sala dell’Hotel Tirreno, a Roma, il sedici giugno, era presente, intanto, meno di un centinaio di persone fra le citate 1.700 che ne avrebbero avuto titolo giuridico: e quasi tutte, ovviamente, ampiamente attempate, con appena qualche “giovanissimo” cinquantenne che, ai tempi della cessazione operativa del partito, venticinque anni orsono, doveva essere un iscritto al Movimento Giovanile.
 
E proprio questa caratteristica anagrafica dell’attuale “gregge piccolo e disperso” suggerisce una prima riflessione non priva di conseguenze pratiche: davvero ci vuole un grande orizzonte davanti a sé e dentro di sé, grande moralmente, politicamente e culturalmente, per restituire vita a una formazione politica che possa essere consegnata alle generazioni giovani ed al paese, spendendo credibilmente, da un lato, il richiamo ideale a De Gasperi, Moro, La Pira, Mattei, Sturzo e gli altri padri di quella grande storia, ed esprimendo concretamente, dall’altro, una capacità di organizzazione efficiente, che faccia coincidere visibilmente i comportamenti organizzativi e personali con la elevatezza delle affermazioni valoriali. E’ essenziale, questa grandezza di orizzonte, è proprio il fondamento minimo e necessario perché una nuova formazione politica possa mettere radici solide e qualitative, e durare,  nel tessuto reale attuale del paese. Altrimenti, essa è del tutto inutile, ennesima cianfrusaglia del confuso, recriminoso e sterile bailamme politico che ci circonda.
 
E purtroppo si tratta di un orizzonte ben difficilmente ravvisabile (ci scusiamo per la valutazione, che è ovviamente soggettiva, ma onesta) nel “manipolo”, frantumato in rivoli reciprocamente  ombrosi e sospettosi, quasi sempre scalmanati, spesso incivilmente maleducati, sempre disordinati, che abbiamo visto all’opera anche il sedici giugno. Lo spettacolo cui esso ci ha fatto assistere in questa occasione è stato francamente deprimente, anzi quasi miserabile. I più attivi in sala, dopo pochi minuti dall’inizio dei lavori si stavano già accapigliando, sia a parole sia anche alzandosi dalle sedie, avvicinandosi al tavolo di presidenza, minacciando, puntando il dito, gridando, rivendicando…. E non è la prima volta. Uno spettacolo triste e indegno, altro che di De Gasperi e Moro, persino dei modesti epigoni degli ultimi quindici anni di vita della DC storica. Oltre un quarto di secolo di rimpianti per la Democrazia Cristiana che non c’è più, dunque, e di recriminazioni per la bassura della politica attuale che l’ha sostituita, e… chi lotta per far rivivere quell’antica grandezza lo fa con questo deplorevole livello di comportamenti?! Follia? Stupidità? Irresponsabilità? Meschinità? Intromissione di pensieri e intenzioni non dichiarate? Certo, inadeguatezza praticamente totale all’obiettivo affermato.
 
Abbiamo lasciato i lavori della riunione, o meglio la indecente gazzarra che stava iniziando. Prima di ora non avevamo mai abbandonato uno di questi incontri: ciascuno di noi infatti deve sempre dare fino in fondo il contributo migliore che può. Questa volta però abbiamo valutato,  sintetizzando nella memoria tutti gli incontri precedenti, che no, non ci sono proprio le basi culturali, né politiche, né morali, per l’impresa annunciata e di cui fin troppo enfaticamente si chiede anche la benedizione della gerarchia ecclesiastica, del resto a sua volta poco propensa a posizioni o iniziative risolutive; una impresa, comunque, già di per sé sull’orlo della malinconica autofrustrazione anche per altri aspetti: ad esempio la rigidità preconcetta e immatura della “fissazione mentale” sui lati formalistici della Dc storica, a cominciare dagli stessi simulacri di simbolo e nome, certo importanti ma su cui Sturzo o De Gasperi o Moro o Fanfani non si sarebbero davvero lasciati paralizzare.
 
E non è forse infondato pensare, purtroppo, che non sia solo l’attaccamento ideale alla memoria della grande Dc storica e dei suoi valori ispirati al popolarismo sturziano, a rodere segretamente il fegato di alcuni (troppi, decisamente) fra questi vetero-democristiani componenti il manipolo, o ruotanti attorno al manipolo: nei comportamenti osservati il sedici giugno, e prima del sedici giugno, qualcuno dei più avvertiti e spassionati fra gli stessi protagonisti ha potuto rilevare, ad esempio, indizi di un vampiresco pensiero rivolto alla sia pur lontanissima e ormai stramba questione della possibile riacquisizione di quello che fu il rilevante patrimonio materiale della Dc, a partire dalle sue sedi (comprese quelle romane del grande Palazzo Sturzo e le altre più note).
 
Comunque si è trattato, per la ennesima volta, di un comportamento e di una testimonianza sconfortanti: soprattutto per chi ha in mente il grande e vasto mondo attuale delle generazioni giovani in attesa, che chiedono il ritorno di una opportunità di grande iniziativa politica laica e cristianamente ispirata, ricca di speranza per tutti, avendo davanti agli occhi, contemporaneamente, le gravi debolezze dell’assetto politico attuale del paese nella sua complessività, che vanno assolutamente superate. Con il piccolo gesto dell’abbandono dei lavori del 16 giugno abbiamo semplicemente voluto dare un altrettanto piccolo ma coerente segnale della nostra valutazione circa lo stato attuale della situazione: non si tratta certo di abbandonare la speranza e l’impresa, bensì di deciderci finalmente a un cambiamento di stile e di caratura dei comportamenti, collettivi e personali.
 
Insomma, l’Italia continua ad aspettare. Aspetta una politica di nuova qualità, e ne continua a cercare i segnali dovunque, tanto nei possibili ambiti della società esterna ai partiti ma viva e sensibile a questi problemi, quanto in quelli specifici dei partiti attualmente operanti. E se dalla società esterna non ne emergono ancora, dagli attuali partiti abbiamo l’impressione che qualche segnale potrebbe pur cominciare a generarsi, forse, in seno alla Lega guidata da Salvini, se l’attuale esperienza di governo la indirizzasse a una graduale coscienza più alta e profonda sul presente e sul futuro del paese. Ove questo accadesse (del resto, come cittadini è onesto augurarlo) l’attuale situazione dei “cattolici democratici” così politicamente divisi, rissosi e mediocri, renderebbe ancora più umiliante questa ormai quasi surreale rincorsa verso la ricostituzione formalistica della Dc storica. In teoria, comunque, qualche possibilità di germoglio nuovo non può essere esclusa a priori neanche nel seno del pur superficiale Movimento Cinque Stelle, o del quasi decotto Partito Democratico, al cui interno non mancano del tutto singole coscienze di più attento orizzonte. Il cammino appare comunque parecchio complesso.
   
Abbiamo sentito diversi cattolici, o sedicenti tali, appartenenti al “manipolo” o ai suoi paraggi, insorgere indignati contro questa ipotesi che “qualcosa di buono possa nascere anche da altri”: ma, a parte la considerazione che è ben difficile coniugare una simile indignazione con la ispirazione cristiana, e a parte il fatto che proprio i grandi padri del pensiero popolare e democratico-cristiano, da Sturzo a De Gasperi ed a Moro, hanno agito una politica esattamente contraria a tale indignazione, c’è semplicemente da osservare che, pur nella loro lampante mediocrità, sia la Lega sia il Movimento Cinque Stelle hanno comunque fatto qualcosa, si sono proposti, si sono presentati, si sono organizzati, sono scesi in campo: i democristiani del manipolo e dei suoi paraggi sono ancora davanti allo specchio del loro narcisismo, a crogiolarsi con l’evidenziare le imperdonabili pecche di Lega e Cinquestelle. E no, cari amici: decisamente, così non va. Ne’ politicamente ne’ moralmente.
 
D’altro lato resta pur sempre giusto e doveroso che chi appartiene per convinzione profonda ed onesta al mondo dei valori duraturi e della migliore esperienza storica democratico-cristiana, e  vede un possibile orizzonte della politica italiana e internazionale nuovamente illuminato da un umanesimo integrale di quella matrice, continui a puntare decisamente su tale prospettiva, e non demorda. Per farlo è però assolutamente indispensabile superare altrettanto decisamente lo stallo e la stridente “squalità” attuale, che vede il manipolo “giuridicamente legittimo” del tutto ripiegato su sestesso, senza proposta politica né programmatica rivolta davvero al paese, ma soprattutto senza aver saputo ancora riunire in un embrione di organizzazione effettiva e autodisciplinata neppure un salottino con quattro persone e altrettante sedie per discutere davvero conclusivamente e ordinatamente di queste cose, e passare all’azione.
 
Eppure il manipolo ha prodotto, sul piano teorico, soprattutto fra il 2012 ed il 2015, in una fase particolarmente riscaldata da genuina aspettativa del grande miracolo possibile, alcuni documenti teorici di eccellenza qualitativa assoluta, tali che non si riscontrano, per lucidità di analisi del paese e visione programmatica, nella produzione teorica di nessuna delle forze politiche oggi presenti in parlamento. Avendovi concorso, con il presidente Gianni Fontana, ne conosciamo dall’interno la consapevolezza, organicità e lucidità particolari: il fatto è che, nello stesso tempo, mai si è visto un connubio così distruttivo fra tale eccellenza di documenti e la corrispondente incapacità totale di agire in senso organizzato ed autodisciplinato per trasformarli in fatto politico.
 
Cosa fare, dunque? Intanto ci pare giusto osservare che se anche questo maldestro tentativo in corso dovesse, come tutti i precedenti, fallire, sarebbe di fatto impensabile programmarne uno ulteriore: perché la storia che continua a camminare sta oggettivamente consumando le condizioni per le quali una tale prospettiva mantenga senso, davanti alle dinamiche di trasformazione complessiva della società globale in cui viviamo. In realtà ciò che, secondo noi, occorre fare, è semplicemente distinguere subito, e mantenere distinti, i due problemi compresenti, e purtroppo  confusi invece che semplicemente collegati: quello giuridicistico della Dc storica, che può e deve essere gestito come semplice fatto importante ma secondario e collaterale rispetto al problema sostanziale del nuovo soggetto politico da generare: importante perché è giusto, fino a un certo punto, che ogni fase storica abbia una sua conclusione anche formalmente certa; e quello appunto sostanziale, per il quale occorre passare francamente oltre il dato storico e giuridicistico, e pervenire alla nitida e forte costituzione del partito nuovo di ispirazione cristiana disegnato e necessario per il ventunesimo secolo: un partito anche piccolissimo in partenza, eventualmente, ma qualificato subito per: a. oggettiva pratica esemplare della democrazia interna, b. evidente elevatezza di elaborazione e proposta politica, c. concreta primazia di un’azione di formazione permanente  profonda delle coscienze (formazione delle coscienze, non addestramento alla propaganda!) nelle sedi che via via si organizzano, e d. tangibile opera di animazione sociale e culturale nel tessuto quotidiano della vita dei cittadini a ogni livello e in ogni territorio.
 
Né si illudano quegli altri resti dispersi e mediocri del mondo veterodemocristiano, che tanto tengono a distinguersi dal “manipolo” a suon di ricorsi giudiziari ed altre furberie o proposte subdole di pre-spartizione  delle presunte tessere e dei presumibili costituendi organi (parliamo delle cento risibili e personalistiche democraziecristiane sparpagliate indegnamente negli anfratti del parlamento e delle amministrazioni locali): il loro credito presso la parte seria e pulita del paese è sostanzialmente uguale a zero, e per quanti fra questi si sono intestarditi a negarlo è venuta, logica e irrefutabile, la comprova elettorale del 4 marzo scorso.
 
Come trovare la forza, la coesione e la lucidità per decidere e fare una cosa così semplice, così pura e così grande come quella che proponiamo? Bisogna essere semplici, puri e grandi. Cioè maturi e umili. L’umiltà, soprattutto, è indispensabile non soltanto per la impresa in sé, di cui garantisce lo spirito altruistico di servizio e il senso spassionato di comunità, ma anche per la consapevolezza storica profonda sul fatto che ciò che si costruisce trova nel patrimonio spirituale del passato e nei suoi ideali rinnovati la forza per mettere definitivamente da parte le zavorre accumulate nell’ultimo quindicennio di vita della Dc storica e nel venticinquennio della diaspora, e che furono causa reale della fine della Democrazia Cristiana: per poter finalmente mettere davvero tale patrimonio a disposizione della società attuale in modo moralmente credibile ed esemplarmente testimoniante.
 
Uno degli inviti più forti a tale umiltà, del resto, può venire anche dalla semplice constatazione del fatto che lo stesso fondamento formale dei 1.700 iscritti dell’ultimo tesseramento della Dc storica, che fa sentire così gelosamente e aggressivamente esclusivisti molti componenti del “manipolo”, è in realtà il rimasuglio di una situazione che non era affatto nobile come viene descritta; chi infatti conosce davvero la macchina del tesseramento della Democrazia Cristiana storica in quella torbida fase di passaggio dell’ultimo quindicennio citato, sostanzialmente dopo la morte di Moro, sa benissimo che il tesseramento era ormai abitualmente tanto corrotto e sporco, ma tanto sporco e corrotto, che negli ambienti della direzione centrale correva la battuta che i veri Dc non erano quelli degli elenchi del tesseramento, i quali elenchi erano invece “dominati dalle clientele”, mentre “ i veri democratici-cristiani sono fuori”.
 
Nessuno può smentirci in questo richiamo storico, per il semplice fatto che a quei tempi operavamo nella direzione centrale del partito e ricordiamo bene che la parte pulita di un partito già corroso al suo interno doveva addirittura allontanarsi fisicamente, a volte, dal contatto diretto con quegli elenchi, per non essere costretta a una guerra che non le avrebbe dato scampo. La Dc non era molto migliore degli altri partiti, in quella stagione storica. Diciamo con amarezza tutto questo, avendo partecipato con convinzione piena al tentativo di rinascita in corso della Dc più grande e degna:  avendovi partecipato in tutte  le sue fasi fin dal 2012, convinti che alla grande esperienza del Partito Popolare e della Democrazia Cristiana come seppe svilupparsi fino ad Aldo Moro, e solo a quella, meriterebbe effettivamente tornare per il bene profondo del nostro Paese e anche dell’Europa, del Mediterraneo, del mondo.
 
Occorre, insomma, piena e grande consapevolezza della importanza storica della impresa che si sta tentando di compiere, e anche della nostra dignità che vi è pienamente coinvolta e che non ha il diritto di lasciarsi trascinare nel baratro di un livello che sta tradendo tutti i valori della storia alta del movimento democratico dei cattolici italiani. In questo senso abbiamo sempre sostenuto che chi oggi rappresenta formalmente la Democrazia Cristiana storica, e sta cercando faticosamente di guidare il tentativo oltre il difficile guado, cioè il presidente Gianni Fontana, ha sì il dovere politico e morale di portare fino in fondo la soluzione della questione giuridica della Dc storica, ma sapendo bene, come accennavamo, che questo è solo l’obiettivo di dare giusto compimento a un processo storico e giuridico, non è affatto il futuro del movimento unitario dei cattolici italiani in politica,  non è affatto la prosecuzione sostanziale della storica Democrazia Cristiana: e che pertanto è semplicemente e urgentemente necessario passare al gia’ citato nuovo soggetto politico che su quelle ceneri nobili e con gli stessi valori e principi incarni esigenze e risposte necessarie al ventunesimo secolo.  
 
Del resto, fin dal congresso del 2012 tale è stata in effetti la idea chiara di Fontana, come del sottoscritto e di altri, sia appartenenti al “manipolo” sia amici fuori del manipolo, che hanno cercato di dargli man forte in questo cammino. Per quanto poi ci riguarda personalmente, abbiamo ripetuto a Fontana, più decisamente ancora, che, secondo noi, ove riuscisse la laterale soluzione positiva della questione giuridicistica della Dc storica, con assoluta sollecitudine sarà necessario, subito dopo tale soluzione, anzi pressoché contestualmente con essa, dichiarare comunque anche il nuovo nome ed il nuovo simbolo del rinnovato soggetto politico, con apertura immediata e trasparente del nuovo tesseramento e della nuova organizzazione, dando così inizio alla vita franca del partito adeguato appunto al ventunesimo secolo, di cui l’Italia ha bisogno.
 
Noi infatti vogliamo essere continuatori e sviluppatori di valori, non idolatri di schemi e nostalgie storiche.
 
                                                                                                    Giuseppe Ecca
 

Storia e storie

UN GIORNO CAMMINEREMO INSIEME

Da quella bella e ricca miniera che è stato, per molti anni, il “Premio Prato Raccontiamoci: Storie di Vita Vissuta”, della cui organizzazione ho avuto la fortuna di essere parte attiva, e che fu illustrato da personalità quali Pamela Villoresi, traggo un ulteriore “racconto di vita”: uno di quelli che non ebbero l’onore della vittoria finale, ma che concorse, come tantissimi altri, a una ricchezza umana e culturale che caratterizzò sempre il premio, come accade quasi sempre quando gli anziani raccontano le vicende della loro esperienza di vita, spesso senza neanche porsi il quesito di forme letterarie o intenzioni d’arte cui vincolarsi. Di questo racconto, in particolare, non sono neanche in grado di fornire il nome dell’autore (la organizzazione del Premio conserva peraltro tuttora nei suoi archivi ogni documentazione): esso esprime tuttavia una di quelle misteriose storie personali che segnano a volte per sempre l’esistenza di chi le vive. La riproduciamo non per compiacenze letterarie, dunque, ma, innanzitutto, perché invitano il prosieguo della nostra permanente riflessione sull’affascinante mistero della esistenza umana.
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Sono passati molti anni dall’inizio della storia che voglio raccontare. In realtà, neanche io ne ricordo perfettamente tutti i particolari: ma non scorderò mai quanto questa amicizia mi ha insegnato a crescere ed a vivere.
 
Anche se abitavamo nello stesso paese, conobbi Danilo solo a scuola: carnagione chiara, capelli “a funghetto”, occhi profondi, incisivi, grandi, risata facile, e una dichiarata passione: l’Associazione Sportiva Roma.
 
Danilo era un compagno come tutti gli altri: non aveva niente di più, niente di meno, nulla di diverso. La diversità entrò però nella sua vita qualche anno dopo, proprio alla scuola elementare. Le maestre dissero che si era ammalato. Io, però, non capivo perché dovesse venire a scuola sulla sedia a rotelle. L’influenza, che spesso ci visitava tutti, fa arrossare il naso come un pomodoro e costringe a portare sempre dei fazzoletti in tasca, ti irrita la gola o ti fa alzare la temperatura corporea, ma non impedisce alle tue gambe di camminare o alle tue braccia di simulare il volo di un uccello.
 
In classe, le curiosità di tutti sull’argomento aumentarono, così come le mie: ma le maestre e mia madre sapevano sempre trovare le risposte giuste, quelle semplici, che ti fanno sembrare il mondo un’eterna fiaba che ti cullerà per sempre. Però la vita non è semplice e, purtroppo, da bambini si possiede un’ingenuità che con il passare degli anni si perde. Infatti, più passava il tempo e più le promesse dei grandi svanivano, più la fiaba si incrinava. Danilo non si alzò più in piedi. Mai. Anche se mi sforzo, oggi non riesco a ricordarlo in piedi. La sua normalità divenne il troneggiare stancamente su quella carrozzella.
 
Solo con gli anni che passavano mi resi conto che in realtà non sarebbe mai guarito da quell’influenza speciale:  era la distrofia muscolare. Una malattia che invade il corpo pian piano, sa conquistarlo, dominarlo e non lasciare più spazio: non c’è più posto per decidere dei propri movimenti, della propria felicità, del proprio tempo.
 
Non so se sia peggio sentire l’eco della propria volontà che non riceverà più risposte dal proprio corpo, o accettare lo stato di eterna solitudine dell’anima, dentro di sé: perché esisti integralmente ma una parte di te è come se non ci fosse  o fosse fuori di sé, e gli altri non possono capire davvero.
 
Quasi odiavo la sua situazione, perchè mi faceva sentire in colpa. A me non mancava nulla: potevo giocare ad acchiapparella e nascondino, potevo saltare a corda, potevo prendere i soldi ed andare a mangiare un gelato, potevo rotolarmi sul prato, potevo fare i capricci per un giocattolo, potevo ridere, potevo piangere, potevo andare al bagno, potevo essere una bambina. Potevo fare qualsiasi cosa avessi voluto: bastava la voglia, la volontà, e tutto era possibile.
 
Si dice che volere è potere ma, oltre ad insegnare che questi verbi vengono definiti modali e che ognuno dovrebbe saperli coniugare correttamente, la scuola dovrebbe spiegare perchè non tutti li possiedono: non dovrebbe lasciare all’esperienza personale e al caso l’insegnamento più grande, quello della vita.
 
Forse, in realtà, spiegazioni non ci sono, o è meglio non cercarle. Ma questo non bastava ad azzittire le mie continue domande: perchè proprio Danilo era malato? Perché io stavo bene? Cosa aveva fatto di tanto male per essere destinato ad osservare il mondo senza viverlo pienamente? Perché era così? Ogni attività dei bambini implica movimento ma questa sua condizione lo escludeva perennemente. Ci guardava da un angolo, sempre. Io sentivo i suoi occhi, sentivo quella rabbia, quel disagio e quell’immensa impotenza che portano a tenersi a distanza da tutto. Infatti, anche quando trovavamo il modo di farlo partecipare, Danilo restava sulle sue o si tirava indietro, invitandoci a non preoccuparci per lui.
 
Come ci si sente a vedere gli altri insieme, che si divertono, e poi, ad un tratto, cercano altri giochi per farti partecipare, senza però divertirsi come prima? Senza essere capaci di capirti, di non farti sentire diverso, un peso?
 
Provare ad immaginare il suo dolore, e vederlo con quell’aria triste, mi faceva male. Non capivo come gli altri non si accorgessero del suo bisogno di affetto, di comprensione, di aiuto. Eppure quel bisogno urlava forte, era padrone del suo solito silenzio.
 
Non ho mai creduto di essere migliore degli altri, anzi pensavo di esagerare con tutti quei pensieri su di lui. Ma, pian piano, capii che l’unica differenza tra me e gli altri compagni era che loro non si ponevano il problema. Vivevano la loro vita, nel loro piccolo mondo, con i loro agi, pregi e difetti. Non era a loro che il Signore aveva rifilato quel destino, e questo bastava a giustificare la loro indifferenza. Non è questione di migliore o peggiore, basta decidere che persona vuoi essere: e io non volevo essere come gli altri, non volevo ignorarlo. Volevo essere sua amica.
 
Ci misi un po’ per capire che in realtà già lo ero. Sedevamo vicini al banco, ridevamo, parlavamo e facevo di tutto per farlo sentire a suo agio. Per me era un piacere stare insieme a lui. Gli volevo davvero molto bene. Gli ultimi anni di scuola elementare, precisamente tra la quarta e la quinta, iniziai ad andare a casa sua, il pomeriggio. Di solito andavo a casa delle mie amiche, dopo aver fatto i compiti, o uscivo con loro in giro per il paese. Mi resi conto che uscite del genere Danilo non poteva farle: lui dipendeva sempre da qualcuno, dalla mamma, dall’assistente, dalle maestre, da chiunque spingesse la carrozzella, visto che con il passare degli anni non riusciva più a muovere le braccia, figuriamoci spingere le ruote!
 
Andavo da lui, sempre, con qualche pensierino: un vassoio di dolcetti, qualche giocattolo, qualsiasi cosa avesse a che fare con la Roma. Mi faceva proprio piacere vedere un sorriso sincero nascere sulle sue labbra: mi faceva sperare che almeno in quei momenti era felice. In genere, dopo aver giocato un po’ alla playstation, uscivamo nel piazzaletto fuori casa sua: in realtà era un vialetto, sul quale si affacciavano tutti i pianerottoli delle case popolari. Era abbastanza largo, tanto che riuscivo a girare bene la carrozzella una volta arrivata alla fine, ma non era molto lungo. A volte eravamo costretti a fare su e giù all’infinito, fingendo di essere da un’altra parte: in riva al mare, su un prato fiorito, in sella alle nuvole, in cima ad una montagna. Mi divertivo a farlo sognare e a vedere quel sorriso ingenuo comparire con il distendersi delle sue labbra, prima di dirmi che ero matta. Altri giorni, invece, fingevamo che la sua malattia non fosse un problema e giocavamo a nascondino. Ero sempre io a nascondermi e a non dover trovare nascondigli troppo difficili o troppo lontani. Purtroppo il nostro unico spazio era quel viale: fuori di lì c’erano due nemiche: la discesa e la salita. E, da sola, non ce l’avrei mai fatta a spingerlo tenendo sotto controllo la situazione. Così inventai un altro gioco, simile ad acchiapparella. In verità, nessuno acchiappava nessuno: però si correva. Io mi posizionavo dietro la carrozzella come se fossi ai comandi di una macchina, e simulavo il rombo del motore. Subito dopo l’”1-2-3 via” iniziavo a correre con tutta la forza che avevo, come una pazza. Danilo rideva, urlava, si divertiva. Ed io ero felice.
 
Purtroppo c’erano giorni in cui non ci andava di giocare, in cui eravamo particolarmente tristi, perché sentivamo che le cose stavano per cambiare, che stavamo crescendo e che quel viale non sarebbe più bastato. Io non sarei più bastata. Danilo sapeva anche che c’era un mondo di persone oltre me, e una volta mi confidò proprio che non capiva il motivo per cui andassi a trovarlo o tenessi così tanto a lui: non facevo parte né della sua famiglia, né degli adulti che accoglievano di più la sua diversità rispetto ai nostri coetanei.
 
Non capiva perché fossi così diversa. Io risposi che essere così presente nella sua vita era la dimostrazione che non era solo. In realtà, speravo molto nella sua guarigione: volevo aiutarlo a sconfiggere questo male, e, come accade nei films, nei libri, nelle favole, pensavo che c’è sempre un lieto fine. Con l’amore, con l’amicizia, c’è la forza. Insieme si può tutto. Non riuscivo proprio  a farmi una ragione del fatto che non avrebbe più camminato: era assurdo credere a questa prospettiva. Eravamo così piccoli… nove anni. Ero convinta che avremmo avuto molto tempo per rimediare alla malattia e un giorno avremmo camminato insieme, come accadeva sempre nei miei sogni.
 
Un giorno, finalmente, ebbi un’altra idea: chiamare tutti i compagni per poter uscire dal viale e portare Danilo a fare una passeggiata altrove; sarebbe stato così felice… Tutti insieme ce l’avremmo fatta a spingerlo per le salite e a frenarlo lungo le discese. Ricordo che quella sera ero eccitatissima al pensiero di raccontare questa bella trovata anche agli altri compagni. Neanche per un attimo mi ero immaginata le smorfie, le risate, le scuse banali che mi aspettavano l’indomani. Nessuno era disponibile per quel pomeriggio: alcuni avevano gli allenamenti, altre ginnastica artistica, altri avevano impegni con i genitori, altre ancora si erano organizzate tra loro per uscire “normalmente”.
 
Così ci ritrovammo di nuovo, soltanto io e Danilo, nel vialetto. Lui non sapeva niente, ovviamente: ma io non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di quell’uscita collettiva e della gioia che essa gli avrebbe portato. Dovevo continuare fino a riuscire a convincere tutti. Riprovai, riprovai e riprovai. Niente. Era strabiliante constatare quanto fossero impegnati bambini di appena dieci anni!
 
Mi si intrufolava sempre più spesso nella testa l’idea che mentissero: ma solo quando una mia compagna mi rivelò come stavano le cose, ne ebbi la certezza. Non solo inventavano scuse ma, tutti i miei compagni, iniziarono a scocciarsi dei miei continui inviti per la tanto sperata uscita collettiva. Per di più, la mia compagna mi consigliava di smetterla perché stavo diventando antipatica ad alcuni di loro.
 
Ricordo la delusione, la tristezza, la malinconia che mi assalirono. Ma, più di ogni altra emozione, ricordo la rabbia e il rancore che incominciai a portarmi dentro verso quelle persone, e da cui non mi sarei mai liberata.
 
Uno degli ultimi giorni che passammo insieme lo ricordo particolarmente bene. Eravamo abbastanza taciturni. Io sedevo sulle scalette al lato opposto del suo pianerottolo, e lui stava davanti a me. Non avrei frequentato la scuola media con lui, nel nostro paese. Avevo bisogno di cambiare, di scappare dal duro processo di crescita che mi stava assalendo pian piano.
 
Gli spiegai quanto mi dispiaceva e quanto non avrei permesso che i rapporti tra noi cambiassero. Mi sorrise e con voce ferma mi ringraziò per essere sua amica. Poi, pronunciò una frase che non scorderò mai: “Gli altri non mi capiscono, tu sì. Ecco perché sei così diversa. Un po’ come me”.
 
Quella frase mi spezzò il cuore. Percepii il suo senso di solitudine, e insieme la sua gratitudine. Bisogna esser grati a qualcuno che ci vuole bene perché il mondo ci ignora? E il motivo era solo una sedia su cui dover stare perennemente. Mi vergognai di essere “normale” come gli altri e mi si strinse un nodo in gola. Ora, più che mai volevo scappare. Le persone non erano buone, la malattia di Danilo peggiorava e forse dovevo iniziare ad accettare che non avremmo mai camminato insieme. Ma non lo accettavo.
 
Come ogni partenza, il mio cambiare scuola, luoghi, amici, vita, mi allontanò da tutto quello che era stata la mia infanzia. Compreso Danilo. Spesso volevo andare a trovarlo, come ai vecchi tempi, ma rimandavo: rimandavo per non ammettere che non ce l’avrei fatta a sopportare di trovarlo solo. In più di un’occasione comunque ci incontrammo, e, ogni volta, mi sentivo male. Sentivo come una fitta intensa, che ti stringe dentro. Lui peggiorava, perdeva anche l’agilità delle mani. Non potevo vederlo così. Non potevo accettare che le cose volgessero sempre al peggio. Pensavo che forse stavo sbagliando, che dovevo essere forte e andare come sempre da lui. Ma non ero forte. Avevo paura di verificare che si avvicinasse la fine. A volte mi sono odiata, credendo di star diventando come tutti quelli che avevo sempre detestato: una stronza, cinica, egoista e menefreghista. Ma, dentro di me, sapevo che non era così e  volevo che lui non pensasse questo di me, volevo che sapesse che l’affetto per lui era sempre rimasto vivo nella mia vita. Eppure non riuscivo proprio a trovare il momento giusto per vederlo come avrei voluto.
 
Ma il destino è imprevedibile e, pochi mesi orsono, dopo molto tempo, dopo anni, mi ha donato questa occasione. I compagni delle elementari hanno organizzato una cena per “ritrovarsi”, e sia io che Danilo ci siamo andati. Tra l’antipasto e la pizza, quasi tutti uscirono per fumare. Io, invece, parlai con lui, come non mi capitava da troppo tempo. Mi raccontò che era sereno, che aveva avuto buoni voti a scuola, e che amava la Roma più che mai. Era l’amico che ricordavo: stesso sorriso, stessa bontà, stesso sguardo. Non era cambiato niente tra noi. Bastava un attimo per tornare indietro nel tempo, nel nostro viale. In fondo, avevamo solo qualche anno di più, ma eravamo sempre noi, i bambini del vialetto, dei giochi inventati, protagonisti di un legame vero.
 
Al termine della serata lo guardai negli occhi e gli promisi che, questa volta, davvero sarei tornata a trovarlo: non avrei aspettato tanto tempo. Le cose belle sono rare e mi odiai per aver perso tutto quel tempo dietro inutili paure. Gli schioccai un bacio sulla guancia e, dopo che il papà lo caricò sul loro pulmino, lo vidi andar via.
 
Quel giorno, non sapevo che sarebbe stato l’ultimo. Non avrei avuto più tempo. Il 23 giugno (siamo nel 2009) Danilo è morto. Non so spiegare il mio stato d’animo quel giorno. Mi sentivo persa. Era come se una parte della mia vita e del mio cuore fosse volata via per sempre. Eppure lui era ancora lì, dentro la bara, nell’ospedale, ricoperto di accessori sportivi della sua Roma, ricoperto di lacrime e di fiori. Era ancora nella chiesa, davanti all’altare, al cospetto di un Dio misterioso e davanti a una platea che lo piangeva senza conoscerlo davvero. 
 
Volevo gridare, volevo correre finchè le gambe non mi avessero fatto male, volevo sferrare pugni al muro, volevo cacciare via tutti, volevo piangere. Non riuscii a fare niente. Mi limitai a trascinarmi tra le persone, nel corteo funebre, e a riprendere la mia vita da dove l’avevo interrotta quello stesso pomeriggio, quando aveva squillato il telefono e avevo saputo.
 
Nei giorni seguenti pensai solo a lui, con un senso di vuoto, con rimorsi, e mille domande. Non accettavo la sua morte. Ero tormentata da quello che era accaduto e avevo paura che quel senso di angoscia mi avrebbe accompagnato per molto altro tempo.
 
Invece, circa una settimana dopo, rividi improvvisamente Danilo. Era in piedi, vicino a me. Corremmo in riva al mare, ci rotolammo sul prato fiorito, galoppammo in sella alle nuvole, urlammo dalla cima di una montagna, ed eravamo felici come quando giocavamo nel viale.  Ora, poteva farlo! Mi resi conto che era anche più alto di me: cosa che non potevo notare quando era sulla carrozzella. Era magnifico, il mio sogno si era avverato.
 
Eppure, come d’un tratto, si infilò violentemente nella mia testa il ricordo del funerale, della sua morte, e mi sentii frastornata. Non poteva essere qui, con me, se era morto. Mi domandò cosa avessi, e gli dissi i miei pensieri. Il suo viso si illuminò di un sorriso buono, sincero: disse che mi aveva portato con sé per avverare i nostri sogni di tanti anni fa, perché ora poteva fare tutto, molto più di tutti, e ne era particolarmente soddisfatto. Poteva anche volare.
 
Io continuavo a non capire cosa stesse accadendo. Mi disse che non dovevo preoccuparmi. Mi prese la mano, mi portò davanti a casa sua e disse: “Ora sarò qui, per sempre. Non posso abbandonare la mia famiglia, devo proteggerli ed amarli come hanno sempre fatto con me. Ma, se avrai bisogno di me, sai dove trovarmi. Io per te ci sarò sempre e ti vorrò sempre bene. Sei stata una grande amica, non mi perderai mai”.
 
Continuavo  a non capire.
 
“Capirai. Ti chiedo solo un’ultima cosa: vai a trovare mia madre, raccontale delle nostre avventure, di come sto bene, di come continuo ad amarla anche se sono morto, di come sarò sempre accanto a lei, a papà, e a mia sorella. E un giorno cammineremo insieme”.
 
Entrò in casa, alzò il braccio, agitò velocemente la mano da dietro il vetro della porta, con il solito sorriso, e sparì. Io mi sentii trascinata vorticosamente nel vuoto. Lentamente mi ritrovai ad aprire gli occhi e mi sorpresi di essere a casa, nel letto, e nella realtà. Eppure non mi colpì un senso di delusione o di tristezza: mi invase una profonda sensazione di pace.
 
Forse è stato solo un sogno, come la maggior parte della gente potrebbe pensare. Ma a me piace credere che sia accaduto realmente un miracolo. Il senso di angoscia mi è svanito. Ora, so che Danilo è felice e questo basta a calmare l’egoismo di volerlo ancora in questa vita. So che la nostra amicizia non è finita. Certi legami non si piegano sotto la forza del tempo e del cambiamento. Restano vivi dentro, donando la speranza di ritrovarli, prima o poi.
 
Accadrà. Lo so. Lo sento. E, un giorno, cammineremo insieme.
 
                                                                             (Fonte: PremioPrato, da autrice anonima)
 

Cultura

IL MIO LIBRO, IL MIO REGNO

Ci sono libri e libri, naturalmente. Ci sono anche libri che meritano solo il cestino. Fatti per propaganda, o per fare soldi, o per altre povere ragioni. Ma i libri veri… quelli nei quali l’anima parla, il pensiero ricerca, la parola si approfondisce… Il mio libro è quello, il mio regno è quello.
 
 
Me lo trovo fra le mani. Lo tasto, lo strofino, e certe volte distrattamente lo maltratto o lo macchio col caffè.
 
Il mio libro.
 
Di questi tempi non ne posso a fare a meno, specie la sera, prima di prendere sonno. Le livre de chevet lo chiamano i francesi, il libro del cuscino, lì, sul comodino, fra mille cianfrusaglie utili per la sera e la notte, la tisana, gli occhiali, le pillole per la pressione; lui, il mio libro, è anche il mio amico e fra poco mi accompagnerà a prendere sonno.
 
Il libro di stasera non è la Bibbia e non è un libro religioso: è solo un libro di letteratura, magari di poesia o di racconti. Ma è sacro lo stesso; ogni libro ha la sua sacralità e coltiva la pretesa di essere il preferito.
 
Cos'è un libro, cos'è una scrittura?
 
Stasera mi viene in mente un'altra mia dimenticanza. Non ho mai ringraziato Iddio e la vita del grande regalo di leggere e di scrivere (e di poter andare a teatro o al cinema). Ma non è mai tardi.
 
Torno alla sinagoga di Nazareth e quasi mi ci trovo bene. Non perché quella gente mi stia simpatica; ci torno solo per contemplare Lui. Guardalo, sta leggendo. L'unica volta nel vangelo: Gesù chiede di leggere, gli piace leggere, è importante leggere, è meraviglioso leggere.
 
Dici scrittura e pensi a un'idea che non va persa. La parola, invece, appena fuori dai denti si alza e si sperde. La scrittura fu il passo decisivo verso la civiltà: i caratteri, gli ideogrammi, gli alfabeti, le grafiche, le tecniche, ne segneranno la strada.
 
Le mie idee: appena scritte posso vederle vivere e muoversi e torcersi come fossero i personaggi di una mia commedia. Le mie fantasie: non solo prendono il tono dalla mia voce ma ora addirittura le tasto e le afferro. E mi commuovo due volte.
 
La scrittura: due segni, due ghirigori, un geroglifico, e la pagina si anima e suona.
 
Che miracolo, la scrittura. I pensieri del mio cervello sono lì ora, impressi, chiari, evidenti, sotto gli occhi di tutti. È come se la mia testa si fosse spaccata e quei sogni fossero colati giù lungo le mie braccia e, fra dita, penne e tastiera si piantassero belli, neri o colorati, sul foglio.
 
Ma non ti sembra la creazione di un dio? Guardale, le mie speranze e le mie proteste,  come brillano e sgusciano fra i margini e gli spazi: eccole lì, grandi, piccole, in grassetto, in corsivo. I miei pensieri, appena concepiti e nati, pluff, ora scorrono vivi su una pagina, liberi di andare, piacere, annoiare, far arrabbiare, oppure dritti dritti al cestino. Se poi cascano sul video basta un niente e… clic, posta indesiderata, finito.
 
Il mio libro stasera è un classico e lo riprendo in mano dopo anni, ma appena mi stancherò ci farò l'orecchietta, ci metterò una cartolina o un santino e ci tornerò domani.
 
Il mio libro. Nato chissà quando, da quali amori e delusioni, entusiasmi o ricordi: chissà. Ora è qui, la sua vita è con me e mi si infila dentro e resto col dito fra copertina e ultimo foglio, sorpreso e sospeso.
 
Col mio libro ci parlo, lo strazio di segni, di chiose e postille, come un vecchio amanuense. Col mio libro mi fermo, ci sto, e domani in pizzeria ne parleremo: con lui o con lei il mio libro circolerà e nascerà in altre teste e in anime diverse.
 
Comunicare, intermediare, trasmettere. I media. Gli inchiostri, i fili di rame, le fibre ottiche, tutto, senza demonizzare niente, appena mi serve e ne ho voglia lo uso; se no, smetto. Testi e libri, scritture e giornali: tutte le invenzioni di ieri e di oggi. Tutto, pur di mediare o stringere l'umanità e radunarla e (se ci si fa) impedirle di combattersi e distruggersi. Stampa o kindle o mail o social network, come, quando, dove, non importa, oggi catturano, prendono ed eccitano miliardi di uomini e donne. Si scrive, si legge ,si pensa, si crede, si rifiuta.
 
La biblioteca di Alessandria nel II secolo avanti Cristo: anche la Bibbia ebraica tradotta nel greco koinè. Oggi Amazon, Google, Apple, già milioni di libri in archivio. L'universo che non vuole soffocare nell'ignoranza e nella depressione. Distruggere una biblioteca, come a Timbuctu, è un genocidio.
 
Parlare è vivere, leggere e scrivere è il piacere di vivere.
 
Le religioni furono fra le prime a capirlo. Non bastavano più scuole e maestri per poi mandare a memoria saghe e racconti. Per bocca, si sa, tutto vola e domani… chi se ne ricorda? Nascono le scritture, la religione si organizza e fa suo, tramanda e custodisce, copia, trasmette, inventa, costruisce da capo. Una specie di eternità fra umani. Finché conserveremo quei testi Iddio ci parlerà e ne sentiremo gli accenti e ne godremo le pause e le sue melodie ci daranno conforto. Le scritture diventano l'asse portante della religione. Se ci distruggessero il tempio, se mandassero a fuoco sinagoghe, chiese e moschee, avanti ancora. Le scritture saranno il nostro tempio mobile.
 
Il momento delle sacre scritture: il lettore si avvicina al leggio e io tremo di attesa. Fra poco aprirà il grande libro, Gesù svolgerà il rotolo e piano piano la voce dell'antico profeta sbatterà fra le pareti del mio cervello. Alla fine risponderò amen anche se, come sempre, la lettura mi troverà incerto, balbettante e pieno di distrazioni. Poi mi riprenderò e penserò: “La scrittura ha riportato qui il profeta, come se fossi vissuto al suo tempo”.
 
Che genesi, amico mio, che creazione, la scrittura, la lettura e l'ascolto. Non ho più fiato e lacrime per dire grazie.
 
Poi certo la scrittura, come a far rima, mette paura. Perché, vuoi sapere? Ma è chiaro, perché rende liberi e crea e costruisce gli uomini liberi. Nessun potere ama scrittori, poeti,  compositori e giornalisti. Nessuno. Scrivendo e leggendo si fa opinione, si allarga il dissenso, si abbattono i recinti e le censure. Difatti: guarda come va a finire qui a Nazareth: lo prendono a calci, lo spingono, lo trascinano fuori, lo cacciano. Per miracolo Gesù si svincola e scappa. Sempre così.
 
Quella mattina del 1600, in pieno anno santo, così trascinavano Bruno a Campo de’ fiori. Gli avevano messo la mordacchia, una specie di pettine di ferro che gli serrava le labbra perché finalmente smettesse di proclamare le sue idee. Ma quelle erano già libere e vive perché scritte, stampate, e tutta Europa le conosceva e le discuteva da tempo. I nazisti con il rogo di libri e dipinti non riuscirono a distruggere il teatro di Brecht e di Kurt Weill, la musica di Alban Berg e dei cabaret di Berlino, l'espressionismo e la Bauhaus.  Così Stalin con Shostakovic e Prokoviev.
 
La stampa, la fotografia, il cinema, salveranno la libertà.
 
Il mio libro, il mio regno.
 
Come Il profeta Ezechiele vorrei quasi mangiarlo, il mio libro.
 
Sarebbe troppo?
 
Ora è tardi e lo poso sul comodino. A domani.
 
                                                                               (Viscardo Lauro)
         
 
 

Questo sito

CI SIAMO SEMPRE, CI SIAMO MEGLIO

Nato molti anni orsono come semplice Letteraperta periodica riservata a un indirizzario ampio ma pur sempre selezionato di amici ed esperti, ed attraversata anche una breve stagione come semplice blog, Studisociali diventa ora un sito. Ci hanno chiesto in molti, e da tempo, questo cambiamento, per consentire al nostro Circolodelmeglio, autentica comunità di studio, formazione e impegno civile, una continuità più intensa di presenza, una partecipazione più vasta di persone sensibili alle tematiche trattate, un’articolazione più ricca di contenuti.  
 
Nasce dunque il sito, ma restano confermate le caratteristiche ispiratrici con le quali la piccola testata venne pensata: l’attenzione viva alla qualità dei contenuti e dei linguaggi (la parola, ogni parola, ha valore e peso intrascurabile), la partecipazione diffusa a quanti desiderino esprimere il loro pensiero, anche critico o criticissimo, l’orizzonte totale sulla esperienza umana, l’orientamento esplicito a quell’umanesimo plenario che fu preoccupazione costante del papa Paolo VI, una sensibilità particolarmente accentuata per i temi del lavoro, della cultura, della formazione, della politica, della spiritualità, temi, tutti, attorno ai quali si svolge la sfida permanente del cammino verso una “civiltà a misura di persona e di comunità”.
 
All’apertura dialogante verso tutti gli apporti costruttivi, aggiungiamo qui un esplicito invito alla partecipazione più intensa non solo quanto a dibattito sui contenuti ma anche quanto a proposta permanente per ogni possibile miglioramento del sito stesso, il quale vuol vivere in chiave di vera casa comune e autentico circolo del meglio per la condivisione del nostro impegno civile e sociale e per la costruzione progressiva di un’autentica democraziacooperativa.
 
Per chiarezza piena, sottolineiamo che “Studisociali” ha come terminazione di identità informatica il “punto org”, distinguendosi pertanto da una testata con lo stesso nome ma con terminazione “punto it”, e da altre con diversa terminazione che dovessero sorgere: abbiamo rilevato infatti, all’atto di registrare questo nostro sito, che un soggetto da noi non conosciuto ha già provveduto a registrare lo stesso nome senza avvisarcene, nonostante che da molti anni noi lo pubblicassimo. Ci sembra, questa, un’avvertenza doverosa in quanto non intendiamo confondere la nostra precisa impostazione con altre culturalmente o valorialmente diverse. E’ semplicemente un problema di onesta identità.

 
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Politica e Società

LE RADICI PROFONDE NON GELANO

Non stupitevi se questo numero di Studisociali “apre”, subito dopo la presentazione del sito, con una riflessione che è in realtà la lettera affettuosa e personale inviataci da un vecchio amico di lontani anni sindacali, con il quale condividevamo molto più di quanto ci dicessimo esplicitamente, e con il quale questo lungo trascorrere di anni ha fatto lievitare una bella consapevolezza di amicizia anche senza montagne di parole, rese impossibili, del resto, dal fatto che, a un certo punto, ci siamo semplicemente quasi persi di vista. Quella offerta a me ed a tutti voi da Enrico è riflessione profonda e utile di vita, tanto che… gli perdoniamo volentieri persino quell’arretrato “Facebook” che lui si ostina a scrivere come erroneamente glielo hanno insegnato, ma che sa benissimo doversi scrivere “Feisbuc”. C’è tempo per adeguarsi!...
La riflessione di Enrico prende le mosse dal fatto che l’ultima edizione di Studisociali in formato di Letteraperta dava rilievo all’analisi del lungo e complesso movimento teso a far riemergere nel panorama della politica italiana un impegno organizzato dei cattolici attorno alla eredità del pensiero e della testimonianza di Sturzo, De Gasperi, Moro e gli altri “padri” della grande politica di ispirazione cristiana in Italia.
 
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Caro Giuseppe,
mi sono letto il fascicolo di StudiSociali inviatomi, di cui non conoscevo l’esistenza. Non sapevo nemmeno che in alcune persone “ad alti livelli” albergasse ancora una genuina visione della Democrazia Cristiana.
Ho trovato nel tuo scritto valutazioni e modi di pensare che mi appartengono e mi sollecitano un intervento che restituisca continuità ad un dialogo interrotto dal tempo e dalla distanza.
Un altro stimolo mi è stato dato involontariamente da mio nipote, tecnico chimico, che da qualche anno ha interrato nel praticello  di casa alcune piante di luppolo e si diletta, avendone le capacità, a farsi la birra in casa. Due giorni fa ha postato su Facebook (so che non gradisci questo modo di scrivere ma non ne conosco altro), una fotografia delle stesse con la seguente frase “Puntuale come sempre, le radici profonde non gelano”. Quando scriveva queste parole qui da noi era ancora inverno.
Un’ulteriore motivazione per scriverti la trovo nella necessità di mettere un pò di ordine negli archivi della memoria che da tempo erano ricoperti di polvere e ragnatele. Nella necessità dello scrivere si ricuperano gli appunti dormienti. E così, per appunti, mi presento e, sempre per appunti, tocco vari argomenti che ho trovato nei tuoi scritti. Utilizzo questo doppio binario immaginando di facilitarti la comprensione.
Sono nato nel 1950, famiglia operaia, ambiente contadino, allora oltre i duemila abitanti, oggi milleduecento, clima di paese (Frascarolo), pressoché inalterato nel tempo. Ho frequentato le scuole elementari nel paese, successivamente quattro anni di collegio (coi preti) a studiare in una scuola professionale di Voghera per acquisire il diplomino di “Elettricista Provetto”; terminata la scuola, assunzione all’Enel a Biella, all’età di 16 anni. In tale azienda, pur con ruoli e mansioni diverse, sono rimasto fino al raggiungimento della pensione, arrivata nel 2006. Nell’intervallo di tempo tra i 16 ed i 56 anni, all’età di 22 anni mi sono sposato ed a 23 sono diventato padre, ho vissuto ad Alessandria, ho girato per tutto il Piemonte, ed oggi sono nonno di una nipotina e sono tornato a vivere nella casa natia. Ancora un’annotazione riguarda la scelta di vita familiare che, anche indirizzata da alcune vicissitudini, è sempre stata vissuta a mono-reddito, ed oggi a mono-pensione.
In questo mio citarmi (non mi piace, ma serve a far comprendere) devo dire che mai mi sono estraniato dal sociale e dal politico. In giovane età, chierichetto, oratorio, azione cattolica, gruppo giovani ecc.. fino all’ iscrizione al sindacato Cisl avvenuta il primo giorno successivo al termine del periodo di prova (tre mesi) relativo all’assunzione, e cioè il primo ottobre del 1966. Da quella data iniziai ad operare nel sindacato in ruoli prevalentemente territoriali fino al 2005, data di cessazione dal lavoro.
In quel periodo della nostra storia italiana nelle famiglie era opinione comune che “ti devi guadagnare il pane che mangi” sia per necessità di ordine economico che per scelta etica di vita. Ed “il pane che mangi” te lo guadagni con il lavoro ed, avendone la facoltà e la possibilità, con lo studio proficuo. Esulavano da questa regola due categorie: la prima era quella di chi poteva permettersi di “vivere di rendita” e quindi far lavorare gli altri, la seconda era quella dei “lavativi” che snobbavano il lavoro e lo studio. Talvolta le due categorie si identificavano.
Di quel periodo una cosa che ho sperimentato nei primi giorni di assunzione mi è sempre rimasta viva in memoria. Presentandomi, ragazzino educato, a lavorare ed a piantar pali con personale più anziano proveniente dalle imprese elettriche che confluirono in Enel mi fu chiesto: “Chi sei, quanti anni hai?” ed io estrassi il documento di identità. “No, no, quello non conta niente, fammi vedere il libretto di lavoro. Quello conta, quella è la tua identità”. In quel comune sentire, io ritrovo il primo articolo della nostra Costituzione. In quella frase, pronunciata in maniera anche un po’ rozza, c’è tutto il valore e la dignità che i Padri Costituenti hanno attribuito al fattore lavoro. Credo, venendo all’oggi, che occorra fare un passo in più. Il lavoro non è merce di scambio della produzione. Attraverso il lavoro (di qualsiasi forma lo si intenda) la persona realizza se stessa ed il guadagno che ne deriva sotto tutti i punti di vista, anche economici, soddisfa i bisogni per sè, per la propria famiglia e per lo Stato nel quale opera. Occorre attribuire sul piano culturale al lavoro “un anima”. E’ coinvolto non l’individuo ma l’intera persona, la propria famiglia, la propria comunità.
Crescendo in età, vivendo in Alessandria, ed avendo responsabilità di famiglia, ritenendo non sufficiente l’impegno sindacale, essendo attratto dalla dottrina sociale della Chiesa e dagli ideali dei padri fondatori, nel 1973 mi iscrissi alla DC alessandrina con lo scopo di praticare con altri una militanza politica che desse consistenza pratica alle idee che mi frullavano in testa. Un disastro. Durò tre anni e, nell’interpretazione  che devo dare di quel periodo, mi limito a dire che la distanza tra i valori e gli ideali enunciati e la pratica quotidiana e relazionale all’interno del partito era abissale, incolmabile e non priva di vigliaccherie e opportunismi sfrenati. Il mio impegno nel partito e nei partiti iniziò e finì lì.
La negativa sorpresa non mi trovò impreparato. Tempo prima, pur con la dovuta qualità distintiva, avevo vissuto negli ambienti cattolici un’analoga situazione. Ci si trovava, si discuteva, si progettava, il tutto però sotto obbedienza vescovile, anche nel pensiero e, se un progetto non sfagiolava l’autorità di turno, chi voleva comunque realizzarlo era eretico e marginalizzato. Una cosa in particolare mi è sempre rimasta indigesta e lo è tutt’ora. La non trasposizione di quanto detto in pratica vissuta ed in norme che siano conseguenti agli ideali in cui uno crede e vive.
Nel sindacato, seppur con incapacità e difficoltà, sono riuscito ha vivere un ideale, e cioè a trasferire in norma condivisa i bisogni di quei lavoratori che in quel momento rappresentavo.
Ecco, io credo che la politica ed il governo della politica debba tendere, attuando la Costituzione, ad emanare norme e leggi che agevolino lo sviluppo di un pensiero partecipativo ai beni comuni e non solo un pensiero produttivo di leggi e leggine che soddisfino le “lobby” ed i loro emissari.
A tal proposito mi sovviene di pensare a ciò che nel tuo documento viene richiamato a proposito della partecipazione femminile. La vita, quella vera, nella quale ognuno di noi è coinvolto e che oggi nel pianeta interessa quasi 8 miliardi di persone, ci è stata trasmessa dall’unione di un uomo e una donna, possibilmente, marito e moglie e comunque Padre e Madre. Attraverso questa unione, nel seno della madre abbiamo preso vita e solo dopo, quando ne siamo usciti, sono iniziate le differenze, di eredità, di sesso, di colore della pelle, di ambiente, di cultura, di stato sociale,di tradizioni ecc.
Ovvero tutte le differenze che conosciamo e che in parti più o meno ampie interessano otto miliardi di persone le abbiamo acquisite e successivamente vissute in modi diversi e personali influenzati dalle stesse differenze. Forse non abbiamo ancora ben presente che la vita diventa tale solo attraverso la “generazione” e non la “produzione”. Il genere umano non è frutto di un prodotto. Il prodotto è sterile, è fine a se stesso. Non genera vita. La legge, fine a se stessa, se non applicata nella condivisione è sterile, produce  morte. Generare vita e persone consapevoli e corresponsabili gli uni per gli altri. Ecco, un pensiero alto, da questo punto di vista, che riguarda le donne ma anche gli uomini. Occorrerebbe rielaborarlo.
Nel merito della relazione al congresso nazionale Dc del novembre 2012, da te riprodotta, ho ritrovato molto di me. Pur con una soggettività diversa per storia e cultura ho ritrovato molti stimoli che mi hanno accompagnato nel lavoro sindacale sia in Federazione che in Confederazione e pertanto non posso che apprezzarla.
Sul simbolo dello scudocrociato. Attribuisco molta importanza ai simboli, l’umanità per millenni si è riconosciuta e ritrovata attraverso alcuni simboli. Essi tutt’ora aggregano e motivano imponenti masse senza che le stesse siano in grado di comprenderne a fondo il significato. Il simbolo in quanto tale è proprietà collettiva. Non può essere posseduto. Esso rappresenta valori condivisi che appartengono alle persone e non alla struttura. La struttura può legittimamente lottare per il bene dell’immagine ma, a differenza del marchio di fabbrica, se non viene più percepito per i valori per i quali è nato finisce di avere efficacia. Occorre trovare un simbolo che richiamandosi alla tradizione cristiana nel sociale riesca ad essere percepito da giovani e non più giovani come radice del nostro operare.
Sulle tematiche di merito. Oggi, più che nel passato, ci troviamo in una società che io chiamo la “società dei desideri indotti”. Siamo portati a desiderare tantissime cose, dalla giustizia sociale alla pace al benessere alla tutela del privato, al lavoro per tutti, alla dignità delle persone, ad un governo capace e rappresentativo, ecc. Desideriamo ma non realizziamo. Nei tempi passati, con il contributo determinante dei cattolici in politica, di realizzazioni importanti per il nostro Paese ne sono state fatte moltissime nei più disparati settori, sociale, culturale, industriale, agrario, che ben vengono ricordate in relazione. Ora, probabilmente, per la diaspora cattolica in politica tutto sembra fermo. Convengo su questa prima valutazione ma, per come sono fatto, non mi basta e quindi cerco con alcuni esempi di focalizzare il mio pensiero.
Esempio 1. Anni fa, (credo ne siano trascorsi una trentina) Benetton, prima di altri applicò nel processo produttivo e distributivo dei propri prodotti il Just In Time (e qui mi tiri un altro accidente per via dell’inglese). Una filosofia industriale di derivazione giapponese che ha invertito il vecchio metodo di produzione. Appena in tempo, si fa quanto richiesto dal cliente, si eliminano i tempi morti e le scorte, il tutto in un tempo estremamente ridotto e dettato dalle richieste. Il tutto con una campagna promozionale a tratti scioccante ma ben dosata. Da quel momento, in Italia si iniziò non più a pubblicizzare un prodotto ma, utilizzando informazioni di quell’epoca, ad influire preventivamente sui desideri sociali e personali.
Esempio 2. Oggi siamo informati che nella campagna elettorale americana una azienda che analizza i dati di tutti gli utenti di Facebook ha prelevato (probabilmente con il consenso) da 50 milioni di server qualche miliardo di dati sensibili (desideri e aspettative si possono individuare facilmente analizzando i dati di trasmissione) e con tali dati è stata calibrata la campagna elettorale tra provocazioni delle aspettative, ambiente di riferimento e soluzione dei desideri. Da noi, in Italia, tale processo è stato applicato in maniera massiccia dai gestori dei 5 stelle ed i risultati ottenuti ne confermano l’efficacia. Le persone, in massa, senza che vi sia alcuna concreta possibilità di realizzazione delle promesse elettorali (specificatamente il sud d’Italia) hanno approvato. Lo scopo di tali tecniche di formazione e disinformazione non è quello di orientare le persone attraverso la partecipazione alla soluzione dei problemi, bensì quello di orientarli a scegliere una scatola chiusa inducendo la certezza che solo dentro a quella scatola esistono le soluzioni.
Esempio 3. Questo mi preme ancor più degli altri. Nel 2001 dovendo preparare una relazioncina congressuale sindacale dovetti imbattermi oltre che sui temi di carattere generale (Lavoro, Europa, Stato sociale ecc.), anche su quelli che venivano definiti “i capitali senza volto” che già mordevano negli ambienti di lavoro spostando l’attività e l’economia da industriale a finanziaria. Già allora le aziende ed i posti di lavoro godevano di interesse se realizzavano profitti finanziari attraverso la produzione di beni e servizi, altrimenti semplicemente chiudevano. Le lotte e la sopravvivenza del lavoro esulava dall’azienda, ci si spostava massicciamente nel mercato finanziario e questo non era più contrattualizzabile. I passaggi ulteriori hanno fatto saltare il rapporto tra produzione e distribuzione di beni materiali ed immateriali. La “retribuzione” non era più legata al prodotto ma assumeva valore solo ciò che nell’immaginario aggregava. Anche perché nell’immaginario collettivo si riusciva ad influire agevolmente (pensiamo agli oltre 200 milioni di euro per avere un giocatore nella squadra del Paris Saint Germain...).
La “dottrina della crescita” basata su un’efficace ed efficiente produzione di beni e servizi e distribuzione o re-distribuzione dei profitti e del reddito è saltata. Oggi con la possibilità di monitorare il pianeta e di immagazzinare miliardi di informazioni e di disporre di migliaia di miliardi di capitali gestiti privatamente da singoli soggetti o piccoli gruppi, in totale autonomia di qualsiasi scelta politica in una frazione di secondo, pigiando su alcuni tasti si definiscono le vite delle aziende e le vite delle popolazioni di intere nazioni. Credo che sia giunto il tempo, anche sul piano culturale, di chiamare questi accumuli finanziari con il nome che a loro compete: questa non è ricchezza, ancorchè ridotta a pochi soggetti. Questa è “usura” e come tale agisce e va combattuta a viso aperto.
Ultima annotazione: la struttura e la forma del partito deve essere funzionale alla propria essenza in modo che essa stessa diventi elemento generativo di partecipazione, consenso e responsabilità. C’è nella documentazione un richiamo forte al concetto di Comunità; lo approvo, ma anche qui vado oltre. Abbiamo per troppo tempo immaginato che bastasse dire Comunità per capire di cosa stavamo parlando. Un certo tipo di comunità, piaccia o non piaccia, è il risultato che si ottiene se si pratica la “condivisione”, diversamente la comunità è data dalle persone che a tale comunità nazionale appartengono. Insomma, è la condivisione che fa comunità e non la comunità che fa condivisione. Per cui sarebbe opportuno approfondire in termini culturali sociali, etici, economici e politici il profondo significato di “Condivisione politica” intendendo per “Politica” l’arte e l’etica di governo di una nazione.

Caro Giuseppe, la chiudo qui. Era dai tempi della Flaei che con te non avevo più avuto modo di scambiare qualche pensiero e sembra ieri, ma sono già trascorsi tredici anni. L’ho fatta un po’ lunga ma per farmi perdonare ti allego la foto di in icona che mi è particolarmente cara.
Un Abbraccio
Enrico Forti

 


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Europa

L’UNIONE EUROPEA ALLA PROVA DEI NUOVI EQUILIBRI INTERNAZIONALI

Dopo quanto è successo in Canada alla riunione del G8 (8 e 9 Giugno 2018), con il documento finale, prima sottoscritto e poi ripudiato da Donald Trump, riappare lo spettro di una guerra commerciale tra USA e resto del mondo, con particolare riferimento all’UE,  e lo scenario della geopolitica internazionale sembra stravolto.
 
Trump con il suo cambio di strategia apre un contenzioso forte con l’Europa e sembra affermare la volontà degli USA di sostituire al G8 una triade USA-Cina-Russia, con l’Europa ridotta ad un ruolo laterale e marginale. Tutto ciò costituisce elemento di una necessaria non rinviabile riflessione in previsione del rinnovo del prossimo parlamento europeo.
 
Le difficoltà operative nella governance dell’Unione europea, anche a seguito della Brexit, con le sue conseguenze tuttora in fase di complessa risoluzione; i contrasti con i Paese di Visegrad e tra i Paesi del Nord e quelli mediterranei, non solo in materia di politiche di governo dei flussi migratori, si aggiungono a quelli più ampi della geopolitica internazionale, in conseguenza dei nuovi equilibri che l’annunciata “guerra doganale” con gli USA sembra determinare.
 
L’instabilità politica della Germania, dove si sta consumando la lunga stagione dell’egemonia di frau Merkel, le difficoltà in cui si dibatte Macron in Francia, dopo e nonostante  l’ottimo risultato elettorale delle presidenziali, il trionfo dei partiti sovranisti in Austria, Ungheria e la stessa recente formazione del governo italiano giallo-verde; l’avvio del quarto round della Brexit, che si sta dimostrando assai più complicato rispetto alle premesse, con riflessi contraddittori anche all’interno della stessa politica del Regno Unito, sono tutti elementi  che caratterizzano l’attuale difficoltà nel processo di costruzione e sviluppo dell’Unione europea.
 
Come è noto,  marzo del 2019 è la data fissata per la definitiva uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Al riguardo va tenuto presente che, in assenza di un accordo e nel caso  di “un’uscita disordinata”,  il Regno Unito dovrebbe operare secondo le regole del WTO, con la sequela di controlli doganali e tariffe da esse prescritte. A Londra già si teme per la scarsità di prodotti di vario genere e conseguenze sul piano della stabilità dei prezzi e nella disponibilità anche su prodotti di prima necessità.
 
Con l’uscita della Gran Bretagna si è riaperto, com’ è noto, il confronto acceso tra i 27 Paesi UE per decidere la definitiva allocazione delle sedi di EMA (Agenzia del farmaco), dopo il no alla proposta dell’Italia per Milano, e dell’Eba ( Autorità Bancaria) per la quale la Germania rivendicava la sede di Francoforte, dove già è allocata quella della Bce.
 
 Per l’Ema, la sede vinta per sorteggio da Amsterdam, dopo i ricorsi respinti dell’Italia e della città di Milano, a tutt’oggi non è ancora in costruzione e l’edificio temporaneo che dovrà ospitare l’Ema nei primi mesi del 2019, quando avverrà il trasferimento, non sarà in grado di ospitare l’intero staff dell’agenzia (si parla di circa 900 dipendenti). L’Eba alla fine, anch’essa per sorteggio, è toccata alla Francia e sarà ubicata  a Parigi la sede della prestigiosa autorità bancaria europea, a riconferma del ruolo dominante di Germania e Francia ( la “ Framania”) nell’Unione europea.
 
Con l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, d’altra parte, non è ancora ben chiaro il destino dell’Unione europea. Il Libro Bianco sul futuro dell’Europa mostra, infatti, cinque scenari diversi da qui al 2025: mantenimento dello status quo; semplice mercato unico; unità europea nella politica estera;  Europa a due  velocità; governance della politica dell’immigrazione col superamento del trattato di Dublino e politica comune della difesa.
 
Sul fronte dell’area Euro, infine, emerge l’ipotesi di un ministro delle Finanze unico della zona euro e la trasformazione dell’Esm, il meccanismo di stabilità, in un Fondo monetario europeo. Tema particolarmente arduo e delicato il completamento dell’unione bancaria con un sistema di garanzia unico per i depositi, prospettiva mal digerita e osteggiata sin qui dalla Germania.
 
La prossima riunione del Consiglio  dei ministri dell’UE per la definizione del bilancio comunitario e la riduzione graduale sino all’annullamento del Quantitative Easing, sono i passaggi a breve più delicati cui dovrà far fronte l’Unione europea. L’Italia, con la nuova maggioranza di governo, si appresta a richiedere per l’ennesima volta uno sconto sul deficit, al fine di garantirsi una maggiore disponibilità sui conti pubblici e margini di investimento per il rilancio dell’occupazione. Tutto dipenderà dalle scelte che sul Def in corso di definizione, il governo italiano sarà in grado di mettere in mostra rispetto alle attese dei partner europei.
 
Se questi  sono i temi più urgenti della prossima agenda europea, non vanno dimenticati quelli più strettamente politici connessi alla deriva politica dell’ Europa verso la destra radicale che accompagna la crisi profonda dei partiti tradizionali, gli assi portanti sin qui del parlamento europeo: Ppe e Spd, una crisi che sembra inarrestabile.
 
In un prossimo articolo cercherò di esaminare due temi a mio avviso essenziali per proporre una seria proposta riformatrice di ispirazione popolare ed europeista secondo i principi dei padri fondatori: Adenauer, De Gasperi e Schuman.
 
Il primo è quello del rapporto da rinegoziare nei trattati, al fine di superare i conflitti rivelatisi insanabili con la nostra Costituzione, specie quando, come nel caso del fiscal compact, quella decisione, nettamente in contrasto con gli stessi trattati liberamente sottoscritti, è stata il frutto di un regolamento di grado normativo inferiore ai trattati, redatto da euro-burocrati, con l’avallo irresponsabile anche di nostri autorevoli esponenti di governo. Fatto quest’ultimo ampiamente dimostrato dai saggi del prof Giuseppe Guarino, ahimè, sin qui  volutamente e colpevolmente misconosciuti.
 
Il secondo è il tema della sovranità monetaria che, nei modi  in cui si è sin qui realizzata a livello dell’Unione e in quasi tutti i Paesi componenti della stessa, con il controllo de facto della Bce e delle banche centrali dei diversi Paesi da parte degli edge funds anglo caucasici (kazari), riduce la “sovranità popolare” a  un ectoplasma senza sostanza; con le politiche economiche prone al dominio degli interessi dei poteri finanziari, che subordinano ad essi tanto l’economia reale che la politica. In sostanza, annullano de facto la democrazia e le fondamenta stesse su cui si regge il nostro patto costituzionale.

 
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Politica e interessi collettivi

DOBBIAMO ANCORA DARE RETTA ALLA BANCA D’ITALIA?

Quest’anno la tradizionale relazione della Banca d’Italia è caduta sotto silenzio per la coincidenza con una situazione di grave crisi politica. Eppure si tratta di una voce autorevole in grado di fornire alcuni punti fermi nella transizione in atto.

La constatazione da cui partire è che l’Italia da un quarto di secolo ha perso il passo dei principali paesi europei. Una bassa crescita economica, una elevata disoccupazione (soprattutto giovanile), nuove sacche di povertà. La causa va individuata nel prolungato ristagno della produttività, l’indicatore che misura la capacità di innovazione del sistema produttivo e dell’intera società. All’origine di questo ristagno ci sono i noti ritardi strutturali (pubblica amministrazione, giustizia, infrastrutture materiali ed immateriali) resistenti ad ogni riforma perché i grumi di interessi a loro difesa sono più forti della stessa politica.

La politica è così venuta meno all’obiettivo di accrescere il reddito ed il benessere dei cittadini, penalizzando le fasce più deboli della popolazione. Questa insoddisfazione ha portato al governo due movimenti politici (Lega, 5 Stelle) premiati da una offerta elettorale quanto mai generosa che ora dovrà fare i conti con quanto il paese può realmente permettersi in funzione delle risorse economiche attivabili e con quanto consentito dal sistema di alleanze in cui è collocato, a livello europeo ed internazionale.

Due sono i punti fermi forniti dalla relazione della Banca d’Italia che meritano di essere tenuti presenti.

Il primo è rivolto soprattutto alla nuova classe di governo: il destino dell’Italia è il destino europeo. Certo l’Unione Europea deve rivedere i suoi strumenti di intervento e crearne di nuovi perché, come avvenuto con la nascita degli stati nazionali, la sua sovranità sarà legittimata quando i suoi cittadini si riconosceranno in interessi comuni. Un obiettivo di non breve periodo che richiederà correzioni di percorso ma è illusorio pensare che un solo Paese possa raddrizzare con l’ascia il legno storto su cui si regge l’attuale Unione Europea. Non c’è alternativa ad un paziente lavoro di lima con cui risaldare quanto ci unisce e risagomare quanto ci divide.

Il secondo punto fermo è rivolto alla classe politica e alle parti sociali. Riguarda il nodo vizioso che lega bassa produttività-bassa qualità del capitale umano. Siamo di fronte alle nuove sfide dell’economia digitale, una opportunità da non perdere per recuperare capacità di crescita. I problemi che si pongono sono  tanti: ricapitalizzare il lavoro dal lato delle competenze, rivitalizzare le istituzioni preposte al funzionamento del mercato del lavoro, riorientare la contrattazione collettiva verso un condiviso recupero di produttività, reinserire l’economia dei lavoretti gestiti dalle nuove piattaforme tecnologiche nel sistema di welfare e del diritto del lavoro, tutelare socialmente quanti scartati o sostituiti dai robot.

 Difficile sarà far capire alle nuove forze di governo, portatrici di una concezione totalizzante del potere, che la politica in tali campi dovrà fare i conti con le parti sociali che godono di autonome prerogative sottratte all’autorità dello Stato. Così come sarà difficile richiedere alle parti sociali una riconsiderazione delle loro strategie di tutela degli interessi rappresentati da riposizionare nella nuova economia digitale. Tenendo anche conto che la natura flessibile, articolata delle nuove tecnologie richiederà la ricerca di nuovi equilibri fra i meccanismi regolativi centralizzati ed i restanti strumenti di regolazione che fanno capo alle istituzioni locali.

La Banca d’Italia, al di là del suo mandato, è una risorsa per l’intero paese, soprattutto in un momento come questo nel quale le promesse elettorali devono essere trasformate in priorità di governo, con un contestuale riposizionamento dei diversi interessi collettivi che fanno parte della realtà economica e sociale del Paese. La percezione diffusa dello stallo in cui ci troviamo esige che il cambiamento tanto evocato non affondi di nuovo nel pantano. Anche perché non c’è in vista nessun Barone di Münchausen con la capacità di uscirne con le proprie forze. Meglio così perché il paese ha bisogno di realismo, non di ulteriore illusionismo.

 
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Fiabe

LA CASA AL LIMITARE DEL BOSCO

Fiabe
 
LA CASA AL LIMITARE DEL BOSCO
 
In una mattina come tante, in un piccolo centro, mentre la vita riprendeva il suo ritmo, si vide arrivare dalla via principale uno straniero in groppa al suo cavallo. L’uomo decise di sostare in quel paese e si avviò dunque verso per il mercato.
- Chi sei, straniero? Cosa ti porta qui?
domandò il panettiere.
- Sono un viaggiatore. Visito centri abitati, valli, boschi.
- Perché mai fai questo?
domandò la lavandaia.
- Voglio scoprire il mondo.
Intervenne un vecchio che era seduto lì vicino.
- Il mondo è tutto uguale, cosa vai a cercare? Gli uomini invece hanno caratteristiche differenti, tante personalità.
- Cosa intendi?
chiese il giovane viaggiatore.
- Intendo che viaggiando ti imbatterai negli stessi alberi, negli stessi boschi, negli stessi castelli negli stessi borghi. Negli uomini, invece, troverai diversità.
- Vorrei davvero conoscere persone diverse, fuori dal comune. Come posso fare?
chiese allora il giovane.
- Va’ al limitare del bosco, vi è lì una casina e ne avrai conferma.
Il giovane viaggiatore si avviò. Camminando nel bosco non poté fare a meno di notare la bellezza di questo; alberi maestosi, prati fioriti, i raggi del sole che giocavano tra i rami. Mentre proseguiva, udiva in lontananza un dolce cantare. Sceso da cavallo, proseguendo a piedi, incontrò un gruppo di ricci il quale proseguiva in fila indiana; poco lontano anche le formiche procedevano nel loro modo ordinato fino alla tana. Arrivò da lontano l’eco di un urlo il quale destabilizzò le piccole creature, che corsero via sciogliendo le file. Ma egli continuò, e, con il sole giunto nel suo punto più alto, arrivò alla casa al limitare del bosco, dalla quale si riudì il dolce cantare. “Che bel canto, che bella voce. Il canto sarà forse una delle caratteristiche umane che ci particolarizzano?” pensò il giovane mentre bussava alla porta. Il canto cessò e la porta venne subito aperta. Apparve una giovane donna.
- Hai udito il mio canto vero?
disse lei con un lieve sorriso.
- Sì. Io sono un viaggiatore, mi trovavo qui per esplorare nuovi luoghi ma mi hanno parlato delle diversità degli uomini, ed ora che sono qui vorrei conoscerle. Qual è il tuo nome, dolce fanciulla?
- Il mio nome l’ho dimenticato, da molto tempo ormai vivo qui, questa è la casa della follia.
- Cosa vuol dire?
chiese il giovane meravigliato.
- Vuol dire che la follia vive qui con me, ai margini del bosco, vive sola con me così che i miei canti, i miei lamenti non possano arrecare fastidio a nessuno. E intanto aspetto che lui ritorni.
- Il tuo canto invece è molto bello e tutti dovrebbero ascoltarlo.
- Eppure mi hanno mandato qui sola...
disse lei iniziando lentamente a girare su sé stessa, come se stesse iniziando i passi di una qualche danza.
- E chi è che aspetti, se posso chiederlo?
- Aspetto qualcuno che mi porti nel nostro eden. Un luogo dove l’inverno non arriva mai, dove i fiori non appassiscono, dove il pane non brucia, dove le candele non si consumano e dove non si sente più dolore.
- Un posto così non esiste, nessuno ti ci potrà portare.
- No, non esiste.
rispose lei. Il giovane rimase sbigottito.
- Allora, se lo sai già che non esiste, cosa aspetti a fare?
- Aspetto qualcuno che possa crearlo. Se ami qualcuno, se sei amato da qualcuno, un posto così lo crei. Crei un mondo migliore, dove nessuno conosce la sofferenza, un luogo dove l’inverno non arriva mai, dove i fiori non appassiscono, dove il pane non brucia, dove le candele non si consumano e dove non si sente più dolore. Ma gli uomini non si amano: per questo un posto così ancora non esiste, ed è per questo che io attendo qui, sola, nella casa della follia.

 
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