Storie di vita

STORIE DI VITA

Vite forti. Piene di una sapienza umile ma compiuta. Esistevano: io ne ho conosciute. Probabilmente ne esistono anche oggi. Da cercare forse in ambienti sociali meno sofisticati, adulterati e viziati di quelli prevalenti nella nostra società attuale. Anche quella che vi raccontiamo oggi è vera.
 
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Mi aveva insegnato ad amare la montagna, a dire le preghiere, a credere nei santi del paradiso, ad apprezzare certi profili delle cose, a comunicare con le persone, a saper chiacchierare; mi aveva insegnato che non siamo soli, neppure in uno stralcio lontano e dimenticato di mondo.
 
Era magrissima, non tanto alta di statura; una persona sottile, dal ventre concavo e dalle gambe muscolose come chi aveva davvero fatto tanta strada; aveva un naso un po’ aquilino, leggermente pronunciato e i suoi occhi castani, attenti e vivaci, sapevano guardare lontano.
 
Conosceva un’infinità di rimedi naturali o particolari, veramente singolari e inusitati, contro i mali fisici, di qualunque natura essi fossero, contro le malattie delle galline, la moria dei conigli, la scarsa lievitazione del pane, il freddo acuto ai piedi o le scottature alle mani. Sapeva fare benissimo un’infinità di cose e, anche se non eccelleva – devo dire – nell’arte della cucina, non ho più incontrato nessuno, nel percorso della vita, che sapesse sfornare un pane delizioso e fragrante come il suo. Lo conservava nella madia, anche per settimane… E manteneva intatto il suo inconfondibile sapore, a volte lo preparava anche nella versione dolce: lo mangiavamo ancora caldo, pizzicandolo con le dita e ce lo passavamo di mano in mano finchè, in un tempo incredibilmente breve, non era terminato.
 
Amava moltissimo le castagne, i funghi, la polenta, il pane, forse perchè sono doni diretti della terra che non hanno bisogno di grandi elaborazioni per essere gustati, forse perché erano stati parte integrante della sua vita e delle sue origini. Mi parlava sempre dei posti dove aveva vissuto e mi colpiva il fatto che di tutti i personaggi, protagonisti delle innumerevoli vicende che ricordava, citava ogni volta il nome, tanto che potrei dire anch’io, ora, di averli incontrati davvero sulla strada della mia vita. Aveva trascorso la sua esistenza in un paese di alta collina, che amava definire montagna, posto su un elevato pendio da cui si può ammirare la bellezza della valle, aveva avuto otto figli allevati a polenta, latte, verdura, rosari e preghiere. Aveva visto e vissuto due guerre, sospirato e pregato per un fratello alpino e un figlio partigiano; il primo caduto senza un saluto su altri monti, sconosciuti e lontani, il secondo allegramente ritornato all’ovile dopo che una raffica nemica di mitra gli aveva sbriciolato d’un colpo le suole delle scarpe lasciando miracolosamente intatti i piedi, oltre naturalmente al resto del copro, giovane fiorente e robusto, nonostante la dose giornaliera mai abbondante di pane, polenta e verdura. Da quel giorno la dose di un ingrediente soltanto era raddoppiata alla parca mensa familiare: quella dei rosari e delle preghiere.
 
La sua devozione e la sua fede erano rimaste incrollabili, anche davanti ad altri momenti di grande dolore; diceva che era stato suo padre ad insegnargliela, e a dargliene dimostrazione dopo che aveva venduto la mucca ed offerto tutti i proventi a beneficio della chiesa e dei poveri, quando gli era giunta la notizia della morte, in battaglia, del figlio. E per tutta la vita aveva conservato un oggetto da cui non si staccava mai: era un librettino di piccolo formato dalla copertina di finta pelle nera che definiva “il libro della messa”, scritto a caratteri rossi e neri, parecchio consunto in certe parti per la frequenza e l’assiduità della lettura, della quale avrebbe potuto fare benissimo a meno perché sono convinta ne conoscesse a memoria il contenuto, anche delle parti in lingua latina.
 
Anche successivamente, quando non viveva più nelle ristrettezze del passato, aveva mantenuto una sana repulsione per lo spreco o la spesa inutile; non buttava mai alcunché potesse, nella sua logica, essere riutilizzato, anzi riponeva gli oggetti in disuso in posti ben nascosti, in modo da poterli poi recuperare al momento adeguato. Una volta scucendo una camicia ormai rovinatissima aveva conservato i bottoni, riponendoli con cura nel suo cestino da lavoro; essendone rimasto uno alla fine dell’opera, lo aveva inserito in un bicchierino piccolo di liquore nella credenza a vetri: giunto subito dopo un ospite inatteso e volendo offrirgli qualcosa da bere, afferrò il bicchierino e lo riempì di grappa…Sulla sua superficie galleggiava allegramente il bottoncino colorato. L’ospite, come nulla fosse, bevve il contenuto lasciando sul fondo il corpo estraneo che, con una risata, una volta lavato il bicchiere fu collocato al suo posto, questa volta quello adeguato, il cestino da lavoro.
 
Così aveva mantenuto per tutta la vita un suo equilibrio interiore ed una serenità vera dell’anima, anche molti anni dopo quando, nelle sere d’inverno, attorniata da uno stuolo di nipoti, saliva piano le scale per raggiungere la camera da letto e, per rispondere scherzosamente alle risate e ai giochi rumorosi dei bambini, gridava dall’alto del pianerottolo con tono gioioso: “Seccamelica!”. Nessuno conosceva il senso della parola strana, ma pareva una formula magica, una specie di portafortuna, e dal buio del sottoscale tornava un’eco divertita, tra cori di risate, con questo misterioso “Seccamelica!”.
                                                                                                                                     
                                                                                                         (Maria Francesca Giovelli)
 
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