Racconti di vita

QUELLE STRANE PORZIONI

A volte, ma non così raramente come in genere si pensa, apprendiamo lezioni di vita da una casuale affermazione di vecchio saggio, ad esempio di un nonno, molto più che da dieci lezioni universitarie.

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Lo so bene perché il bunet (dolce tipico della cucina tradizionale piemontese, preparato con latte, uova, cacao e amaretti) mi piace tanto.  
Avevo dodici anni, in quell’agosto, ed era giorno della Fiera di San Rocco. La fiera era sempre un bel giorno per noi bambini, ma anche per i grandi, che passavano la mattinata tra i banchi del mercato, al bar, a sentire il sindaco che teneva il discorso tra un brano musicale e l’altro della banda comunale; la fiera piaceva un po’ meno alle donne, che la mattinata finivano per passarla in cucina, perché il giorno della fiera qualche ospite in casa finiva per esserci sempre.

E quell’anno, il giorno della fiera, invitato di lusso era in casa nostra addirittura il dottor Luigi Porretti, luminare e massimo esperto ortopedico dell’università di Torino, nonché relatore della tesi di laurea di mia sorella.

Sì, perchè grazie agli aiuti anche economici del nostro medico condotto che aveva visto in mia sorella un futuro grande dottore, lei aveva potuto fare l’università, anche un po’ contro il volere dei miei genitori che pensavano di non poter permettersi questo lusso; comunque mia sorella era ormai arrivata alla fine degli studi, mancava solo la tesi, ed era sembrato logico a tutti invitare il grande professor Porretti alla festa patronale del nostro paesino.

Il dottor Porretti aveva pensato bene di portare con sé tre suoi giovani assistenti: il dottor Roberto Caldi, il dottor Franco Sereni e il dottor Mauro Pescatori. Inutile dire che mentre i quattro avevano girato in lungo e in largo per la fiera, comprando oggetti inutili e costosi fra continue soste al bar per bere aperitivi rigorosamente alcolici, mia mamma e mia nonna dalle sei del mattino avevano preparato tali e tanti piatti che a casa mia tutti insieme non si erano mai visti. Vitello tonnato, carne cruda, insalata russa, salame e prosciutto, agnolotti al plin, bollito, arrosto, fritto misto, con un’abbondanza di carote, spinaci, patate e altre verdure, che non riesco nemmeno a ricordare. E poi il bunet. A casa mia le donne sapevano fare tutto, ma il bunet no: il bunet lo faceva solo la nonna. Con quella pazienza che solo gli anziani sanno avere, mescolava i rossi d’uovo con lo zucchero fino a che non veniva un’amalgama di consistenza unica; poi faceva scendere il cacao a pioggia e senza smettere di mescolare aggiungeva i bianchi delle uova in un modo che sembrava di vedere quella neve che tutti gli anni scende, almeno dalle nostre parti, nella notte di Natale. Con il latte l’impasto diventava fluido, senza grumi, pronto a ricevere il bicchierino di liquore e gli amaretti, sbriciolati in pezzi così uguali che sembrava li avesse fatti una macchina. Poi rovesciava il tutto nello stampo dove aveva fatto caramellare lo zucchero, e quando iniziava la cottura a bagnomaria mia nonna non si muoveva da lì nemmeno per un attimo, come una sentinella di guardia a un carico di diamanti preziosi; restava a fissare pentola, acqua, stampo e coperchio fino a quando non spegneva il fuoco e levava questa perfezione della natura chiamata bunet.
Data l’occasione, per la prima volta mia nonna non aveva fatto il bunet nel solito stampo, così piccolo che sempre ne toccava soltanto un pezzettino per ognuno e io e tutti gli altri ci stavamo male perché, se avessimo potuto, ne avremmo mangiato uno intero a testa; quella volta, visti gli ospiti di riguardo, la nonna aveva preparato due enormi teglie rotonde di bunet. E’ meglio che avanzi: basta che non manchi…” – aveva detto.

La tavolata era numerosa e rumorosa. A capotavola il grande dottor Porretti, alla sua destra e alla sua sinistra i suoi assistenti. Poi mia sorella, mio papà, l’altro mio fratello, mio nonno, zio, zia e due cuginetti; in fondo al tavolo mia mamma e mia nonna, che, poverine, facevano avanti e indietro in cucina e come al solito finivano per mangiare sempre poco di tutto.

Così per tutto il pranzo io non avevo che aspettato il momento del bunet. E mentre i dottori si ingozzavano con tutto quello che veniva portato in tavola, senza rifiutare il bis, senza far avanzare mai niente, senza dimenticare di bere un bicchiere di Barbera o di Grignolino tra un boccone e l’altro, io pensavo solo al bunet; pensavo che per la prima volta avrei potuto mangiare bunet fino a sazietà, fino a esserne così pieno da arrivare a dire “basta,  non voglio più nemmeno un pezzetto di bunet”.

Finalmente arrivò il momento tanto atteso; come in processione, la mamma e la nonna arrivarono tenendo nelle mani due grandi teglie di bunet, tra lo sguardo ammirato di tutti. Il famoso bunet della nonna. “Dottor Porretti, ci terremmo che fosse lei a tagliarlo!”.
Mia sorella, che durante il pranzo aveva fatto un po’ da padrona di casa perché per tutto il giorno precedente ci aveva raccomandato di non farle fare brutta figura, aveva avvicinato una teglia al grande professore; lui con fare serio aveva mostrato di accettare e gradire la responsabilità dell’incarico: in un silenzio mai visto prima, il dottor Porretti prese il coltello dalla lunga lama e con un gesto lento ma sicuro tagliò in due il bunet; quindi girando di novanta gradi la teglia fece di nuovo correre la lama lungo tutto il diametro. Ne erano usciti quattro grandi spicchi uguali, senza la minima imperfezione; il professore posò il coltello e con la paletta cominciò a distribuire il primo quarto al dottor Caldi, il secondo al dottor Sereni e il terzo al dottor Pescatori. Quando i suoi assistenti furono tutti serviti prese l’ultimo quarto, lo sistemò nel suo piatto e insieme ai suoi illustri colleghi iniziò a mangiare, facendo con il capo ampi gesti di entusiasmo.

Tutti voltammo lo sguardo verso l’altra teglia rimasta e credo che ognuno mentalmente avesse iniziato a suddividerne le porzioni accorgendosi che anche stavolta per noi ci sarebbe stato il solito piccolo pezzo a testa. In un silenzio spezzato solo dal rumore dei cucchiai che i quattro medici impietosamente infilavano nella delizia di cacao, improvviso, inatteso, inimmaginabile, mio nonno sentenziò:
  • Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei… -: Non serve studiare tanto per fare una cosa del genere…

Per un momento tutti pensarono alle raccomandazioni di mia sorella a non fare brutte figure con ospiti così importanti, ma subito nessuno riuscì a resistere e uno dopo l’altro tutti scoppiarono a ridere. Anch’io, ancora deluso per il mio bunet, anche mia sorella che tanto la raffinata aveva fatto fino ad allora, e mio papà, gli zii, la mamma, la nonna, mentre i dottori guardavano senza capire perché ridevamo.

Come andò a finire quel pranzo non lo ricordo più molto bene, se non per quel pezzettino di bunet a testa che comunque abbiamo mangiato tutti; però adesso che sono passati degli anni, che il dottor Porretti credo non sia nemmeno più vivo e i suoi assistenti di allora saranno diventati dei luminari della medicina, sì, adesso il bunet lo ricordo sempre e molto bene. Non c’è più la nonna che lo prepara, anzi ormai in casa il bunet non si fa più: però ogni volta che vado in uno di quei ristoranti di cucina piemontese, alla fine del pranzo il bunet lo prendo sempre. Anche se forse non è nemmeno più il mio dolce preferito, anche se forse ormai mi piacciono di più la crostata o la torta di nocciole o la panna cotta; però finisce che il bunet lo prendo sempre perché a me fa un po’ l’effetto della madeleine di Proust, mi ricorda gli anni dell’infanzia, mi ricorda il dottor Porretti, i suoi giovani assistenti, l’agitazione di mia sorella, tutta la mia famiglia che si mette a ridere per la frase del nonno.

Già, la frase del nonno… Quella mi è servita, mi è servita per la vita da affrontare con quel distacco e quell’ironia che sono indispensabili. Perché poi la mia famiglia è riuscita a far studiare anche me e alla fine ho preso una laurea in ingegneria; però, anche se mi presento sempre come un serio professionista del lavoro, in realtà sono eternamente conscio di essere un perfetto dilettante della vita.  E lo studio, le ambizioni, i successi, gli onori che si finisce per ricercare ogni giorno, saranno sì importanti, ma l’educazione e il buon senso… quelli davvero sono per me fondamentali.

Così tutte le volte che mi rendo conto di essermi lasciato andare ad atteggiamenti presuntuosi, tutte le volte che mi accorgo di quanto si può essere arroganti e quanto si diventa ridicoli nell’esserlo, tutte quelle volte io mi fermo un attimo, mi metto davanti allo specchio e mi dico a voce alta: Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei.
Poi ricomincio di nuovo, fino alla prossima volta. Ma almeno, quando sono davanti a un bunet, me ne ricordo. Sempre.
                                                                                            (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
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MM

Racconti di vita

CASTAGNE MATTE E GNOMI DEL BOSCO

Le testimonianze di vita continuano. In questo caso, si tratta dell’importanza estrema e duratura dell’esempio di vita e dell'affetto dei genitori nel processo educativo dei figli, che per la sua organicità  e immediatezza non appare delegabile né sostituibile del tutto, neanche da parte della scuola migliore...

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C’erano una volta, tantissimo tempo fa, un papà e la sua piccola figlia. Si amavano teneramente e il loro amore rendeva ogni gesto ed ogni parola speciali, quasi magici. Vivevano però, a volerla dire tutta, in un luogo che di magico non aveva quasi nulla: non c’erano tramonti incantati nelle serate estive; non si sentiva il profumo dei fiori di gelsomino quando maggio veste generoso le siepi dei giardini; non c’erano piccoli corsi d’acqua dove poter cercare rane e girini; soprattutto non c’era il mare, con il suo odore intenso e il suo rumore possente nelle giornate di tempesta. C’erano invece lunghe file di fabbriche grigie, adagiate nella periferia della grande città, apparentemente disabitate, ma rumorose, per un orecchio attento, a testimonianza dell’incontro operoso di uomini e macchine. C’erano anche lunghe strade che tagliavano la pianura; volendo seguirle con lo sguardo, si saliva verso le colline e poi più su, fino a raggiungere le cime delle Alpi, innevate per tutto l’anno.
La gente che vedeva passeggiare il papà e la sua piccola figlia tenendosi per mano (lei accompagnava lui o lui accompagnava lei non si sa) aveva espressioni di stupore e di meraviglia:
  • Guardate come sono belli, lui sembra un principe, con quel suo largo cappello e il passo elegante, e lei è sicuramente la sua principessina… Fate largo, fate largo… lasciateli passare!
La loro dimora sembrava, da fuori, un po’ fuorimoda con la sua forma stretta e allungata su due piani. A fatica sporgevano due piccoli balconi con la ringhiera di ferro; ma proprio da quelli il papà e la sua piccola figlia immaginavano spesso di affacciarsi per recitare la parte del re e della regina, fino a quando la mamma non chiamava:
  • Tutti a tavola, che è pronto!
Dall’interno della cucina poteva accadere che giungesse la musica di un grammofono e loro ne approfittavano, rientrando, per muovere qualche passo di danza: lei saliva con i piccoli piedi sulle scarpe di lui e insieme ridevano per quell’inganno innocente, mentre piroettavano fra le sedie e il tavolo immaginandosi nel salone di un grande castello.
Giocavano spesso insieme, il papà e la sua piccola figlia: lui era prodigo di invenzioni strabilianti, faceva giochi di prestigio che sembravano vere magie, ma si faceva piccolo come lei quando doveva assecondarla per una sua infantile richiesta. E così inventava favole con maghi e castelli incantati, faceva arrivare cavalieri invincibili che liberavano principesse prigioniere, e lei lo ascoltava rapita, gli occhi spalancati sul mistero, muta nell’attesa di ciò che sarebbe accaduto.
  • Papà, quando sarò grande voglio diventare una principessa e ti sposerò, perché tu sei il mio re…
  • Ohi, ohi…e come faremo a dirlo alla mamma? E’ lei la regina – rispondeva divertito il suo papà.
  • Ma starà con noi, staremo tutti insieme! – rispondeva lei.
In quella dimora c’era anche un piccolo giardino che in qualche modo permetteva loro di godere dei fiori di lavanda in estate e dei mille colori delle foglie in autunno. Non era molto, ma con un po’ di fantasia si potevano anche trasformare le file di formiche in ballerine e qualche coccinella in una fata buona. C’era anche un gatto bianco e nero, che passeggiava pigro su e giù, fra l’albero di cachi e qualche cespuglio selvatico, inconsapevole delle innumerevoli volte nelle quali aveva indossato stivali e cappello piumato per difendere il suo padrone o, per contro, aveva ingannato con furbizia una lucertola fingendosi cieco e innocuo, per tendere poi un agguato mortale! Sì, perché, come forse si è capito, questa favola è piena di favole. E come in tutte le favole le scene cambiano, i personaggi si trasformano, i buoni vincono i cattivi, e la fantasia si fa largo per interpretare la realtà a modo suo. Anche il papà buono di questa fiaba, che sapeva trascinare la sua piccola figlia in un mondo incantato, smontò pezzi del reale per ricomporli in una nuova storia del tutto irreale.
E quando, qualche tempo dopo, dovettero purtroppo cambiare dimora, si sentirono un po’ tristi nel dover abbandonare quel piccolo paradiso: ma né lui né lei si persero d’animo.  Anche se il palazzo nel quale erano andati ad abitare rendeva difficile riprendere il gioco del “facciamo che io ero la principessa e tu il re”, iniziarono subito ad andare alla ricerca di un luogo che permettesse loro di continuare a sognare. E gira e rigira lo trovarono: era un pioppeto che, sorprendentemente, si apriva al di là del cemento, quasi un miracolo della natura. Così, partirono in un pomeriggio di sole per andare a conoscere i misteri di quel bosco e alla piccola figlia di quel papà meraviglioso batteva il cuore per l’emozione. Fatti i primi passi tenendosi per mano, il sottobosco cominciò a crepitare sotto i loro piedi, e sui tronchi alti e sottili dei pioppi si innalzavano fronde leggere che si muovevano appena sopra di loro. Continuarono a camminare, facendo attenzione mentre l’aria intorno si riempiva delle loro voci spezzando il silenzio. Giunsero quasi alla fine del bosco, proprio dove alcuni ippocastani, con i loro tronchi imponenti, sorgevano a definire un viale che, passando di lì, portava quasi sicuramente lontano. A differenza dei pioppi, questi erano alberi maestosi, che reggevano chiome larghe e ombrose; le foglie fitte nascondevano ricci spinosi pieni di castagne matte: ma molti di questi erano già caduti.
  • Attenta, non toccarlo, con il riccio ti puoi pungere...
A lei piacevano tanto le castagne matte, così rotonde e lucide, e allora cercava quelle già uscite dal riccio, ce n’erano molte per terra, se le faceva rotolare fra le mani e poi ne raccoglieva fino a riempirsene le tasche.
  • Guarda papà, sono bellissime, le portiamo alla mamma, anche a lei piacciono, me lo ha detto un giorno… Ma che cosa sono questi buchi nei tronchi?
A questa domanda il papà buono liberava tutta la sua fantasia per volare con la sua piccola figlia nel loro mondo incantato.
  • Questi buchi nei tronchi li fanno gli gnomi del bosco.
  • E dove sono adesso? Ma…sono cattivi gli gnomi?
  • Certamente no! Gli gnomi del bosco non sono cattivi, anzi. Ma escono solo di sera perché temono gli uomini: si rifugiano in questi buchi e si fanno compagnia, si vogliono bene fra di loro. Nessuno però li ha mai visti, purtroppo! Chissà, forse noi potremmo essere fortunati e incontrarne uno…
La piccola figlia sbarrava gli occhi, si emozionava, ma la presenza rassicurante del papà le consentiva di abbandonarsi a immaginare serate di luna piena con gli gnomi seduti a conversare intorno a quei buchi nei tronchi. E alla sera si addormentava, cullata dall’ultima favola che lui le leggeva.
Un brutto giorno, però, accadde ciò che non dovrebbe mai accadere: il papà si distrasse? La piccola figlia si staccò dalla sua mano? Fatto è che non si ritrovarono più e… lei si perse, non in un bosco fitto di alberi e di pensieri fantastici, ma, molto più modernamente, in una libreria affollata di una strada del centro della città; perché, come è evidente, questa è una favola nella quale realtà e fantasia si confondono e qualche volta non si sa più dove finisce l’una e dove comincia l’altra. Fu allora che quel papà, disperato, cominciò a percorrere le strade della città invocando e gridando:
  • Chi ha visto la mia bambina? C’è qualcuno che me la può riportare?
Percorse in lungo e in largo portici e vicoli, incapace di immaginare la vita senza di lei. Si mise a correre senza meta, chiedendo a chiunque incontrasse:
  • Ha visto una piccola bambina, che sembra una principessa? E’ la mia bambina, è mia figlia, mi aiuti a cercarla…
Allora, uno dopo l’altro, uomini e donne e ragazzi, si unirono a lui, le strade si riempirono di gente che chiamava a gran voce il nome di lei in un unico coro disperato, ma tutto sembrava vano. Poi, finalmente una voce gridò:
  • Venite, venite! L’ho trovata, è qui!...
Oltre la porta della gendarmeria, due signori vestiti in uniforme ascoltavano, compiaciuti, una piccola bambina che recitava, in piedi su di un grande tavolo, una poesia imparata all’asilo: via le lacrime della disperazione nell’essersi vista sola, cancellato il ricordo di quel singhiozzo alternato a parole sussurrate in cerca di aiuto: - Ho perso il mio papà… voglio il mio papà… la mamma dov’è? 
Tutto finito, ora. Le parole rassicuranti dei gendarmi confermavano che la mamma sarebbe subito arrivata, e anche il papà. L’abbraccio del ritrovarsi fu accompagnato da grandi grida di gioia, i clacson delle automobili divennero scampanio di campane, la gente si mise a ballare nella strada: perché così succede nelle favole.
Da allora la vita riprese tranquilla il suo scorrere: il papà buono e la sua piccola figlia continuavano a volersi bene; lei cresceva e lui si adattava con complicità e… tanta pazienza.
Poi, un certo giorno di un certo anno, alla piccola figlia, ormai dodicenne, parve di udire dentro di sé la voce del papà che, a conferma di un presagio che si stava concretizzando, dava risposta alle domande che il suo cuore poneva: perché quei nuovi silenzi nella casa? Perché si erano interrotti i momenti di complicità? Perché erano state via via abbandonate vecchie abitudini, per fare spazio a nuove necessità, dalle quali si sentiva esclusa, quasi allontanata?
  • Forse dovrò partire per un lungo viaggio, piccola mia… - diceva quella voce; - forse non potremo attendere insieme di vedere, il prossimo autunno, il colore dei ricci degli ippocastani che cambia…
  • Perché, dove devi andare, papà?
  • E’ un po’ difficile da spiegare: quando sarai più grande capirai e forse accetterai. Ti ricordi quando ti raccontavo le favole con le principesse e i re? Ecco, noi resteremo sempre insieme, come nelle favole, e sarà come fare una magia: tu resterai nel mio cuore e io nel tuo, per sempre. Non piangere, la nostra sarà la favola più bella.
E così, piano piano, senza far rumore, il papà buono sfumò verso l’azzurro, nell’aria ferma di un pomeriggio estivo, lasciando però dietro di sé mille bagliori di vita per la sua piccola figlia.
Questo è il ricordo che ho di mio padre, mondato del dolore provato per la sua perdita. Oggi compirebbe cento fantastici anni. Buon compleanno, papà!... E grazie per aver dipinto la mia infanzia con tutti i colori della fantasia.
Questo ricordo è appunto dedicato a mio padre, memoria viva nel mio cuore, con immensa nostalgia, in questo 7 giugno 2012.
                                                                                                 
                                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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Esperienze

SCELTA DI VITA

L’autrice l’ha raccontata così, dal vivo. E noi ve la trasmettiamo. Non siamo in grado di dire se la protagonista avrebbe potuto far qualcosa di più per cercar di salvare l’amica dal suo naufragio umano, come forse avremmo desiderato. Ma ci sembra buona cosa raccontarvene la esperienza.
 
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Silenzio. Tanto silenzio.  Era ciò che negli ultimi tempi le teneva più compagnia. Come al solito, quella sera si era chiusa in camera, si era distesa sul letto e osservando il nulla incipriato dal bianco del soffitto cercava di dimenticare: dimenticare Valeria, gli amici, i suoi vent’anni passati così in fretta. Serrava quella porta della camera come per impedire al tempo di entrare e operarvi il cambiamento: eppure quanto era cambiata la realtà! A volte le sembrava così difficile poter continuare a sognare: non riusciva a bramare il futuro come le era accaduto in passato. Viveva in bilico, appesa alla costante sensazione di una decisione imminente da prendere e che tuttavia non riusciva a prendere. 
Come ogni sera i ricordi partivano dal proiettore della sua memoria per accavallarsi sul fragile lembo dei suoi azzurri occhi: e dall’oscurità qualcosa appariva sempre. Ora si vedeva seduta in riva al mare, con Valeria. Avevano trascorso un’ottima giornata insieme, e mentre il sole splendeva alto sui loro corpi magrolini aspettavano allegre che si asciugassero le ultime gocce d’acqua salata sui capelli scomposti e i bikini colorati, prima di tornare a casa, lavarsi e prepararsi per un’altra indimenticabile serata insieme. Sicuramente avrebbero incontrato Antonino e Marco. Valeria si sarebbe rabbuiata, sulle prime, per poi sfogare il suo malumore con colorite espressioni, mentre Maria alla vista di Marco si sarebbe limitata ad un lungo sospiro con gli occhi lucidi.
Erano così diverse, eppure talmente legate! Valeria, impulsiva e passionale, agiva sempre senza riflettere. Maria, riflessiva e calma, non si lasciava andare a eccessi di alcun tipo: composta, precisa, gentile. Manteneva la sua personalità e sembrava non essere un’adolescente soggetta al vento della crescita ma piuttosto un’adulta già formata. Questo aspetto affascinava Valeria e la istigava ad emulare l’amica: ma, per quanto ci provasse, Valeria non era come Maria.
Maria lo stava capendo solo adesso, da sola, nella sua stanza, mentre con la mente accarezzava un altro flebile ricordo: lei e Valeria si abbracciavano strette strette con una energia che da un momento all’altro sembrava esplodere in una scarica elettrica. Erano nella cameretta di Valeria, dove avevano parlato a lungo del futuro e dei loro sogni. Maria li aveva già “srotolati “davanti a sé come una larga strada sterrata da cui, in lontananza, si intravedeva luce, tanta luce. Sarebbe diventata una giornalista e avrebbe fatto di tutto per cambiare il mondo. Valeria, invece, si apprestava allora ad iniziare il viaggio e la sua strada era ripida, a tratti oscura, piena di fossi e brutte discese.  Maria cercava allora di illuminarla, con la sua enfasi oratoria e il suo piccolo mondo interiore. Ed in queste fuggevoli ore trascorse insieme a sognare, Valeria e Maria erano un tutt’uno, un vortice di idee, di sentimenti, di speranze: erano amiche, ma amiche in una maniera assoluta. Un’amicizia pura e radiosa che le circondava senza che loro neanche se ne accorgessero.
Maria ricordava la prima volta che si erano viste, e da allora non aveva mai abbandonato Valeria. Quando quest’ultima si era innamorata per la prima volta, timorosa di aprire il suo cuore, Maria le era stata accanto ricordando come era buffa la solitudine in momenti simili: infatti quando era stata lei a innamorarsi non c’era stato nessuno a capirla. E allora cosa la spingeva a fare quel bene all’amica? Maria non lo sapeva: era fatta così! Dava senza pretendere niente in cambio. Ricordava quante parole e quanto coraggio aveva trasmesso all’altra e non le era mai pesato perché credeva in ciò che faceva e riusciva a gioire della felicità dell’altra. Quando vedeva Valeria tornare fra le braccia di Antonino quasi si commuoveva. Ne gioiva come vedendo realizzato il sogno che non era riuscita a realizzare con Marco: tra loro non c’era stata nessuna Maria; Maria, invece, c’era sempre stata per Valeria. C’era stata quando quella le riempiva la testa di chiacchiere inutili, c’era stata quando aveva bisogno di una spalla su cui piangere, c’era stata per prestarle soldi e vestiti, c’era stata per darle tutto l’affetto che le mancava in famiglia. C’era stata persino quando avevano scoperto Antonino a farsi di cocaina nel bagno di un locale e Valeria ne aveva pianto per una settimana. C’era stata sempre, eppure questo sembrava non esser bastato.
Ma ora tra loro si era posto il mare. Un’altra immagine le appariva dinanzi: un’immagine in cui non distingueva più le futili parole che quella le borbottava. Per Maria non era stata una buona giornata. Valeria era cambiata: Maria lo stava capendo pian piano, eppure non riusciva a tagliare del tutto il legame. Non capiva come quella specie di sanguisuga fallita avesse potuto prendere il posto della sua buona amica. Non poteva credere quella trasformazione di Valeria: era diventata insopportabile, parlava, parlava, parlava ma di una realtà distorta e astratta. “Io potrei fare tutto… Sono la migliore… Ma che ci vuole a fare quello che fai tu… Sono stufa di tutto… Nessuno si accorge del mio talento assoluto, che noia!...”. E intanto nulla faceva delle sue giornate e del suo futuro: non lavorava, non studiava, non ragionava, non sognava.  
Sulle prime Maria non aveva voluto vedere. Era vissuta per anni con l’idea perfetta di Valeria e ora era impossibile accettare tacitamente quel mostro perverso. Scappare, scappare lontano… solo questo era il pensiero che affollava la sua mente dopo quella scoperta. E mentre un paio di lacrime clandestine scendevano veloci lungo le guance, Maria osservava la foto attaccata all’armadio e che ancora non era riuscita a staccare. Le piaceva quella foto: come era felice, Maria, in quella foto! Si perdeva in quel ricordo così nitido e straziante che quasi le veniva voglia di strappare furiosamente quel quadratino di carta in migliaia di pezzettini. Quelle due ragazze non esistevano più. Velocemente Maria vedeva passare una scena e poi un’altra e poi un’altra ancora: in ognuna di esse era triste. Aveva smesso di essere felice qualche mese prima, quando al posto di “Valeria l’amica” aveva trovato “Valeria la drogata” in discesa libera verso il baratro dell’animalità. Non capiva come quella avesse fatto a tuffarsi a capofitto in un tale gorgo. Eppure Valeria sapeva quanto sarebbe stato difficile uscirne! Avevano vissuto con Antonino quell’incubo: da perfetta egoista quale era diventata, Valeria aveva provato una volta e poi un’altra e un’altra ancora e adesso aveva trovato quell’ingannevole sogno che tanto anelava e ci si era perduta: quale sorpresa dovette provare Maria al sentirsi dare della bambina, della stupida, dell’immatura, della vecchia, della pavida! Dopo tutto quello che avevano passato insieme e il bene che le aveva unite come sorelle!
A questo pensiero, quasi immediatamente lo stupore fu sostituito da una rabbia furibonda a cui altrettanto rapidamente seguì un disgusto nero e una profonda sensazione di pena. Poi il silenzio. Il silenzio che non lasciava spazio neanche alla sofferenza. Valeria era lontana e irraggiungibile nel suo nuovo mondo di oche sgualdrine, di venditori di fumo, di nottate insonni nelle prigioni di menti impasticcate, di serpi insidiose di amici. Scheletri in attesa di un rantolo letale.
E quel mondo era lì ad un passo da Maria. Bastava dire sì. Bastava alzare il telefono ed assecondare l’irreparabile pazzia di Valeria. Ma Maria era destinata a ben altro: era cresciuta spingendo la carrozzina del suo migliore amico malato di distrofia muscolare e volato via troppo presto. Si commuoveva per strada quando constatava la solitudine e la sofferenza di un barbone o di una mendicante con figlio appeso al petto e già esausto d’essere al mondo. Sognava d’aprire un centro d’integrazione per famiglie straniere poco inserite nella comunità italiana: così Maria si era curata lungo l’intero anno di Yao, di Yuliana, di Ali, di Sued, di Majid, di Abbass. E nonostante le strade della vita li avessero portati altrove, Maria li portava nel cuore come pezzi della sua stessa esistenza, come motivi di crescita, di amore e di verità. Maria credeva in quell’oscura forza che muove il pensiero aspirando a migliorare l’animo umano e la realtà…Leopardi, Dumas, Dickens, Dante, Dostojevskji, Tolstoj, Pirandello… la prosa, la poesia, l’arte, l’amore, la verità…la vita! Questo era lei: il sogno e la speranza, il coraggio e la purezza, la giovinezza e la saggezza insieme. E non sarebbe cambiata.
Pensava a quelle indimenticabili presenze della sua vita: la zingara della stazione, il barbone del Tevere, la ragazza cinese dagli eterni inchini, la brasiliana scontrosa che si difendeva dagli uomini rozzi, il ragazzo del Bangladesh che a vent’anni era già sposato con due figli e frequentava la scuola solo per imparare la lingua italiana e trovare lavori migliori del venditore ambulante senza paga sicura, l’afghano  scappato da Kabul col fratello minore dopo che le bombe e i talebani avevano reciso la vita dei genitori e della bellissima sorella Parvana recatasi alla fonte dell’acqua nel momento sbagliato.
Maria pensava a sua sorella Elisa, adottata in un tempo in cui Maria stessa non era ancora nata. Elisa bella e introversa, con gli occhioni scuri e la carnagione olivastra che tradivano le sue origini orientali, e quello sguardo da cui traluceva una storia incredibile, una di quelle storie fatte di abbandoni, dolori, ricordi confusi, sfide continue, paure. Ma era una storia di verità. La verità che Maria aveva scoperto in fondo alla sofferenza acuta che serra la vita nelle sale d’attesa degli ospedali, aspettando che Elisa scendesse dalla sala operatoria per un intervento alle gambe, alla vista, alle braccia, al seno. Eppure era ancora qui, Elisa, con gli occhi vivi e la voglia di vincere nonostante la malattia e la beffa della vita. Elisa era ancora pronta a lottare nonostante nei mesi seguenti dovesse rientrare in ospedale. E portava sempre il sorriso lucente di chi ancora può credere. Poi Maria pensava ai suoi genitori giusti, forti, stanchi, silenziosi, amorevoli, coraggiosi. Li accompagnava nella difficoltà impegnandosi affinchè ogni sua vittoria potesse divenire la luce di un sorriso anche per loro.
Così Maria aprì gli occhi. Si destò da quelle immagini caotiche e il silenzio solitario della sua stanza bastò alla netta scelta, una volta per tutte. Non avrebbe più cercato Valeria. E, in quella scelta, fu la vita.
                                                                                                        

                                                                                                                     (Anonimo, Premiopratoraccontiamoci)
 
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                                                                                          MM

La dimensione compiuta

IL TRENO

Metafora della vita, il treno e il suo viaggio. Dove siamo diretti con la nostra esistenza complessiva? Può darsi che, concentrati semplicemente intorno a noi stessi all’interno del vagone nel quale ci troviamo, rischiamo di perdere il senso totale del viaggio e di quanto vive anche fuori del nostro treno? Valentina Tuccella ci invita con la forza delicata della sua immaginazione anche poetica a fermare la nostra attenzione sulla totalità  dell’esistenza (il treno della vita) e dei suoi significati.
 
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Quando arrivi per la prima volta in una stazione non sai dove questo viaggio ti porterà. Sei solo,
così inesperto, in mezzo ad una folla sconosciuta…
 
Quando sali per la prima volta su un treno ti guardi intorno, in cerca di un viso amico. Controlli le
tasche, il biglietto, le monete.
 
Quando il viaggio inizia ti accorgi del percorso così lungo e lineare, e ti chiedi se sarà
lo stesso per tutti i passeggeri.
Un viaggio già scritto, già vissuto, già raccontato.
 
Quando socchiudi gli occhi e ti lasci dondolare dal lento andare del treno immagini anche come sarà
la meta, cosa farai, chi incontrerai; e non ti accorgi di non riconoscere ancora la tua stessa
immagine riflessa sul finestrino.
 
Quando il treno arriva alla prima fermata sei pensieroso; potresti scendere adesso: in fondo,
perché arrivare così lontano? E poi molti stanno scendendo qui. Ma il treno riparte e tu stai
ancora lì a pensare. Non credevi ci fossero dei bivi, delle fermate, altre destinazioni.
Come sta diventando complicato, questo viaggio...
 
Al primo sobbalzare del treno sussulti e ti spaventi. La macchina si blocca improvvisamente. Che
sfortunato intoppo: non era previsto... Ci vorrà una lunga attesa. Come sta diventando, questo viaggio…
 
Ed ecco che il treno riparte, con il buio alle spalle, e sembra raggiungere il sole. Il tempo è
trascorso e tu hai pensato, meditato, sofferto, all'interno di quel vagone-treno.
 
Quando impari a coordinare il respiro, allora apri gli occhi e vedi anche fuori dal finestrino: che bel
paesaggio!
 
Non me ne ero mai accorta. Ero intenta a guardare all'interno del vagone dei miei pensieri.
Il paesaggio è lì fuori, la natura brulica di vita e forse è arrivato il momento di scendere.
Di raggiungere la meta.
                                                                                       
                                                                                                 (Valentina Tuccella)
 

Racconti di vita

LA PASSEGGIATA DI LUIGI

Famiglie che potevano essere e non furono mai: a volte la guerra, soprattutto, a volte l’emigrazione, o altri drammi, sconvolgevano pensieri, disegni, sogni. In un mistero che su questa terra forse non si potrà mai chiarire.

*****
 
Lassù, sotto le falde del monte, si sentiva qualcuno cantare una canzone che diceva: “Questa notte laggiù nella valle…”. Era un canto che si confondeva col rumore di un rio gorgogliante fra i sassi, dentro il corso che s’era scelto da sempre fra abeti e larici, olmi e maggiociondoli.
Il canto era intermittente, una voce maschile cadenzata al ritmo di un passo montanaro. A volte diventava mormorio, soffio, o si mutava in fischio, come se il cantore si sentisse improvvisamente più leggero o la china del monte diventasse meno impervia. I rumori e le voci del bosco continuavano ad essere sottofondo di quella presenza canora: il tonfo di una pigna caduta  dall’abete, lo scricchiolio causato da uno scoiattolo qua e là per i rami, il plaf-plaf di un ranocchio presso gli acquifoglio, lì alla “molinella”...

Sì, perché lassù l’uomo aveva costruito un leggero e semplice mulino di legno per lasciare un segno delle sue soste lungo l’acqua del rivo, un segno delle sue pause di riflessione in ogni passeggiata o scarpinada dentro quel bosco. Quelle pale, rozzamente abbozzate col coltello da tasca, giravano dentro il rivo e facevano saltare intorno zampilli e spruzzi d’acqua, e questi attiravano tanti passeri suoi amici, ai quali pure egli parlava o forse… confidava i suoi segreti. A quella polsa Luigi sostava spesso, e il cigolio ritmico della molinella, l’ombra dei noccioli, il sole che filtrava la mattina, creavano l’atmosfera adatta per pensare a Gianna. Luigi si sentiva parte dell’ambiente.

Solo lì era riuscito a dare ristoro alle sue urgenze, alle pene di giovane provato dalla guerra sul fronte delle Alpi Occidentali, verso Briga e Tenda, fra l’aggressione alla Francia e i bombardamenti notturni, la mancanza di notizie della sua famiglia e nessuno scritto della sua amata, e poi la cattura, l’internamento, le camminate di trasferimento obbligato in notturna, la ricostruzione delle casematte, la fame, i soprusi subiti dai prigionieri, poi gli inglesi, la fuga e l’avventuroso ritorno a casa, attraverso boscaglie interminabili per non essere rintracciati, i piedi che dolevano, la paura dei rastrellamenti, e infine… la morte di Gianna, lontana, in Argentina.

Quand’era nel bosco si trovava immerso in un’atmosfera panica, totalizzante, che gli incuteva rispetto per ogni cosa della natura. Lì conosceva quei grossi nidi che le formiche erigevano con cumuli di aghi di pino e piccoli stecchi, per un’intera stagione, con infaticabili andirivieni in file nere o rosse. Formiche che passavano fra sassi e sterpi, dritte alla fonte di risorse individuata quel giorno: per esse tutto procedeva senza alcuna distrazione o rottura di ritmo che non fosse un improvviso pericolo o la suola di un improvvido passante.

Il prato di primo mattino era come se fosse piumato per la guazza notturna: gli steli del fleon e delle graminacee erano chinati da una corona di perline trasparenti che, tutte assieme, formavano cuscini azzurrini sospesi sopra tutto quel verde. Luigi osservava e si soffermava rapito. Dentro sentiva un’urgenza sconosciuta tramutarsi in pensiero, parola, canto, grido. Si chinava a raccogliere dei fiori: erano a volte garofanini di monte, sfrangiati, posti lì su una balza, oppure  entauree al bordo del sentiero, o borraggine azzurro-lapislazzulo. Doveva guardarsi però dai bombici che, già di buon mattino, stavano rumoreggiando in cerca di nettare.

Luigi voleva mettere quei fiori ad un capitello, sul sentiero verso le baite; lo faceva quasi tutte le domeniche. Un rito? No, piuttosto un sentimento d’abbandono, di fiducia in quel Sant’Antonio lì effigiato, stinto dal sole e dall’acqua piovana, protetto da due scorzi messi a capanna. Anche quel Toni lì conosceva la solitudine in cui Luigi si trovava nel corso della settimana;  ma la domenica era un’altra cosa: nella sacca qualche frutto e un companatico, un filone di pane, e via in montagna, lungo la strada dei montanari  dei legnaioli, dei malghesi che portavano le bestie all’alpeggio e le riportavano poi in valle alle loro stalle.

Giù in paese, al negozio, le sue clienti quando lo sentivano accennare ad un motivetto, o arrivava il suo canto dalla dispensa in cantina, gli dicevano: “Ma voi, Luigi, siete sempre contento! Cantate, cantate allegro! Beato voi! Chissà chi sarà la fortunata…” e qualcuna di mezza età, come ce n’erano tante nel dopoguerra, lanciava lì una proposta sospesa, sospesa in aria come un sentimento accennato ma puntuale, non dichiarato ma allusivo. “Cantate… Cantate… Cantate… Sempre allegro, voi, Luigi!”; ma non approfondivano i motivi di quel suo cantare e fischiettare preciso, di quel suo modo di scherzare, di quel suo rispondere evasivo. “Canto alla Lilly Marlene”, diceva a volte, ed indicava un grande quadro con la figura di una cantante o di un’attrice americana che sorrideva da un paesaggio West. Lei aveva il sorriso di Gianna, della sua Gianna che era andata lontana, in Argentina, con tutti i suoi fratelli, prima della guerra: la sua Gianna che doveva tornare, tornare per lui, proprio per lui…e poi gli avevano scritto che era morta, banalmente, per una polmonite.

La guerra con le sue mille facce, le sue tragedie, i suoi sconvolgimenti, aveva portato anche in lui, che era di forte tempra, confusione e tristezza senza fine. Riusciva in qualche modo a camuffare quelle momentanee prostrazioni reagendo con il canto o fischiettando proprio nei momenti “dei cupi abbandoni del cuore”. Tutti erano persuasi della sua allegria ed invece la sua pena a volte cresceva a dismisura e così si rifugiava a piangere nella cantina del suo negozio. Perciò la domenica, quando ancora tutta la parte alta del paese dormiva, fatto il sacco, infilava il sentiero ed era presto alle falde del bosco.

Poco dopo incominciava a sentirsi meglio: per tutto il giorno era un altro modo di essere. Nasceva dentro di lui una rassicurante certezza che fluiva nel canto e nel fischiettare modulato. Erano quelli i momenti nei quali comunicava con la sua Gianna e la sua Gianna di sicuro lo aiutava a trovare la strada per disfarsi di quel fardello  che da tempo lo opprimeva. Il canto, che prima era affanno, sentimento angoscioso e inespresso, si faceva più disteso, armonioso, quasi un linguaggio gentile. E mutava: era adesso un fischio, ad esempio, che imprimeva alla canzone un’espressione precisa. Luigi era attento ai minimi scarti di note, a tutti i balzi e i rimbalzi della voce, ai passaggi del testo. Si serviva delle note per “comunicare oltre”, oltre le cime degli alberi, oltre i coni d’ombra che il sole proiettava sui viottoli del bosco, oltre l’affanno dei pensieri e dei ricordi, oltre oceano.

In quel breve paesaggio di vallette, di balze, d’ombrosi botri dirupati, arrivava infine al Ronco,  sotto gli alberghi e le baite. Trovava quel riparo che placava, almeno per quel giorno, una spina dolorosa che gli si era conficcata in petto a quella tragica, improvvisa e maledetta notizia: “Giovanna è morta”.

Nel bosco tutto poteva estinguersi, almeno per ora, dolcemente, in quel mormorio d’acque e tonfi leggeri, nello zirlare di merli acquaioli, nel canto e nel fischiettare armonioso che egli rivolgeva, sempre con attenta misura alla sua Gianna.
                                                                                                         
                                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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                                                                                               MM

 
 

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