Economia e società

ECONOMIA E LAVORO: COSTITUZIONE TRADITA?

La centralità del lavoro, fondamento della nostra repubblica per dettato costituzionale fin dall’articolo 1 del nostro documento fondativo: eppure lottiamo ancora perché tale fondamento trovi attuazione vera e sostanziale. Giuseppe Amari, studioso di Federico Caffè e più in generale del mondo del lavoro e dell’ecponomia, se ne occupa in questo articolo, non per la prima volta, richiamandone la drammatica attualità.
 
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Il lavoro e del suo futuro; un tema sempre più centrale e drammatico, non solo in Italia, certo aggravato dalla Pandemia.
Possiamo cominciare dalla nascita della disciplina economica con Adam Smith che affermò, contro i mercantilisti, che la vera ricchezza delle
nazioni risiedeva, non nel denaro, ma nel lavoro e la sua produttività. Che dipendeva, a sua volta, dalla specializzazione del lavoro e dall'apertura dei mercati esteri come sbocco per la produzione. Purtroppo abbiamo visto un ritorno alla vecchia concezione; il
«neomercantilismo» con la pretesa di avere la bilancia dei pagamenti costantemente in attivo e con un ripresa quindi di egoismi nazionali. In
Europa è soprattutto la politica tedesca.

Smith, era anche consapevole che una spinta parcellizzazione del lavoro portava a conseguenze negative sul piano culturale e psicologico; quelle
che poi Marx chiamerà alienazione; approfondita in seguito da tanti altri intellettuali, economisti, sociologi, psicologi. Alienazione di prodotto e di
processo, che oggi si propone aggravata quando intermediata da un algoritmo. Dai tempi di David Ricardo, agli albori della Rivoluzione industriale, si discute se il progresso scientifico e tecnico distrugga o meno occupazione. Sappiamo che storicamente la quantità di lavoro umano è
progressivamente passata dal settore agricolo a quello industriale a quello dei servizi; investiti questi ultimi sempre di più dall'innovazione,
dall'intelligenza artificiale, dalla robotizzazione. Quale futuro per il lavoro?

Benedetto Croce chiamava «metereologiche» queste domande, e rispondeva: «I problemi morali, intellettuali, estetici e politici non stanno
fuori di noi come la pioggia e il bel tempo... Bisognando invece, unicamente, risolversi a operare ciascuno secondo la propria coscienza e la
propria capacità…». Il progresso scientifico deve essere al servizio dell'uomo e della collettività, servire a liberare dalla pena del lavoro faticoso, ma non dall'impegno a contribuire all'avanzamento della società: liberazione nel lavoro che evolve e non dal lavoro.

Secondo me questo è il vero senso e il vero obiettivo dell'art. 4 della Costituzione che «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e
promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta,un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». E se il lavoro del futuro sarà chiamato soprattutto
a quest'ultimo compito sarà un salto vero di civiltà, compreso quello in un mondo di pace e fratellanza dei popoli.

L'illustre storico dell'economia C. M. Cipolla chiede che il progresso scientifico e tecnico sia accompagnato a quello etico, perché si può
regredire allo stato ferino anche con tutta la «banda larga». Ma non si devono dimenticare i costi sociali che il progresso scientifico
comporta nei settori che ne sono investiti o penalizzati. Federico Caffè, concludendo un suo intervento all'Accademia dei Lincei
nel lontano 1968 sulle conseguenze dell'automazione, diceva: «Dopo tutto il fatto importante non è che si vada verso una società in grado
di avvalersi della moneta elettronica, ma che le già stridenti diseguaglianze sociali non vengano accentuate dai mezzi tecnici da noi stessi creati».
Nel secondo dopoguerra i paesi democratici e civili si posero l'obiettivo della «piena occupazione in una società libera».

Allora si usava molto il concetto di prodotto potenziale (oggi dimenticato): quel prodotto derivabile dalla piena occupazione degli
uomini e dei capitali disponibili. La differenza tra il prodotto potenziale e quello effettivamente realizzato, rappresenta la perdita di ricchezza sopportata. Ricchezza perduta per sempre. Perdita non solo materiale, ma anche spirituale per le persone, private di quel diritto e dovere, e per la intera società (art. 3 e 4 Cost.). La sensibilità sociale e democratica aggiunge alla piena occupazione la «dignitosa occupazione», nelle linee essenziali delineata tra l'altro dalla nostra Costituzione.

Joan Robinson, un'allieva di Keynes rilevava che oltre all'occupazione si doveva porre il problema di cosa, come e per chi produrre.
Questi sono obiettivi che non possono essere lasciati al mercato, ma appartengono alla responsabilità della politica, delle istituzioni e delle
stesse forze sociali in un contesto di democrazia progressiva e diffusa. Che investa anche il mondo della produzione e del lavoro (democrazia
industriale ed economica); un modo anche per rispondere all'alienazione. Ma è un problema di democrazia complessiva secondo il filosofo
Guido Calogero che afferma giustamente come «la più solida democrazia si fondi sulla pluralità delle democrazie» tra loro solidali, non meno delle
libertà.

Impegno politico e istituzionale se non si vuole tradire - diceva Caffè - «l'ideale che lo sviluppo civile e sociale non sia il sottoprodotto dello
sviluppo economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito». E aggiungeva: «una ripresa congiunturale che non comporti una
diminuzione della disoccupazione è una mera espressione contabile di scarso significato». Ma il «sistema economico in cui viviamo» (come Keynes chiamava il capitalismo, un concetto peraltro sfuggente) può sopportare la piena stabile e dignitosa occupazione? Gli studiosi hanno dato risposte diverse su cui non possiamo soffermarci.
Ne accenno a tre: Marx e coloro che a lui direttamente o indirettamente si richiamano, come Kalecki, Baran e Sweezy parlano di un «esercito industriale di riserva» necessario a tenere a bada i lavoratori e di ostacoli soprattutto politici; i neoliberisti (meglio pseudoliberisti) con il cervellotico concetto di «saggio naturale di disoccupazione»; i riformisti veri, come Keynes, Caffè e Roosevelt, concordando di fatto con le parole di Croce contro le domande «metereologiche», si ingegnano per raggiungere l'obiettivo di più avanzata civiltà. Oggi si cita il New Deal, ma il suo vero significato ce lo ricorda lo stesso FDR quando assicurava che «le attuali difficoltà economiche non devono fermare il nostro governo civile». E fece riforme civili e sociali insieme a politiche di ripresa economica. Prevedeva tra l'altro la diminuzione dell'orario di lavoro e il salario minimo.

Temi sempre attuali insieme a quelli del reddito di cittadinanza o meglio universale. Dopo i «Trenta Gloriosi» seguirono, con la Tacher e Reagan, i
«Quaranta Ingloriosi», o forse meglio i «Quaranta Miserabili». Da allora ad ogni crisi e recessione economica è seguita una regressione
civile e sociale. Della «Grande Regressione, il lavoro ne è stata la prima vittima: con disoccupazione e soprattutto con la mortificazione della sua dignità: anzi - con la responsabilità di economisti e ancor peggio giuslavoristi - si è preteso e si pretende di scambiare l'occupazione o meglio una minore disoccupazione con il peggioramente delle sue condizioni. Stiamo tornando alla condizione mortificante del bracciantato contro
cui si batteva Giuseppe Di Vittorio, ben rappresentata dalla canzone «Bella ciao» che nacque come un canto di liberazione delle mondine.
Oggi il padrone ha fatto dell'algoritmo il suo caporale, non meno violento ma più insidioso. Oggi analizziamo un caso emblematico di tale grave regressione civile e sociale; e che può rappresentare - se non fermato - la vera distopia del futuro.
                                                                                                         (Giuseppe Amari)

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