Racconti di vita

SCHIOCCHI DI CHIOCCIOLE

Traiamo questo “racconto di vita” dall’antico gradevole forziere, in parte rimasto tuttora non pienamente valorizzato, di quello che per diversi anni è stato il pregevole “Premio Prato Raccontiamoci”. Rendiamo omaggio, pubblicandolo, all’anonimo autore che, come molto spesso accadeva ai partecipanti al concorso, condivideva così una effettiva esperienza personale di vita nello spirito di trasmettere alle generazioni più giovani conoscenza e spunti di riflessione.

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Bari rosseggia ad ovest, in un tramonto scarlatto dipinto su di una tela color cobalto. Riflesso cristallino da Oriente, dell’Adriatico increspato dalla brezza di maggio. Cammino su via De Rossi verso la chiesa del convento delle Carmelitane Scalze. Una folata di grecale mi alita alle spalle. Riesce ancora a sorprendermi, in una città caotica che tossisce, sbuffa, e strombazza.
Sono in anticipo sull’ora fissata per la celebrazione della messa di suffragio per Angelo. Sono passati sei mesi, ormai, dalla sua dipartita. Nella chiesetta ritrovo Mina, sua moglie, e i suoi amici più cari. Ci salutiamo timidamente. L’atmosfera è austera. Rimaniamo in silenzio, durante l’attesa. Un silenzio che evoca riflessioni in un momento in cui sento claudicante la mia religiosità: tanto fragile da infrangersi sotto la mole dei miei interrogativi razionali.
Una imponente inferriata si affaccia alla sinistra dell’altare. E’ dietro quel diaframma che iniziano ad apparire le religiose. Mi sorprende la loro pelle, diafana come la luna. E’ la prima volta che entro in un convento di clausura. L’idea di cristianità vissuta tra la comunità dei fedeli con il tramite di una cancellata mi turba. La mia razionalità si intriga di argomentare i suoi teoremi. Articola sillogismi. Scandisce deduzioni logiche a cascata. Infine, sentenzia: “anacronistica!”. Quella realtà appare semplicemente anacronistica. Anche l’ubicazione del convento sembra fuori luogo. Era sorto un secolo fa nelle campagne. La città ora lo ha fagocitato tra palazzi vanitosi di cemento. I lati sud e ovest sono lambiti da una direttrice di traffico che scorre fragorosa come un torrente in piena. Un rombo continuo di autovetture in corsa, dal quale emerge l’urlo straziante delle sirene e degli strilli molesti dei clacson. Clamori di una bolgia infernale, invadenti e irritanti, che le spesse mura del convento non riescono a trattenere. Quella dislocazione mi appare inadeguata per un luogo di meditazione. Non vedo nulla di bucolico. Non sento il canto degli usignoli. Nè lo schiocco delle chiocciole cadute dagli steli di avena all’ondeggiare del vento. Già, lo schiocco delle chiocciole… Fu proprio Angelo ad insegnarmi ad ascoltarlo. Eravamo nel suo giardino. Mi indicò una chiocciola che aveva raggiunto l’apice di un filo d’erba sul quale si era lentamente inerpicata. Mi invitò ad osservarla nel più assoluto silenzio mentre danzava con il vento. Non capivo il perché, fino a quando una folata di brezza marina la staccò facendola cadere sul dorso del suo guscio. Lo vidi chiudere gli occhi e annuire con il capo. Uno dei pochi movimenti che gli erano rimasti dopo che il suo sistema nervoso era stato devastato dal processo di demielinizzazione. Era la metafora della sua vita. La storia di un corpo con una vitalità straordinaria che il vento impietoso della malattia e della senescenza aveva trasformato in un guscio inchiodato al suolo. Sì, perché Angelo prima della disabilità ne aveva fatte di scalate... Tutta la sua vita era stata una sfida. Rimasto orfano di madre, morta di parto, aveva giurato di combattere contro la causa della sofferenza della sua infanzia.
Era stato un dramma che non riusciva ad accettare, quello che una madre perdesse la propria vita nel momento in cui ne generava una nuova. Fu la sua missione. Divenne medico e ginecologo. Ogni travaglio fu il suo travaglio. Ogni parto, lotta e rivincita sugli incubi della sua infanzia. Migliaia di bimbi emersero dall’apnea delle acque placentali confortati dalle sue mani grandi e possenti. Mani che raccontavano storie di vita. Mani sulle quali, poi, la malattia era calata come l’autunno sulle foglie. Un autunno durato venti anni.
Perché mai un albero così rigoglioso di frutti può rinsecchirsi così  impietosamente? Perché mai la malattia può trasformare una vita così meravigliosa in un supplizio senza fine, tanto straziante?! La mia razionalità non trova risposte.
Una campanella mi fa riemergere dai miei pensieri. La messa ha inizio. L’officiante inizia la liturgia. Da dietro le grate si ode un coro. Le suore cantano: la loro voce mi sorprende. Le loro labbra vibrano impercettibilmente. Un fremito mi scuote come una carica elettrica. Scruto attraverso il diaframma che ci divide. Tutte hanno lo sguardo fisso nel vuoto, quasi rapite dal loro cimento. Un canto che emerge dalle corde più profonde del loro spirito. Un suono celestiale si propaga soave nella chiesa. I clamori della strada si sono spenti d’incanto. Mi sento irretito. Quelle voci hanno spalancato una porta della quale non conoscevo l’esistenza, e illuminano una stanza buia del mio animo. La catarsi mi spinge ad entrare. Mi avvicino timidamente a quella porta. Nella penombra di quella stanza intravedo uno scrittoio con l’album dalla copertina verde di finto cuoio delle fotografie della mia infanzia. Qualcosa mi spinge ad aprirlo. Nella prima pagina, però, trovo una foto mai vista. Mi ritrae nei miei primi giorni di vita. Sono solo in una culla di ospedale. Mia madre non c’è.
La voce della prima lettura mi riporta in chiesa. E’ quella di una lettera degli Apostoli: ”… La pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo”. L’immagine è suggestiva. Lo è tanto più quando i miei pensieri identificano il costruttore che è in me. La mia razionalità sempre pronta a erigere castelli logici e bastioni  deduttivi… a discernere il granito dall’arenaria… a sovrapporre la compattezza delle certezze del primo e a scaricare la friabilità dei dubbi della seconda. L’arroganza della mia razionalità dispensa giudizi troppo disinvolti. Scarta ciò che non si piega. Setaccia il bene e il male con la spocchia dello scolaro capo della classe, che con il suo gessetto sulla lavagna diventa misura dei buoni e dei cattivi. Devo riconoscerlo. I lumi della mia ragione sono come quelli del crivello della massaia. Con quale arbitrio ci ho messo dentro gli anni della malattia di Angelo, e la clausura di quelle suore dalla voce angelica? Provo rincrescimento verso me stesso.
Un nuovo canto mi proietta davanti all’album della mia infanzia. In seconda pagina la foto di una puerpera in coma, abbarbicata ad un flebile alito di vita tra medici che  si disperano per salvarla. Mi avvicino timidamente. Mi trovo dentro quella foto. Non sono un medico. Ma vorrei fare qualcosa per aiutarla. Un muro di camici si frappone fra me e lei come uno sbarramento. Si apre un varco. E’ un incubo. Quella donna è mia madre. Sì, è proprio lei! Me l’avevano detto. Il mio fu un parto difficile. Dopo la mia nascita mia madre entrò in coma per giorni. Anch’io mi ero trovato allo stesso bivio di Angelo. Ma mia madre era sopravvissuta. Se l’avessi persa, quanto la mia vita sarebbe stata più simile a quella di Angelo? L’interrogativo mi appare crittografato in una espressione matematica disegnata su una lavagna. Il gessetto tra le mie dita scorre sull’ardesia. Pretende di svelarmi le sue stridenti soluzioni. Il calcolo è ambizioso: scoprire i connotati della nostra esistenza dagli accadimenti che la caratterizzano. Ricerco un’incognita combinando le sue variabili indipendenti. La presenza di una identica variabile in due espressioni diverse non può non rendere simili le sue incognite. L’ipotesi mi appare verosimile. E’ in qualche modo estrinsecazione degli assiomi della logica. Almeno, così credo. Se A è uguale a B e quest’ultima è uguale a C , il risultato inoppugnabile è che A e C sono uguali. L’ipotesi che un accadimento tragico possa assimilare l’esistenza di persone diverse mi appare logicamente motivata. Ma, Dio, Il labirinto della ragione mi trascina nel suo vortice davanti ad un terribile quesito: chissà quanto una malattia invalidante possa accomunarci? Se avessi avuto la malattia di Angelo come sarebbe stata la mia vita? L’ipotesi mi terrorizza. Mi manca il respiro. Mi sento prigioniero in una sfera di cristallo.
La messa è finita. Mi riprendo dalle mie inquietudini. Le religiose escono in fila. Si ritraggono come un rigagnolo nel deflusso dell’onda sulla battigia del mio animo. In quel solco rifluiscono i granelli del basamento del castello di sabbia delle mie certezze. In chiesa si ode il pianto sommesso di una donna. Tiene per mano un adolescente. Non comprendo la ragione del suo lamento. Una voce alle spalle mi sussurra: ”Fu l’ultima paziente del dottore. Scoprì di aspettare un bambino. Era sola. Senza un lavoro. Senza famiglia. Palesò l’intenzione di interrompere la gravidanza. Angelo, ormai debilitato dalla malattia, le disse: “Se quello che ho basta per la mia famiglia, basterà anche per te. Tuo figlio nascerà! E ora, eccoli”.
Mi commuovo. Quell’uomo aveva continuato la sua sfida anche quando la disabilità lo aveva atterrato. La malattia gli aveva tarpato le ali, ma egli aveva continuato a volare. Forse ancora più in alto. Tutto comincia ad avere un senso. La debilitazione fisica non era stata per Angelo un limite, così come non lo era la clausura per quelle suore. Il perseguimento della loro missione, nella costrizione delle loro barriere, mi ammalia. Mi incanta come il corso di un fiume che, giunto davanti a un ostacolo naturale, lo supera con il fragore di una cascata e riprende placido il proprio corso. Nel canto di quelle suore lo scroscio di una sorgente nella quale ho avvertito la presenza divina come non mai. Nell’altruismo di un anziano disabile, il frastuono di una cateratta nella quale ho percepito l’Uomo in tutta la sua grandezza. Chiocciole che nonostante il loro guscio continuano ad inerpicarsi verso le loro mete. Pietre scartate dai costruttori, diventate pietre d’angolo.
“E’ proprio così – prosegue la voce alle mie spalle: - nessun guscio è un limite!”.
Ma chi sta parlando?! Mi giro di soprassalto. Non c’è nessuno. La porta della chiesa è socchiusa. Uno spiffero la riapre. Il grecale entra accompagnato dai soffusi profumi del sole del crepuscolo. Mi alita sulla pelle. Ormai, non ha più  motivo di sorprendermi.
                                                                                                                             
                                                                                                                                   (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci”)
 
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