Racconti di vita

IL DESERTO FIORITO

Come ci sembra di avervi già altra volta segnalato, abbiamo fatto la scelta di lasciare intatti questi “racconti di vita”, così come i loro autori ce li hanno trasmessi. Sono testimonianze, e il loro valore non è nella struttura letteraria ma semplicemente, e spesso profondamente, nella umanità che esprimono. Così è del racconto di oggi. Quando la forza insopprimibile di un affetto fa prendere la decisione di non rassegnarsi a lasciar morire un proprio caro in un’anonima “casa di riposo”...

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Odio il bianco: ospedali, cliniche, case di cura… hanno tutti muri bianchi. Percorro il labirinto dei loro corridoi a testa bassa. Una metafora agra del percorso obbligato della vita che, in fondo, ci porta tutti al medesimo punto. La differenza non è la meta, ma il cammino: è questo che ci distingue e qualifica, che può riempirsi di significato oppure sgonfiarsi nel nulla.
Il percorso di mio nonno è stato silenzioso, senza mai staccarsi da quella terra che egli ha coltivato per tutta la vita e che forse è stata il suo unico vero amore. Giungo alla sua camera con lo stato d’animo confuso; mi ero fermamente ripromesso di pensare prima a cosa dirgli per “tirarlo un po’ su di morale”, ma la mente ha vagato per conto suo nei meandri dei ricordi, tra fragole e albicocche e le mani callose di mio nonno che mi accarezzavano i capelli.  Entrando nella struttura mi aspettavo di vederlo seduto a leggere il giornale, come al solito,  e invece lo trovo sdraiato in una posizione nuova, con le braccia abbandonate lungo i fianchi.
  • Ciao, nonno! Come ti senti oggi? – alzo la voce perché è un po’ sordo.
Solleva leggermente il capo, mi fissa stringendo gli occhi:
  • Chi sei?
Due sillabe che mi giungono come stilettate alle costole. Mi ero illuso di poter rimandare questo giorno a un tempo futuro e indefinito; egoisticamente speravo che quando fosse accaduto (perché comunque era inevitabile che accadesse) mi sarei trovato magari in viaggio di lavoro e avrei quindi avuto una buona scusa per scaricare il peso della notizia su qualcun altro. Invece no: accade proprio oggi, in questo momento, e tocca a me.
  • Sono Paolo – gli ripeto cercando di abbozzare un sorriso e ricacciando giù il magone che mi attanaglia la gola.
Mi lancia uno sguardo smarrito, aggrotta la fronte, sembra impegnato in uno sforzo disperato per ricordare. Non mi ha riconosciuto: proprio me, il suo unico nipote, io che gli ho vissuto accanto per trent’anni e poi ogni giorno in questi ultimi due mesi…Non mi ha riconosciuto. E’ l’ultimo stadio di una malattia che porta via l’uomo un po’ per volta: lo disgrega, lo scompone, come in un quadro di Picasso, finchè l’uomo non riconosce più gli altri né sestesso. Mi siedo accanto al letto, gli parlo scandendo bene le parole: “Ti ho portato il giornale, nonno; non vuoi leggere?”
Una volta andai in Marocco con una comitiva turistica. Le guide ci condussero nel deserto. Niente sabbia. Colline rocciose scolpite dal vento e vallate cosparse di sassi e massi spigolosi. Un paesaggio desolato dove il nulla è protagonista e il pensiero vaga sconcertato alla ricerca vana di un appiglio. Le guide avevano piantato le tende sulla cima piatta di una collinetta per evitare il pericolo dei torrenti impetuosi che si formano quando piove. Non c’erano nuvole all’orizzonte e in quella regione la siccità durava da dieci anni. Quella notte però fui svegliato dal ticchettio della pioggia sulla tenda. I miei compagni dormivano e così gustai in solitudine quel momento particolare. Udivo in lontananza i rombi del tuono. Il temporale si stava scaricando con violenza. Rimasi sveglio a lungo e la mattina seguente fui l’ultimo ad alzarmi. Fuori, mi aspettava una sorpresa: tutt’intorno, sotto di noi, una marea di fiori gialli si era impossessata del terreno: un tappeto denso e uniforme che riverberava al sole. Ciottoli e pietre erano fioriti, la materia inerte aveva generato la vita, un’esplosione improvvisa aveva trasformato il deserto in un paradiso. Scesi dalla collinetta per toccare con mano il miracolo. Erano fiorellini simili a quelli che da bambino trovavo in campagna, nel podere del nonno, e di cui non ricordavo il nome. Piccoli fiori su steli esili, senza pretese né orpelli, ma di un giallo così intenso da abbacinare la vista. Ero stato privilegiato ad assistere a quello spettacolo così raro. Mentre i miei compagni consumavano rullini di foto, io rimasi immobile ad ammirare. Un uomo minuscolo nel deserto fiorito. Un brivido felice nell’animo.
Ora osservo il volto di mio nonno e vi ritrovo il paesaggio aspro del deserto: un’arida landa con solchi profondi, la fronte; radi cespugli quasi secchi, le sopracciglia; una collina smunta dal vento e dagli anni, il naso; e rughe profonde che dalle guance s’irradiano come canyons in una pianura secca eppure ancora vitale, non arresa al potere superiore della natura. Gli occhi, invece, gli occhi verdi di mio nonno, gli stessi miei occhi, sono laghi di vita risorta, pianure ubertose, un piccolo miracolo che ancora sfida il tempo.
Paolo! – esclamò all’improvviso-: sono contento di vederti!
Mi ha improvvisamente riconosciuto e, con le parole, un sorriso sboccia prepotente nel deserto, rompe gli schemi che sembravano ormai fatali, ricopre i canyons, spiana le colline, fa vibrare i cespugli di una brezza nuova. Su quel volto sorridente ritrovo lo stesso smarrimento beato che provai nel mezzo del deserto fiorito, un attimo di felicità che riempie il mondo ma che non possiamo portarci appresso. Un attimo che fa fiorire il mio nome sulle sue labbra, mentre il sorriso si spande agli occhi e all’anima.
  • Che hai da guardarmi così? – mi fa in tono burbero.
  • Niente. Pensavo… Sei mai stato nel deserto?
  • Lo sai bene che non mi sono mai mosso dalla mia terra.
  • Allora ti ci porto io, nel deserto.
Mi scruta come fossi un marziano e sbotta:
  • Che ti prende, oggi?
  • Dai, alzati – lo afferro per le spalle e lo costringo a sollevarsi.
  • Ma che diamine… - protesta a denti stretti.
  • Mettiti la vestaglia, ti porto via con la sedia a rotelle, non voglio che rimanga a marcire qui dentro.
Si mette a ridacchiare:
  • Vedrai come s’incazza la caposala!
Lo spingo fuori sulla sedia a rotelle. Percorriamo i corridoi quasi di corsa, prima che scoprano la nostra evasione. Il nonno ride come un bambino felice:
  • Sei proprio matto. Si può sapere dove andiamo?
  • Te l’ho detto: all’aeroporto, e poi nel deserto.
  • E cosa c’è nel deserto?
  • Non te lo posso spiegare, devi fidarti di me.
  • Andiamo nel deserto, allora! – E ride a crepapelle, agitando il bastone da passeggio come un cavaliere la sua lancia. Non lo vedevo così contento da anni. Prego il Signore che ci conceda almeno il tempo necessario a questa pazza impresa. Ci dirigiamo a tutta velocità verso il parcheggio dei taxi e intanto lui continua a gridare:
  • Più forte! Più forte!
                                                                                                     (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
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MM

Internazionale

RANIERO LA VALLE AGLI EBREI DELLA DIASPORA

Carissimi Ebrei della Diaspora,
vi scriviamo per parteciparvi una duplice angoscia che cresce in noi a partire da quel 7 ottobre del 2023, quando un’efferata azione dei palestinesi di Hamas fece scempio di un gran numero di ebrei di Israele e di molti non israeliani sui bordi della “striscia” di Gaza.

Insieme al dolore per le vittime e alla esecrazione per la brutalità dell’aggressione, la prima di tali angosce ha tratto origine dalla percezione che le conseguenze di quella azione, con tutto il male che portava con sé, sarebbero ricadute sulla intera popolazione di Gaza e sul popolo palestinese in quanto tale, ovunque situato, nei territori colonizzati della Cisgiordania come nei Paesi vicini.

L’altra angoscia è sorta, ed è cresciuta nel tempo, dalla considerazione che le conseguenze della spietata ritorsione intrapresa dagli Ebrei delle Israel Defence Forces, con tutto il male che porta con sé, ricadranno sull’intero popolo ebraico, sia privando di ogni sicurezza, ad onta di ogni possibile difesa, i cittadini dello Stato di Israele, sia mettendo a repentaglio, con risultati imprevedibili, il popolo ebraico della Diaspora in quanto tale.

A questa duplice angoscia si aggiunge quella per ciò che può accadere a causa dell’allargamento del conflitto al Libano e all’Iran, e per le conseguenze che ne possono derivare per tutto il Medio Oriente e la residua pace del mondo. Ciò che ci accomuna di fronte a questi eventi, è la nostra condizione di terzietà che ci fa trovare con voi dalla stessa parte sia al cospetto delle attuali condotte dello Stato di Israele, che sono in odore di genocidio, sia delle reazioni violente e illegittime dei suoi antagonisti, sia della responsabilità che tutti abbiamo in ordine alla “questione palestinese”.

Il nostro coinvolgimento in questa tragedia è determinato anche dal fatto che essa non investe direttamente solo i due popoli in lotta, né è solo un evento di portata locale, ma investe tutti i popoli e gli Stati ed ha una portata di carattere mondiale. Se, non risolvendosi questo conflitto, esso lasciasse dietro di sé due popoli irrimediabilmente nemici, la cui spinta vitale fosse la distruzione l’uno dell’altro, così ogni altro popolo potrebbe cadere nella stessa sindrome di annientamento reciproco, in modo tale che l’unità della famiglia umana sarebbe rotta e il mondo non potrebbe sussistere.

Perciò, e non solo per molte altre ragioni di cui si potrebbe parlare, noi sentiamo il vostro problema come nostro, e vi scriviamo non per darvi moniti e consigli che non abbiamo l’autorità di darvi e che voi potreste non trovare alcuna ragione di accogliere,
ma perché siamo convinti che insieme dobbiamo farci carico di questa sfida e insieme immaginare e cercarne la soluzione sul piano effettuale e politico. Se siamo, come si dice, a un “cambiamento d’epoca”, tutti noi contemporanei ne siamo responsabili e autori.

Un’altra ragione per farlo, senza che questo voglia dire un’interferenza in una questione che è solo vostra, è il fatto che come noi comprendiamo ed è di dominio comune, alla radice di questa terribile vicenda c’è una realtà di fatto che non è solo dello Stato di Israele, che in oltre 70 anni non è riuscito a dare soluzione al problema del rapporto sulla stessa terra con un gran numero di residenti che hanno altra origine, storia, lingua, religione e cultura, ma è anche e sempre più potrà diventare un problema anche nostro; e ciò in ragione delle correnti migratorie, regolari e irregolari, che affluiscono nei nostri Stati e che le nostre politiche sembrano non in grado di fronteggiare. La differenza sta nel fatto che mentre gli Ebrei sono gli “altri” sopraggiunti a sostituire una popolazione già esistente, i nostri Stati sono la popolazione esistente a cui si aggiungono gli “altri” che arrivano sempre più numerosi, provocando in essa inevitabili cambiamenti. Se i nostri Stati affrontassero il problema del rapporto con i migranti nella prevalente preoccupazione di una “identità” e invarianza da preservare, il rischio sarebbe di vivere “la questione migratoria” con la stessa ambascia con cui lo Stato di Israele fin dall’inizio ha avvertito “la questione palestinese”. E sarebbe una catastrofe se noi volessimo difendere la “nazione” e i valori nazionali, ben oltre la chiusura delle frontiere e dei porti, in modo corrispondente alla perentorietà con cui lo Stato di Israele rivendica e tutela la propria identità nella sua Legge fondamentale. Tale Legge, adottata per iniziativa del premier Netanyahu ma con l’opposizione del Presidente di Israele Reuven Rivlin il 19 luglio 2018, com’è noto definisce Israele come “Stato Nazione del Popolo Ebraico”, la Terra di Israele (più volte identificata in Israele con la terra che si stende dal mare al Giordano) come “la patria storica del popolo ebraico in cui lo Stato di Israele si è insediato” e “Gerusalemme integra e indivisa” come la capitale -di Israele.

Si può obiettare che l’identità che rende così tipico e coeso il popolo ebraico è ben più forte e storicamente sperimentata di quella che unisce i cittadini dei nostri Stati, che sono ormai inclusi in società per larga parte multietniche e pluraliste, legittimate da ordinamenti democratici, a differenza dello Stato di Israele in cui la citata Legge fondamentale riserva i diritti di natura politica “esclusivamente al popolo ebraico”. Ma se si rifiuta di cogliere la “differenza ebraica” nella specificità razziale, che è stata usata a fondamento della perversione dell’antisemitismo (“razziali” si chiamavano le leggi che l’hanno promosso) si deve cercare altrove il cemento di questa unità e specificità del popolo cui appartenete; e noi lo troviamo nella storia di Israele, nella sua fede, nel
suo riferimento alla tradizione biblica e talmudica, (“la Legge e i Profeti”!), e nella solidarietà nel dolore determinata dall’esperienza e dalla memoria delle persecuzioni subite.

Ma allora di nuovo si scopre quanto abbiamo in comune e come sia anche nostro il problema delle politiche e della figura attuali dello Stato di Israele.

Prima di tutto ci sembra che il riferimento alla fede e alla tradizione religiosa di Israele apra uno spazio fecondo di alterità tra voi, popolo ebraico della Diaspora, e i vostri fratelli ebrei dello Stato di Israele. Diverso infatti nei due casi ci appare questo rapporto. I cittadini anche non credenti della società israeliana, in larga parte secolarizzata (non diversamente dalle altre società dell’Occidente) vi fanno riferimento e le professano fedeltà come fondamento e garanzia dello Stato, che fin dall’origine ha scelto di stabilire in essa la propria legittimazione; infatti essa è implicitamente riconosciuta dalla comunità internazionale che correntemente si riferisce ad Israele come allo “Stato ebraico”. Questo però comporta una lettura del patrimonio spirituale dell’ebraismo in termini temporali e politici, non sempre prudenti, che distorcono agli occhi degli osservatori esterni il significato della fede ebraica e che nei momenti di crisi sono accentuati dai governanti di Israele per difendere le loro scelte e ottenere una sorta di insindacabilità delle loro politiche, mettendo in carico all’antisemitismo le riserve e le critiche che vengono loro rivolte. Il danno di questo uso strumentale dei tesori dell’ebraismo ci è apparso ingigantito nel corso di questa crisi, per il frequente ricorso che vi ha fatto il premier Netanyahu, rivendicando una filiazione diretta delle sue scelte dai comandi di Mosè e dalle gesta di Giosuè, stabilendo una continuità di fatto tra le azioni distruttive di oggi e gli stermini di ieri dei popoli vinti da Israele nell’epica conquista della Terra promessa, interpretando settariamente l’effetto della presenza di Israele sulla “mappa” del mondo in termini di benedizione e maledizione, presentando lo Stato di Israele nella forma di un messianismo realizzato e rompendo con la comunità delle Nazioni in una rinnovata contrapposizione tra Ebrei e “Gentili”. Una linea di governo che si è manifestata bollando l’Organizzazione che le riunisce, l’ONU, come una “palude di antisemitismo”, non risparmiando la vita dei suoi operatori umanitari, attaccandone i militari in missione di pace, dichiarando persona non grata il suo massimo rappresentante e sdegnando le pronunzie i moniti e le accuse dei suoi organi istituzionali e giudiziari. Siamo particolarmente raccapricciati e appare blasfema la pratica di uccidere i nemici uno per uno e promettere di ucciderli tutti invocando il nome di Dio, avendo in premio la luce e l’entusiastico consenso di Biden.

Vogliamo rendervi atto che molto diversa è la testimonianza dei valori dell’ebraismo e della fede di Israele che si sprigiona dal vasto mondo degli Ebrei della Diaspora. Anche tra voi ci sono credenti e non credenti, e senza dubbio è ragione di arricchimento per
tutti la presenza e l’integrazione degli Ebrei della Diaspora nelle nostre società laiche e nella costruzione di autentiche democrazie. Ma se teniamo conto della ricca varietà di posizioni espresse in seno all’ebraismo, vediamo come una gran parte dei sapienti d’Israele e dell’ebraismo rabbinico ha respinto nel passato, e in notevole misura lo fa anche oggi, una interpretazione del messianismo in senso politico e mondano, professando come riservata a Dio l’attuazione delle promesse messianiche, ha giurato di “non forzare la fine”, si è dissociata da una versione del sionismo in un suo intreccio perverso con lo Stato, rivendica il valore della vita ebraica “nel differimento” della redenzione e nell’esilio, legge in modo non fondamentalista il libro sacro e ha parole di vita riguardo a molte altre cose. Grande perciò, dal nostro punto di vista, sarebbe l’importanza di una crescita del dialogo e del confronto tra il mondo della Diaspora e gli Ebrei dello Stato di Israele, in vista di un cambiamento e di una rettifica degli errori commessi (denunciati perfino dagli Stati Uniti) e anche ai fini di un contenimento e di un antidoto al risorgente mostro dell’antisemitismo o, come è stato chiamato anche da autorevoli Ebrei, al “suicidio di Israele”.
La seconda realtà chiamata in causa dal riferimento alla fede e alla tradizione biblica di Israele è quella dell’Occidente, il quale non a caso è collocato, da un luogo comune di cui molti ignorano la vera portata, nella filiazione dalla tradizione “ebraico-cristiana”.

Se questo è vero, si pone un problema molto grave per noi, al di là delle opzioni di fede di ognuno. A questa nostra tradizione appartiene una parola di Gesù detta alla donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe, tramandata dal Vangelo di Giovanni, che afferma: “La salvezza viene dai Giudei”. La nostra esperienza attuale e la tragedia di Gaza insinuano che ne venga invece la perdizione e la fine. Il problema consiste nel fatto che o lasciamo cadere come infondata e inattendibile la predizione di Gesù, ma allora è tutto il Vangelo che cade, oppure la situazione presente viene rovesciata e questa profezia si traduce in lieto preannunzio di un altro futuro e in un compito da assolvere. Nella storia della cristianità per molto tempo questa seconda ipotesi è stata scartata (“i perfidi Giudei”!) ma nel nostro tempo il rovesciamento è avvenuto, come dimostrano la riforma della liturgia, la fede espressa nel documento “Nostra aetate” del Concilio Vaticano II”, il dialogo ecumenico e quello ebraico-cristiano, il riconoscimento degli Ebrei come “nostri fratelli maggiori” secondo la pronunzia di Paolo VI, il documento di Abu Dhabi e la “Fratres omnes” di papa Francesco, così come nel mondo laico il ravvedimento è attestato dal pentimento e dalla condanna universale della Shoà insieme all’onore e al pregiudizio favorevole riservati agli Ebrei contro ogni antisemitismo. A ciò si aggiunge, da parte della storiografia scientifica e della ermeneutica cristiana una lettura non pedissequa della Bibbia (quella letterale
sarebbe secondo i teologi cattolici “un suicidio del pensiero”) che non considera “storici” i libri “storici” dell’Antico Testamento, scritti molti secoli dopo i fatti narrati, e perciò non attestanti fatti effettivamente avvenuti. Ciò significa liberare il popolo ebraico dalla pretesa origine da un delitto fondatore, e addirittura da un passato di decreti di sterminio ed eccidi di interi popoli (molti dei quali all’epoca nemmeno esistenti) su commissione di un improbabile Dio violento, a sua volta successivamente ucciso nel Figlio, e cancellare l’intero armamentario ideologico su cui è stata storicamente fondata la persecuzione antisemita. Per contro un passato di delitti fondatori e di messianismi letali lo hanno molte realizzazioni genocide e colonizzazioni insediative dell’Occidente “civilizzatore”, come nella “scoperta” e conquista dell’America, nell’America cosiddetta “latina”, nell’Africa non solo del Sud, in Oceania e altrove.

Così ristabilito l’orizzonte in cui operare, si apre la possibilità di un’alleanza di tutti i soggetti fautori di pace con gli Ebrei della Diaspora per un dialogo con l’attuale Stato di Israele, la ricerca di una soluzione e la costruzione di un’alternativa riguardante non solo Israele e i palestinesi ma la pace e l’unità stessa del mondo.

Sarebbe una presunzione e ancora il riflesso di una mentalità egemonica stabilire i termini di tale soluzione, che possono scaturire solo da una ricerca comune e dalla inventiva della storia. Si può però affermare con un sufficiente grado di certezza che una soluzione può risiedere solo in una riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi e non solo venire da artifici politici e diplomatici. Per la costruzione di un’alternativa si deve ormai abbandonare la fuorviante soluzione a due Stati, per la quale ci vorrebbe ben più che una riconciliazione, tra due Stati limitrofi e indiziati a combattersi, anche ove mai tale soluzione fosse stata possibile e auspicabile in passato, nonché la finzione di negoziati in realtà ordinati a confermare e preservare la situazione qual è, come è stato sostenuto anche in un dialogo tra due culture diverse, quale il dialogo tra Ilan Pappé con Noam Chomski. Resta la soluzione a uno Stato, ma allora va costruita attraverso una riforma della figura di Stato vigente, riforma che pertanto riguarda non solo lo Stato di Israele, nel quale l’identità etnico-religiosa spinta all’estremo ha dato luogo a un regime di dominio e di guerra, ma la stessa forma di Stato moderno, quale si è andata a fissare negli Stati esistenti, che nel loro insieme ormai globalizzato si presentano come un coacervo di sovranità in competizione se non in lotta tra loro, che hanno eletto come ultimo (e spesso anche primo) giudice tra loro, la guerra. Lo Stato rispondente alla nuova realtà di una comunità mondiale pluralistica e multiculturale dovrà piuttosto costruirsi in una pluralità di ordinamenti giuridici interagenti tra loro, che insedino come sovrana la pace, assicurino l’eguaglianza, riconoscano non solo come affare individuale e “privato”, ma sociale e significante per tutti, le culture le religioni e le
tradizioni diverse, e aprano le frontiere e i porti alla libera circolazione non solo delle economie e delle merci, ma delle persone e dei popoli. Si potrebbe perfino pensare che nel nuovo “villaggio globale” agli organismi che corrispondono ai tre poteri competenti nelle relazioni interne agli Stati, legislativo, esecutivo e giudiziario, possa aggiungersi un altro organo, quello della diplomazia, con poteri di consiglio e di controllo sui rapporti esterni e le scelte internazionali dello Stato, a partire dalla scelta costituzionalmente obbligante della pace, della salvaguardia del creato e della dignità delle creature. Così come si potrebbe pensare a uno sviluppo del diritto che giunga ad abrogare e sanzionare la figura del “Nemico”; e ciò non solo in Europa, quando perfino nell’Impero ottomano Ebrei e Islamici hanno vissuto insieme pacificamente per secoli, senza ombra di antisemitismo.

Questo volevamo dire agli Ebrei con noi conviventi, nostri vicini, concittadini, sorelle e fratelli in quest’epoca nuova.
Raniero La Valle e Comitati Dossetti per la Costituzione, Domenico Gallo, giurista, Roberta De Monticelli, filosofa
Con (firme dei mittenti in ordine di apposizione):
Raffaele Nogaro, vescovo cattolico, Claudio Grassi, legislatore, Felice Scalia, gesuita, Elena Basile, ambasciatrice, Luigi Ferrajoli, giurista, Giovanni Ricchiuti, vescovo cattolico, presidente di Pax Christi Italia, Stefania Tuzi, storica dell’architettura, Francesco Di Matteo, avvocato, Francesco Zanchini di Castiglionchio, canonista, Massimo Zucconi, architetto, Fulvio De Giorgi, ordinario di storia dell’educazione, Agata Cancelliere, insegnante, Giorgio Rivolta, docente di filosofia, Santino Di Dio, impiegato, Raffaele Luise, giornalista, Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo, Vito Micunco, Comitati pugliesi per la Pace, Nicola Colaianni, già Magistrato di Cassazione; Nicola Costantino, ex Rettore del Politecnico di Bari; Nicola Pantaleo, già Presidente del Consiglio della Chiesa Evangelica Battista di Bari;, Antonio Malorni, biochimico, Paolo Cento, legislatore, Fabio Filippi, editore, Enrico Peyretti, insegnante e maestro di pace, Grazia Portoghesi Tuzi, etnomusicologa, Francesco Comina, insegnante, Paola Patuelli, insegnante, Anna Sabatini Scalmati, psicanalista, Angelo Cifatte, funzionario pubblico, Riccardo Valeriani, assistente sociale, Luca Robino, (“Persona al centro”), Don Emilio Maltagliati, Parroco emerito di Cassinetta di Lugagnano (Mi),
e con:
Ottavio Di Grazia, Storico della Shoà, Tonio Dell'Olio, presidente Pro Civitate Christiana, Don Renato Sacco, Pax Christi, Mario Menin, direttore di "Missione Oggi", Franco Ferrari, Presidente “Viandanti”, Giuseppe Limone, filosofo e giurista, Carlo
Maria Ferraris. Redazione de “Il Gallo", Maurizio Serofilli, Emanuele Pellicanò, direttore di Montedomini, Firenze, Maurizio Mazzetto, presbitero (Pax Christi), Paola Mario, insegnante, Gian Piero Saladino, assistente sociale, Paolo Farinella, biblista, Moreno Biagioni (Comitato "Fermiamo la guerra" di Firenze), Giancarlo Piccinni, Presidente Fondazione don Tonino Bello, Alfonso Gianni, saggista, Firenze, Pietro Soldini, sindacalista, Roberto Rusconi, storico del cristianesimo e delle Chiese, Giorgio Trentin, sinologo, Vincenzo Colli, storico del diritto medievale, Francesco Pistoia, già sindaco e legislatore, Sergio Paronetto, Pax Christi, Flavio Pajer, docente di Pedagogia comparata delle religioni, don Severo Piovanelli, ex parroco, Federico Palmonari, fisico nucleare, Fabrizio Truini, amicizia ebraico-cristiana, Anna Doria, insegnante, Maria Speranza Perna, docente, Massimo Marnetto, attivista, Carmine Miccoli, prete, Luigi Bertagnolli, libero professionista, P. Abdo Raad, missionario, Manlio Schiavo, docente, Bernardino Zanella, Servo di Maria, Vincenzo Marras, già direttore di “Jesus”, Pier Giorgio Maiardi, pensionato bancario, Roberto Fiorini, Giovanna Monina già Dirigente del Servizio Sanitario Nazionale, Antonio Caputo, giurista, Leonarda Stucchi, Gianni Bacci, Cristina Giorcelli, docente americanista, Elena Berlanda, insegnante, Barbara Varelli, Paola Pecco, Luigi Consonni, preteoperaio, Lino Prenna coordinatore di "Agire Politicamente" , Vito Capano, "Il Gallo" di Genova, don Mario Marchiori, parroco, Lucia Maccone Sica, insegnante, Giulio Sica, già magistrato di Cassazione, Bice Parodi, Fondatrice dell’associazione ’”senza paura” Genova, Luigi Colavincenzo, dirigente pubblico
e con:
Beatrice Draghetti, già presidente della provincia di Bologna, Peppe Sini, Centro per la pace di Viterbo, Daniele Mauri, Comunidad Santo Espìritu, Lima, Perù, Francesco Domenico Capizzi, chirurgo, Giovanni Ferretti, filosofo e presbitero cattolico, già rettore dell’Università di Macerata, Francesco Antonio Romito, avvocato, Mario Agostinelli presidente Associazione Laudato Si’, Laura Nanni, docente di filosofia, Art’incantiere, Eleonora Stillitani, insegnante, Piergiorgio Bortolotti, operatore sociale, Roberto Mazzotta, diplomatico, Giovanni Lamagna, docente, Marco Vincenzi, operatore sociale, Andreina Albano, addetto stampa, Eleonora Caltabiano, medico, Santo Di Nuovo, psicologo, Vito Lacirignola. Editore Stilo, Franca Maria Lorusso, avvocato ecclesiastico, Corrado De Robertis, comboniano, Pier Giorgio Taneburgo, Biblioteca Provincia Puglie, frati cappuccini, Francesca Vessia, pedagogista, Claudio Ciancio, professore di Filosofia teoretica, Loris Nobili, ex dipendente della Banca Nazionale dell’Agricoltura e presente alla strage di Piazza Fontana, Franco Meloni, direttore Aladinpensiero News, Lina Ibba, medico, Stefano Toppi, ingegnere, Alessandro Bellavite Pellegrini, cristiano semplice, Gaetano Dammacco, Docente di
diritto ecclesiastico, Paolo Orsolino, architetto. Maria Teresa Cattarossi, insegnante e psicoterapeuta. Luca Ulianich, ricercatore CNR, Roberto Gelpi, ingegnere e biblista, Maria Rosa Filippone, Carolina Goretti, Maria Nella Abbassetti, Ugo Ugazio, filosofo, Susanna Braccia, segretaria. Laura Marotta, impiegata. Sr. Maria Costanza Crippa, eremita, Ilva Palchetti, attivista, Roberto Bertoli, ex giornalaio, Giuseppe Deiana, presidente Associazione Puecher di Milano, Grazia Bellini, presidente della Fondazione Balducci, Liviana Gazzetta, insegnante, Luca Kocci, insegnante
e con:
Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, Pasquale La Cerra pediatra, Giuseppina Sciacca, Ufficio Approvvigionamenti Sanità, Francesca Scarpat, Pio Zanella, p. Giovanni Belloni, Elisabetta Porro, Flavo Fenici, medico, Ettore Fasciano, Carlo Bolpin e Associazione “Esodo”, Pier Luigi Biamonti, avvocato, Daniela Turato, docente, Giovanni Giuffrida, ingegnere informatico, Giuliana Amadio, madre di famiglia, Paolo Bertagnolli, insegnante, Angela Mancuso, Fabio Ragaini, Gruppo Solidarietà, Franca Littarru, Piccola sorella di Gesù, Emilia Forconi Occorsio, insegnante, Raffaele (Lello) Agretti, poeta, Domenico Garozzo, chimico, dirigente di ricerca del CNR. Carmelina Loguercio, ordinaria di gastroenterologia, Livia Malorni, ricercatrice CNR, biologa computazionale e madre, Norma Naim, dirigente Regione Campania, Giacomo Meloni, segretario della Confederazione Sindacale Sarda-CSS, Gianfranco Maddoli, già Sindaco di Perugia, Giorgio Sartori, educatore, Maria Ricciardi Giannoni, “Pace Terra Dignità”, Nicola Sannolo, professore di medicina del lavoro, Gaetano Dammacco, Docente di diritto ecclesiastico, Pierpaolo Favia, docente. Gruppo Ecumenico di Bari, Vito Lacirignola. Editore Stilo, Franca Maria Lorusso, avvocato ecclesiastico, Corrado De Robertis, Comboniano, Pier Giorgio Taneburgo, Biblioteca Puglie frati cappuccini, Francesca Vessia, Pedagogista
Le motivazioni di ogni mittente firmatario sono conservate in archivio. Il gran numero di quanti hanno voluto unirsi ai mittenti di questa lettera indica come essa interpreti il pensiero e possa ispirare l’azione di tanti altri tra i Gentili intesi a promuovere un mondo diverso.

Racconti di vita

CIRILLINO TROPPE'URVE

A dire il vero questa “storia di vita”, oltre che molto semplice e molto vera, è un poco amara. Una piccola povera storia vera dalla quale cercar di trovare stimolo a vigilare meglio su noi stessi e su ciò che siamo e su chi ci sta intorno, per aiutarci e aiutare a prendere consapevolezza della dignità e della responsabilità che la vita merita: la vita non può essere sprecata. Vi lasciamo il racconto così come ci è stato trasmesso.


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Nel rione di San Giusto, a Pisa, per un certo periodo di tempo tra la fine della seconda guerra mondiale ed il pieno del miracolo economico italiano, erano sulla bocca di tutti due fratelli, nati ambedue intorno al 1910.

Si chiamavano Libertario e Giordanobruno Riglioni, ed i loro nomi la dicevano lunga sulle idee politiche del loro padre, per il quale anarchico era il pensiero giusto e verso l’anarchia doveva andare la storia.

Libertario si rese famoso per essere uno degli antifascisti più duri a morire e si fece un po’ di gattabuia e parecchio confino; dopo il 25 luglio del 1943 diede sfogo a tutto il suo patriottismo e, durante la guerra civile, non disdegnò di mettersi al servizio dell’Intelligence inglese e meritarsi, a fine conflitto, un bell’attestato del maresciallo Anders.

Fratello minore di Libertario  era Giordanobruno, che non si occupò mai di politica per la paura di perdere il posto di fuochista nelle FFSS. Anzi, durante il ventennio del regime cambiò nome in un più semplice Bruno. Sposò una casalinga, brava cuoca, e si rese popolare in San Giusto come raccoglitore di funghi e di lumache. Fece il fuochista fino a che esistettero le locomotive da manovra a vapore,  poi morì senza godersi la pensione.

Ebbe due figli che erano duri come il macigno: sì e no fecero le scuole dell’obbligo, ma senza profitto. Il maggiore, Velio, fece anche lui il ferroviere – settore personale viaggiante – e sbattè la porta in faccia ad amici e parenti quando seppe che qualcuno aveva detto di lui che nelle FFSS non era entrato per concorso ma per un colpo di fortuna.

Infatti, cominciò come facchino in una cooperativa di carico e scarico che fu sciolta all’arrivo della legge detta erga omnes, ed i cui dipendenti furono assunti dalle FFSS come manovali. Il lavoro da facchino glielo aveva trovato un suo lontano parente da parte di madre, preso da compassione per quel povero giovane che rischiava di divenire uno dei tanti disoccupati cronici dell’epoca.

Il secondo figlio, Rodolfo, aveva trovato, chissà come, un posto di saldatore nello stabilimento della Piaggio a Portammare, dove si assemblava l’Ape e dove, come inizio, si procurò, con la fiamma ossidrica, una ustione che gli fruttò alcune settimane di cassa mutua e riposo. Dato che era un bel ragazzo, era entrato in simpatia di un altro lontano parente, un impiegato spezzino dell’Inps che un giorno gli chiese perché, data la sua prestanza fisica, non avesse scelto la carriera del fotomodello: Firenze era vicina con il suo mondo della moda, e molte porte gli si sarebbero aperte con poca fatica. Ebbe però una risposta sibillina.

Altrettanto sibillina (“Sono mestieri periolosi”) la ebbe quando il parente gli chiese perché non facesse la guardia notturna o il carabiniere, data la dichiarata pesantezza del mestiere di saldatore: almeno, a far certi mestieri, come ad esempio la guardia notturna o il carabiniere, c’è poco da sfacchinare, si pensava.

Dato che erano in argomento, il parente previdenzialista si sentì chiedere se avesse conoscenze nella direzione della Piaggio per un’eventuale spintarella. Il previdenzialista non ebbe il coraggio di dire di no: parlò del ragazzo in termini benevoli con il capo del personale della Piaggio, che fece di tutto per far trasferire il Rodolfo Riglioni da Pisa a Pontedera, dove si stavano raddoppiando gli stabilimenti e i dipendenti.

Mal ne incolse al parente Inps, perché dopo due o tre mesi il raccomandato di ferro fu sbattuto fuori della Piaggio come una ramazza, per manifesto scarso rendimento. Infatti il Riglioni era stato, sì, spedito alla catena di montaggio della Vespa, ma gli era stato anche accennato che se ci sapeva fare sarebbe stato promosso di categoria e poi, chissà, avrebbe potuto divenire anche un capetto. Invece il Riglioni si fece subito venire una peritonite con conseguenti lunghe settimane di convalescenza, cure, e, soprattutto, riposo: situazioni che aggravarono la sua posizione di ritardatario cronico.

Egli si giustificò del licenziamento in tronco dicendo alla fidanzata, al parentado, ai cugini laureati, al parente Inps e alla relativa signora, che alla Piaggio di Pontedera si respirava un’aria mefitica fatta di controlli e di spinte, e che lui si era ribellato. Fu creduto.

Nonostante questo precedente, però, riuscì a trovare – forse con il metodo usato qualche anno prima da suo fratello – un posticino da autista nell’azienda municipalizzata dei trasporti cittadini, ove ti licenziano solo se spacchi la faccia ad un dirigente. E allora, dopo un annetto di guida degli autobus urbani, un’ernia del disco lo mise cappaò. Operazioni chirurgiche, degenze, convalescenze e riabilitazioni nelle principali stazioni termali della penisola, che convinsero l’azienda a considerarlo inabile alla guida: per compassione fu spedito in officina, ove si distinse per le sue movenze da bradipo, tanto che i suoi colleghi lo soprannominarono sarcasticamente Motorino.

Rimase in officina fino al prepensionamento, che avvenne in età talmente giovanile da permettergli di dedicarsi, finalmente, alla sua unica vera passione: la pesca sportiva. Ora sì che poteva alzarsi dal letto all’alba: ma non per andare all’odiato lavoro, bensì per andare coi gambali fino alla coscia nelle gelide acque del Serchio e in quelle vorticose della Lima per la pesca con la canna, e fra i marosi del Tirreno in burrasca per la pesca al rezzaglio.

Postumi della peritonite e dell’ernia del disco? Neanche a parlarne. Durante le battute di pesca al rezzaglio conobbe dei pescatori livornesi dai quali apprese le locuzioni “boiadè!” e “borda!”, con le quali modernizzò un pò il suo linguaggio. Infatti, avendo vissuto fino alla pubertà attaccato alle gonnelle della madre che era una popolana, diceva, ad esempio, “la diabete” invece che “il diabete”; e altre eleganze linguistiche.
La fidanzata, poi moglie, di Rodolfo Riglioni era una commessa di drogheria, figlia di un bracciante inurbato. Si chiamava Morena; aveva fatto sì e no le elementari, ma le piacevano tanto i soldi e l’oreficeria. Avrebbe voluto riscattarsi civilmente, ma non certo andando alle scuole serali, perché le sarebbero state proibite dal Riglioni Rodolfo, geloso come un Otello.

Avrebbe potuto, in alternativa, imparare qualcosa qua e là: ed il qua e là poteva essere attraverso il parente Inps e la relativa moglie, ai quali chiese infatti di poter andare  a una gita collettiva verso San Gimignano, città che aveva sempre sentito nominare ma che non aveva mai visto neanche in cartolina: fece la richiesta  perché sapeva che il previdenzialista e sua moglie erano una coppia colta, dalla quale avrebbe potuto imparare parecchio.

Il previdenzialista si diede in effetti da fare, spiegando la bellezza soave della cappella di Santa Fina del Ghirlandaio e quella di Piazza della Cisterna, tutta a sghimbescio ma pure piccolo capolavoro della urbanistica rinascimentale. Al ritorno, chiese al Riglioni se gli era piaciuta la piazza ed ebbe come tutta risposta che sì, poteva essere anche bella, ma “c’erano troppe cornacchie”.

Analoga risposta intelligente fu data dopo una gitarella in Garfagnana, subregione oggetto di culto da parte di tutta la borghesia di Pisa: “Forse saranno bei posti, ma ci sono troppe ùrve”. Così si beccò anche il soprannome di Cirillino Troppeurve.

Il parente previdenzialista era sposato, a sua volta, con una bella e simpatica impiegata dell’Autorità Portuale di Livorno, che morì improvvisamente divorata da un cancro: cosa che lasciò Riglioni talmente sconvolto da fargli decidere di lasciare tutto e traslocare nella Spezia, ove aveva lasciato qualche amico e qualche parente. E un giorno, nel trigesimo della morte della signora, guidato dalla Morena, Rodolfo si fece avanti per vedere se per caso lei avesse lasciato dell’oro e per sapere se, nell’intrico giuridico relativo alla quota legittima, c’era da raspare qualche milioncino di lire. Trovarono il portone chiuso ed un cartello di “vendesi” con la sola indicazione di un numero telefonico che iniziava con zero-uno-otto-sette. Tornarono indietro ritenendosi sfortunati…
                                                                                                       
                                                                                                                 (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)

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Racconti di vita

QUELLE STRANE PORZIONI

A volte, ma non così raramente come in genere si pensa, apprendiamo lezioni di vita da una casuale affermazione di vecchio saggio, ad esempio di un nonno, molto più che da dieci lezioni universitarie.

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Lo so bene perché il bunet (dolce tipico della cucina tradizionale piemontese, preparato con latte, uova, cacao e amaretti) mi piace tanto.  
Avevo dodici anni, in quell’agosto, ed era giorno della Fiera di San Rocco. La fiera era sempre un bel giorno per noi bambini, ma anche per i grandi, che passavano la mattinata tra i banchi del mercato, al bar, a sentire il sindaco che teneva il discorso tra un brano musicale e l’altro della banda comunale; la fiera piaceva un po’ meno alle donne, che la mattinata finivano per passarla in cucina, perché il giorno della fiera qualche ospite in casa finiva per esserci sempre.

E quell’anno, il giorno della fiera, invitato di lusso era in casa nostra addirittura il dottor Luigi Porretti, luminare e massimo esperto ortopedico dell’università di Torino, nonché relatore della tesi di laurea di mia sorella.

Sì, perchè grazie agli aiuti anche economici del nostro medico condotto che aveva visto in mia sorella un futuro grande dottore, lei aveva potuto fare l’università, anche un po’ contro il volere dei miei genitori che pensavano di non poter permettersi questo lusso; comunque mia sorella era ormai arrivata alla fine degli studi, mancava solo la tesi, ed era sembrato logico a tutti invitare il grande professor Porretti alla festa patronale del nostro paesino.

Il dottor Porretti aveva pensato bene di portare con sé tre suoi giovani assistenti: il dottor Roberto Caldi, il dottor Franco Sereni e il dottor Mauro Pescatori. Inutile dire che mentre i quattro avevano girato in lungo e in largo per la fiera, comprando oggetti inutili e costosi fra continue soste al bar per bere aperitivi rigorosamente alcolici, mia mamma e mia nonna dalle sei del mattino avevano preparato tali e tanti piatti che a casa mia tutti insieme non si erano mai visti. Vitello tonnato, carne cruda, insalata russa, salame e prosciutto, agnolotti al plin, bollito, arrosto, fritto misto, con un’abbondanza di carote, spinaci, patate e altre verdure, che non riesco nemmeno a ricordare. E poi il bunet. A casa mia le donne sapevano fare tutto, ma il bunet no: il bunet lo faceva solo la nonna. Con quella pazienza che solo gli anziani sanno avere, mescolava i rossi d’uovo con lo zucchero fino a che non veniva un’amalgama di consistenza unica; poi faceva scendere il cacao a pioggia e senza smettere di mescolare aggiungeva i bianchi delle uova in un modo che sembrava di vedere quella neve che tutti gli anni scende, almeno dalle nostre parti, nella notte di Natale. Con il latte l’impasto diventava fluido, senza grumi, pronto a ricevere il bicchierino di liquore e gli amaretti, sbriciolati in pezzi così uguali che sembrava li avesse fatti una macchina. Poi rovesciava il tutto nello stampo dove aveva fatto caramellare lo zucchero, e quando iniziava la cottura a bagnomaria mia nonna non si muoveva da lì nemmeno per un attimo, come una sentinella di guardia a un carico di diamanti preziosi; restava a fissare pentola, acqua, stampo e coperchio fino a quando non spegneva il fuoco e levava questa perfezione della natura chiamata bunet.
Data l’occasione, per la prima volta mia nonna non aveva fatto il bunet nel solito stampo, così piccolo che sempre ne toccava soltanto un pezzettino per ognuno e io e tutti gli altri ci stavamo male perché, se avessimo potuto, ne avremmo mangiato uno intero a testa; quella volta, visti gli ospiti di riguardo, la nonna aveva preparato due enormi teglie rotonde di bunet. E’ meglio che avanzi: basta che non manchi…” – aveva detto.

La tavolata era numerosa e rumorosa. A capotavola il grande dottor Porretti, alla sua destra e alla sua sinistra i suoi assistenti. Poi mia sorella, mio papà, l’altro mio fratello, mio nonno, zio, zia e due cuginetti; in fondo al tavolo mia mamma e mia nonna, che, poverine, facevano avanti e indietro in cucina e come al solito finivano per mangiare sempre poco di tutto.

Così per tutto il pranzo io non avevo che aspettato il momento del bunet. E mentre i dottori si ingozzavano con tutto quello che veniva portato in tavola, senza rifiutare il bis, senza far avanzare mai niente, senza dimenticare di bere un bicchiere di Barbera o di Grignolino tra un boccone e l’altro, io pensavo solo al bunet; pensavo che per la prima volta avrei potuto mangiare bunet fino a sazietà, fino a esserne così pieno da arrivare a dire “basta,  non voglio più nemmeno un pezzetto di bunet”.

Finalmente arrivò il momento tanto atteso; come in processione, la mamma e la nonna arrivarono tenendo nelle mani due grandi teglie di bunet, tra lo sguardo ammirato di tutti. Il famoso bunet della nonna. “Dottor Porretti, ci terremmo che fosse lei a tagliarlo!”.
Mia sorella, che durante il pranzo aveva fatto un po’ da padrona di casa perché per tutto il giorno precedente ci aveva raccomandato di non farle fare brutta figura, aveva avvicinato una teglia al grande professore; lui con fare serio aveva mostrato di accettare e gradire la responsabilità dell’incarico: in un silenzio mai visto prima, il dottor Porretti prese il coltello dalla lunga lama e con un gesto lento ma sicuro tagliò in due il bunet; quindi girando di novanta gradi la teglia fece di nuovo correre la lama lungo tutto il diametro. Ne erano usciti quattro grandi spicchi uguali, senza la minima imperfezione; il professore posò il coltello e con la paletta cominciò a distribuire il primo quarto al dottor Caldi, il secondo al dottor Sereni e il terzo al dottor Pescatori. Quando i suoi assistenti furono tutti serviti prese l’ultimo quarto, lo sistemò nel suo piatto e insieme ai suoi illustri colleghi iniziò a mangiare, facendo con il capo ampi gesti di entusiasmo.

Tutti voltammo lo sguardo verso l’altra teglia rimasta e credo che ognuno mentalmente avesse iniziato a suddividerne le porzioni accorgendosi che anche stavolta per noi ci sarebbe stato il solito piccolo pezzo a testa. In un silenzio spezzato solo dal rumore dei cucchiai che i quattro medici impietosamente infilavano nella delizia di cacao, improvviso, inatteso, inimmaginabile, mio nonno sentenziò:
  • Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei… -: Non serve studiare tanto per fare una cosa del genere…

Per un momento tutti pensarono alle raccomandazioni di mia sorella a non fare brutte figure con ospiti così importanti, ma subito nessuno riuscì a resistere e uno dopo l’altro tutti scoppiarono a ridere. Anch’io, ancora deluso per il mio bunet, anche mia sorella che tanto la raffinata aveva fatto fino ad allora, e mio papà, gli zii, la mamma, la nonna, mentre i dottori guardavano senza capire perché ridevamo.

Come andò a finire quel pranzo non lo ricordo più molto bene, se non per quel pezzettino di bunet a testa che comunque abbiamo mangiato tutti; però adesso che sono passati degli anni, che il dottor Porretti credo non sia nemmeno più vivo e i suoi assistenti di allora saranno diventati dei luminari della medicina, sì, adesso il bunet lo ricordo sempre e molto bene. Non c’è più la nonna che lo prepara, anzi ormai in casa il bunet non si fa più: però ogni volta che vado in uno di quei ristoranti di cucina piemontese, alla fine del pranzo il bunet lo prendo sempre. Anche se forse non è nemmeno più il mio dolce preferito, anche se forse ormai mi piacciono di più la crostata o la torta di nocciole o la panna cotta; però finisce che il bunet lo prendo sempre perché a me fa un po’ l’effetto della madeleine di Proust, mi ricorda gli anni dell’infanzia, mi ricorda il dottor Porretti, i suoi giovani assistenti, l’agitazione di mia sorella, tutta la mia famiglia che si mette a ridere per la frase del nonno.

Già, la frase del nonno… Quella mi è servita, mi è servita per la vita da affrontare con quel distacco e quell’ironia che sono indispensabili. Perché poi la mia famiglia è riuscita a far studiare anche me e alla fine ho preso una laurea in ingegneria; però, anche se mi presento sempre come un serio professionista del lavoro, in realtà sono eternamente conscio di essere un perfetto dilettante della vita.  E lo studio, le ambizioni, i successi, gli onori che si finisce per ricercare ogni giorno, saranno sì importanti, ma l’educazione e il buon senso… quelli davvero sono per me fondamentali.

Così tutte le volte che mi rendo conto di essermi lasciato andare ad atteggiamenti presuntuosi, tutte le volte che mi accorgo di quanto si può essere arroganti e quanto si diventa ridicoli nell’esserlo, tutte quelle volte io mi fermo un attimo, mi metto davanti allo specchio e mi dico a voce alta: Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei.
Poi ricomincio di nuovo, fino alla prossima volta. Ma almeno, quando sono davanti a un bunet, me ne ricordo. Sempre.
                                                                                            (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
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MM

Racconti di vita

CASTAGNE MATTE E GNOMI DEL BOSCO

Le testimonianze di vita continuano. In questo caso, si tratta dell’importanza estrema e duratura dell’esempio di vita e dell'affetto dei genitori nel processo educativo dei figli, che per la sua organicità  e immediatezza non appare delegabile né sostituibile del tutto, neanche da parte della scuola migliore...

°°°°°
 
C’erano una volta, tantissimo tempo fa, un papà e la sua piccola figlia. Si amavano teneramente e il loro amore rendeva ogni gesto ed ogni parola speciali, quasi magici. Vivevano però, a volerla dire tutta, in un luogo che di magico non aveva quasi nulla: non c’erano tramonti incantati nelle serate estive; non si sentiva il profumo dei fiori di gelsomino quando maggio veste generoso le siepi dei giardini; non c’erano piccoli corsi d’acqua dove poter cercare rane e girini; soprattutto non c’era il mare, con il suo odore intenso e il suo rumore possente nelle giornate di tempesta. C’erano invece lunghe file di fabbriche grigie, adagiate nella periferia della grande città, apparentemente disabitate, ma rumorose, per un orecchio attento, a testimonianza dell’incontro operoso di uomini e macchine. C’erano anche lunghe strade che tagliavano la pianura; volendo seguirle con lo sguardo, si saliva verso le colline e poi più su, fino a raggiungere le cime delle Alpi, innevate per tutto l’anno.
La gente che vedeva passeggiare il papà e la sua piccola figlia tenendosi per mano (lei accompagnava lui o lui accompagnava lei non si sa) aveva espressioni di stupore e di meraviglia:
  • Guardate come sono belli, lui sembra un principe, con quel suo largo cappello e il passo elegante, e lei è sicuramente la sua principessina… Fate largo, fate largo… lasciateli passare!
La loro dimora sembrava, da fuori, un po’ fuorimoda con la sua forma stretta e allungata su due piani. A fatica sporgevano due piccoli balconi con la ringhiera di ferro; ma proprio da quelli il papà e la sua piccola figlia immaginavano spesso di affacciarsi per recitare la parte del re e della regina, fino a quando la mamma non chiamava:
  • Tutti a tavola, che è pronto!
Dall’interno della cucina poteva accadere che giungesse la musica di un grammofono e loro ne approfittavano, rientrando, per muovere qualche passo di danza: lei saliva con i piccoli piedi sulle scarpe di lui e insieme ridevano per quell’inganno innocente, mentre piroettavano fra le sedie e il tavolo immaginandosi nel salone di un grande castello.
Giocavano spesso insieme, il papà e la sua piccola figlia: lui era prodigo di invenzioni strabilianti, faceva giochi di prestigio che sembravano vere magie, ma si faceva piccolo come lei quando doveva assecondarla per una sua infantile richiesta. E così inventava favole con maghi e castelli incantati, faceva arrivare cavalieri invincibili che liberavano principesse prigioniere, e lei lo ascoltava rapita, gli occhi spalancati sul mistero, muta nell’attesa di ciò che sarebbe accaduto.
  • Papà, quando sarò grande voglio diventare una principessa e ti sposerò, perché tu sei il mio re…
  • Ohi, ohi…e come faremo a dirlo alla mamma? E’ lei la regina – rispondeva divertito il suo papà.
  • Ma starà con noi, staremo tutti insieme! – rispondeva lei.
In quella dimora c’era anche un piccolo giardino che in qualche modo permetteva loro di godere dei fiori di lavanda in estate e dei mille colori delle foglie in autunno. Non era molto, ma con un po’ di fantasia si potevano anche trasformare le file di formiche in ballerine e qualche coccinella in una fata buona. C’era anche un gatto bianco e nero, che passeggiava pigro su e giù, fra l’albero di cachi e qualche cespuglio selvatico, inconsapevole delle innumerevoli volte nelle quali aveva indossato stivali e cappello piumato per difendere il suo padrone o, per contro, aveva ingannato con furbizia una lucertola fingendosi cieco e innocuo, per tendere poi un agguato mortale! Sì, perché, come forse si è capito, questa favola è piena di favole. E come in tutte le favole le scene cambiano, i personaggi si trasformano, i buoni vincono i cattivi, e la fantasia si fa largo per interpretare la realtà a modo suo. Anche il papà buono di questa fiaba, che sapeva trascinare la sua piccola figlia in un mondo incantato, smontò pezzi del reale per ricomporli in una nuova storia del tutto irreale.
E quando, qualche tempo dopo, dovettero purtroppo cambiare dimora, si sentirono un po’ tristi nel dover abbandonare quel piccolo paradiso: ma né lui né lei si persero d’animo.  Anche se il palazzo nel quale erano andati ad abitare rendeva difficile riprendere il gioco del “facciamo che io ero la principessa e tu il re”, iniziarono subito ad andare alla ricerca di un luogo che permettesse loro di continuare a sognare. E gira e rigira lo trovarono: era un pioppeto che, sorprendentemente, si apriva al di là del cemento, quasi un miracolo della natura. Così, partirono in un pomeriggio di sole per andare a conoscere i misteri di quel bosco e alla piccola figlia di quel papà meraviglioso batteva il cuore per l’emozione. Fatti i primi passi tenendosi per mano, il sottobosco cominciò a crepitare sotto i loro piedi, e sui tronchi alti e sottili dei pioppi si innalzavano fronde leggere che si muovevano appena sopra di loro. Continuarono a camminare, facendo attenzione mentre l’aria intorno si riempiva delle loro voci spezzando il silenzio. Giunsero quasi alla fine del bosco, proprio dove alcuni ippocastani, con i loro tronchi imponenti, sorgevano a definire un viale che, passando di lì, portava quasi sicuramente lontano. A differenza dei pioppi, questi erano alberi maestosi, che reggevano chiome larghe e ombrose; le foglie fitte nascondevano ricci spinosi pieni di castagne matte: ma molti di questi erano già caduti.
  • Attenta, non toccarlo, con il riccio ti puoi pungere...
A lei piacevano tanto le castagne matte, così rotonde e lucide, e allora cercava quelle già uscite dal riccio, ce n’erano molte per terra, se le faceva rotolare fra le mani e poi ne raccoglieva fino a riempirsene le tasche.
  • Guarda papà, sono bellissime, le portiamo alla mamma, anche a lei piacciono, me lo ha detto un giorno… Ma che cosa sono questi buchi nei tronchi?
A questa domanda il papà buono liberava tutta la sua fantasia per volare con la sua piccola figlia nel loro mondo incantato.
  • Questi buchi nei tronchi li fanno gli gnomi del bosco.
  • E dove sono adesso? Ma…sono cattivi gli gnomi?
  • Certamente no! Gli gnomi del bosco non sono cattivi, anzi. Ma escono solo di sera perché temono gli uomini: si rifugiano in questi buchi e si fanno compagnia, si vogliono bene fra di loro. Nessuno però li ha mai visti, purtroppo! Chissà, forse noi potremmo essere fortunati e incontrarne uno…
La piccola figlia sbarrava gli occhi, si emozionava, ma la presenza rassicurante del papà le consentiva di abbandonarsi a immaginare serate di luna piena con gli gnomi seduti a conversare intorno a quei buchi nei tronchi. E alla sera si addormentava, cullata dall’ultima favola che lui le leggeva.
Un brutto giorno, però, accadde ciò che non dovrebbe mai accadere: il papà si distrasse? La piccola figlia si staccò dalla sua mano? Fatto è che non si ritrovarono più e… lei si perse, non in un bosco fitto di alberi e di pensieri fantastici, ma, molto più modernamente, in una libreria affollata di una strada del centro della città; perché, come è evidente, questa è una favola nella quale realtà e fantasia si confondono e qualche volta non si sa più dove finisce l’una e dove comincia l’altra. Fu allora che quel papà, disperato, cominciò a percorrere le strade della città invocando e gridando:
  • Chi ha visto la mia bambina? C’è qualcuno che me la può riportare?
Percorse in lungo e in largo portici e vicoli, incapace di immaginare la vita senza di lei. Si mise a correre senza meta, chiedendo a chiunque incontrasse:
  • Ha visto una piccola bambina, che sembra una principessa? E’ la mia bambina, è mia figlia, mi aiuti a cercarla…
Allora, uno dopo l’altro, uomini e donne e ragazzi, si unirono a lui, le strade si riempirono di gente che chiamava a gran voce il nome di lei in un unico coro disperato, ma tutto sembrava vano. Poi, finalmente una voce gridò:
  • Venite, venite! L’ho trovata, è qui!...
Oltre la porta della gendarmeria, due signori vestiti in uniforme ascoltavano, compiaciuti, una piccola bambina che recitava, in piedi su di un grande tavolo, una poesia imparata all’asilo: via le lacrime della disperazione nell’essersi vista sola, cancellato il ricordo di quel singhiozzo alternato a parole sussurrate in cerca di aiuto: - Ho perso il mio papà… voglio il mio papà… la mamma dov’è? 
Tutto finito, ora. Le parole rassicuranti dei gendarmi confermavano che la mamma sarebbe subito arrivata, e anche il papà. L’abbraccio del ritrovarsi fu accompagnato da grandi grida di gioia, i clacson delle automobili divennero scampanio di campane, la gente si mise a ballare nella strada: perché così succede nelle favole.
Da allora la vita riprese tranquilla il suo scorrere: il papà buono e la sua piccola figlia continuavano a volersi bene; lei cresceva e lui si adattava con complicità e… tanta pazienza.
Poi, un certo giorno di un certo anno, alla piccola figlia, ormai dodicenne, parve di udire dentro di sé la voce del papà che, a conferma di un presagio che si stava concretizzando, dava risposta alle domande che il suo cuore poneva: perché quei nuovi silenzi nella casa? Perché si erano interrotti i momenti di complicità? Perché erano state via via abbandonate vecchie abitudini, per fare spazio a nuove necessità, dalle quali si sentiva esclusa, quasi allontanata?
  • Forse dovrò partire per un lungo viaggio, piccola mia… - diceva quella voce; - forse non potremo attendere insieme di vedere, il prossimo autunno, il colore dei ricci degli ippocastani che cambia…
  • Perché, dove devi andare, papà?
  • E’ un po’ difficile da spiegare: quando sarai più grande capirai e forse accetterai. Ti ricordi quando ti raccontavo le favole con le principesse e i re? Ecco, noi resteremo sempre insieme, come nelle favole, e sarà come fare una magia: tu resterai nel mio cuore e io nel tuo, per sempre. Non piangere, la nostra sarà la favola più bella.
E così, piano piano, senza far rumore, il papà buono sfumò verso l’azzurro, nell’aria ferma di un pomeriggio estivo, lasciando però dietro di sé mille bagliori di vita per la sua piccola figlia.
Questo è il ricordo che ho di mio padre, mondato del dolore provato per la sua perdita. Oggi compirebbe cento fantastici anni. Buon compleanno, papà!... E grazie per aver dipinto la mia infanzia con tutti i colori della fantasia.
Questo ricordo è appunto dedicato a mio padre, memoria viva nel mio cuore, con immensa nostalgia, in questo 7 giugno 2012.
                                                                                                 
                                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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