Umanità

UOMINI-MACCHINE DA LAVORO?

E’ una storia vera. Appena sintetizzata, ma vera. Del resto, tanti di noi ne avranno conosciute di simili, o almeno sentite raccontare da testimoni diretti, dato che la società umana è ben lontana ancora dal raggiungere una concezione di fraternità nei rapporti sociali  e di lavoro. La nostra civiltà, per alcuni aspetti così avanzata, resta per altri incredibilmente barbara.
 
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Uscimmo dall’ufficio. Il grigiore del cielo di dicembre era sintonizzato sull’umore di Monia, il freddo e l’umidità pesanti erano presagio delle sue imminenti lacrime. Nell’osservarla provavo compassione. Il suo sguardo profondo tradiva la tristezza e delusione provata, e la rabbia che in lei stava per esplodere. I suoi begli occhi castani, così intonati con i biondi riccioli che ballavano al vento, le davano un’aria gioviale ma non mimetizzavano il suo scoramento.

“Non si preoccupi, il Suo inserimento nella lista della cassa integrazione è solo un proforma – le aveva detto il titolare – abbiamo dovuto aggiungere qualcuno dell’ufficio tecnico per giustificare lo stato di crisi”.

Lei lo aveva preso alla lettera, seppur dubitando: “Perché proprio l’unica disabile dell’impresa? C’è altra gente che ha molto meno da fare di me, qui; mentre io potrei sostituire altri, altri che non sono in grado di sostituire me; perché allora non ha inserito qualcun altro al mio posto?!”.

Lei lavorava quasi quotidianamente fianco a fianco con il titolare. Lui indirizzava e lei disegnava, e progettavano assieme case, ospedali, residenze assistenziali, alberghi. Si era sempre dimostrata all’altezza di ogni richiesta. Quel giorno però, lui non si era fatto vivo. E lei aveva ricevuto una lettera dall’ufficio del personale, con la quale l’azienda la informava che sarebbe stata in cassa integrazione per i successivi sei mesi. Lui non aveva avuto il coraggio di dirglielo, di parlarle a quattrocchi. Un affronto, un insulto, un atto che mancava del minimo rispetto.

Non parlavo perché non sapevo che dire. Lì fuori, davanti al parcheggio dell’azienda, sembravamo indifferenti al freddo, tanto gelato era il sangue nelle vene.

Marco, un nostro collega dirigente, parcheggiò e scese da un fuoristrada gigante. Portava uno spolverino in pelle nera in perfetto stile Gestapo, dal quale spuntava una testa ossuta di cinquantenne coperta da un berretto a calotta in lana nera; il suo passo rigido era sottolineato dai tacchi degli stivaletti, anch’essi in pelle nera; il suo sguardo annoiato e spento vagava intorno come foglia sospinta dal vento, evitando con accuratezza di incrociare quello di chicchessia.

“Però, Marco, che gran macchina! Nuova?”, dissi con finto fare interessato.

“Eh, sì! Proprio nuova; aziendale, però. Un affare! 47.000 euro di questo modello “full option”; e 16.000 ci è stata valutata quella macchina di tre anni”.

Pensavo alla mia auto 1.200 cc a benzina di undici anni con 240.000 km, e all’illusorietà del sogno di Monia, di trovar casa per stare con il suo compagno.

Marco ci guardava senza vederci. Continuando a vantare le caratteristiche di quell’auto, si diresse all’ingresso dell’ufficio davanti al quale si fermò, sorrise, e a mo’ di battuta ci salutò dicendo: “Il lavoro rende liberi!”.

Poi scomparve oltre, come inghiottito dalla bocca di un drago.

Faceva ancor più freddo, ora, perché il sole si rifiutava di recitare in quel dramma.

Monia mi guardò. Con un filo di voce affermò: “E’ costata 31.000 euro, il mio stipendio di due anni e mezzo!”.

Il tono glaciale e la plumbea pesantezza di quell’affermazione facevano intuire la verità recondita in quelle parole, mostrando quell’efficiente ambiente di lavoro per ciò che era: una fossa comune di cadaveri dai cuori espiantati.

Le mie corde vocali erano paralizzate. Monia si avviò con lenti passi, e in silenzio sparì dietro l’angolo similmente a un fantasma.

Mi guardai attorno. Il vento, la strada deserta, le case ingrigite dal tempo. Ed ancor più tetra mi sembrava l’umanità, capace di sacrificare una donna per una macchina, una persona per un capriccio. Con i primi fiocchi di neve a frustarmi il viso, rammentavo gelidamente l’ufficio, e il doverci ritornare mi parve come l’affrontare un rischioso viaggio verso il mondo disumano dell’Antartide.

                                                                                                  (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
                                                                                            
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