Persona e società

PERCHE'?

Non ci pensiamo mai abbastanza: il quesito e il mistero di esistenze che ci scorrono al fianco, che dipendono dalla nostra attenzione, che possono realizzarsi positivamente oppure perdersi proprio sulla base di come noi le affianchiamo: dipendono da noi, insomma. Adulti perduti misteriosamente nella demenza senile, malati cronici affidati a strutture con scarso coinvolgimento delle famiglie, bambini con il diritto alla vita sospeso da genitori padroni e non custodi. E’ l’immane dramma del silenzio sociale che circonda queste vite, che non possono difendersi da sole e spesso non vengono difese da noi. Possibile che il silenzio continui?
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Quel tavolino per scrivere è sufficiente. Certo, il computer era diventato per me un’abitudine inveterata, ma si vede che qui non posso tenerlo. Beh, nel caso mi venisse in mente qualcosa scriverò a mano. Del resto, ho sempre fatto così. Soltanto in un secondo momento ho bisogno di sviluppare, tagliare, spostare brani del lavoro, e farlo con i fogli è problematico. Allora chiederò che mi venga ridato il mio computer. In questa camera non c’è telefono. Eventualmente, per le connessioni di cui avessi bisogno, userò una chiavetta. Intanto però dovranno mettermi degli scaffali per un po’ di libri. Il posto per una piccola libreria c’è, proprio di fianco al tavolino.

Non capisco però come mi sia deciso a venire in questo posto. Non ricordo di averlo scelto. E poi, per quale motivo avrei dovuto sceglierlo? A casa mia avevo ogni comodità, e i miei libri, i miei quadri, il mio pianoforte, che sono parte di me, ma soprattutto mia moglie, che amo e che mi ama. Come ha potuto farmi uscire di casa e consentirmi di prendere alloggio qui? E i miei figli dove sono andati a finire? Sono confuso: sono troppe le cose che non mi tornano. Non mi pare di essere in ferie. Ci andiamo insieme, io e mia moglie. Siamo sempre andati insieme. Se poi lo fossi ci sarebbe il mare. Qui non c’è. Neppure campagna c’è, come io la intendo, come era quella dove avevo la casa una volta. Io però in ferie vado soltanto al mare. I monti non mi piacciono. Soprattutto non mi piacciono le strade che conducono ai monti e li percorrono. Non sopporto il vuoto visto da una strada. Posso guardare giù dall’aereo senza problemi, anche in fase di atterraggio, ma il vuoto visto da una strada… Ne consegue che certamente non sono in ferie. Non sono neppure malato. I miei mali li conosco fin troppo bene e non mi danno disturbi nuovi rispetto a quelli di cui soffro da più di vent’anni. Del resto, questo non è un ospedale. Gli ospedali li conosco bene come i miei mali. Come potrebbe essere diversamente? Ci ho passato mesi, complessivamente molti mesi. Li conosco bene.

Questo ambiente mi sembra più un pensionato. A tavola oggi avevo un commensale, abbastanza più giovane di me, che non si è presentato, non ha risposto al mio saluto ed è rimasto tutto il tempo con gli occhi fissi nel piatto, ma non mangiava. Hanno dovuto imboccarlo. Non so chi fosse la signora che lo ha fatto. Non era un’infermiera. Forse era una parente, ma anche lei non ha proferito parola. Sono sempre meno le persone capaci di comunicare, di rapportarsi agli altri parlando.

Quanti giorni saranno che mi trovo qui? Non mi ricordo quando ci sono arrivato e non so che giorno sia oggi. Un calendario…Ecco, sì, mi ci vuole un calendario, altrimenti come posso fare? A casa, anche senza calendario… sapevo dal computer che giorno era: la data, intendo, mi dava solo la data, ma non mi diceva il giorno della settimana. Però, meglio di niente, com’è invece in questo posto.

Ieri sono uscito. Lo ricordo bene. Sono sceso dalla camera e mi sono ritrovato in giardino. Mi sembra di esserci stato altre volte. Volevo andare in strada, ma in fondo al vialetto del giardino ho trovato un cancello. Chiuso. Senza bottone per aprirlo. Allora sono rientrato e ho chiesto alla portinaia che sta nell’ingresso di aprirmelo. E’ una bella ragazza, la portinaia. Non arriva a trent’anni. Oggi era dietro a quel bancone che c’è. Si notavano solo quei seni prorompenti che ha. Non molto grandi: staranno fra la terza e la quarta, più terza che quarta, ma che figura su quel corpicino snello! E un paio di glutei ben modellati e sicuramente sodi, così come deve avere le cosce. Porta i pantaloni e ieri l’ho vista bene. E’ anche gentile, e si è schermita, dicendo che non aveva modo di aprire il cancello al momento, e che le dispiaceva. Poi una signora ha suonato, il cancello si è aperto e, mentre lei entrava, io sono uscito in strada. Ci siamo salutati con un cenno della testa. Mi è parso che anche lei risortisse. Ma non mi sono girato. Ho fatto un bel giro. Insomma, un bel giro… un giro, per quanto mi consente di camminare, senza disagio, questa mia gamba sinistra, dove porto una protesi all’anca. Devo confessare che non conosco il rione dov’è il mio pensionato. Non credo sia nella mia città. Ma non mi sono perso. Ho fatto il giro dell’isolato, un isolato enorme, tenendomi sempre sul marciapiede. A un certo punto mi sono ritrovato al mio cancello. L’ho osservato bene di fuori. C’è il campanello vicino, ma nessuna targa che indichi come si chiama la pensione o albergo che sia. Non c’è neppure un’insegna con le stelle della categoria cui appartiene. Da come si presenta dentro, mi sembra assai scarso. Non credo possa meritarsi un fregio di più di due stelle. Solo Martina, così si chiama la ragazza in portineria, meriterebbe quattro o cinque stelle. Per poterle dare una classificazione di quattro o cinque stelle occorrerebbero esami che io ho smesso di fare da tanto e che non so se lei mi avrebbe permesso comunque di farle. Ma così, a occhio, credo che potrebbe salire al top.

Ho atteso che qualcuno volesse entrare. Ho aspettato più che per uscire, ma a un certo punto è arrivata a suonare una signora, una bella signora, di qualche anno d’età ma di quelle che portano la loro maturità con semplicità, che non mascherano i propri dignitosi capelli grigi con tinture di colori improbabili che, quelli sì, fin da lontano rivelano l’età tarda di chi li ostenta. Sono tornato con lei. Ho rifatto il vialetto e mi sono seduto su una delle panchine che ci sono in prossimità della portineria. Ho evitato tuttavia di farmi vedere da Martina. C’erano altri ospiti, seduti lì, tre donne e due uomini. Presumo che fossero ospiti perché una delle donne indossava uno spolverino di un celestino stinto, come usano in casa le donne di campagna, un’altra era piuttosto trasandata, con lo sguardo perso davanti a sé, e la terza entrava e usciva nervosamente dalla portineria. I due uomini, più giovani di me all’aspetto, indossavano entrambi quelle pantofole alte di stoffa a quadri colorati, tipo i kilt scozzesi, con il pelo dentro, come portano gli anziani, e si tenevano il collo ben coperto, anche aiutandosi con le mani, quasi fosse freddo. Era invece una calda giornata di primavera inoltrata, tanto che io mi ero sbottonato il colletto della camicia.

Dopo una mezzora sono venuti a chiamarci perché il pranzo era pronto. Non si mangia male in questo posto, ma non c’è possibilità di scelta. Solo quello che passa il convento, come si dice, e a sorpresa. All’albergo sul mare, dove andiamo noi, ci sono tre primi a scelta e tre secondi, sia a pranzo che a cena, ed è roba buonissima e abbondante, anche troppo, oltre a un buffet libero e ricchissimo. Eppure è soltanto un tre stelle. Ho valutato bene: questo non ne merita neppure due. Spero di rimanerci poco e comincio a chiedermi perché ci sono capitato. Sono qui dentro ormai da diversi giorni. Non so dire quanti, per il problema del calendario. Nel frattempo ho studiato com’è l’andazzo del pensionato: non si può uscire in strada, nessuno degli ospiti esce. Solo io ci riesco con il sotterfugio di stare in attesa in prossimità del cancello. 

Ora però ho un problema: non so come rientrare in camera mia perché non ne ricordo il numero. Ma è un giorno fortunato: si è affacciato nella sala della televisione Carlo. Caro è un giovane uomo che fa servizio all’interno da un paio di giorni, forse. Riguarda porte, finestre, rubinetti, bagni. Fa insomma tutti quei lavoretti di manutenzione spicciola che tanto sono necessari nelle grandi strutture. E’ disponibile sempre e ci si può parlare bene. Io, per la verità, non l’ho in grande simpatia perché mi pare che faccia la corte a Martina, ma soprattutto perché mi pare che Martina gli corrisponda, con quelle risatine che le ho visto fare alle battute insulse di lui. Mi sono dominato, ho ricacciato questa sorta di ripulsa che ho nei suoi confronti, mi sono allargato in un sorriso a quaranta denti (finti) e gli ho detto: “Carlo, ho un cassetto in camera mia che non scorre bene. Duro un po’ di fatica ad aprirlo e chiuderlo. Quando hai un minuto puoi venire a dargli un’occhiata? La mia camera è la numero… la numero…”
  • Ventisei: La Sua camera è la ventisei.
  • Oh, bravo Carlo! Sì, la ventisei. Ti aspetto.
  • Non dubiti. Vengo subito dopo che sarà ristabilito.
  • Grazie, Carlo. Grazie davvero.
Ecco, è la ventisei. Sono riuscito a farmelo ricordare senza destare sospetti. Se fossi andato a chiederlo a Martina o a qualcuna delle donne mi sarei fregato da solo. Qui dentro ho capito che se pensano che uno non abbia più mente ti tengono d’occhio, ti prendono di mira e non ti fanno fare più un passo. Non mi posso permettere che capiti anche a me. Come farei a uscire in strada? Se non potessi mi sentirei prigioniero e la paura, la claustrofobia di cui ho sempre sofferto, mi distruggerebbe. Ora però cosa gli invento a Carlo, su in camera? I cassetti scorrono tutti bene… Forse quello del tavolino per scrivere si può considerare un po’ difettoso ma non dà problemi, in realtà. Dirò che è quello che talvolta pare incastrarsi. Çi riguarderà e, al più, mi dirà che va bene. Tutto qui. A proposito del tavolino: devo ricordarmi di chiedere un paio di biro a Martina. Ne consumo molte a scrivere. Quasi non ho più neppure fogli.
Toc, toc.
  • Chi è?
  • Sono Carlo, per i cassetti.
  • Ti apro. Vieni, Carlo. Vieni.
  • Qual è il cassetto che le dà problemi?
  • Il cassetto, dici? Qual è? Non mi ricordo, Carlo…
  • Non si preoccupi. Li controlliamo tutti, così… Questo va bene… questi altri anche… E qui siamo a posto… Vediamo quello del tavolino. Capperi! Come fa ad aprirlo, questo? E’ incastrato. Una scartatina… Ecco, ora scorre bene. Tutto fatto. C’è qualche altro problema?
  • No, Carlo. Grazie
  • Di niente. Arrivederla.
  • Ciao, Carlo. Arrivederci. Ah Carlo…
  • Mi dica.
  • Quella ragazza, giù…
  • Quella ragazza… Chi? Sonia?
  • No, non Sonia. Sonia non la conosco. Dico di Martina. Sai, quella in  portineria? Martina!
  • Martina? Ah! Cosa ha fatto Martina?
  • Meglio perderla che acquistarla, quella, sai…
  • Perché?
  • E’ sempre al telefono. Fa tutto malvolentieri. Non è troppo educata…
  • Davvero è così? Meglio starle alla larga, allora.
  • Ecco, hai capito. Non vale proprio la pena.
  • Ha fatto bene a dirmelo. Io non ho tempo da perdere con chi non merita.
  • Bravo, Carlo!
  • ArrivederLa, di nuovo.
  • Arrivederci, arrivederci.
Tutto sommato è un bravo ragazzo, quel Carlo. E’ anche educato. Mi dà del lei, diversamente da altri che neanche conosco. Io gli do del tu, non per mancanza di rispetto, ma perché fra me e lui ci corrono di sicuro quasi cinquant’anni.
  • Sonia!
  • Che c’è?
  • Il vecchio, su, della ventisei…
  • Che ha fatto?
  • E’ innamorato di te.
  • Lo so. Tu come te ne sei accorto?
  • Mi ha parlato male di te. Ma era chiaro che lo ha fatto per cercare di sminuirti ai miei occhi. Una cosa strana, però: ti ha chiamato Martina.
  • So anche quello. Certi giorni passa le mattinate a guardarmi di sottecchi. Passerà cento volte davanti al banco, e mi osserva, senza parere. Mi ha spiegato la moglie che gli ricordo una ragazza che aveva in gioventù e che si chiamava Martina.
Quella povera donna di sua moglie, una donna squisita, è sempre qui. Abita vicino. Lui è abitudinario e tutti i giorni si prepara per uscire alla stessa ora. Non credo neppure che consulti l’orologio. Ce l’ha dentro, incorporato, come gli animali. Lei lo accompagna e gli fa fare un giro, anche se lui non cammina bene, come si vede. Lo fa uscire e lo segue per tutto il tempo. Lui è convinto di essere solo. Non la riconosce, così come non riconosce i suoi figli.
  • Me però mi riconosce e mi chiama per nome.
  • Sì, ma non ti meravigliare se a un tratto non saprà più chi sei. Ormai sono cinque anni che è ricoverato e ogni persona nuova che ha visto l’ha riconosciuta per qualche mese e poi più nulla. L’ho verificato di persona. Io per lui, come hai sentito, sono Martina. Sono stata Sonia per solo due mesi.
  • Poveraccio!
  • Sì, ma poveracci più che altro i suoi che rimpiangono l’uomo intelligente che era. Era un artista, sai?
  • Ah sì?
  • Era uno scrittore, un poeta, e pittore, anche bravo. Ho letto tutti i suoi libri e visto alcuni suoi quadri. Tutto notevole! Ora vuole sempre fogli bianchi, che tiene sul tavolo, e li imbratta di ghirigori con la biro fino a farli neri.
  • Allora è un peccato che sia ridotto così.
  • E’ sempre un peccato! Ma quando tocca a persone così… del resto, però…anche personaggi celebri…
Quel Carlo è stato bravo ad accomodarmi il cassetto. Ora magari esco. Mi metto la giacca ed esco. Controllo se ho le chiavi…Dove le ho messe? Non ce l’ho. E questo foglio in tasca, tutto arrotolato, consumato…Vediamo: c’è scritto “26”. Ventisei cosa? Boh! Buttiamolo via.
                                                                                                                            
                                                                                         (Anonimo, Premio PratoRaccontiamoci)

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MM

Democrazia Comunitaria

NASCE FORMAITALIA: SENZA CONFINI "PER TUTTO L'UOMO E PER TUTTI GLI UOMINI"

Il 7 dicembre scorso si è tenuto a Roma, in collaborazione con la Fondazione Internazionale per l’Aiuto all’Anziano, un incontro culturale e formativo sul tema “La politica in Italia: ieri e oggi a confronto per capire le prospettive possibili”.

Dal 22 al 26 gennaio appena trascorsi si è tenuta in Basilicata, in collaborazione con un Istituto Scolastico Superiore, una settimana di formazione e orientamento sul tema Motivazione e autorealizzazione nella scuola”.

Due eventi con i quali si è avviata concretamente e stabilmente l’attività di Formaitalia, la nostra piccola libera “università permanente per la formazione totale”.

Ai due temi citati se ne aggiungeranno via via altri, che verranno puntualmente comunicati; e insieme agli incontri verranno inaugurati anche, per chi sia interessato, veri e propri corsi organici di studio e formazione, della durata cioè di più incontri (fino anche a un anno) ciascuno su una tematica omogenea da affrontare come vera e propria materia di livello universitario.

Incontri e corsi potranno essere svolti sia per singoli partecipanti che lo richiedano sia per gruppi.
E verranno tenuti in qualunque sede esigano di volta in volta le circostanze o le preferenze dei richiedenti: un’aula scolastica o anche semplicemente un bar, un oratorio parrocchiale o anche semplicemente un giardino pubblico, o una sede di associazione professionale disponibile...

Lo studio-formazione, che avrà comunque sempre il connotato dell’alta qualità e organicità di contenuti, non prevede sostanzialmente costi per i partecipanti: viene chiesto semplicemente un simbolico euro a incontro, come valore morale di adesione e consapevolezza e per rispondere a qualche eventuale minima esigenza operativa, come potrebbero essere materiali da fotocopiare o simili.

La docenza vedrà spesso impegnato il sottoscritto ma coinvolgerà via via anche esperti e testimoni in diverse discipline e con diversi approcci, secondo i casi. E i temi verranno via via concertati secondo il criterio dello “scorrimento continuo” in una strategia condivisa e nel quadro di riferimento metodologico e valoriale che molti amici mi hanno sentito definire spesso come “modello monasteriale”.

Nella sostanza si tratta appunto di “formazione alta” ma… proprio perché alta non avrà nulla da spartire, anzi aborrisce esplicitamente, alti titoli e alti linguaggi, alte sponsorizzazioni e alti atteggiamenti accademici… e simili vuotaggini.

E’ formazione alta proprio perché… non va in alto bensì, al contrario, in profondità: costruisce nel profondo delle coscienze per far crescere, integrati, valori e competenze. Per questo anche il risultato sarà “alto”, ma solo nel senso più vero e pregnante.

Il pensiero di questa iniziativa viene in realtà da lontano, come viene da lontano il concetto di “formazione integrale” che lo anima: che ha appartenuto alla vicenda di vita e di crescita mia e di molte altre persone; e il cui merito non va a noi, pur avendoci anche noi messo la indispensabile nostra convinzione e buona volontà: ma va a quei formatori ed a quelle scuole di formazione che avevano (l’imperfetto è malinconico ma inevitabile, in quanto rare sono oggi simili realtà) come riferimento della loro azione proprio il concetto di integralità, cioè la idea che la persona è una creatura appunto integrale, composta di corpo, anima e spirito, e strutturata per essere contemporaneamente individuo e comunità; e che in tale integralità essa deve svilupparsi e realizzarsi positivamente, qualunque sia la materia più specifica di cui si occupa e l’ambiente più specifico in cui vive.

L’Italia ebbe simili scuole di formazione nel primo ventennio del dopoguerra, in campo politico ma anche in campo sindacale, aziendale, religioso, sociale, e la stessa scuola istituzionale dello Stato aveva in sé un nocciolo centrale di riferimento a tale cultura di integralità: uno dei segnali ne era la presenza nei programmi e in pagella della “buona condotta” collegata anche con la educazione civica, che implicava appunto attenzione specifica della funzione educativa alla persona nella sua totalità, e accentuata sensibilità alle dimensioni umanistiche di tutte le materie.

Successivamente tali scuole e tale metodologia sono state incredibilmente abbandonate a un progressivo declino e parte di esse sono addirittura scomparse, come è stato ad esempio per le grandi scuole dei partiti politici storici. La flebile e inadeguata figura dei ministri della pubblica istruzione succedutisi negli ultimi decenni ha sancito e generalizzato tale decadenza.

Molti di noi sono tornati però costantemente a chiedersi come fare a ritrovare la via (per usare le parole di Luigi Sturzo).  

Il nostro paese, peraltro, non ha in realtà bisogno di ritrovare semplicemente “una grande classe dirigente”, come a volte si dice: ha bisogno di ritrovare una più diffusa e profonda coscienza di sé, dalla quale si generi anche una nuova classe dirigente di grande levatura, in tutti i settori della sua vita.

Siamo nel 21° secolo: velocizzazione, mondializzazione, tecnologicizzazione, digitalizzazione, turbocapitalismo, intelligenza artificiale… fanno infatti diventare in parte un sorpassato luogo comune anche il concetto tradizionale di “classe dirigente”.

In realtà siamo tutti classe dirigente nella misura in cui siamo in grado di influenzare intorno a noi altre coscienze. Occorre dunque tornare a formare potentemente e diffusamente persone di alta levatura, più che “dirigenti” in senso formale.

Abbiamo cioè bisogno di costruire alte coscienze da mettere come sentinelle attive dovunque, direi in ciascun angolo di strada e in ciascuna stanza di ufficio o di casa o di fabbrica. Ciascuna di esse strategica per il semplice fatto che ne interseca altre, in tutti i settori della vita. Sentinelle appunto di qualità totale: altrimenti svanisce il sogno di una comunità che migliora nel suo insieme e nelle singole persone che la compongono. Se tali sentinelle sono di qualità… esse sono automaticamente classe dirigente a prescindere dai ruoli formali.

Anche a livello planetario si nota del resto, oggi, una non tranquillizzante tendenza al declino o alla stagnazione qualitativa del vivere individuale e sociale e del livello di sensibilità istituzionale, che comporterebbe una ben diversa e superiore attenzione ai sistemi formativi e al concetto di classe dirigente: dalla grossolanità di Trump alla inconsistenza di Biden, dall’umiliante resa della civiltà e dei diritti umani in Afghanistan o in Iran alla crisi ucraina con le sue vittime innocenti, all’incartamento burocratico-finanziario della realtà europea, alla povertà dell’Africa,  allo strapotere intrasparente della finanza, alla disattenzione complessiva verso il grande valore fondativo della vita, al malinconico fantasma dell’Onu che a oltre settant’anni dalla sua costituzione non riesce a diventare vero parlamento dei popoli, la “classe dirigente” formale, politica e non politica, dà oggi testimonianza prevalente di mediocrità anche, appunto, a livello planetario.

In materia più particolare di economia, ad esempio, mentre osserviamo che il capitalismo ha sconfitto il comunismo, e la tecnologia sta sconfiggendo il capitalismo, non possiamo non chiederci anche: ma… poi? Il futuro? La persona? La comunità? Dove sono? L’umanesimo capace di dominare la tecnologia e la emergente intelligenza artificiale, dove è? Il capitale umano, su cui è steso il più drammatico silenzio, dove è?… Dove sono l’impresa partecipativa e il lavoro di cointeressenza?

Urge insomma porre fine alla sterilità delle parole, delle ideologie, degli schemi e dei titoli formali che ubriacano il parlare quotidiano, e tornare a pensare e agire con pregnanza secondo il binomio “persona e comunità: tutto l’uomo e tutti gli uomini (per dirla con le parole di Paolo VI).

E’ infatti la persona concreta e integrale che ogni giorno “fa” la politica, la scuola, il sindacato, l’economia, l’impresa, la religione… Mentre partiti, istituzioni, classi, categorie, schemi, sono strumenti e non fini. 

Via, dunque, anche dagli insensati schematismi (come sono, ad esempio, in politica l’ottocentesco “destra- centro-sinistra”, nel sociale il retorico giovani-anziani e l’ingannevole uomini-donne, in economia l’eterno poveri-ricchi, etc.); e via anche dalla idiozia di semplificazioni concettuali come élites, classe media, borghesia, ceto intellettuale, etc. Il capitale umano e l’umanesimo, le persone concrete e la loro solidarietà, sono l’unico futuro accettabile per l’economia, per la politica e per tutta la vita sociale!

Ma, a questo punto, voi chiederete più concretamente: che idea più specifica avete e proponete per questa formazione integrale? Rispondiamo in sintesi quanto rispondevamo già anni orsono:

“E’ una idea molto alta.

La formazione infatti è il cammino della persona totale verso il proprio orizzonte infinito, in armonia con la comunità in cui essa vive e cresce.

Tutte le sue potenzialità di sviluppo e miglioramento si mettono in movimento.

Ci si forma perché migliorarsi è vocazione fondativa e irrinunciabile della persona.

E anche perché, se è buona formazione, essa mette insieme armonicamente crescita personale e crescita comunitaria: cioè l’unica crescita che abbia senso compiuto per l’uomo e per la civiltà.

L’uomo è infatti appunto, nella sua pienezza e contemporaneamente, “persona e comunità”.

La formazione non è indottrinamento.

Non è semplice aumento di nozioni nel nostro cervello.

Non sono professori che fanno conferenze.

Non sono esami e promozioni o dichiarazioni di idoneità.

Tanto meno sono bocciature.

Queste ultime, quando ci sono, caso mai bocciano la capacità della scuola di essere utile alla crescita delle persone.

La formazione non è un “master” conquistato in una prestigiosa università

Da esibire stupidamente in un curriculum

O da contemplare narcisisticamente incorniciato a una parete

O da segnalare allusivamente in un discorso pubblico.

La formazione è il tuo cammino di vita nel miglioramento continuo:

Quel cammino della tua anima e di tutto il tuo essere, che non finisce mai

Che non delude mai

Che non inganna mai

Basta che tu sia leale con testesso.

La formazione sei tu sempre più consapevole dei tuoi limiti ma anche delle tue potenzialità

E della loro concretezza

Del tesoro nascosto che possiedi e che… sei un irresponsabile se lo lasci perdere.

La formazione è la tua occasione di tutta la vita:

Qualunque mestiere tu faccia

Basta che faccia il mestiere di esistere

E di essere una persona che si vuol realizzare compiutamente.

Ti trovi a fare la scommessa decisiva della tua vita se ti prendi cura della tua formazione permanente o te ne infischi.

In una comunità che... forse ne è inconsapevole ma si vuol realizzare anch’essa

ed è chiamata a dire a sua volta sì o no a questa sua e tua realizzazione.

Qualunque mestiere tu faccia:

Lavoratore dipendente o disoccupato o studente o imprenditore o dirigente d’azienda o anziano in quiescenza o politico o amministratore locale o studioso o libero professionista o sportivo…

Ed a qualunque gradino tu sia in quella idiota e immorale falsificazione di vita che chiamano scala sociale.

In qualunque ambiente tu viva

Da qualunque punto tu parta

sei dunque chiamato a decidere se ti prendi cura della tua crescita permanente

o se ti infischi del destino della tua vita.

A volte mi chiedono in particolare cosa io pensi della formazione politica

Dato che la politica è dimensione essenziale per la vita comunitaria.

Anche la formazione politica rientra pienamente nei criteri valoriali e risponde alle esigenze di coerenza suddette.

Formarsi in politica, in particolare,

non significa imparare a far comizi efficaci turlupinando la gente

Né apprendere a creare manifesti elettorali più brillanti di quelli dell’avversario di turno

E neanche trovare la battuta efficace per controbattere l’ultima uscita di successo dell’avversario di turno.  

Formarsi in politica

Se davvero hai valori di ispirazione umanistica e tantopiù se si tratta di umanesimo cristiano

Significa imparare ogni giorno a capire più profondamente te stesso e contemporaneamente gli altri

A vedere di te stesso e degli altri un futuro lungo e non solo quello a dieci centimetri dal tuo naso

A saper affrontare tutti i problemi

anche eventualmente sbagliando, ma riconoscendo gli errori e migliorando sempre

Ad acquisire competenze crescenti, anche tecniche, nelle materie che hai scelto come tua specializzazione

Senza mai trascurare il miglioramento delle tue conoscenze più generali

E contemporaneamente a consolidare valori più alti per testimoniarli più fortemente

Mettendo tutto ciò a disposizione attiva della tua comunità

Oltre che di testesso.

E analogamente si può dire per la formazione sindacale, economica, scientifica, giuridica, e simili.

La formazione usa anche le aule ma se occorre sa farne a meno.

La formazione, se è davvero buona, deve costare pochi soldi e molta costanza di impegno

Deve chiedere l’aiuto di pochi professori e di molti maestri di vita

Deve mettere insieme teoria e pratica

Perché la teoria senza la pratica è priva di vita

Ma anche la pratica senza la teoria è un cammino a rischio di dispersione.

Per tutto questo la formazione non ha età

Né cariche sociali né gerarchie che esentino da essa

Né sapienti che possano farne a meno

Né “arrivati” che non ne abbiano più bisogno.

Beh… vi interessa?

Se sì, siete sulla strada giusta.

Se no, riflettete sui pericoli della vostra situazione.

Qualunque cosa pensiate,

la nostra formazione sarà così

o non sarà per nulla, perché, diversa da così, pensiamo che non valga la pena farne.

Solo così essa ha un senso di bene totale

Per noi stessi, per le speranze del nostro paese e anche oltre il nostro paese.

Un sogno?

Se volete, sì: un sogno. E che c’è di più concreto e utile di un sogno di bene, per migliorare davvero la realtà?

In fondo, alla chetichella, abbiamo già cominciato da molto a seminare il terreno:

ci siamo visti con tanti di voi, in diverse occasioni

giusto per cominciare a immaginarla, questa formazione

giusto per cominciare a dirci che puntiamo in alto

puntiamo appunto alla nostra persona totale da sviluppare

ed alla nostra comunità senza esclusioni

per migliorarle davvero entrambe e senza confini”.

                                                                                                                                              Giuseppe Ecca
Roma, 29 gennaio 2024
 
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I contatti, per chi è interessato, possono essere presi per ora direttamente con il sottoscritto, all’indirizzo giuseppe.ecca@gmail.com, o telefonicamente.

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Sono dunque disponibili fin da ora, concretamente:
 
INCONTRI (durata orientativa da due a cinque ore):
  1. La politica in Italia: un confronto fra ieri e oggi per capire le prospettive possibili.
  2. Motivazione e autorealizzazione nella scuola, nel lavoro, nella vita.
  3. La comunicazione fra persone e nella società: scienza e tecniche di base.
  4. Marketing e gestione aziendale.
  5. L’insegnamento della lingua italiana nella scuola come elemento fondativo per una formazione integrale: centralità  e metodi.
  6. Impresa: organizzazione e futuro.
CORSI (consistenza orientativa da dieci a venticinque incontri):
  1. Storia del lavoro e del sindacalismo in Italia e nel mondo.
  2. Un’esperienza lavorista e sindacale di eccezione: il settore elettrico e l’idea partecipativa in sessant’anni di dopoguerra.
  3. Formazione: il sentiero stretto.
  1. La comunicazione: scienza e tecniche nella vita e nel lavoro
  2. Econoimia: l’economia come bene comune.
 
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Racconti di vita

QUARTO DEI MILLE

A volte la nostra vita si specchia inattesamente in quella degli altri, magari per un episodio casuale del quale avevamo fino allora ignorato i protagonisti: e scopriamo che dietro quell’episodio c’è un insegnamento che fa anche per noi, o magari solo uno spunto di riflessione che è però occasione preziosa per farci semplicemente capire quanto è vasta e variegata la realtà umana che ogni giorno ci passa davanti e interseca i nostri passi; e quanto, in fin dei conti, valga la pena essere nei suoi confronti attenti e aperti.

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Il bambino che mi sedeva di fronte, sul treno regionale Genova-La Spezia, era mingherlino, aveva occhi castano-dorati, come i capelli, e gambette irrequiete. Quando si sentiva osservato si stringeva alla madre e reclinava la testa sul braccio di lei.

Lei, una giovane donna triste e pensosa, non badava al figlio né alle piccole stazioni dove il treno si fermava per pochi minuti: mentre lui ad ogni sosta si allungava verso il finestrino e leggeva ad alta voce il nome della stazione; la vocetta era squillante anche se tradiva una lieve incertezza nel sillabare il nome sconosciuto della località: uno scolaretto di prima elementare, ne dedussi.

Dopo Sturla, il bambino si inginocchiò sul sedile e appoggiò la fronte al vetro. La madre si preoccupò allora di controllare che i suoi sandali non sfiorassero le mie ginocchia. Ignorò la mia occhiata benevola di comprensione e riprese il suo silenzioso raccoglimento, con le mani intrecciate sulla borsa di rafia.

“Quarto dei Mille!” esultò poco dopo il piccolo viaggiatore, puntando il dito fuori. E voltandosi: “Perché Mille? Mamma, cosa vuol dire?”. La donna non cambiò espressione: muta e indecifrabile come una statua. Era mai possibile che non sapesse rispondere a una domanda così semplice? mi chiesi. Il bimbo ripetè la domanda calcando su quel “mille”, che forse gli sembrava strambo, per un paese. Non ottenne nessun risultato. Il treno ripartì. Colsi una sua occhiata rivolta a me: conosco bene la psicologia dei bambini, dopo trentotto anni di insegnamento, e capii subito che questo era un tipetto sveglio con una gran voglia di scoprire e imparare. Se mi fossi messa a spiegargli l’evento storico legato a quel nome, dopo aver bevuto le mie parole mi avrebbe tempestato di domande. Colta da un senso di rispetto per il silenzio malinconico della madre, preferii tacere. Intanto il bambino seguitava a fissarmi, per cui io finsi di dormicchiare. Durante il percorso udivo però la sua voce che elencava i vari paesi costieri; ma il tono era stracco e poi si spense. Evidentemente non gli piaceva giocare da solo. Tra un battito di ciglia lo intravidi osservare svagato il grigiore del cielo che si rifletteva nel mare, e smuovere smanioso le gambe.

Appena il treno sferragliò sul ponte sopra il fiume Entella la donna si rivolse al figlio con un piglio brioso: “Su, Nuccio! La prossima è la nostra fermata”. Lui balzò in piedi e si fece agganciare lo zainetto alle spalle. “Siamo già a Lavagna?”, si informò. “Proprio a Lavagna”, confermai io, rompendo finalmente il cerchio del mio riserbo. E lui con gli occhi sgranati: “Io sulla lavagna ci scrivo”. “E io ci abito da un sacco di tempo”, replicai scherzosa.

Scendemmo tutti e tre insieme. La madre portava un borsone nero a tracolla e sul marciapiedi sbirciò attorno, indecisa. All’uscita dalla stazione mi chiese dove fosse via Devoto, controllando un biglietto tratto da una tasca dei jeans. ”Che numero?” chiesi a mia volta. “Trentuno”, mi rispose. “Andiamo, è il caseggiato di fronte al mio”, la rassicurai. Parve illuminarsi: “Grazie, signora; è da anni che non vengo da queste parti: abito a Udine, e qui mi aspetta una mia amica”. “La Luisita”, specificò il bambino con gli occhi ridenti. Ci salutammo quando già le prime gocce di pioggia cadevano su via Devoto.

Quando arrivai a casa accesi una sigaretta e misi a posto alcune scartoffie inerenti alla mia visita al provveditorato agli Studi di Genova. Più tardi il frigo poco fornito mi indusse a prendere l’ombrello e uscire. Tornando dal supermercato mi volsi casualmente verso il civico 31: scorsi il bambino del treno che mi guardava attraverso il vetro del portone con aria sconsolata. Tornai allora sui miei passi e mi accostai: la madre era rannicchiata sulla prima rampa delle scale con nello sguardo la medesima delusione del figlio. Spinsi la maniglia: “Siete ancora qui?”, mi meravigliai. La giovane si levò in piedi imbarazzata: “La mia amica forse si è scordata del nostro arrivo, doveva lasciare le chiavi alla vicina, che però non sa nulla e al cellulare non risponde. “La Luisita è proprio scema”, mormorò il bambino scuotendo il capo. “E adesso?”, mi impensierii. “Aspettiamo ancora un po’, se non viene cercherò un alberghetto per la notte”, mi rispose lei a occhi bassi. Controllai l’ora al polso e decisi su due piedi: “Venite su da me, intanto dovete pur cenare”. Madre e figlio parevano stupiti dell’invito: lui fu però pronto a sistemarsi le cinghie dello zainetto, mentre lei esitava a raccogliere il borsone.

“Signora, non vorrei darle disturbo, lei è troppo gentile…”. Le allungai la mano come per stringere un patto di solidarietà. “Mi chiamo Teresa”, mi presentai. “Io sono Ortensia”, replicò lei con un filo di voce. Quindi aprii l’ombrello e alla benemeglio li feci mettere sotto tutti e due.
Nello svegliarmi la mattina dopo ebbi subito la sensazione di non essere sola in casa. Erano quasi le otto e certo Ortensia era già uscita: doveva prendere un treno per Genova. Mi aveva lasciato il bambino e il borsone; e non aveva potuto contattare l’amica al cellulare.

La sua storia me l’aveva raccontata la sera prima: quattro parole al tavolo di cucina mentre Nuccio dormiva nella cameretta che era stata di mio figlio Alberto. Una storia cominciata bene, che si era deteriorata recentemente. Il suo compagno – oh, quanto detesto questo termine in uso per le coppie di fatto – aveva perso il lavoro di gruista e l’inerzia lo aveva reso sfuggente e irascibile. Stava tutto il giorno fuori, rientrava tardi e ogni tanto portava un po’ di soldi di dubbia provenienza. Ortensia temeva che si fosse messo in un brutto giro e i suoi sospetti si confermarono allorchè fu arrestato perché in possesso di pochi grammi di cocaina. Raccontando questa vicenda lei fumava, e io pure. La nuvola di fumo creava una sorta di velo confacente a questa sua improvvisa familiarità con un’estranea.

“Il giudice non ha accettato l’alibi che si trattasse della sua dose personale e l’hanno arrestato per spaccio”. E dopo una pausa, con tono supplice: “Mi creda, signora, ha avuto un momento di debolezza in seguito al licenziamento, ma è un brav’uomo e ci vuole bene”. Il posacenere era pieno di mozziconi. Per il processo imminente Ortensia intendeva rivolgersi a un buon avvocato di Genova. “La mia amica si è offerta di tenere Nuccio, così io posso muovermi liberamente”, aveva concluso con un sospiro.

Nuccio comparve sulla soglia della cucina strofinandosi gli occhi e mi domandò della madre, con la quale aveva condiviso il letto a una piazza. Gli risposi che era partita e sarebbe tornata la sera. Lui si strinse nelle spalle: “E’ per papà, lo so; lavora a Genova. E’ tanto che non lo vedo”. Poi scostò una sedia e si sedette al tavolo dove avevo preparato il tazzone di latte con i biscotti. Ortensia lo tirava su bene, il suo bambino, sebbene adesso potesse contare solo sul suo lavoro in un’impresa di pulizie. Verso le dieci uscimmo e andammo a passeggiare sul lungomare sotto lo sfolgorante sole di giugno: Nuccio mi dava la mano fiducioso. Al suo sguardo acuto non sfuggiva nessun dettaglio di quel paesaggio da cartolina; però non faceva domande. Così toccò a me prendere l’iniziativa: “Ti ricordi che in treno volevi sapere perché una stazione si chiama Quarto dei Mille?”.

Lui mi guardò di sotto in su e mi fece, un po’ imbronciato: “Nessuno mi ha risposto”. Niente di meglio di una panchina un po’ in ombra per colmare la lacuna: e il mio racconto gli sciolse la lingua. “Questo Garibaldi era davvero un eroe”, osservò Nuccio, che aveva ascoltato molto attento la narrazione dell’impresa dei Mille. E poi con una timida occhiata: “Tu sei una maestra?”. “Lo sono stata… e tu hai una brava maestra?”. “Io ne ho due, la Lory è simpatica, l‘altra  è una streghetta con le unghie blu”. E si portò le mani alla bocca, pentito dell’impertinenza.
Nel pomeriggio Nuccio si mise a guardare i cartoni alla tivù e io presi un vecchio album dell’infanzia di mio figlio per mostrarglielo, ma cambiai idea e lo infilai di nuovo nel cassetto. Ortensia per tutto il giorno non si fece viva. Mentre cenavamo squillò il campanello della porta. Nuccio si strappò il tovagliolo e corse all’ingresso. Udii delle esclamazioni e lo seguii. Sulla soglia si stagliava una biondina sorridente che lo stava abbracciando: era la famosa Luisita che, una volta entrata, si scusò per le sue negligenze del giorno prima;  “Sto allestendo un piccolo stabilimento balneare, un grande impegno che mi ha mandato in tilt e ho scordato tutto il resto…”.

Nuccio la guardava con una smorfia di rimprovero. “Su, adesso saluta questa gentile signora, prendi la tua roba e vieni da me… La mamma mi ha telefonato, ma il cellulare era mezzo scarico e non ho capito quasi niente”. Nuccio non si mosse dal mio fianco. “Stanotte dormo qui”, disse; “la maestra deve finire di raccontarmi le ultime imprese di Garibaldi”. Non ci fu verso di fargli cambiare idea. La ragazza infine si arrese: sarebbe venuta a prenderlo l’indomani. Appena chiusi la porta Nuccio mi strizzò l’occhio: e rimase sveglio fino alle dieci ad ascoltare la lezione su Garibaldi. Prima di addormentarsi gettò un’occhiata verso la scrivania dove c’era la foto del mio Alberto. “ E’ tuo nipote?”, mi domandò. “E’ mio figlio a quindici anni”. “Dove è adesso?”. “All’estero”. “E non ti viene a trovare? ”Certo che viene, e anche di frequente”. Spensi la luce e uscii dalla stanza. Avevo il magone. Alberto era bello e bravo come appariva in quell’ultima immagine: ma quando suo padre se n’era andato via di casa per amore di una giovane turista inglese che viveva a Londra, era diventato duro e ribelle. Che si fosse messo in un brutto giro come il compagno di Ortensia me ne ero resa conto troppo tardi. Quell’estate particolarmente secca i boschi delle colline bruciavano e l’odore del fumo arrivava fino alla Via Aurelia. Incendi dolosi, scrivevano i giornali. Le guardie forestali scoprirono una piccola banda di minorenni che appiccavano il fuoco per divertimento. Alberto era fra loro. Cercò di scappare ma sull’orlo di un dirupo perse l’equilibrio e precipitò, facendo un volo di dieci metri.
Nuccio se ne andò la mattina dopo con “quella scema della Luisita”, lasciandomi dentro un’apprensiva tenerezza. La casa tornava vuota. Forse mi ero illusa che il bambino del treno restasse ancora un po’ a dare un senso alle mie giornate. Ma sarebbe stato come tradire Alberto che da decenni è l’ombra dolce che accompagna ogni istante della mia vita. Qualche volta scorgo Nuccio che gioca in spiaggia, allegro,  abbronzato, con altri bambini. Oramai di Garibaldi sa tutto e non ha più bisogno di me. Ci lanciamo un saluto da lontano. Ortensia ogni tanto mi telefona. Spero che tutto si risolva presto: così Uccio tornerà a Udine con i suoi genitori.
                                                                                                                             
                                                                                                                    (Anonimo, Premio  Prato Raccontiamoci)
      
                                                                                                                *****

 

Racconti di vita

PICCOLOBLU

A volte, come nel caso del racconto che pubblichiamo oggi, non correggiamo neanche la lingua italiana laddove essa può essere formalmente meno perfetta: perché chi ci regala queste esperienze di vita ci mette spontaneamente a disposizione la sua vicenda di umanità senza altre pretese che quella di testimoniare con onestà, e questo è un merito pieno, che non ha bisogno neppure della perfezione espressiva della lingua italiana (a volte si tratta di persone che, semplicemente, non hanno potuto compiere un completo corso di studi perché la vita le ha portate per ben più stringenti sentieri da affrontare).  

Ci si potrà rimproverare il fatto che, con il racconto odierno, per la seconda volta ci soffermiamo su una piccola vicenda di legame fra una persona e un animaletto, e ciò può sembrare un attaccamento eccessivo a una sorta di causa animalista: ma non è così. Raccontiamo tutta la vita e tutte le vite che ci capita di incontrare, nelle loro piccole e grandi dimensioni, invitando noi stessi e tutti a considerarle così come ci vengono incontro, semplicemente, nei significati piccoli e grandi che possono rivestire, e in ogni insegnamento che se ne possa trarre.

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Spesso i ricordi ci riportano indietro negli anni e i frammenti di emozioni ronzano all’orecchio della mente come api nell’alveare, e la mente continua aleggiando nel mare del passato, a volte senza trovare la fondamentale risposta ai quesiti che pone.

Scrivo questo episodio, vissuto con tristezza nella mia giovane età, quando negli anni del dopoguerra la vita era dura, la gente per sopravvivere era pronta a qualsiasi sacrificio, le famiglie erano numerose ed in ogni casa c’era solo il necessario per vivere.

Nella via in cui la mia famiglia abitava, al lato opposto della mia casa sorgeva un vecchio palazzo antico, che apparteneva ad una grande famiglia benestante, aristocratica, antica: i Medici, che del vecchio palazzo non facevano nessun conto; ma la gente del paese lo usava per gettarvi i rifiuti, e spesso per qualcosa di più doloroso. Quando nelle loro case avevano degli animaletti, soprattutto cani e gatti, e questi davano alla luce cagnetti e gattini, questi per mancanza di cibo venivano buttati vivi, senza rimorso, lì nel palazzo, e il pianto di questi esserini giorno e notte mi tormentava il cuore; spesso andavo, li raccoglievo nel mio grembiulino, li portavo a casa chiedendo a mamma di dare loro il mio cibo per sfamarli, e così mi sentivo felice.

Vedendomi tanto sensibile, mia madre mi accontentava e tutto ciò durava due, tre giorni; ma quando il terzo o quarto giorno tornavo da scuola e subito andavo al cesto e lo trovavo vuoto, allora chiamavo la nonna e la mamma e domandavo: “Dove sono gli animaletti?”. Loro, in sintonia, mi rispondevano che dai paesini di montagna era scesa gente per vendere i suoi prodotti, gente che stava bene, padroni di mandrie e di tante cose da mangiare; e li avevano regalati a loro, con loro sarebbero stati bene, avendo cibo in abbondanza, e sarebbero cresciuti da gran signori. Io nella mia innocenza ero felice. E ancora oggi non so se tutto questo era vero: ma non sentendo il loro pianto cessavo di essere triste. Mamma faceva del suo meglio per me, diceva che ero il suo piccolo uccellino spennato: “Se viene una ventata di vento ti porta via...”. Ero esile e lei mi abbracciava fortemente al cuore e faceva quanto poteva per me.

Ma l’episodio che segnò la mia anima fu quando, a quattordici anni, mi regalarono un cagnolino dagli occhi blu, bianco come la neve, di una bellezza straordinaria, il cui epilogo si immortalò nella mente mia segnandovi una storia particolare che ha messo un punto fermo nella mia vita.

Sono sempre stata innamorata dei fiori, ma le circostanze della vita non davano quello che desideravamo;                                                                                      c’era un limite in tutte le cose. Nella mia famiglia eravamo cinque bambini e, quando il Natale arrivava, per ognuno di noi il regalo più bello era un vestitino; succedeva due volte l’anno, il Natale per l’inverno e Pasqua per l’estate; con i tempi che correvano, questo per noi era una grande cosa,  un privilegio, pensando ai bimbi che avevano poco o niente; ma la bellezza era che chi aveva divideva tutto: specialmente pane, scarpe e vestiti; nei piccoli paesi si era una grande famiglia, amandoci e rispettandoci a vicenda.

Così arrivò il fatidico giorno; mamma e papà ci portarono a Bovalino, un paese vicino al nostro; Bovalino era un paese commerciale con tantissimi negozi di ogni genere, e mentre camminavo i miei occhi si posarono su un fioraio: aveva fiori bellissimi e io ammiravo una pianta di bellezza spettacolare, una pianta colma di bianche gardenie; mi sembrò che tutta la neve del mondo fosse caduta su quei petali ed il profumo inondava l’aria: mi fermai, mamma mi chiamava ma io non mi muovevo, qualcosa dentro me cambiò, volevo la pianta. Lei disse: ”La pianta costa quanto la stoffa del vestitino, non si possono comprare tutte e due”; ma io dolcemente e con perseveranza la convinsi, e così ebbi la mia splendida pianta. La curavo ed ogni giorno diventava più bella, ricca nella corona delle sue gardenie, attraverso i vetri della mia finestra l’ammiravo e mi sentivo felice.  

Accadeva anche che ogni giorno da casa mia passava un dottore veterinario  con la moglie: erano amici di famiglia; a quei tempi i dottori erano gente importante e di grande rispetto, e  successe che la signora moglie s’innamorò della mia pianta e venendo a trovarci diceva che non aveva visto mai una così bella e viva pianta; io sentivo che la voleva a tutti i costi, e lei mi offriva quello che desideravo: ma io dissi sempre di no. “E’ la mia pianta e non la do a nessuno”. Mamma mi suggeriva di darla al dottore e alla signora, perché “sono gente che… abbiamo sempre bisogno di loro”. Ferma, io dicevo sempre di no. Ma un giorno dovetti cedere: e pagai a caro prezzo.

Il dottore si presentò con un grande cesto adorno di fiocchetti e nastri blu e dentro il bianco cagnolino, il mio Blu dagli occhi color del cielo. M’innamorai subito di lui, lo presi in braccio, e lui cominciò a leccarmi con il suo musetto rosa. E’ stato un amore a prima vista; più cresceva, più si attaccava a me ed io la lui, era il bene dell’anima mia ed io gli detti quel nome con amore: Blu.

Se ben ricordo, a quei tempi in ogni paese le macchine si contavano sulle dita delle mani, erano pochi i privilegiati ad averne una, e per mia fortuna un giorno al palazzo dei grandi signori c’era festa, parteciparono persone di paesi lontani, arrivati da ogni dove proprio in macchina, ed io in quel giorno andai in negozio per far delle compere, attraversando la strada da casa mia. Il negozio distava pochi metri e mi avviai credendo che il mio piccolo Blu non mi avesse visto andare, ma lui mi aveva seguito a distanza e mentre attraversava la strada una macchina lo investì, sfortunatamente, travolgendolo e ferendolo gravemente; e così ferito, per amor mio si trascinò fino al negozio dove ero. Arrivò ai miei piedi, mi si buttò sopra lamentandosi, guardai cos’era e il battito del mio cuore si fermò, le lacrime scorrevano come un temporale vedendo il mio Blu colmo di sangue; lo presi fra le braccia e me lo strinsi al cuore, piansi: lui mi guardò con quegli occhioni colmi di lacrime e con un lieve sospiro morì fra le mie braccia.

Tornai a casa con il mio fagottino; il suo sangue bagnò il mio viso, le braccia, il vestito; il mio cuore sanguinava dal dolore, e lì finì quel grande bene. In tutta la mia esistenza non ho avuto più il coraggio di prendere un altro animaletto. E’ rimasto lui solo, nella mia vita e per sempre: il mio piccolo Blu.

Così finì pure la mia bella e bianca gardenia: nella vita niente è nostro, bisogna godere quello che si ha al momento e stringerlo nelle mani e nel cuore; solo i ricordi sono nostri, non ce li fa dimenticare nessuno, sono una proprietà nostra assoluta: ed oggi mi rivedo una bimba che stringeva fra le sue braccia anche la sua pianta di gardenia con occhi sorridenti e la felicità nel cuore.

Questa storia l’ho scritta per ognuno che sia padrone di un animaletto, affinchè lo ami, lo accudisca e gli voglia bene: perché sono degli esserini che hanno bisogno di tanto affetto e di tanto amore, e li ricambiano.
                                                                                                             
                                                                                                               (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)

 
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MM
 
 

Storie di vita

PIPPO L'ARISTOGATTO

6 gennaio 1943, festa dell’Epifania. Per noi bambini era la festa della Befana, la simpatica vecchina che nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, a cavallo di una scopa e con una gerla sulla schiena portava regali a tutti i bambini. In quel lontano 1943 io vivevo l’attesa della Befana in modo insolito: questa volta svegliandomi non avrei trovato vicino al letto il babbo e non avrei condiviso con lui, come sempre avevo fatto, la gioia e lo stupore per i regali ricevuti. Questa volta egli non poteva essermi vicino: era lontano per la guerra.
 
Quel mattino, quando mi sono svegliata, ho trovato come ogni anno, appesa alla spalliera del letto, una calza piena di dolcetti e sul comodino una sagoma della befana fatta con della pasta dolce. Sul letto, al posto dei giocattoli, un cestino legato con un nastro azzurro e, appeso, un biglietto dove era scritto: Ecco Pippo, un amico per sempre. Incuriosita mi sono affrettata ad aprire il cestino e dentro c’era un piccolo gatto, un bastardino con un mantello peloso bicolore, sopra maculato come un soriano e sotto, pancia e zampette, bianche: sembrava un comune gattino e non sapevamo quanto sarebbe stato speciale.
 
In quel periodo passavo molto tempo da sola, mentre mia madre continuava a lavorare in una grande fabbrica laniera. Il tessile era la caratteristica di Prato, la nostra città. Producendo soprattutto tessuti e coperte per militari, le aziende laniere lavoravano ancora a pieno ritmo: tutto si sarebbe fermato più tardi, con l’arrivo dei bombardamenti. Anch’io conti[G1] nuavo ad andare a scuola: frequentavo la seconda elementare; ma anche la scuola a breve si sarebbe fermata. Il peggio, purtroppo, doveva arrivare.
 
Sentivo molto la mancanza di mio padre, particolarmente la sera, quando mia madre aveva il turno serale e sarebbe rientrata dal lavoro alle 22,30. Il pomeriggio passava presto: noi bambini andavamo sempre all’aperto per i nostri giochi di gruppo, eravamo liberi e indipendenti, forse anche troppo indipendenti. A volte avevamo l’impressione di essere orfani: gli adulti erano distratti e affaccendati in altro di più urgente. All’ora di cena però dovevo andare nella casa di mia zia Umiltà, la sorella maggiore di mio padre, la quale abitava vicino a noi. I miei zii avevano una famiglia numerosa, cinque figli, e l’ultimo era affetto da una pesante poliomielite che lo costringeva in una sgangherata carrozzella donatagli dall’Ospedale Palagi. La loro casa era piccola, la loro miseria era grande. Lo zio Tito faceva di mestiere il muratore e in quel periodo, causa la guerra, era quasi senza lavoro. Per la preoccupazione e l’umiliazione di non riuscire a sfamare i suoi figli, egli, che era un omone buono e dolce, aveva avuto un crollo fisico (era dimagrito di 30 chili) e psicologico. La sera, invece di mettersi al tavolo con noi per la cena, si metteva in disparte seduto su una sedia e con la testa fra le mani piangeva. L’atmosfera in casa degli zii era molto pesante, troppo diversa dalle serate passate con mio padre prima della partenza per la guerra.
 
Il babbo, che prima della guerra lavorava nell’azienda del gas, aveva un turno di lavoro unico, diurno, e all’ora di cena era sempre con me e quando mia madre aveva il turno serale lui mi organizzava delle serate speciali. Forse perché ero figlia unica o forse per una sua grande sensibilità al riguardo (aveva perduto la mamma da piccolo) faceva tutto il possibile per non farmi sentire la mancanza della mamma. Le nostre serate speciali erano di due tipi: quelle “musicali” e quelle “imitative”.
 
Per le serate dedicate alla musica lui toglieva dal suo piedistallo il grammofono, un oggetto bellissimo marcato “La Voce del Padrone”, e me lo piazzava sul grande tavolo centrale; e io fin da piccolissima avevo imparato ad usarlo. In piedi su una sedia sapevo cambiare i dischi, cambiare le puntine e girare la manovella per ricaricarlo.
 
Per le serate “imitative”, in cui volevo giocare alla “mamma”, chiedevo a mio padre di togliere dalla vetrinetta i servizi di porcellana, regali di nozze che mamma aveva ricevuto dai suoi compagni di lavoro e a cui teneva moltissimo: e lui con grande azzardo me li affidava per farmi giocare a fare la padrona di casa. Fortunatamente tutto è andato sempre a buon fine e prima che lei rientrasse dal lavoro rimettevamo le cose a posto. Tutto questo ora non c’era più a causa della guerra. Io ero sempre più triste e malinconica.
 
Un maestro di vita
 
Pippo, il gattino, cresceva in fretta e ben presto cominciammo a capire che aveva qualcosa di particolare. Non miagolava quasi mai: non gli piaceva quel mezzo di comunicazione, preferiva esprimersi con gli occhi, i quali diventavano sempre più attenti ed espressivi.
 
Oggetto particolare della sua attenzione ero io: non mi perdeva mai di vista. Più cresceva e più avevo la sensazione di avere vicino qualcosa di speciale. Facendomi coraggio chiesi a mia madre di non mandarmi più dagli zii per l’ora di cena: preferivo rimanere nella nostra casa in compagnia di Pippo. All’inizio la mamma era un po’ perplessa, poi capì questa mia necessità e trovando un aggiustamento (facendo venire le mie due cugine più grandi a “darmi un’occhiata”) acconsentì a questo mio desiderio.
 
Pippo era sempre con me, era come se mi avesse preso in affidamento e, particolarmente nelle sere in cui ero sola, non usciva mai di casa. In quel tempo lontano la vita era molto diversa da quella che siamo abituati a vivere oggi. Nei paesi come il mio le case erano tutte singole, con la porta d’ingresso a pian terreno e sempre aperta. I bambini e gli animali domestici vivevano molto all’aperto, nella strada o nei campi vicini. La scelta di Pippo, di non uscire di casa la sera, lo rendeva diverso dai suoi simili: lui era sempre diverso. Tutto quello che faceva o che non voleva fare era caratterizzato da una scelta precisa sempre pensata, consapevole. Dopo ogni sua azione mi guardava e con quegli occhi intelligenti sembrava volesse dirmi: “Osserva, rifletti, usa la testa”. Oltre a darmi lezioni di consapevolezza mi faceva apprezzare anche la diversità. La vicinanza del gatto mi tranquillizzava e rendeva meno acuta la mancanza di mio padre, anche se era tanta la voglia di rivederlo!
 
La storia comunque mi stava aiutando, dato che si avvicinava una data importantissima per noi italiani: l’8 settembre del 1943, firma dell’armistizio con gli angloamericani. Circa un mese e mezzo prima, il 25 luglio, era caduto Mussolini con il suo governo e il generale Badoglio aveva preso momentaneamente il controllo del paese. Molti ingenuamente pensavano che con la firma dell’armistizio la guerra sarebbe finita. I militari che erano sui fronti di guerra cercarono di tornare a casa. Anche mio padre, che in quei giorni difficili era ricoverato a San Gallo, nell’ospedale militare di Firenze, per curarsi una ferita ad un ginocchio, riuscì con una fuga rocambolesca a tornare a casa. Anche lui, come molti, pensava che il peggio fosse passato e non poteva immaginare cosa ci aspettava. Mussolini riuscì ben presto a ricostruire il partito fascista creando la Repubblica di Salò, i tedeschi che erano sul suolo italiano occuparono le nostre città e insieme cominciarono a dare la caccia ai soldati che avevano disertato la guerra. Mio padre dovette nascondersi nella casa del nonno, ritenuta più sicura avendo delle vie di fuga.
 
Mia madre, a causa dei bombardamenti e dei sabotaggi fatti dai tedeschi alle fabbriche laniere, perse il suo lavoro. Mio padre improvvisamente si trovò dodici bocche da sfamare: gli zii con i loro cinque figli, il nonno con la seconda moglie, più noi tre. Nessuno poteva far fronte a tutte le necessità: chi era troppo vecchio, chi era troppo giovane, chi era malato. E mio padre di notte, come un animale selvatico, mettendo ogni volta a rischio la sua vita, andava a piedi attraverso i campi, da una casa all’altra dei contadini, a volte fino alla zona pistoiese: comprava qualcosa da mangiare e qualcosa da rivendere per poter assicurare la nostra sussistenza. La mamma ed io ogni sera nel tardo pomeriggio ci incamminavamo verso la casa del nonno per portare la cena al babbo. Pippo, percependo che i tempi erano cambiati e che i rischi erano aumentati, estese la sua protezione anche all’esterno e ogni sera si univa a noi formando con noi uno strano trio: faceva questo da par suo, non ci seguiva ma ci precedeva e con le sue lunghe zampe e con il suo incedere elegante, la testa fieramente eretta, guardava in faccia i rari passanti come volendo dire: “Guai a chi me le tocca!”.
 
Questa storia è andata avanti per un anno intero. Finalmente è arrivato il 6 settembre 1944, giorno della liberazione di Prato dai nazifascisti. Era il momento di riprendersi la vita; le distruzioni erano tante e tutti cercavano di tornare alla normalità, anche se i tempi erano difficili: mancava lavoro, mancavano servizi, i generi alimentari scarseggiavano ed erano molto cari. Il babbo però fortunatamente era tornato a casa e ben presto aveva ripreso a lavorare nell’Azienda del gas.
 
Ma dopo un po’ di tempo, un mattino, mi sono svegliata e non ho più trovato Pippo. Disperata ho iniziato a cercarlo e in questa mia ricerca si è unito tutto il paese, sparpagliandosi anche nei campi vicini; lo abbiamo cercato in ogni anfratto, in ogni dove, ma di Pippo nessuna traccia: sembrava svanito nel nulla.
 
I cattivi ragazzi
 
Dopo qualche tempo dalla scomparsa di Pippo mio padre una sera mi diede una bellissima notizia: casualmente, andando al lavoro, in una pasticceria aveva ritrovato il nostro gatto. Pippo si trovava in una pasticceria del centro di Prato, la Pasticceria Lai, che aveva ripreso da poco la sua attività. Dopo la chiusura a causa della guerra, i proprietari riaprendo avevano trovato la cantina, dove tenevano la farina, completamente infestata dai topi e per questo avevano chiesto al garzone di bottega di procurare un gatto. Immediatamente abbiamo capito: il garzone in questione era un ragazzo che abitava di fronte alla nostra casa.
 
Questo ragazzo era il minore di due fratelli, due ragazzi strani, asociali: non frequentavano mai nessuno, stavano sempre fra loro. Il minore era affetto da un’agitazione motoria notevole, si arrampicava sugli alberi come uno scoiattolo, e nel cortiletto a fianco della loro abitazione, con i pattini ai piedi, faceva delle piroette altissime. Il maggiore, più cupo, con gli occhi bassi, camminava vicino ai muri e sembrava voler nascondersi agli occhi altrui. Da poco qualcuno lo aveva fermato, sparandogli con una mitragliatrice ad una gamba, che poi gli avevano tagliato fino all’inguine. Qualcuno diceva che gli avevano sparato perché aveva assaltato un treno che trasportava merci alimentari. Altri dicevano che era stata una vendetta perché era stato in combutta con i repubblichini. Forse era vera la seconda versione. Pochi giorni prima di questo incidente anche un altro giovane del paese, non ancora ventenne, ea stato ucciso, colpevole di essere entrato negli ultimi mesi di guerra fra i repubblichini. Nell’immediato dopoguerra,  per una strisciante guerra civile non dichiarata, si verificarono numerosi episodi di rancori e vendette.
 
In famiglia eravamo comunque intenti a preparare al meglio la cesta per il recupero del nostro gatto. E la domenica mattina mio padre ed io con le nostre biciclette andammo alla pasticceria Lai. Entrando all’interno vidi Pippo su un alto sgabello; stava dormendo. Mio padre si diresse al banco delle proprietarie, io mi avvicinai al gatto e lui svegliandosi mi  guardò e capì tutto. Velocemente si mise seduto con il busto eretto, esprimendo il massimo della regalità: sembrava un’autentica divinità egizia. Con gli occhi socchiusi, sornioni, cercava di mettermi in soggezione per dirmi qualcosa che di regale non aveva niente. Mi stava dicendo: “Ti prego, lasciami, non portarmi via, in questa toperia mi sto divertendo da matti!”.
 
Sconcertata sono rimasta ferma per un attimo, poi mi sono voltata verso il babbo dicendogli: “Andiamo via, Pippo rimane qui”. Mestamente, a mani vuote, siamo tornati a casa. Amareggiata, delusa, non capivo come a causa del rapimento il gatto fosse caduto in un mondo di ratti. Ero troppo bambina per capire che con il ritorno a casa di mio padre e il ricomporsi della nostra famiglia forse la missione dell’animaletto era terminata. In seguito, da grande, pensando a quei giorni difficili, cruciali, ho capito che la vita mi aveva fatto un grande regalo mettendomi vicino quell’essere speciale: un angelo col mantello peloso. Indimenticabile!
                                                                      
                                                                                                      (Autrice anonima, “Premio Prato Raccontiamoci”)
 
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