Politica e Società

LE RADICI PROFONDE NON GELANO

Non stupitevi se questo numero di Studisociali “apre”, subito dopo la presentazione del sito, con una riflessione che è in realtà la lettera affettuosa e personale inviataci da un vecchio amico di lontani anni sindacali, con il quale condividevamo molto più di quanto ci dicessimo esplicitamente, e con il quale questo lungo trascorrere di anni ha fatto lievitare una bella consapevolezza di amicizia anche senza montagne di parole, rese impossibili, del resto, dal fatto che, a un certo punto, ci siamo semplicemente quasi persi di vista. Quella offerta a me ed a tutti voi da Enrico è riflessione profonda e utile di vita, tanto che… gli perdoniamo volentieri persino quell’arretrato “Facebook” che lui si ostina a scrivere come erroneamente glielo hanno insegnato, ma che sa benissimo doversi scrivere “Feisbuc”. C’è tempo per adeguarsi!...
La riflessione di Enrico prende le mosse dal fatto che l’ultima edizione di Studisociali in formato di Letteraperta dava rilievo all’analisi del lungo e complesso movimento teso a far riemergere nel panorama della politica italiana un impegno organizzato dei cattolici attorno alla eredità del pensiero e della testimonianza di Sturzo, De Gasperi, Moro e gli altri “padri” della grande politica di ispirazione cristiana in Italia.
 
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Caro Giuseppe,
mi sono letto il fascicolo di StudiSociali inviatomi, di cui non conoscevo l’esistenza. Non sapevo nemmeno che in alcune persone “ad alti livelli” albergasse ancora una genuina visione della Democrazia Cristiana.
Ho trovato nel tuo scritto valutazioni e modi di pensare che mi appartengono e mi sollecitano un intervento che restituisca continuità ad un dialogo interrotto dal tempo e dalla distanza.
Un altro stimolo mi è stato dato involontariamente da mio nipote, tecnico chimico, che da qualche anno ha interrato nel praticello  di casa alcune piante di luppolo e si diletta, avendone le capacità, a farsi la birra in casa. Due giorni fa ha postato su Facebook (so che non gradisci questo modo di scrivere ma non ne conosco altro), una fotografia delle stesse con la seguente frase “Puntuale come sempre, le radici profonde non gelano”. Quando scriveva queste parole qui da noi era ancora inverno.
Un’ulteriore motivazione per scriverti la trovo nella necessità di mettere un pò di ordine negli archivi della memoria che da tempo erano ricoperti di polvere e ragnatele. Nella necessità dello scrivere si ricuperano gli appunti dormienti. E così, per appunti, mi presento e, sempre per appunti, tocco vari argomenti che ho trovato nei tuoi scritti. Utilizzo questo doppio binario immaginando di facilitarti la comprensione.
Sono nato nel 1950, famiglia operaia, ambiente contadino, allora oltre i duemila abitanti, oggi milleduecento, clima di paese (Frascarolo), pressoché inalterato nel tempo. Ho frequentato le scuole elementari nel paese, successivamente quattro anni di collegio (coi preti) a studiare in una scuola professionale di Voghera per acquisire il diplomino di “Elettricista Provetto”; terminata la scuola, assunzione all’Enel a Biella, all’età di 16 anni. In tale azienda, pur con ruoli e mansioni diverse, sono rimasto fino al raggiungimento della pensione, arrivata nel 2006. Nell’intervallo di tempo tra i 16 ed i 56 anni, all’età di 22 anni mi sono sposato ed a 23 sono diventato padre, ho vissuto ad Alessandria, ho girato per tutto il Piemonte, ed oggi sono nonno di una nipotina e sono tornato a vivere nella casa natia. Ancora un’annotazione riguarda la scelta di vita familiare che, anche indirizzata da alcune vicissitudini, è sempre stata vissuta a mono-reddito, ed oggi a mono-pensione.
In questo mio citarmi (non mi piace, ma serve a far comprendere) devo dire che mai mi sono estraniato dal sociale e dal politico. In giovane età, chierichetto, oratorio, azione cattolica, gruppo giovani ecc.. fino all’ iscrizione al sindacato Cisl avvenuta il primo giorno successivo al termine del periodo di prova (tre mesi) relativo all’assunzione, e cioè il primo ottobre del 1966. Da quella data iniziai ad operare nel sindacato in ruoli prevalentemente territoriali fino al 2005, data di cessazione dal lavoro.
In quel periodo della nostra storia italiana nelle famiglie era opinione comune che “ti devi guadagnare il pane che mangi” sia per necessità di ordine economico che per scelta etica di vita. Ed “il pane che mangi” te lo guadagni con il lavoro ed, avendone la facoltà e la possibilità, con lo studio proficuo. Esulavano da questa regola due categorie: la prima era quella di chi poteva permettersi di “vivere di rendita” e quindi far lavorare gli altri, la seconda era quella dei “lavativi” che snobbavano il lavoro e lo studio. Talvolta le due categorie si identificavano.
Di quel periodo una cosa che ho sperimentato nei primi giorni di assunzione mi è sempre rimasta viva in memoria. Presentandomi, ragazzino educato, a lavorare ed a piantar pali con personale più anziano proveniente dalle imprese elettriche che confluirono in Enel mi fu chiesto: “Chi sei, quanti anni hai?” ed io estrassi il documento di identità. “No, no, quello non conta niente, fammi vedere il libretto di lavoro. Quello conta, quella è la tua identità”. In quel comune sentire, io ritrovo il primo articolo della nostra Costituzione. In quella frase, pronunciata in maniera anche un po’ rozza, c’è tutto il valore e la dignità che i Padri Costituenti hanno attribuito al fattore lavoro. Credo, venendo all’oggi, che occorra fare un passo in più. Il lavoro non è merce di scambio della produzione. Attraverso il lavoro (di qualsiasi forma lo si intenda) la persona realizza se stessa ed il guadagno che ne deriva sotto tutti i punti di vista, anche economici, soddisfa i bisogni per sè, per la propria famiglia e per lo Stato nel quale opera. Occorre attribuire sul piano culturale al lavoro “un anima”. E’ coinvolto non l’individuo ma l’intera persona, la propria famiglia, la propria comunità.
Crescendo in età, vivendo in Alessandria, ed avendo responsabilità di famiglia, ritenendo non sufficiente l’impegno sindacale, essendo attratto dalla dottrina sociale della Chiesa e dagli ideali dei padri fondatori, nel 1973 mi iscrissi alla DC alessandrina con lo scopo di praticare con altri una militanza politica che desse consistenza pratica alle idee che mi frullavano in testa. Un disastro. Durò tre anni e, nell’interpretazione  che devo dare di quel periodo, mi limito a dire che la distanza tra i valori e gli ideali enunciati e la pratica quotidiana e relazionale all’interno del partito era abissale, incolmabile e non priva di vigliaccherie e opportunismi sfrenati. Il mio impegno nel partito e nei partiti iniziò e finì lì.
La negativa sorpresa non mi trovò impreparato. Tempo prima, pur con la dovuta qualità distintiva, avevo vissuto negli ambienti cattolici un’analoga situazione. Ci si trovava, si discuteva, si progettava, il tutto però sotto obbedienza vescovile, anche nel pensiero e, se un progetto non sfagiolava l’autorità di turno, chi voleva comunque realizzarlo era eretico e marginalizzato. Una cosa in particolare mi è sempre rimasta indigesta e lo è tutt’ora. La non trasposizione di quanto detto in pratica vissuta ed in norme che siano conseguenti agli ideali in cui uno crede e vive.
Nel sindacato, seppur con incapacità e difficoltà, sono riuscito ha vivere un ideale, e cioè a trasferire in norma condivisa i bisogni di quei lavoratori che in quel momento rappresentavo.
Ecco, io credo che la politica ed il governo della politica debba tendere, attuando la Costituzione, ad emanare norme e leggi che agevolino lo sviluppo di un pensiero partecipativo ai beni comuni e non solo un pensiero produttivo di leggi e leggine che soddisfino le “lobby” ed i loro emissari.
A tal proposito mi sovviene di pensare a ciò che nel tuo documento viene richiamato a proposito della partecipazione femminile. La vita, quella vera, nella quale ognuno di noi è coinvolto e che oggi nel pianeta interessa quasi 8 miliardi di persone, ci è stata trasmessa dall’unione di un uomo e una donna, possibilmente, marito e moglie e comunque Padre e Madre. Attraverso questa unione, nel seno della madre abbiamo preso vita e solo dopo, quando ne siamo usciti, sono iniziate le differenze, di eredità, di sesso, di colore della pelle, di ambiente, di cultura, di stato sociale,di tradizioni ecc.
Ovvero tutte le differenze che conosciamo e che in parti più o meno ampie interessano otto miliardi di persone le abbiamo acquisite e successivamente vissute in modi diversi e personali influenzati dalle stesse differenze. Forse non abbiamo ancora ben presente che la vita diventa tale solo attraverso la “generazione” e non la “produzione”. Il genere umano non è frutto di un prodotto. Il prodotto è sterile, è fine a se stesso. Non genera vita. La legge, fine a se stessa, se non applicata nella condivisione è sterile, produce  morte. Generare vita e persone consapevoli e corresponsabili gli uni per gli altri. Ecco, un pensiero alto, da questo punto di vista, che riguarda le donne ma anche gli uomini. Occorrerebbe rielaborarlo.
Nel merito della relazione al congresso nazionale Dc del novembre 2012, da te riprodotta, ho ritrovato molto di me. Pur con una soggettività diversa per storia e cultura ho ritrovato molti stimoli che mi hanno accompagnato nel lavoro sindacale sia in Federazione che in Confederazione e pertanto non posso che apprezzarla.
Sul simbolo dello scudocrociato. Attribuisco molta importanza ai simboli, l’umanità per millenni si è riconosciuta e ritrovata attraverso alcuni simboli. Essi tutt’ora aggregano e motivano imponenti masse senza che le stesse siano in grado di comprenderne a fondo il significato. Il simbolo in quanto tale è proprietà collettiva. Non può essere posseduto. Esso rappresenta valori condivisi che appartengono alle persone e non alla struttura. La struttura può legittimamente lottare per il bene dell’immagine ma, a differenza del marchio di fabbrica, se non viene più percepito per i valori per i quali è nato finisce di avere efficacia. Occorre trovare un simbolo che richiamandosi alla tradizione cristiana nel sociale riesca ad essere percepito da giovani e non più giovani come radice del nostro operare.
Sulle tematiche di merito. Oggi, più che nel passato, ci troviamo in una società che io chiamo la “società dei desideri indotti”. Siamo portati a desiderare tantissime cose, dalla giustizia sociale alla pace al benessere alla tutela del privato, al lavoro per tutti, alla dignità delle persone, ad un governo capace e rappresentativo, ecc. Desideriamo ma non realizziamo. Nei tempi passati, con il contributo determinante dei cattolici in politica, di realizzazioni importanti per il nostro Paese ne sono state fatte moltissime nei più disparati settori, sociale, culturale, industriale, agrario, che ben vengono ricordate in relazione. Ora, probabilmente, per la diaspora cattolica in politica tutto sembra fermo. Convengo su questa prima valutazione ma, per come sono fatto, non mi basta e quindi cerco con alcuni esempi di focalizzare il mio pensiero.
Esempio 1. Anni fa, (credo ne siano trascorsi una trentina) Benetton, prima di altri applicò nel processo produttivo e distributivo dei propri prodotti il Just In Time (e qui mi tiri un altro accidente per via dell’inglese). Una filosofia industriale di derivazione giapponese che ha invertito il vecchio metodo di produzione. Appena in tempo, si fa quanto richiesto dal cliente, si eliminano i tempi morti e le scorte, il tutto in un tempo estremamente ridotto e dettato dalle richieste. Il tutto con una campagna promozionale a tratti scioccante ma ben dosata. Da quel momento, in Italia si iniziò non più a pubblicizzare un prodotto ma, utilizzando informazioni di quell’epoca, ad influire preventivamente sui desideri sociali e personali.
Esempio 2. Oggi siamo informati che nella campagna elettorale americana una azienda che analizza i dati di tutti gli utenti di Facebook ha prelevato (probabilmente con il consenso) da 50 milioni di server qualche miliardo di dati sensibili (desideri e aspettative si possono individuare facilmente analizzando i dati di trasmissione) e con tali dati è stata calibrata la campagna elettorale tra provocazioni delle aspettative, ambiente di riferimento e soluzione dei desideri. Da noi, in Italia, tale processo è stato applicato in maniera massiccia dai gestori dei 5 stelle ed i risultati ottenuti ne confermano l’efficacia. Le persone, in massa, senza che vi sia alcuna concreta possibilità di realizzazione delle promesse elettorali (specificatamente il sud d’Italia) hanno approvato. Lo scopo di tali tecniche di formazione e disinformazione non è quello di orientare le persone attraverso la partecipazione alla soluzione dei problemi, bensì quello di orientarli a scegliere una scatola chiusa inducendo la certezza che solo dentro a quella scatola esistono le soluzioni.
Esempio 3. Questo mi preme ancor più degli altri. Nel 2001 dovendo preparare una relazioncina congressuale sindacale dovetti imbattermi oltre che sui temi di carattere generale (Lavoro, Europa, Stato sociale ecc.), anche su quelli che venivano definiti “i capitali senza volto” che già mordevano negli ambienti di lavoro spostando l’attività e l’economia da industriale a finanziaria. Già allora le aziende ed i posti di lavoro godevano di interesse se realizzavano profitti finanziari attraverso la produzione di beni e servizi, altrimenti semplicemente chiudevano. Le lotte e la sopravvivenza del lavoro esulava dall’azienda, ci si spostava massicciamente nel mercato finanziario e questo non era più contrattualizzabile. I passaggi ulteriori hanno fatto saltare il rapporto tra produzione e distribuzione di beni materiali ed immateriali. La “retribuzione” non era più legata al prodotto ma assumeva valore solo ciò che nell’immaginario aggregava. Anche perché nell’immaginario collettivo si riusciva ad influire agevolmente (pensiamo agli oltre 200 milioni di euro per avere un giocatore nella squadra del Paris Saint Germain...).
La “dottrina della crescita” basata su un’efficace ed efficiente produzione di beni e servizi e distribuzione o re-distribuzione dei profitti e del reddito è saltata. Oggi con la possibilità di monitorare il pianeta e di immagazzinare miliardi di informazioni e di disporre di migliaia di miliardi di capitali gestiti privatamente da singoli soggetti o piccoli gruppi, in totale autonomia di qualsiasi scelta politica in una frazione di secondo, pigiando su alcuni tasti si definiscono le vite delle aziende e le vite delle popolazioni di intere nazioni. Credo che sia giunto il tempo, anche sul piano culturale, di chiamare questi accumuli finanziari con il nome che a loro compete: questa non è ricchezza, ancorchè ridotta a pochi soggetti. Questa è “usura” e come tale agisce e va combattuta a viso aperto.
Ultima annotazione: la struttura e la forma del partito deve essere funzionale alla propria essenza in modo che essa stessa diventi elemento generativo di partecipazione, consenso e responsabilità. C’è nella documentazione un richiamo forte al concetto di Comunità; lo approvo, ma anche qui vado oltre. Abbiamo per troppo tempo immaginato che bastasse dire Comunità per capire di cosa stavamo parlando. Un certo tipo di comunità, piaccia o non piaccia, è il risultato che si ottiene se si pratica la “condivisione”, diversamente la comunità è data dalle persone che a tale comunità nazionale appartengono. Insomma, è la condivisione che fa comunità e non la comunità che fa condivisione. Per cui sarebbe opportuno approfondire in termini culturali sociali, etici, economici e politici il profondo significato di “Condivisione politica” intendendo per “Politica” l’arte e l’etica di governo di una nazione.

Caro Giuseppe, la chiudo qui. Era dai tempi della Flaei che con te non avevo più avuto modo di scambiare qualche pensiero e sembra ieri, ma sono già trascorsi tredici anni. L’ho fatta un po’ lunga ma per farmi perdonare ti allego la foto di in icona che mi è particolarmente cara.
Un Abbraccio
Enrico Forti

 


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