Economia

NEOLIBERALI: ANZI, NEOLIBERISTI. MA IL RISULTATO E' PESSIMO

Strana davvero, almeno apparentemente, l’economia di questi ultimi decenni, in Italia e nel mondo: più i suoi presupposti e i suoi dogmi falliscono alla prova dei fatti e dei risultati,in termini di bene comune, più i suoi comportamenti vengono confermati e imposti come linea strategica e politica dagli Stati e dagli organismi internazionali, a Whashington come a Londra, a Bruxelles ed a Francoforte, e nella stessa Italia: da parte della politica prevalente e dei poteri dominanti, nonostante i meccanismi del controllo democratico.  
 
Si tratta di quel fenomeno che va sotto il nome generico di “neoliberismo”.  Viviamo appunto una epoca di neoliberismo trionfante, strafottente e paradossalmente quasi impossibile a mettersi in discussione, sembrerebbe, nonostante, appunto, la evidente negatività dei suoi risultati in termini di bene comune: se appena si parla di ipotesi di interventi correttivi degli Stati per rendere meno mostruosi gli effetti di una siffatta economia, per diminuire disoccupazione e fallimenti aziendali, per restituire al risparmio valore affidabile al posto della volatilità da gioco d’azzardo cui assistiamo, per togliere precarietà alla distribuzione del lavoro e accrescere equità a quella del reddito, si viene, di fatto e in silenzio, messi ai margini delle cattedre universitarie, delle commissioni scientifiche e politiche che si occupano di economia, della grande stampa che fa opinione; si viene collocati tra i “fuori del coro”, insomma, considerati estranei alle “vere” competenze economiche, e a volte isolati come “anticaglie da interventismo superato”, residui di impostazioni “democristiane”, di illusioni socialistiche, di buonismo liberalsociale, e simili.
 
Eppure, da qualche anno, il replicarsi dei fallimenti e delle smentite drammaticamente concrete circa la fondatezza di tanta sicumera politica e cattedratica, moltiplicatisi soprattutto nella crisi 2008-2018, un inizio di riflessione critica sembra averlo avviato, sia pure ancora in tono piuttosto timido, e ospitato più che altro in fogli di seconda pagina e in limitati fortilizi dove il buonsenso non sia stato bandito.
 
Studiosi come Stiglitz, con il suo premio Nobel, altri in diversi paesi, ed in Italia un gruppo per il vero sempre meno silenzioso, di cui fanno parte Zamagni, Becchetti, Fadda, il mai remissivo e sempre combattivo Nino Galloni, e ulteriori, stanno cercando, pur con sensibilità personali diversificate, di sviluppare qualcosa di più che una sommessa e minoritaria posizione critica nei confronti di tanta barbarica pompa di menzognero neoliberismo economico passato per liberalismo. Ebbene, va sostenuta  fortemente, questa crescente voce critica, perché importa e urge accelerare i tempi di un sano riallineamento fra economia e bene comune.
 
Il cammino sarà peraltro ancora piuttosto lungo, probabilmente, perché tanto la grande finanza speculativa internazionale quanto i suoi piccoli e interessati servitori nazionali in livrea, anche italiani, hanno in realtà immensa forza condizionatrice, dotata di amplissimi mezzi e di convenienza indubitabile a difendere imperterriti la fallimentare situazione: gli affari, soprattutto se cinici e sporchi, si fanno senza le pastoie di preoccupazioni sociali che non si limitino alla dimensione della filantropia. Chi guadagna, da questa economia insensata a dominanza finanziaria, sono infatti soltanto loro, è l’attività speculativa di ogni genere, ben raramente l’economia reale.   
 
Ma da dove è nata, e dove si alimenta tuttora, l’ubriacatura insensata di neoliberismo che da decenni viene imposta come giusta e logica?
 
Una delle voci più autorevoli, anche moralmente oltre che tecnicamente, fra quelle che non hanno mai mancato di rilevare il vicolo cieco di iniquità sociale in cui il mondo sviluppato si è cacciato, e la necessità di una correzione di rotta e di un ampio recupero di  cultura economica indirizzata al bene comune, è stata quella di Luciano Gallino, il sociologo scomparso appena una manciata di mesi fa, interprete e testimone, fra l’altro, della grande esperienza olivettiana. Anzi, secondo Gianni Liazza, il più autorevole fra gli interpreti di tale esperienza.
 
Pubblichiamo una delle sue ultime riflessioni, dedicata proprio a spiegare il fenomeno di questo abnorme predominio esercitato negli ultimi decenni dall’apparentemente liberale ideologia del neoliberismo. Il misterioso mondo della Mont Pélerin Society, in particolare, cioè una delle fonti strategiche di tale rovinoso pensiero economico, ci viene spiegato da Gallino con le parole che seguono, in un articolo originariamente pubblicato su “La Repubblica” del  27 luglio 2015.
 
 
°°°°°
 
Quando apro le finestre al mattino, di questi giorni, lo sguardo mi cade inevitabilmente sul Mont Pélerin, al di là del lago.
È una montagnola svizzera a
pochi chilometri da Montreux, nota sin dagli anni Venti per i buoni alberghi e il
clima mite. È anche il luogo da cui ha avuto inizio, con la fondazione della Mont
Pélerin Society (Mps) nel 1947, la lunga marcia che ha portato il neoliberalismo a
conquistare un’egemonia totalitaria sull’economia e la politica dell’intera Europa.
Con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancor oggi esperienza. Gramsci
avrebbe trovato di grande interesse la strategia adottata dalla Mps per conquistare
l’egemonia, intesa nel suo pensiero come un potere esercitato con il consenso di
coloro che vi sono sottoposti. Anziché costituire l’ennesima fondazione o un think
tank, un luogo di cervelli, specializzato nel promuovere questo o quel ramo dell’economia,
Mps scelse di costruire su larga scala un “intellettuale collettivo”.
 
Quando Friedrich von Hayek nel 1947 chiamò a raccolta un piccolo gruppo di economisti e altri intellettuali
(tra cui Maurice Allais, Walter Eucken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper) per fondare la Mps,
i convenuti erano soltanto 38, per la maggior parte europei. Alla fine degli anni ‘90 erano diventati più di mille,
sparsi in tutto il mondo, sebbene la maggioranza continuasse a provenire dall’Europa.
 
Radicato per lo più nell’accademia, questo intellettuale collettivo non redasse
ambiziosi manifesti programmatici (gli “intenti” formulati nel ’47 al momento
della fondazione sono una paginetta piuttosto banale, che si può leggere anche
oggi identica sul sito della Mps), o grandi progetti di riforme istituzionali.
Produsse invece migliaia di saggi e di libri, non pochi di notevole livello, che
ruotano tutti intorno ai temi che per i soci della Mps erano e sono l’essenza del
neoliberalismo: la liberalizzazione dei movimenti di capitale;
la superiorità fuor di discussione del libero mercato;
la categorica riduzione del ruolo dello Stato
a costruttore e guardiano delle condizioni
che permettono la massima diffusione
dell’uno e dell’altro.
 
Grazie a questo immenso e capillare lavoro, verso il 1980 le dottrine
economiche e politiche neoliberali avevano occupato tutti gli spazi essenziali
nelle università e nei governi.
Non è stata ovviamente soltanto la Mps a spendersi a tal fine,
ma il suo ruolo è stato soverchiante. Non esagerava uno storico del pensiero neo-liberale (Dieter Plehwe)
quando definì la Mps, anni fa, «uno dei più potenti corpi di conoscenza della nostra epoca».
 
Peraltro i soci non si sono limitati a pubblicare articoli e libri. Molti di loro
sono giunti a occupare posizioni centrali nell’apparato governativo dei maggiori
paesi. Ai tempi della presidenza Reagan ( 1981-88), su una ottantina di consiglieri economici del presidente
più di un quarto erano della Mps. Le liberalizzazioni finanziarie decise dal governo Thatcher
nella prima metà degli anni ‘80, che hanno cambiato il volto dell’economia britannica,
furono elaborate in gran parte dall’Institute of Economic Affairs, una filiazione della Mps fondata
e diretta da due soci, Antony Fisher e Ralph Harris.
I vertici dell’industria francese e tedesca sono sempre stati numerosi nelle fila della Mps,
intrattenendo stretti rapporti con i soci provenienti dal mondo politico.
 
Di rilievo è stata la partecipazione italiana alla Mps. Tra i suoi primi soci vi è
stato Luigi Einaudi. Due italiani sono stati presidenti: Bruno Leoni (1967-68) e
Antonio Martino (1988-1990) che figura tuttora fra i soci, accanto a (salvo errore),
Domenico da Empoli, Alberto Mingardi, Angelo Maria Petroni, Sergio Ricossa.
Due caratteristiche segnano fortemente l’egemonia della Mps sulla cultura e la
prassi economico- politica degli Stati europei a partire dagli anni ’80. La prima è
la dismisura della vittoria su ogni altra corrente di pensiero — specie in economia.
Il keynesismo, fin dalle origini l’arcinemico dalla Mps, è stato ridotto
all’insignificanza, e con esso quello di Schumpeter, di Graziani, di Minsky.
Sopravvivono qui e là in qualche dipartimento universitario, ma nella politica
economica della UE contano zero. A forza di liberalizzazioni ispirate dalla cultura
Mps, il sistema finanziario domina la politica non meno dell’economia — come ha
dimostrato per l’ennesima volta il caso greco. I sistemi pubblici di protezione
sociale sono in corso di avanzata demolizione: non servono, anzi sono nocivi,
poiché ciascun individuo, secondo la cultura neoliberale, è responsabile del suo destino.
La scuola e l’università sono state riformate, a partire dalla Germania per finire con l’Italia,
in modo da funzionare come aziende. Wilhelm von Humboldt si starà rivoltando nella tomba.
 
La seconda caratteristica della cultura economica neoliberale formato Mps è
la sua inverosimile resistenza alle pesanti confutazioni che la realtà le infligge da almeno 15 anni.
I primi anni 2000 hanno visto il crollo delle imprese dot.com,
glorificate dagli economisti neolib, che in nove casi su dieci erano trovatine su cui
le borse, in nome dell’ipotesi che i mercati sono sempre efficienti, scommettevano
miliardi di dollari. I secondi anni 2000 hanno invece assistito al quasi crollo
dell’economia mondiale, minata dalla finanza basata deliberatamente su milioni di
mutui ipotecari che le famiglie non avevano i mezzi per ripagare.
 
Dopo il 2010, gli economisti neoliberali e i politici da loro indottrinati hanno
imposto alle popolazioni della UE le politiche di austerità, rivelatesi un fallimento
totale a giudizio dei loro stessi promotori. In sintesi, gli economisti formato Mps
hanno predisposto i dispositivi che hanno prodotto la grande crisi;
non l’hanno vista arrivare; non hanno saputo spiegarla, e hanno proposto rimedi
che hanno peggiorato la situazione.
Ad onta di tutto ciò,
continuano a occupare il ponte di comando delle politiche economiche della UE.
 
Se uno potesse chiedere a Gramsci come mai le sinistre europee comunque
denominate, a cominciare da quelle italiane, sono state travolte senza opporre
resistenza dall’offensiva egemonica del neoliberismo partita nel 1947 dal Mont
Pélerin, forse risponderebbe «perché non li avete saputi imitare ». Al fiume di
pubblicazioni volte ad affermare l’idea dei mercati efficienti non avete saputo
opporre niente di simile per dimostrare con solidi argomenti che i modelli con cui
si vorrebbe comprovare tale idea si fondano su presupposti del tutto inconsistenti.
 
Inoltre, proseguirebbe Gramsci, dove sono i vostri articoli e libri che
rivolgendosi sia agli esperti che ai politici e al largo pubblico si cimentano a
provare ogni giorno, con solidi argomenti, la superiorità tecnica, economica,
civile, morale della sanità pubblica su quella privata; delle pensioni pubbliche su
quelle private, a fronte degli attacchi quotidiani alle prime dei media e dei politici,
basati in genere su dati scorretti; dello Stato sulle imprese private per produrre
innovazione e sviluppo, oggi come in tutta la seconda metà del Novecento;
dell’importanza economica e politica dei beni comuni sull’assurdità della
privatizzazioni?
 
Poiché la natura ha orrore del vuoto, il vuoto culturale, politico, morale delle
sinistre è stato via via riempito dalle successive leve di lettori, elettori, docenti,
funzionari di partito e delle istituzioni europee, istruite dall’intellettuale collettivo
sortito dalla Mps. Il consenso bisogna costruirlo, e la MPS ha dimostrato di
saperlo fare. Le sinistre non ci hanno nemmeno provato.
 
                                                                                                          (Luciano Gallino)
isti


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