Storia e storie

PORTO IL NOME DEL MIO PAPA' E MI SENTO SEMPRE ITALIANA

Ancora storie di emigrazione, ancora esperienze forti di vita, in semplicità di stile e di sentimento. Storie vere. E ancora Australia.

°°°°°
 
Mamma mi raccontava sempre che a mio papà piaceva una famiglia grande, essendo lui figlio unico: aveva sofferto tanta solitudine nella casa dei suoi genitori, prima di sposarsi. Per questo la nostra famiglia era numerosa: eravamo sette femmine e due maschi. Mio papà aveva un tantino di amore particolare per me, mi è sempre parso. Ero la quinta dei nove figli ed eravamo comunque, così numerosi, una famiglia felice. Quando papà decise di partire in guerra, per l’Africa Orientale, i figli erano ancora soltanto quattro, tutte femmine. Papà decise di partire perché chi partiva volontario veniva pagato bene e qualche volta poteva tornare a casa in licenza. Insomma, per la famiglia si trattava di un bell’aiuto.
Essendo sempre innamorati, i miei genitori pensavano ancora di aumentare la famiglia e così mia mamma si trovò incinta della quinta figlia: ma questa gravidanza era diversa dalle altre quattro; tutte le donne le dicevano che sarebbe arrivato un maschietto; ma la risposta della mamma era invariabilmente: “Non m’importa che sia maschio o femmina: basta che ritorni mio marito dalla guerra e che il bambino sia bello e sano”.
Quando fu l’ora del parto, questo si presentò difficile: il bambino infatti aveva il cordone ombelicale attorcigliato intorno al collo. La mamma pregava Dio che si salvasse, e tutto andò bene; finalmente nacque la bambina: ero io! Mia mamma era felice e poiché papà si chiamava Vincenzo, quando andò al municipio per registrare la mia nascita fui chiamata Emilia Vincenza: ecco perché porto il nome di mio papà.
Subito dopo che fu registrata la nascita, il Duce, Benito Mussolini, mandò alla mamma il premio di lire 5.000, che in quei tempi erano tanti soldi, e così divenni “la figlia del premio”. Ancora più forte si fece il ricordo continuo di mio papà lontano dalla famiglia a combattere in guerra con il rischio di morire, per aiutare tutti noi. Il duce dava il premio a tutte le famiglie con bambini quando i loro papà erano in guerra come volontari.
Più crescevo e più la somiglianza con papà era forte; ero in particolare di pelle scura come lui; e mia mamma ripeteva: “Questa figlia suo padre l’ha portata dall’Africa e perciò è scura come lui”. Dopo di me, lei ebbe altri quattro figli, due femmine e due maschi: dunque, nove figli in tutto. Finalmente, con la nascita dell’ultimo finì la sua missione di avere bambini: non poteva averne più; in tutto aveva avuto diciotto gravidanze! E’ stata una mamma fortissima: oltre a crescere nove figli era anche sarta di uomo e di donna, lavorava all’uncinetto, faceva coperte da letto e centrini, lavorava il pane due volte la settimana e i biscotti tradizionali per Pasqua e Natale.
Quando ebbi compiuto diciotto anni di età decisi di partire per l’Australia: lì c’erano già due mie sorelle maggiori, sposate per procura; perciò anche io partivo contenta. Loro mi scrivevano sempre chiedendomi se volevo partire dato che lì si lavorava bene e la paga era settimanale. In effetti tutto procedette bene e in un anno di tempo per prepararmi partii: era il 29 ottobre del 1960.
Contentissima quando decidevo di emigrare, mi sono trovata triste all’atto di partire. Il giorno della partenza è stato in effetti il più triste della mia vita. Arrivata l’ora di lasciare mia mamma, le due mie sorelle più giovani di me e i due fratellini più piccoli, mi resi conto di quello che mi accadeva: ma ormai dovevo proseguire, e  così in compagnia di mio papà presi la corriera dal mio paese, poi il treno fino a Reggio e il battello fino a Messina. Finalmente arrivammo al porto, dove una grande nave mi aspettava: portava il nome “Roma”.
Quanta gente attorno a quella nave! Fra viaggiatori e parenti non si riconosceva chi erano gli emigranti, cioè chi doveva partire. Ad un tratto aprirono i passaggi per gli imbarchi nel grande bastimento, che fu subito carico di passeggeri, piccoli e grandi, giovani e meno giovani, uomini e donne. Mio papà venne con me dentro la nave, ricordo come fosse oggi; dopo pochi istanti la nave cominciava a dare i segnali di partenza e mio papà mi abbracciò forte forte, mi baciò e con le lacrime agli occhi mi disse: “Figlia mia, devo lasciarti; tu lo sai che devo ritornare a casa, questa partenza è stata la tua decisione: se ti piace stai nel luogo che hai scelto ma altrimenti ritorna qui, con tutta la ricchezza della tua bella giovane età; buona fortuna e a presto!”.
E mi lasciò. Io rimasi triste e con le lacrime agli occhi uscii fuori, dove tutti salutavano, col fazzoletto in mano, i loro cari. Vidi anche mio papà, col fazzoletto in mano, che diceva: “Ciao, Emilia!”. Man  mano che la nave si allontanava dal porto, le parole di tutti noi erano: ”Arrivederci, Italia mia, resterai sempre la mia patria!”. La giornata era al declino, il sole si nascondeva e incominciava ad imbrunire. Ognuno di noi cominciava a sistemarsi in cabina, perché avevamo bisogno di riposo, stanchi e straziati dopo una lunga giornata di lacrime per il distacco dai nostri cari.
I giorni passavano e il viaggio continuava con un tempo sempre variabile: un giorno sole, un altro burrasca. Si facevano nuove conoscenze e ci si raccontava il motivo di quel viaggio: alcuni perché sposati con procura, altri per trovare i familiari, altri per lavoro temporaneo ma con l’intenzione che se si fossero trovati bene si sarebbero sistemati definitivamente nella nuova terra. Dopo un lungo viaggio, ventotto giorni, siamo arrivati a Melbourne: era il 26 novembre 1960. La gioia che provai quel giorno del mio arrivo fu immensa soprattutto per la grande emozione nel vedere le mie sorelle dopo quattro anni di lontananza, insieme ai loro mariti e ai bambini. Ci salutammo e contenti, abbracciati a lungo come avevamo fatto prima di lasciarci, salimmo infine in macchina per andare a casa. Loro abitavano al numero 42 di Clifton St. Richmond.
Pranzammo e subito dopo cominciai a parlare di lavoro, contenta e piena di entusiasmo, e dicevo: ”Lo sapete che questo è lo scopo per cui sono venuta in Australia: lavorare!”. Per una settimana rimasi a casa per riposarmi, poi trovai lavoro proprio vicino all’abitazione delle mie sorelle: era un maglificio con pochi operai, lì si lavorava e si mangiava, e si faceva il tè, di cui mi diedero l’incarico nominandomi “tè girl”; dovevo preparare il tè tre volta al giorno, andare a fare la spesa con le note di ciò che i lavoranti volevano, scritte sulla carta in lingua inglese.
La paga era solo di sette sterline la settimana, ma io ero contentissima. Però un giorno, portando il tè, come al solito, al padrone per il suo pranzo, egli mi disse che non lo voleva sul tavolo e andò su tutte le furie, non so per quale ragione, chiamò una ragazza italiana e le ordinò: “Dì a questa girl che io oggi vado fuori per il lunch, perciò il tè non lo voglio”. La ragazza me lo riferì e io in quel giorno, con l’umiliazione che sentivo per questa scenata e per il fatto che non potevo replicare in lingua inglese, dissi a me stessa: “Che pazzia che ho fatto a lasciarti, Italia mia!”. In realtà l’Italia mi è sempre mancata molto.
                                                                                                      (Anonimo, Premio “Prato Raccontiamoci”)
 
°°°°°
MM
 


Condividi questo articolo